Terziario si, però secondi a nessuno…

Carlo Sangalli, Presidente di Confcommercio, lo ricorda spesso. “Terziario si, però secondi a nessuno”. Più che uno slogan azzeccato è un dato di fatto. Il terziario di mercato, visto sempre con una certa superficialità da chi proviene da una tradizionale cultura industrialista, ha una suo perimetro, un potenziale di crescita sempre più importante, un peso sul PIL del Paese ben superiore a quello di altri settori merceologici. E anche negli anni della crisi ha messo a disposizione un importante contributo per consistenti sbocchi occupazionali soprattutto a vantaggio delle giovani generazioni.

Un importante contratto nazionale firmato da Confcommercio che consente a decine di comparti economici del terziario di mercato, pur diversi tra di loro, di trovare costi ragionevoli e flessibilità necessarie, una bilateralità che sposta, su alcune materie, fuori dalla singola azienda il rapporto tra sindacato e impresa rendendolo utile, funzionale e meno conflittuale, un significativo welfare contrattuale che sostiene centinaia di migliaia di lavoratori sul versante della sanità e della previdenza.

Ai manager del terziario inoltre è riservato un contratto innovativo che consente alle imprese un ottima base sulla quale poter personalizzare il rapporto e ai dirigenti stessi di poter contare su un welfare importante ma anche ad un “diritto soggettivo” alla formazione e quindi una garanzia di maggiore occupabilità, in vigore fin dal 1994. È un perimetro ben presidiato. Così come legittimamente altri presidiano da anni il loro perimetro.

L’inevitabile tramonto della cultura fordista pone un problema di fondo alle imprese manifatturiere. Industry 4.0 segnala la necessità di una terziarizzazione di molte attività, ridimensionando la pur importante parte legata alla classiche attività industriali che sposti sempre più l’attenzione verso il cliente e quindi verso il servizio ciò che era quasi esclusivamente una cultura di prodotto o di processo.

Lo stesso problema permane, seppure con pesi differenti tra le diverse organizzazioni, nella cultura del sindacato di matrice industriale che spesso fatica a comprendere che il ruolo del servizio, del cliente e della persona ritornano ad essere centrali ma questo necessita di nuove forme di coinvolgimento, personalizzazione incentivazione e organizzazione che tendono, per loro natura, a privilegiare il rapporto tra azienda e persona, integrare i processi a monte e a valle dell’impresa stessa, riducendo inevitabilmente ruolo e peso delle rappresentanze sindacali. Oppure a riorientarne l’iniziativa.

I contratti fino ad ora firmati, se togliamo, le intuizioni, le intenzioni e, spero, gli impegni da onorare contenuti nell’ultimo rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, ripropongono sostanzialmente uno schema classico. 

Non sono previsti scambi significativi, derogabilità di istituti anche economici, indicazioni per eventuali esigenze di flessibilità organizzative. Soprattutto quando le imprese intendono investire in aree innovative con i rischi conseguenti o gestire momenti di difficoltà.

La logica tradizionale, tipica delle relazioni industriali mutuata dalla grande impresa manifatturiera fordista, è che i contratti, siano essi nazionali o aziendali, si basano su una scontata omologazione e omogeneità degli accadimenti e delle risorse umane coinvolte lasciando l’eventuale necessità di reagire al contesto e/o la personalizzazione solo all’iniziativa dell’azienda.

Non c’è alcuno spazio definito o da concordare per la specificità dell’impresa, della sua fase economica, del riconoscimento del merito individuale dei collaboratori, della distribuzione del tempo di lavoro nelle fasi di start up di attività, ecc.

Se prendiamo, ad esempio, come viene affrontata la malattia del lavoratore, oggi ritornata di attualità nel Pubblico Impiego, osserviamo in modo plastico la differenza di impostazione tra i contratti. Quelli di matrice industriale considerano il problema solo sul piano quantitativo. Esiste un diritto, uguale per tutti e per un certo numero di giorni. Tutto il resto non riguarda le parti. Semmai riguarda le ASL, i controlli fiscali o l’azienda stessa attraverso premi legati alla presenza.

Nel CCNL del terziario, firmato da Confcommercio, le parti concordano che determinati comportamenti negativi e ripetuti possono cambiare qualitativamente i contenuti concreti di quel diritto. Se ne assumono la responsabilità delle conseguenze modificandone, addirittura, il corrispettivo economico. È quindi il punto di osservazione che cambia.

