Alitalia, un referendum inopportuno ha prodotto un risultato inacettabile

Purtroppo quello che si temeva è avvenuto. I lavoratori di Alitalia, chiamati a pronunciarsi sull’ipotesi di accordo siglata anche dai tre segretari generali confederali di CGIL, CISL e UIL l’hanno nettamente respinta.

Inutili gli appelli prima del voto, inutili i richiami a come evitare un destino altrimenti inevitabile. Adesso inizierà un dannoso quanto pericoloso scaricabarile sulle responsabilità.

Indubbiamente l’azienda era ed è poco credibile e il piano, per quello che è filtrato sui giornali, non conteneva nulla che facesse ipotizzare una svolta vera, visibile e comprensibile a tutti. Ma proprio per questo motivo la gravità della situazione era evidente.

Il sindacato confederale è stato costretto a mettere in campo tutta la sua credibilità assumendosi un rischio altissimo di fronte alla scarsa credibilità degli azionisti per come si sono mossi fino all’annuncio del piano ma anche dello stesso management in parte rinnovato frettolosamente.

Ho già scritto che è stato un azzardo tenere il referendum. Un accordo pesante sul piano individuale ma indispensabile su quello collettivo e per la stessa prospettiva dell’azienda non doveva essere sottoposto a referendum sul quale, e lo si sapeva, avrebbero pesato l’esperienza negativa del passato, la rabbia e il disorientamento dei lavoratori. Soprattutto in una realtà come Alitalia.

Occorreva scegliere un’altra strada. Magari prevedendo alla fine del percorso un’adesione individuale. Chi pensava che questo fosse un “penultimatum” e non un vero e proprio “prendere o lasciare” si dovrà assumere, adesso, le proprie responsabilità. Soprattutto chi ci ha speculato pesantemente.

Non è un caso che dove il sindacato è più forte e credibile (non necessariamente più numeroso) in termini di rapporto con i lavoratori, i contratti vengono rinnovati e i referendum indetti, anche se in una logica fortemente difensiva, esprimono sempre una volontà costruttiva da parte dei lavoratori. Metalmeccanici, Chimici e Alimentaristi, ad esempio, ne sono la prova evidente.

C’è una consapevolezza diversa rispetto a categorie dove la concorrenza tra sigle è scaduta al punto da trascinare tutti in un gorgo fatto di diffidenza, scavalcamenti e iniziative sindacali mediocri.

Oppure laddove il sindacato confederale ha dovuto condividere il rapporto con i lavoratori insieme ad altre sigle autonome o associazioni professionali spinte solo a tutelare i propri interessi e il proprio spazio di agibilità.

E non basta ritrovare una parvenza di unità in alcune occasioni, seppure particolarmente gravi. Il rapporto con i lavoratori, in questi casi o è scarso o, addirittura inesistente.

Adesso l’unica via praticabile sembra essere il commissariamento anche perché il piano DEVE comunque andare avanti. Probabilmente occorre far passare il tempo sufficiente affinché sia chiaro a tutti che non ci sarà né un nuovo accordo, né la nazionalizzazione dell’Alitalia.

Ci sarà una realtà che inevitabilmente può arrivare fino al fallimento e un’altra che forse potrà nascere alle condizioni previste dal mercato e dalle partnership finanziarie e strategiche che potranno essere individuate.

Purtroppo ricordo il cosiddetto piano Ravalico che prevedeva, alla fine degli anni ’70, 2800 licenziamenti all’Unidal (ex Motta e Alemagna) il cui respingimento portò, poco dopo, il numero di licenziati ad oltre quattromila. Per i sindacati si apre certamente una fase difficile ma senza alternative.

Devono recuperare un rapporto con i propri iscritti aprendo una vera e propria battaglia politica contro i fautori del disastro. E devono sostenere fino in fondo ciò che hanno firmato. Cosa assolutamente necessaria per la loro credibilità presente e futura. Cosa che deve fare anche l’azienda.

Preoccupa sentire personaggi come Francesco Staccioli dell’Usb dire: “Ma come si fa a pensare che una compagnia che trasporta 24 milioni di persone con 120 aerei possa essere messa in liquidazione?” Dovrebbero essere mandati avanti quelli come lui, e i sostenitori del NO,  adesso.

Al Governo spetta il mantenimento dei patti che hanno reso possibile l’accordo, pur se respinto. Il Paese deve essere messo di fronte alla irresponsabilità di chi ha speculato politicamente sulla pelle dei lavoratori e deve essere preparato alle possibili reazioni.

Il negoziato Alitalia è terminato. Adesso occorre lavorare, con chi ha sottoscritto l’intesa, per costruire la nuova Alitalia. D’altra parte la società è già costata agli italiani più di sette miliardi di euro in quarant’anni.

Tutto questo però pone, ancora una volta, il tema della titolarità e della rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, della esigibilità , della validazione degli accordi stessi e del superamento di vecchie liturgie che non funzionano in settori dove il supposto ruolo integrativo o sostitutivo dello Stato o la scarsa credibilità dell’azienda e dei sindacati di categoria hanno scavato un solco profondo di credibilità e di rappresentatività reale.

Le buone ragioni di ciascuno e la concretezza necessaria..

A voler litigare con tutti alla fine si resta soli con i propri problemi. Anche se si hanno buone ragioni. Le aziende della Grande Distribuzione che hanno deciso di seguire Federdistribuzione uscendo da Confcommercio a poco più di 5 anni rischiano di trovarsi ad un  punto morto.

Nel comunicato di annuncio della scissione del 22 dicembre 2011 non c’erano affatto intenzioni bellicose. Federdistribuzione riconosceva “la proficua collaborazione con la Confederazione presieduta da Carlo Sangalli e la condivisione di attività e percorsi (primo tra tutti il rinnovo del Ccnl) che restano obiettivi comuni che potranno portare anche in futuro a verificare forme di collaborazione, nell’interesse di entrambe le organizzazioni e dei settori rappresentati, sia a livello centrale che locale”. E anche Confcommercio auspicò lo stesso approccio.

C’era, ovviamente, la volontà di andare per la propria strada ma anche la consapevolezza contenuta nel saggio proverbio keniota che recita “se vuoi arrivare primo corri da solo, se vuoi arrivare lontano cammina insieme”.

E questo era un proposito utile  per tutti: la complessità della crisi, la gestione dell’imminente scadenza del contratto nazionale, i rapporti locali e centrali con le istituzioni, facevano propendere per una necessaria convergenza seppur inevitabilmente competitiva sulle singole questioni. Ma una competizione sana utile ad entrambe e finalizzata a portare vantaggi alle imprese associate e al sistema commerciale in generale. E rispettoso del ruolo delle controparti sindacali.

Purtroppo così non è stato. Federdistribuzione decise di cavalcare il decreto cosiddetto “salva Italia” del Governo Monti che prevedeva la totale liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali e di formalizzare alle organizzazioni sindacali di categoria la volontà di uscire dal contratto nazionale del terziario per sottoscrivere uno specifico per le aziende del comparto.

Sulla liberalizzazione delle aperture il vento del 2011 sta cambiando. E non è necessariamente una buona cosa. La crisi della Grande Distribuzione è evidente e non è riducendo il numero delle aperture o irrigidendo il sistema che la si risolve. Anzi.

Aggiungo che sentire la “moderata” segretaria generale della CISL Annamaria Furlan affermare al Corriere che: “Vedere nell’outlet un luogo dove fare un po’ di svago, fare una passeggiata e concedersi un po’ di riposo è un modello sociale sbagliato” non è certo di buon auspicio per gli operatori economici soprattutto esteri anche perché, se è un modello sbagliato, presumo che per Furlan lo sia tutto l’anno e non solo a Pasqua e che il suo pensiero valga per tutti quei luoghi, compresi i centri commerciali, dove le persone, soprattutto quelle meno abbienti, ci passano intere giornate di festa magari senza neppure fare acquisti.

Neanche Susanna Camusso si era spinta così in avanti limitandosi ad una contestazione dell’organizzazione del lavoro, del rispetto del salario e dei diritti, contestando la necessità di aprire tutto l’anno a tutela dei lavoratori del settore.

È probabile che anche il segretario generale della CGIL non ami passeggiare per gli outlet o per i centri commerciali nei giorni festivi ma i confini tra un giudizio di natura sindacale e uno di natura etico o morale o ad un modello consumistico ritenuto in generale sbagliato credo debbano restare su piani differenti.

Certo, giudizi e convincimenti di importanti controparti sindacali non sono di buon auspicio per chi, deve investire o decidere di affrontare, e con quali strumenti, la profondità della crisi dei consumi con i suoi riflessi sull’occupazione e questo indipendentemente dalla “disfida mediatica” di Serravalle in scena il giorno di Pasqua dove tutti, il giorno successivo, la racconteranno inevitabilmente a modo loro.

Dall’altro lato, resta la ferita del mancato rinnovo di un contratto specifico così come richiesto da Federdistribuzione. Dal 1 aprile 2015, data della firma del nuovo contratto nazionale del terziario,da parte di Confcommercio,  le aziende della GDO aderenti a Federdistribuzione sono, volenti o nolenti, in dumping rispetto alle altre aziende che, al contrario, applicano quel contratto.

E questo è indubbiamente gravido di problematicità di cui non tutte le imprese ne hanno percepito le possibili conseguenze. Come ho sempre sostenuto non c’è spazio per un contratto che non sia sostanzialmente identico per quantità economiche erogate e per normative. Quindi un contratto che rischia di essere  inutile.

In più Confcommercio, come Confederazione, ha recentemente sottoscritto un accordo con CGIL, CISL e UIL che imposta regole che valgono per l’intero settore e impegna le parti al loro rispetto. Lo scenario sindacale è dunque cambiato.

L’interesse delle imprese e dei lavoratori dovrebbe prevalere inducendo chi le rappresenta a lavorare per individuare le soluzioni più idonee in un contesto diverso da quello di partenza. E queste sono all’interno del percorso indicato dal contratto del terziario già firmato sia che si scelga di optare per un contratto autonomo o magari cercando di lavorare con maggiore lungimiranza sul terreno dell’innovazione contrattuale, prevedendo dal CCNL già in essere, tutte le deroghe e le specificità del caso. Soprattutto idonee per gestire la crisi profonda del settore.

Le organizzazioni sindacali non possono che percorrere una strada nel solco di quanto concordato con Confcommercio. E questo era chiaro prima, durante e lo sarà semmai si dovesse raggiungere un necessario punto di incontro.

È probabilmente un interesse comune aprire una nuova fase soprattutto in forza del cambiamento del contesto. E forse ci potrebbero essere tante buone ragioni per farlo.

Qualcosa si muove intorno a noi…


C’è voglia di cambiamento nel Paese. E non solo nella politica. Ci sono persone chi interpretano questa voglia voltandosi indietro e chi, al contrario, cerca di trovare risposte, guardando in avanti.

La politica interpreta queste volontà agitandosi in entrambe le direzioni. Il mondo del lavoro e della rappresentanza, almeno fino al referendum istituzionale, ha tentato di tenere insieme quanto di buono veniva dal passato con un presente difficile cercando, però, per quanto è possibile, di interpretare il futuro.

D’altra parte la profondità della crisi e l’Europa presentata come matrigna hanno purtroppo rappresentato per molti solo un grande alibi. Il cambiamento necessario vissuto come una maledizione inevitabile. Quindi subìto.

Comprensibile nei singoli individui perché disorientati non in chi li dovrebbe rappresentare perché il futuro non si subisce né si immagina; si fa. E, purtroppo, lo si deve fare operando quotidianamente tra chi ipotizza cose mirabolanti ma lontane e forse improbabili e chi, incapace di uscire dal porto, ripropone costantemente l’illusione di un ritorno al passato. Ma le navi non sono costruite per essere tenute ancorate nei porti.

Purtroppo quello dei corpi intermedi è un mondo un po’ autoreferenziale dove tutti pensano di avere molte ragioni e dove i torti, semmai, sono sempre degli altri. Il recente intervento di Marco Bentivogli sul Foglio ha il merito di rompere gli schemi e di proporre uno scenario con il quale è necessario confrontarsi. Uno scenario in movimento per tutti.

Da un lato la CGIL e la sua carta dei diritti. Dall’altro i pentastellati che ripropongono la disintermediazione nel lavoro scegliendo come compagno di viaggio il rancoroso ex FIOM Cremaschi. Quest’ultimo, con i Grillini, sembra però avere un solo obiettivo in comune: delegittimare il sindacato confederale.