Il primo, di stampo fordista, tende a considerare tutti allo stesso modo perché il comportamento individuale non è  ritenuto significativo. Il secondo, al contrario, lo considera un elemento dirimente di cui le parti se ne devono fare carico.

Ho scelto deliberatamente un argomento su cui permangono profonde differenze di giudizio solo per dimostrare la differenza di approccio. E così vale per la costruzione e la gestione di molti altri istituti contrattuali. La differenza non è marginale. È innanzitutto di atteggiamento culturale.

Il recente contratto dei metalmeccanici, ad esempio, propone significati elementi innovativi che vanno nella direzione di ridurre quel vuoto. Affidando alla contrattazione decentrata questi compiti. Ma il vuoto permane ed è il prodotto di una cultura specifica, di scelte precise decise negli anni e la strada per ridurlo è decisamente più complessa di ciò che può evidenziare un’analisi non approfondita.

Contratti della Grande Distribuzione. Adesso tocca al Ministero del lavoro.

L’iniziativa era nell’aria. Rita Querzé ne scrive oggi sul Corriere. Sia Confcommercio che i sindacati di categoria non potevano non rompere gli indugi e chiamare il Ministero del lavoro alle sue responsabilità.

Ci sono aziende che applicano un contratto nazionale e si sobbarcano i relativi obblighi e costi e ci sono aziende che non applicano un bel nulla ma che ne godono dei benefici economici e contributivi. Per un paio di anni e fino a poco tempo fa la indubbia capacità di lobby di Federdistribuzione è riuscita a convincere il Ministero del lavoro che la firma di un contratto nazionale specifico fosse imminente spingendo così il Ministero a temporeggiare rispetto ai suoi obblighi di vigilanza.

La vicenda è nota. Federdistribuzione è uscita da Confcommercio e ha convinto le aziende che vi hanno aderito a puntare ad un contratto nazionale specifico proponendo obiettivi ambiziosi quanto difficilmente realizzabili.

Il sindacato, con sensibilità differenti, ha tentato di restare in gioco giocando su tutti i tavoli possibili pur trovandosi di fronte a richieste, non solo irricevibili, ma che rischiavano, se accettate, di sfaldare l’intero sistema contrattuale del settore. Il punto è che non tutte le aziende del comparto aderiscono a Federdistribuzione. Molte sono in Confcommercio, altre applicano il contratto nazionale della cooperazione, alcune, infine, quello di Confesercenti.

Federdistribuzione ha insistito nel tenere al tavolo negoziale i sindacati con la promessa di chiudere in breve tempo ma, questi ultimi non ci hanno messo molto a comprendere che questa situazione rischia solo di avere come effetto collaterale grave l’assenza di una copertura contrattuale per decine di migliaia di lavoratori e quindi anche una situazione di evidente dumping tra imprese.

Le difficoltà economiche del settore e l’assenza significativa di iniziative sindacali spingono molte aziende della GDO, addirittura, a preferire l’assenza di un contratto ad un contratto comunque e quindi la situazione si è, piano piano, infilata in una palude da dove sarà sempre più difficile uscire.

Da qui le polemiche e le cicliche accuse di Federdistribuzione a Confcommercio e ad una parte del sindacato di voler impedire la sottoscrizione del contratto. Tesi sufficientemente ardita perché presuppone l’esistenza, al contrario, di una altra parte del sindacato disponibile a firmare comunque cosa fino ad oggi non manifestata in nessuna sede ufficiale.

Confcommercio, d’altro canto, non può che tutelare l’interesse delle aziende che vi aderiscono e quindi il punto, per questa Confederazione, non è impedire la firma di un contratto altrui. Anzi. Semmai si raggiungesse, in questo infinito negoziato, un risultato economicamente o normativamente più vantaggioso per le aziende questo non potrebbe che essere rivendicato sia da Confcommercio che da Confesercenti e, infine, anche dallo stesso mondo cooperativo.

Occorre sempre tenere presente che il contratto di Federdistribuzione riguarda circa centocinquanta mila addetti mentre solo quello di Confcommercio oltre tre milioni di addetti. I rischi sono evidenti.

Il problema di chi ha firmato il suo contratto nazionale è che non può tollerare una situazione dove alcune imprese godono di un vantaggio a prescindere mentre chi ha rispettato le regole ne ha un danno. Tutto qua.