Tutte strade, queste, decisamente impraticabili. Sicuramente per il mondo delle imprese. Così come sarebbe un errore accettare come inevitabile il declino propositivo unitario delle organizzazioni di rappresentanza. Il rischio dell’irrilevanza dei corpi sociali si combatte entrando nel merito delle questioni poste. Anche da sindacalisti come Marco Bentivogli che segnalano l’avvicinarsi del punto di non ritorno. Non solo per il sindacato confederale.

Innanzitutto nel prefigurare un futuro possibile nel quale dobbiamo essere tutti consapevoli che la tradizionale divisione del lavoro tra terziario, industria e agricoltura sta mutando rapidamente.

I tradizionali confini settoriali stanno venendo meno. La conseguenza di questa nuova divisione del lavoro è che l’industria tenderà sempre di più a terziarizzarsi e il terziario tenderà inevitabilmente ad industrializzarsi cercando di realizzare economie di scala nella gestione dei servizi, dei dati e delle conoscenze.

Nelle filiere globali che stanno emergendo da questi nuovi modi di lavorare tutto ciò che può essere meccanizzato e codificabile verrà sempre più attratto inevitabilmente da luoghi dove i costi sono minori (lavoro, energia, tasse, vincoli amministrativi e ambientali) o al contrario dove esistono capacità e talenti di eccellenza in specifiche situazioni.

Quindi la capacità del sindacato di trovare nuovi livelli di mediazione può fare la differenza. La vicenda FCA lo dimostra inequivocabilmente. Le conseguenze che questa prospettiva può avere per l’attuale assetto anche della rappresentanza sia imprenditoriale che sindacale, ancorate tuttora a un modello che deriva dal secolo scorso è facilmente immaginabile.

Il compito della nuova rappresentanza, che voglia impegnarsi a gestire la transizione in corso, è dunque di aiutare le imprese e il lavoro, che si presenta sempre più anche in forme differenti e deregolamentate, a non esserne travolti presidiando alcune azioni chiave. Innanzitutto investendo sul capitale umano e sulle infrastrutture necessarie alla rivoluzione digitale/globale in corso.

Poi impegnandosi a promuovere le innovazioni collettive (politiche, contrattuali, sociali, infrastrutturali, normative, di welfare e di apprendimento/ricerca) che è necessario realizzare per sostenere i percorsi delle imprese e dei lavoratori nel difficile confronto con i nuovi competitors. E su questo, gli ultimi rinnovi contrattuali hanno cominciato a dire qualcosa di nuovo.

Infine occorre stimolare lo sviluppo di iniziative che favoriscano forme (chiamiamole pure come vogliamo) di collaborazione intraprendente, corresponsabilità, partecipazione, condivisione del rischio tra i tanti soggetti coinvolti dai percorsi di transizione a monte, all’interno e a valle dell’impresa.

Ultimo ma non di minore importanza occorrerà partecipare alla trasformazione in senso creativo ed efficiente dei contesti di vita e di lavoro che condizionano produttività e creatività delle imprese (smart cities, ambienti creativi, attrazione dei talenti, relazioni utili con la ricerca e le università, servizi innovativi di welfare ecc.).

Per fare tutto questo non occorre disintermediare alcunché. Occorre esattamente l’opposto. Occorre più rappresentanza, seppure diversa, non meno.

Marco Bentivogli ha fatto bene a lanciare un segnale forte a tutto il sindacato (e non solo alla sua parte) segnalando l’urgenza dei cambiamenti necessari e la loro direzione di marcia. Sarebbe importante che la sfida venisse raccolta da tutti.

Il trivio necessario…

Nessuno ha notato la concomitanza tra due eventi apparentemente opposti. L’8 aprile, al teatro Brancaccio di Roma l’attivo dei delegati della CGIL mentre, a Ivrea il movimento 5 stelle ha scelto lo stesso giorno in un luogo simbolico e la figura di Adriano Olivetti per lanciare Sum01 “Capire il futuro”.

Da una parte un pezzo comunque importante del Paese, rappresentato dalla CGIL, che cerca di ricostruire intorno ad un’idea, condivisibile o meno, di centralità dei diritti, dignità del lavoro e una diversa distribuzione del reddito il proprio futuro politico e sociale. Una parte che individua nella globalizzazione più i rischi che le opportunità.

Dall’altra un movimento eterogeneo che sa di poter vincere politicamente perché è riuscito ad intercettare sia la protesta che la voglia di cambiamento che sta crescendo nel Paese, soprattutto tra le nuove generazioni. Un movimento che ha, nel cuore della base e dei militanti, i tassisti ma ha Uber nella testa dei suoi ispiratori.

Non è un caso che il mov 5 stelle ha scelto Olivetti e la sua Ivrea. Immagine rassicurante di un imprenditore visionario lontano dagli stereotipi manageriali e imprenditoriali ” sempre bravi a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite” di cui il nostro Paese resta uno dei principali produttori.

C’ė, nei vertici del movimento, la certezza assoluta della vittoria e quindi la volontà di rassicurare il Paese che conta. Ma anche di spiegare alle sue diverse anime interne, invitate in platea, che non c’è spazio per i protagonismi movimentisti della prima ora. Un passaggio difficile. Soprattutto perché il movimento rischia la diaspora di una parte consistente dei militanti “duri e puri” proprio nell’ultimo miglio. La vicenda di Roma è lì a dimostrarlo.

Dall’altra parte la CGIL che vinta la partita dei voucher “a tavolino” sembra aver scambiato, purtroppo, un tramonto per un’alba e cerca di serrare le fila per nuove battaglie contando esclusivamente sulle proprie forze e su quella parte della sinistra esclusivamente impegnata in una rivincita contro Renzi e ciò che rappresenta.

Un dato che li accomuna è la convinzione di potercela fare da soli. Entrambi sicuri di attrarre verso di sé il resto del mondo di riferimento. I primi sul piano sociale, i secondi su quello politico. È il NO che, inevitabilmente, li unisce. Anche se è un NO di segno opposto. Il NO a tutto ciò che cambia il lavoro costruito dai baby boomers (che oggi governano il sindacato) e lo mantiene ancorato ad una tradizionale cultura fordista, per i primi. Il NO a tutto ciò che quelle generazioni hanno costruito nel bene e nel male, in Italia e in Europa, per i vertici dei secondi.

Si elideranno a vicenda? Probabilmente si. Il punto è stabilire chi ne pagherà le conseguenze. A mio parere manca ancora all’appello un terzo soggetto credibile. Sociale e politico.

Paolo Pirani, segretario generale UILTEC, con una battuta felice ha centrato il problema: “Più che un Partito della Nazione occorrerebbe un Patto per la Nazione”. Indubbiamente è l’ultima chance che ha a disposizione questo Paese prima del burrone. Chi non crede nella deriva movimentista o in quella tecnocratica digitale non può stare alla finestra. Non siamo di fronte ad un bivio ma ad un trivio.

È difficile pensare che un Paese come il nostro con differenze territoriali e culturali così profonde e con il nostro debito pubblico possa “salvarsi” mettendo le generazioni l’una contro l’altra o scegliendo strade diverse da tutto il resto d’Europa.

Nel sindacato, nei corpi intermedi più in generale e, probabilmente nel Paese c’è anche voglia d’altro. Lo stesso referendum del 4 dicembre lo ha dimostrato. Che lo si voglia ammettere o meno è da lì che occorre ripartire per ricostruire, insieme, un’altra idea di Paese. Più moderno, inclusivo, unito nei territori, nelle generazioni e nei suoi valori di fondo.

Mala tempora currunt….

Le dinamiche messe in atto dall’esito referendario stanno rimettendo in moto il quadro politico italiano e, di conseguenza, le dinamiche che attraversano i corpi intermedi.

Sul fronte datoriale la debolezza di Confindustria è evidente. Le vicende interne pesano. La stessa difficoltà a chiudere l’accordo confederale con i sindacati lo dimostra come il fatto che, i suoi comparti, hanno preferito chiudere i rispettivi contratti nazionali manifestando la volontà di mantenere comunque una forte autonomia settoriale.

Inascoltata dal Governo sui voucher (come purtroppo tutte le organizzazioni datoriali), sta tentando di rimettersi in gioco lasciando intendere al Governo la possibilità di uno scambio tra l’aumento del’IVA e una riduzione del cuneo fiscale. Scambio che non farebbe bene al Paese.

Ma, al netto dei problemi specifici di Confindustria, questa difficoltà a rientrare in gioco per poter dare il proprio contributo propositivo al rilancio del Paese è un po’ di tutte le parti datoriali. E questo non è un bene di fronte alla accentuata debolezza della politica, alle sue divisioni e in un contesto internazionale profondamente mutato.

Se Atene piange, però Sparta non ride. Nel campo sindacale ciò che i contratti nazionali avevano prodotto di buono sul terreno dell’unità tra le diverse sigle confederali e con le rispettive controparti rischia di essere vanificato dalla divaricazione che pare inarrestabile tra la CGIL e le altre due confederazioni.

Il protagonismo messo in campo dal primo sindacato italiano è evidente. La “vittoria a tavolino” sui voucher è solo il primo segnale. È difficile non cogliere nei propositi di Susanna Camusso la volontà di approfittare della debolezza della sinistra politica (vecchia e nuova) per contribuire in modo determinante a ridisegnarne il campo.

La CGIL, come peraltro le altre organizzazioni sindacali, ha capito benissimo che nelle aziende il vento è cambiato profondamente. Tra i lavoratori c’è preoccupazione per il proprio futuro e per il contesto ma c’è voglia di dare il proprio contributo, di impegnarsi e di fare la propria parte nell’interesse dell’impresa e del lavoro.

C’è, in sostanza, voglia di collaborare, di investire su se stessi e nel rapporto con la propria azienda. Certo permangono situazioni di crisi, anche grave, dove i sindacati sono costretti in un ruolo tradizionale. Ma, queste realtà, non rappresentano la norma.

Non è un caso che i contratti nazionali si siano chiusi unitariamente e il dissenso presente nell’elaborazione delle differenti piattaforme è improvvisamente scomparso lasciando il campo ad una volontà convergente nelle singole categorie. Così come non è un caso che, proprio la CGIL, ha messo in campo una spinta decisiva per chiudere rapidamente i rinnovi e formalizzare gli accordi sulla rappresentanza e sui livelli della contrattazione.

A tutto questo, però, non è seguito nessun forte ridisegno dei rapporti unitari né la volontà di riprendere una iniziativa comune che rimettesse al centro un ruolo propositivo dell’insieme delle parti sociali. È un po’ come se l’obiettivo politico della CGIL di contribuire a ridisegnare in prima persona il campo della sinistra fosse comunque prevalente a tutto il resto e quindi necessitasse di sgomberare velocemente il terreno da tutto ciò che poteva in qualche modo ritardarne l’implementazione sociale. Contratti nazionali compresi.

È vero che CISL e UIL confederali sono in evidenti difficoltà sul piano dell’iniziativa generale ma nelle rispettive categorie la generosità e la disponibilità messa in campo sul terreno unitario faceva ben sperare. Vedremo le prossime mosse.

È chiaro che una CGIL che si dovesse caratterizzare sempre più come soggetto politico è comunque destinata, prima o poi, a entrare in rotta di collisione con l’insieme del sistema della rappresentanza. E questo non è un bene. È già successo in altri Paesi con un esito scontato.

Il vero problema è che una CGIL che si dovesse sottrarre per mero calcolo politico ad un ruolo unitario e di proposta con l’insieme del sindacato confederale propedeutico ad una convergenza tra capitale e lavoro commetterebbe un grave errore destinato ad essere pagato da tutto il Paese. Purtroppo i segnali di questi giorni non sono incoraggianti.

Signore, io sono Irish…

Un vecchio e indimenticato pezzo dei New Trolls negli anni 70 descriveva la domenica di uno schiavo nero che, dopo una durissima settimana impiegata a raccogliere il cotone, il giorno del riposo si trovava costretto a fare 60 miglia a piedi per andare e tornare dalla messa.

Allora la domenica aveva questo duplice scopo: riposare e dedicare a Dio, per i credenti, il settimo giorno. Riposare significava recuperare veramente le forze. E non metaforicamente. Da allora molte cose sono cambiate. Nel lavoro, nel vivere la propria religiosità e nel dare significato al termine “riposo”.

Per il lavoratore coinvolto in una particolare attività economica e per quello che, quel giorno, lo utilizza per trasformarsi anche in consumatore. Sul lavoro festivo, purtroppo, si va da un estremo all’altro.