Come ho già avuto modo di scrivere la strada imboccata da Federdistribuzione è sbagliata. Se qualche anno fa poteva avere ancora un senso la polverizzazione contrattuale per garantire alcune prerogative, oggi è un inutile .

Occorrerebbe una maggiore lungimiranza puntando decisamente verso modelli che prevedano l’applicazione di un unico contratto nazionale del terziario con, eventualmente, alcune deroghe necessarie che garantiscano una specificità settoriale da cui far discendere un nuovo modello di contrattazione aziendale costruito sulle esigenze della singola impresa. I modelli contrattuali che si stanno costruendo vanno tutti in questa direzione.

Capisco che non è facile cambiare strategia quando l’esigenza politica di affermare la propria esistenza associativa impedisce di alzare lo sguardo. Ma il mondo è veramente cambiato e attardarsi verso vecchi modelli contrattuali rischia solo di impedire l’evoluzione del contesto.

Le aziende della GDO stanno attraversando una fase estremamente complessa che sta rimettendo in discussione la dimensione e la presenza di molti gruppi nazionali e internazionali sul mercato, i loro modelli organizzativi, gli stessi format di vendita. Molte di loro sono impegnate in sforzi formativi importanti che consentono a migliaia di giovani di crescere e sviluppare professionalità e carriera.

La stessa Federdistribuzione è impegnata su versanti importanti dove esercita un ruolo di accompagnamento di affermazione e di ammodernamento del settore con grande determinazione. Sul versante sindacale, al contrario, le esigenze delle singole imprese, hanno sempre impedito la costruzione di una vera cultura associativa che, per sua natura deve saper operare sintesi con le rispettive controparti.

Altrimenti ci si trova nella situazione in cui si è oggi. Cosa prevedibile fin dall’inizio di questa avventura…

Giovani e famiglie tra scuola e lavoro..

Il più efficiente head hunter che ho conosciuto è stato don Angelo Recalcati. A Milano da via Mac Mahon e fino al Portello non si occupava solo delle nostre anime.

Gestiva per conto delle laboriose famiglie operaie insediate nei casermoni popolari il rapporto tra loro, i loro figli, le scuole del quartiere e il mondo del lavoro. Per lui valutare le soft skills non era un problema.

Ci vedeva crescere, ci osservava quotidianamente, ci spronava e ci riprendeva. Non aveva bisogno di test di Rorschach o di Assessment. I suoi giudizi valevano una sentenza di Cassazione.

Consigliava i genitori sui percorsi scolastici su cui indirizzare i figli, parlava con i maestri prima, e poi con i professori, telefonava alle aziende preannunciando l’arrivo di CV in preparazione di futuri colloqui di lavoro.

Nei ragazzi valutava due aspetti: merito, inteso come impegno negli studi e nella vita dell’oratorio e comportamento, inteso come qualità della persona. Su queste due “semplici” valutazioni suggeriva ai genitori la continuazione degli studi o proponeva un lavoro in banca, in un negozio o in una fabbrica.

Don Angelo era una figura mitica. Fondamentale per la crescita del quartiere, dei legami comunitari e della formazione di giovani che crescevano in famiglie provenienti da tutta Italia, portatrici di tradizioni e culture differenti, impegnate nel lavoro e quindi poco disponibili, in termini di tempo, a seguire direttamente l’educazione dei propri figli.

Difficile oggi trovare punti di riferimento con queste caratteristiche. La scuola si è ormai chiusa nella sua autoreferenzialità, la parrocchia è sempre meno autorevole e frequentata, il mondo del lavoro è complesso, lontano e non sempre disponibile a relazionarsi con i contesti locali.

Questa situazione contribuisce a disorientare le famiglie sempre meno preparate ad aiutare i figli nelle scelte di studio o di lavoro. Purtroppo tornare indietro è però impossibile.

Adesso ci proverà l’Anpal l’agenzia per le politiche attive del lavoro partorita dal Jobs Act e diretta da Maurizio del Conte. 1000 professionisti da ingaggiare che da qui al 2020 si occuperanno di stabilire un ponte tra i due mondi. Partendo dalle oltre cinquemila scuole superiori e università distribuite su tutto il territorio nazionale.