L’outlet di Serravalle Scrivia, suo malgrado, rischia di trasformarsi in una sorta di linea di confine. Finirà come sempre. Da una parte la narrazione dei contrari al lavoro domenicale quasi esclusivamente sui media, dall’altra la realtà di migliaia di lavoratori/consumatori che, quel giorno, come in tutte le altre festività, affolleranno l’outlet per passare una giornata di festa magari con qualche acquisto.

Un outlet, un grande centro commerciale ma anche un supermercato dovrebbero essere aperti sempre. Soprattutto oggi dove i concorrenti sono del livello e dell’aggressività commerciale di Amazon o E Bay. Questi ultimi con negozi virtuali aperti tutto l’anno h 24 con saldi a getto continuo per tutto l’anno. Se non fossero frequentati anche nei giorni festivi non avrebbe alcun senso tenerli aperti. I costi di gestione sarebbero pesantissimi.

Domenica scorsa sono stato al “Centro” di Arese. C’erano decine di migliaia di persone. Famiglie, giovani, un po’ di tutto. Dal 1963 al 2005 c’era l’Alfa Romeo. Poi più niente. Sono cresciuto a due passi dal Portello a Milano. Anche lì fino al 1963 c’era l’Alfa Romeo. Poi il nulla. Il centro commerciale ha rivitalizzato il quartiere e trasformato un luogo degradato in un centro di incontri e di svago tutto l’anno.

A differenza di altre città Milano ha saputo interpretare bene il passaggio da città industriale a città del commercio e del terziario. Ha gestito con intelligenza le contraddizioni tra Grande e piccola Distribuzione. Ha assorbito gli inevitabili contrasti. Questo ha creato occupazione vera. Sopratutto per molti senza alcun titolo di studio, donne e giovanissimi anche provenienti da altri Paesi.

Occorrerebbe prendere atto che come la televisione si è trasformata negli anni in un antidoto alla solitudine per molti anziani questi centri sono diventati accoglienti, pieni di vita e luoghi frequentatissimi tutto l’anno. E non solo per fare acquisti. Negarlo o far finta di non vederlo è un errore.

O meglio è uno di quei residui di atteggiamento fine 900, un po’ snob, che comprende anche il giudizio sui Mc Donald’s, sulla Coca Cola, sul terziario in generale visto come ancillare rispetto ad un mondo che non esiste più. Personalmente poi, lo dico sommessamente,  provo un certo imbarazzo per tutti quei laici che si nascondono dietro il tema religioso esclusivamente per sollevare un inutile polverone..

Per centinaia di migliaia di persone lontane da questi dibattiti sono luoghi dove passare il tempo. Sarebbe ora di comprenderlo e guardare avanti. Anche perché il lavoro sarà sempre più terziario. Povero o ricco di contenuti che sia.

L’amico Giuseppe Sabella centra il problema quando invita a riflettere su di un punto: “Il lavoro futuro passa inevitabilmente per una nuova umanizzazione dei luoghi di lavoro. E, chiaramente, il lavoro festivo va pagato come tale.” Sono perfettamente d’accordo.

Per questo ci sono i contratti di lavoro che devono evolvere proprio perché il lavoro cambia. Aprire 360 giorni all’anno non significa lavorare tutto l’anno. Significa organizzare il lavoro e i riposi e retribuire il giusto. E il giusto lo si deve concordare  nei contratti di lavoro.

Ma il lavoro nel terziario resta profondamene diverso da quello industriale. Ruota intorno al servizio, non al prodotto. Si dice: “ma all’estero non è così”. È vero. Il tessuto distributivo degli altri Paesi e le regole sono diverse. Anche il tessuto industriale, però, è diverso.

Ogni Paese ha le sue regole, i suoi contratti di lavoro e una cultura commerciale differente. Si aggiunge: “C’è molto lavoro povero”. Si. Però  questo fornisce uno sbocco a migliaia di giovani, sopratutto donne che non proseguono gli studi e che possono entrare nel mercato del lavoro e crescere. E, assicuro i più scettici, la formazione messa a disposizione nella Grande Distribuzione è di notevole entità e qualità.

C’è molto da fare sul piano contrattuale. Certo che si. Verso il basso perché il fordismo è entrato nei centri di Distribuzione, nelle attività di consegna e nel lavoro povero della GDO e verso l’alto anche in quegli stessi o in altri settori. C’è da affrancarlo proprio dalla cultura fordista senza però dimenticare che molti di quei lavori saranno presto sostituiti da macchine o direttamente dai consumatori stessi.

Francesco Riccardi sull’Avvenire esagera quando scrive: “I sindacati – e in particolare la Cgil – hanno compreso da tempo, però, che in gioco non c’è tanto e solo una questione contrattuale su orari e retribuzioni, che si possono sempre negoziare, ma qualcosa di assai più prezioso: i diritti di ciascun lavoratore e di tutti…”.

Mi sembra francamente una esagerazione. Non credo che i sindacati si siano mai proposti di bloccare a Pasqua o in altri periodi, Gardaland, i parchi tematici o le multisale cinematografiche. Non c’è molta differenza e anche lì lavorano, pur nel rispetto dei loro diritti, migliaia di lavoratori del terziario.

A suo tempo Confcommercio pose il problema della regolamentazione delle aperture cercando di consentire alle Regioni uno spazio di manovra soprattutto quando, nel gennaio del 2012, entrò in vigore la riforma c.d. Salva Italia del Governo Monti, con la liberalizzazione totale degli orari di apertura, 24 ore giornaliere e 365 giorni l’anno.

Non ci fu nulla da fare. Né nessuno (anche di chi oggi protesta) disse nulla. Comunque Federdistribuzione conferma un aumento degli occupati significativo a seguito della liberalizzazione. Che di questi tempi, non credo sia comunque da sottovalutare.

Una inutile dimostrazione di forza

Certe notizie non si vorrebbe mai leggerle. Un operaio licenziato per inabilità al lavoro dopo un trapianto è una inutile dimostrazione di forza. In quell’azienda c’è qualcuno che ha sottovalutato l’intera vicenda, l’ha gestita con altrettanta superficialità e ha suggerito ai vertici aziendali una soluzione boomerang.

Solo per questo, dovrebbe essere contestato. Per l’accanimento verso il lavoratore che, giustamente, è costretto a tutelare i suoi diritti nelle sedi opportune, per tutti i collaboratori che assistono indignati ad un comportamento aziendale che domani potrà essere riservato anche a loro, per l’immagine pubblica di un’impresa (soprattutto se multinazionale) che non può permettersi di trovarsi al centro di polemiche di questa dimensione nel 2017.

Solo pochi anni fa, in un’azienda importante della Grande Distribuzione del comparto non food, un dirigente, colpito da una gravissima malattia fu gestito, fino alla fine, con tutta la cautela e gli ammortizzatori necessari ben al di là di ciò che prevede il Contratto nazionale. Dal vertice aziendale, dai colleghi e dai collaboratori. Sono tanti i casi virtuosi che andrebbero sottolineati con altrettanta convinzione.

L’azienda è una comunità che ha il suo punto di forza nel clima interno. Questo è determinato da un insieme di fattori che superano le disposizioni aziendali e i contratti firmati, che vanno certamente rispettati, ma modellati sulle persone. I valori a cui quell’impresa si ispira, il rispetto reciproco, l’ascolto e la comprensione dei problemi che vivono i collaboratori dentro e fuori il luogo di lavoro e i comportamenti concreti dei capi e dei colleghi ne costituiscono la base su cui l’impegno e il coinvolgimento sugli obiettivi aziendali possono o meno realizzarsi.

È certamente vero che ogni azienda ha una sua cultura che determina i comportamenti del management e quindi la coerenza generale degli atteggiamenti che vengono premiati o che inibiscono carriere e qualità del lavoro dei singoli collaboratori ma certi limiti non andrebbero mai superati.

Nelle riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali, nei confronti quotidiani tra capo e collaboratori, nei processi di valutazione interni il rispetto reciproco è fondamentale. I casi di gravi malattie sono addirittura normati nei contratti più avanzati.

Nell’ultimo contratto dei dirigenti del terziario, ad esempio, il periodo di comporto ordinario è stato fissato in 8 mesi, mentre la precedente formulazione del CCNL prevedeva un periodo di 12 mesi. Tuttavia, in caso di patologia grave e continuativa che comporti terapie salvavita, possono essere prolungati fino ad ulteriori 180 giorni, estendendo la precedente tutela fino ad arrivare ad un periodo complessivo di conservazione del posto di lavoro con corresponsione dell’intera retribuzione di 14 mesi. È questa è solo una dimostrazione di come le parti (in questo caso Manageritalia e Confcommercio) affrontano il rischio di abuso di uno strumento abbassandone la copertura ma condividendo una soluzione intelligente per chi ne dovesse avere veramente bisogno.

Nascondersi dietro il fatto che l’inidoneità di un lavoratore rispetto alla mansione giustifichi il licenziamento non assolve l’azienda se esiste una soluzione alternativa. Tra l’altro, in questo caso, l’età del lavoratore e la sua lontananza dalla pensione rende difficile individuare altre soluzioni di natura economica.

Per queste ragioni una impresa attenta al contesto interno ed esterno non dovrebbe mai trovarsi in situazioni cosi riprovevoli né essere costretta a prenderne atto per la reazione dell’insieme dei suoi lavoratori. Il danno di immagine è fatto. Purtroppo. Resta solo l’intelligenza del vertice aziendale nel prenderne atto e nel rimediare immediatamente.

Il lavoro che verrà, è già qui…


La reazione del Ministro dei Trasporti sulla povertà dei contenuti lavorativi dei consegnatari di Foodora è piaciuta al segretario della CGIL Susanna Camusso. In effetti è un lavoretto.

La cosiddetta new economy genera anche modeste attività di consegna. Lavoro povero. Così come la nuova logistica genera, a sua volta, lavoro poverissimo. Vale anche per Uber che trasforma normali pensionati o disoccupati in neo tassisti part time o Airbnb che trasforma la vicina della porta accanto in una affittacamere. Non è tutto oro quello che luccica.

Alcune grandi multinazionali “approfittano” delle esigenze di reddito di un ceto medio impoverito per crescere in assenza di regole. Ma questo è un altro tema. I lavoretti sono sempre esistiti. Prima c’era il cassaintegrato in nero che sostituiva l’artigiano o l’universitario trentino che raccoglieva le mele nella Val di Non, oggi sostituito da immigrati rumeni.

Cosa sta cambiando allora nel lavoro? Per tanti lavoratori tradizionali, apparentemente nulla. Ci sono ancora operai, impiegati pubblici e privati, lavoratori dei servizi o della Grande Distribuzione per i quali non è cambiato il contenuto del loro lavoro. Per ora.

È cambiato però completamente il contesto nel quale, anche questi lavori vengono eseguiti. Molte delle loro imprese, se hanno un mercato globale devono cambiare, innovare, riorganizzarsi, comprimere anche i loro costi, impegnarsi in investimenti ad alto rischio per poter competere e rispondere alle richieste di flessibilità imposte dalle filiere globali nelle quali sono inserite.

Le aziende dove lavorano nascono e muoiono con una rapidità sconosciuta fino a poco tempo fa. E quindi, pur impegnati in una attività tradizionale, devono essere preparati a cambiare molto più spesso dei loro genitori.

Se le loro aziende interagiscono nel mercato interno devono competere con nuovi soggetti economici che operano in altri Paesi con regole diverse, controllano funzioni o mercati a monte o a valle, cambiano offerta e domanda di beni e servizi. Condizionano i consumatori.

Anche le imprese manifatturiere tradizionali sanno che, al prodotto, pur innovativo e al processo tecnologico che serve a metterlo sul mercato, devono predisporsi ad un salto culturale e aggiungere una serie di attività che assicurino nuovi servizi per il cliente o per il mercato di riferimento.

La parte di manifattura tradizionale e il lavoro che in essa si svolge, pur evolvendo necessariamente verso modelli non fordisti, perdono di centralità per l’impresa nel suo complesso che deve saper fare anche altro per competere.

La nuova cultura del lavoro nasce da qui. In un mondo che cambia, una parte delle mansioni e dei mestieri, pur necessari e numerosi, normati dalla contrattazione e dalle leggi nella seconda parte del 900, perdono valore economico e riconoscibilità sociale mentre ne nascono altri. Alcuni, pur non normati, sempre poveri come contenuto, altri di maggiore contenuto professionale per le capacità e per le competenze richieste.

Stabilire regole comuni di entrata nel mondo del lavoro, pensare che queste opportunità siano a disposizione di tutti allo stesso modo, definire norme indifferenziate, luoghi di lavoro tradizionali, orari e strumenti di lavoro identici per tutti è una operazione inutile. O meglio è una riproposizione di uno schema che non può funzionare.

A fronte di un “accanimento terapeutico” di norme e leggi prodotte da giuslavoristi, prima e da economisti, poi, la stragrande maggioranza delle imprese ha scelto di “gestire dinamicamente” leggi e contratti cercando di ridurne l’effetto frenante sul business e sull’organizzazione. Sfruttandone le potenzialità o lasciandole in un cassetto. Contando anche sulla sostanziale ritirata del sindacato dalle problematiche gestionali dell’impresa e dalla convergenza che si crea con l’insieme dei lavoratori in caso di crisi o di necessità particolari.

La positività di alcuni contratti sta proprio nella libertà che lasciano alla singola azienda di adattare norme e regole alle esigenze. Non è un caso che il Contratto Nazionale del Terziario lascia, meglio di altri, questa flessibilità ed è per questo è utilizzato da migliaia di aziende di differenti settori merceologici. Così come non è un caso che è proprio l’ultimo residuo di cultura fordista commerciale, la Grande Distribuzione, che spinga per un contratto nazionale dedicato tutto concentrato sul costo.

E qui sta un altro paradosso su cui riflettere. La modernità del modello organizzativo della GDO era tale nel 900. Oggi non lo è più. Deve competere con modelli tipo Amazon che la insidiano sempre di più in termini di organizzazione delle vendite, delle promozioni, degli orari di vendita, del rapporto con i consumatori.

E questo spinge tutta la GDO a continue riorganizzazioni con forti  pressioni e aggressività sui costi, innanzitutto su quello dei fornitori e del lavoro, che si riflette inevitabilmente sulle relazioni sindacali e con i fornitori.

Così mentre molti piccoli esercizi si stanno in parte attrezzando e oggi, attraverso una evoluzione digitale alla loro portata accrescono il loro potenziale di mercato, la GDO si avvita su se stessa senza riuscire ad innovarsi nei format di vendita. Anzi, il modello di riferimento, gli ipermercati, rischia di trovarsi in una crisi irreversibile.

Per tutto queste considerazioni il lavoro che verrà è già qui. Intreccia il suo lato povero o tradizionale su cui occorre trovare risposte diverse dal 900 che assicurino diritti di cittadinanza esigibili, un salario minimo, dignità nuove e un welfare contrattuale adeguato. Ma presenta anche nuove opportunità, soprattutto per i più giovani e per coloro i quali vogliono crescere professionalmente. E per le aziende che vogliono investire su se stesse e sui propri collaboratori.

Per queste imprese le regole devono essere lasche, intelligenti, costruite per motivare, coinvolgere e raggiungere gli obiettivi di business. Non legate a modelli superati.

Lavorare a questa nuova impostazione che comprenda gli uni e gli altri con le rispettive differenze dovrebbe essere il compito delle parti sociali e degli esperti della materia. Al centro attraverso leggi e contratti nazionali evoluti, in azienda coinvolgendo i diretti interessati.

Taxi e Alitalia. Siamo sicuri che c’è tempo da perdere?

Taxi e Alitalia, in fondo, rappresentano bene il modo di operare di un Paese che preferisce non prendere atto della realtà e sposta sempre in avanti il momento delle scelte e delle decisioni.

Cosa è successo? In fondo nulla. Appunto. Un grande caos di sei giorni culminato con una manifestazione a tratti violenta, un incontro con il Ministro dei trasporti che ha partorito un mese di riflessione nel quale si troverà un accordo per rinviare più in là la resa dei conti con un futuro che incombe e che indica, sempre meno sommessamente, una strada opposta.

Hanno vinto tutti. Quindi chi ha perso non era in quelle stanze…

Nessuno che spieghi ai tassisti la differenza tra vincere una battaglia per abbandono dell’avversario e il rischio di perdere la guerra se la categoria non cercherà di evolvere, di cambiare atteggiamento, di lavorare per il proprio futuro e non di rivendicare esclusivamente un diritto inesigibile: quello di impedire qualsiasi cambiamento.

Sembra che, in questo Paese, nessuno se la senta di affrontare i problemi. Mi ha stupito il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che, dopo l’annuncio del ritiro della disdetta del contratto aziendale Alitalia si è dichiarato soddisfatto. Da lui non me lo sarei aspettato. Lo credevo di un’altra categoria.

Ma veramente qualcuno può pensare che un rinvio del problema ad un prossimo confronto su un nuovo contratto aziendale tra un’azienda “alla frutta” e una categoria sindacale che non sa cosa fare, vista la dimensione del problema, possa portare ad un risultato utile? Separare il tema degli esuberi, quindi del piano industriale, da quello del contratto aziendale è un errore. Anche in vista di possibili nuovi partner.

È comprensibile che lo commettano i sindacati che devono gestire le conseguenze sui loro iscritti, non lo è affatto per il Governo che si troverà, inevitabilmente,  a dover pagare il conto. Anche dei ritardi. Così come è stato nel negoziato che ha portato alla definizione delle nuove regole interne all’avvio del progetto precedente. E qui si ritorna al tema. La paura delle reazioni, quindi, ancora una volta, si concorda che è meglio “allungare il brodo”.

Queste due vicende sono paradigmatiche di un Paese che non riesce a prendere atto che i problemi non si risolveranno da soli e che lo sforzo da mettere in campo per affrontarli non può essere lasciato solo sulle spalle del Governo o di un’azienda.

Il “ce lo chiede l’Europa” non funziona più. Occorre prendere atto che che occorre uno sforzo e una assunzione di responsabilità comune. E qualcuno che parli chiaro al Paese. Altrimenti, di rinvio in rinvio, finiremo male, molto male. Tutti insieme.

Jobs Act. Se resta l’equivoco di fondo…

I pur robusti interventi economici a sostegno del contratto a tempo indeterminato non hanno sortito l’effetto sperato e, finiti gli incentivi, sta piano piano, svanendo. Era prevedibile? Per alcuni era assolutamente scontato per la modalità stessa con cui sono stati concepiti gli incentivi.

Per altri, al netto delle preoccupazioni delle imprese sul loro futuro, no. Per loro poteva rappresentare la svolta sperata. L’estenuante politica degli annunci sui progressi mensili delle nuove norme e le contestazioni di rimando hanno fatto il resto. L’obiettivo del Jobs Act in fondo era chiaro. Spingere le aziende a convincersi che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato doveva ritornare ad essere prevalente rispetto alle altre formule, anche sui nuovi assunti. L’abrogazione dell’art. 18, da molti ritenuto un elemento centrale di impedimento alle assunzioni a tempo indeterminato, andava in quella direzione.

Purtroppo il perdurare di un aspro scontro sui “massimi sistemi” impedisce ancora oggi di avviare una riflessione scevra da strumentalizzazioni e quindi è difficile affrontare con sufficiente serenità l’approccio, e quindi le motivazioni, che stanno dietro ai comportamenti concreti delle imprese. Prima o dopo il provvedimento in questione e, in alcuni casi, lontani dalle intuizioni dei giuslavoristi.

A mio parere è invece importante farlo. Il Jobs Act è stato visto ovviamente con favore soprattutto per gli sgravi contributivi e per le evidenti  vie di uscita che comunque offriva. Era in sostanza un lavoro a tempo indeterminato con un costo di uscita definito. Quindi, tutto sommato, sopportabile.

Il punto è che, per le imprese, i lavoratori, non sono tutti uguali. Con molti di loro è sicuramente necessario costruire una sorta di patto che giustifichi l’investimento e i reciproci ritorni in termini di risultato aziendale ma anche di sviluppo professionale, formazione continua, politiche retributive. Il contratto prevalente, in questo caso, è ancora quello a tempo indeterminato. Prima o dopo il Jobs Act.

Questo non significa che il rapporto durerà per sempre. Significa solo che durerà fino a quando lo scambio comporta reciproci vantaggi. Entrambi i contraenti hanno convenienza a mantenerlo, svilupparlo e consolidarlo.

Parliamo di figure manageriali, specialisti, professional, giovani inseriti in percorsi di crescita, risorse comunque importanti per l’azienda stessa e non necessariamente individuati nei gradini più alti dell’inquadramento professionale. La differenza in questo caso la fanno i superminimi, i benefit, i premi legati alla realizzazione degli obiettivi aziendali. Ma anche le opportunità di sviluppo professionale, la formazione aziendale o interaziendale messa loro a disposizione.

Tutte queste figure non sono affatto marginali nelle aziende e sono sicuramente in crescita numerica, anche e soprattutto, per gli importanti cambiamenti organizzativi che attraversano le imprese di ogni settore. Nessuno si considera ormai in azienda per sempre ma l’investimento sulle risorse umane è una sfida decisiva colta dalla stragrande maggioranza delle imprese a garanzia del loro futuro.

Fuori da questo perimetro che coinvolge più o meno un terzo delle risorse di un’azienda (tra già assunti e nuovi e pur con tutte le eccezioni del caso) ci sono gli altri. Quelli comunque garantiti dalla legislazione vigente e quelli resi flessibili sempre dala stessa legislazione per bilanciare, in tutto o in parte, il costo o le rigidità organizzative dei primi. Da un lato restano i vincoli degli attuali sistemi contrattuali, gli inquadramenti, le anzianità, gli usi e le consuetudini aziendali. E una relativamente scarsa volontà delle imprese e, forse, delle persone stesse, di investire sulla loro occupabilità e sul loro futuro anche pensando al di fuori dall’azienda nella quale sono occupati.

Dall’altro ci sono quelli che, da quei vincoli non sono tutelati e quindi si devono impegnare ogni giorno per mantenere il loro lavoro e sui quali le aziende investono in termini di crescita individuale solo quando le persone mostrano un vero interesse e una forte disponibilità a condividerne valori, obiettivi e cultura. Altrimenti vengono nei tempi e nei modi consentiti dalla legge, ritenuti sostituibili. Quindi figure professionali fungibili per le quali il tempo determinato comunque inteso è una formula più funzionale.

I sindacati, e questo è comprensibile, si sono sempre mossi, al contrario, per riportarli tutti nell’alveo contrattuale tradizionale. Missione, ovviamente impossibile.

Questo dualismo si supera solo se i sistemi contrattuali verranno ricostruiti meno sui vincoli e più sulle opportunità; sulla corrispondenza tra mansione e retribuzione, sulla revisione dei modelli di inquadramento, sul riconoscimento del merito, sulla flessibilità dei modelli organizzativi e prestazionali, sulla occupabilità e quindi sulla formazione continua delle risorse, sulla collaborazione tra capitale e lavoro e sulla condivisione degli obiettivi dell’impresa per tutti. Così come su di una strumentazione di politiche attive veramente efficace.

Una ricostruzione che deve rimettere al centro lo scambio, i vantaggi reciproci e gli strumenti più efficaci per realizzarli. Forzare per obbligare le aziende ad assumere o a investire genericamente su un modello contrattuale superato e, per certi versi, estremamente costoso, non serve a nulla.

Certo un intervento sul cuneo fiscale sarebbe auspicabile ma è illusorio pensare che questo, da solo, spinga le aziende ad una cultura del lavoro che funzionava nel 900 solo perché supportata da rapporti di forza sfavorevoli. Oggi non è più così e non lo sarà più. Io comunque resto ottimista. Una nuova cultura del lavoro non può non affermarsi nel sindacato e nelle imprese.

Ci sono, è vero, segnali di rischiosi tentativi di ritorno al passato ma anche segnali incoraggianti e importanti, ad esempio, nel recente contratto dei metalmeccanici, nel contratto del terziario così come, in altri contratti nazionali appena firmati.

L’aver ribadito in tutti i comparti l’importanza stessa del contratto nazionale come cornice di riferimento con i relativi rinvii, a livello aziendale, segnala una disponibilità che attraversa anche lo stesso mondo delle imprese. Altrimenti questa stagione non si sarebbe conclusa così.

Questa disponibilità va coltivata nella fase di gestione dei contratti appena firmati proprio per affrontare il cambiamento e rilanciare un nuovo ruolo delle parti sociali che sappia rimettere al centro il lavoro. Ovviamente il lavoro come dovrà essere domani e non come lo è stato nel secolo che abbiamo alle spalle.