Anche se una figura come don Angelo non è più rintracciabile non si parte comunque da zero. Molte scuole tecniche e professionali lavorano da tempo con le aziende. Così come alcune università. Questo patrimonio non va certamente disperso né appaltato. Anzi.

Fuori da questo perimetro di impegno e di visione c’è però il vuoto. Non basta la buona volontà di qualche professore a superare una cultura che vuole mantenere muri solidi che impediscano una comunicazione positiva tra i due mondi. Per questo l’impegno dell’Anpal va condiviso e sostenuto.

È ovvio che non basta. Don Angelo non si occupava “solo” di trovare il lavoro, contribuiva a disegnare una comunità, educava a dei comportamenti, cercava di costruire dei cittadini consapevoli. Il punto vero forse sta qui.

Un dialogo positivo e costruttivo tra i due mondi porta con sé delle implicazioni non di poco conto perché rende probabilmente necessario cambiare il senso dell’istruzione attualmente impartita, in modo da trasformarla in un apprendistato “guidato” di vita vera. Non solo aziendale.

Il lavoro, le sue regole e chi dovrebbe riscriverle..

La vicenda dell’arresto di un esponente del SI Cobas a Modena porta alla luce ancora una volta quell’area del lavoro di confine dove non esistono regole né contratti né rispetto per la persona lontano dal controllo delle imprese sane e del sindacato confederale e fondamentalmente in balia di se stesso.

Coinvolge lavoratori immigrati, giovani (soprattutto in certe aree del sud) che abbandonano gli studi, donne che cercano di rientrare nel mercato del lavoro, over 50 espulsi dalle aziende, giovani in attesa di trovare una occupazione. Disoccupati, pensionati o assistiti a vario titolo. Pagati in nero, sottopagati, costretti a subire tagli della retribuzione per “servizi” imposti dal caporale di turno o per restituire all'”imprenditore” parte del guadagno come “ringraziamento” per l’assunzione.

Che lo si voglia ammettere o meno, un terzo della nostra economia, ogni giorno costringe centinaia di migliaia di persone a lavorare sul confine che passa tra legalità formale e illegalità sostanziale. Ben oltre i voucher, ben oltre la gig economy, ben oltre il cosiddetto lavoro povero, seppur contrattualizzato. In questo mondo agiscono intermediari, “scafisti” da terra ferma, imprenditori senza scrupoli, prestanome di attività legali, malavitosi che gestiscono direttamente attività economiche. Ma anche una forma di sindacalismo di confine.

Fatto di minacce, ricatti, strumentalizzazioni. Una forma di sindacato che non si nutre di slogan estremisti né si colloca a sinistra di altri sindacati quando opera concretamente. Funziona sul modello collaudato obiettivo-lotta-risultato. Dove l’obiettivo serve per creare la massa di manovra, la lotta sempre breve ma intensa perché portata anche fuori dai confini della legalità e un risultato che deve essere sufficiente a creare le condizioni per essere riproducibile altrove. Sempre per piccoli gruppi.

È una forma di “guerriglia” permanente dove furti, spaccio, danni e botte ai “crumiri”, minacce ad altre etnie, a capi sono ritenuti effetti collaterali accettabili integrabili con blocchi delle merci e danni di ogni tipo, anche gravi, a terzi. Ovviamente il tutto in orari, situazioni e realtà difficili da garantire un intervento in tempi rapidi dalle forze dell’ordine e dallo stesso controllo delle aziende coinvolte che spesso si piegano a questa logica innescando un meccanismo inarrestabile.

È una terra di nessuno dove avviene di tutto nel silenzio generale. Emerge sempre più spesso nei magazzini della logistica del nord, nelle attività “legali” della malavita organizzata, nell’edilizia, nell’agricoltura ma anche in attività di servizio alle imprese o in piccole attività commerciali danneggiando pesantemente chi opera nel rispetto delle regole.

Al di là di come si concluderà la vicenda di Modena questa è una realtà sulla quale occorrerebbe accendere i riflettori. Innanzitutto perché questo fenomeno non si sta affatto restringendo ma è destinato ad aumentare.

La profondità della crisi, la possibile ripresa senza crescita occupazionale, la ramificazione territoriale dei fenomeni malavitosi, l’affermarsi di attività distributive fondamentali quanto fragili dal punto di vista organizzativo e di gestione del personale, i fenomeni migratori aumentano notevolmente la differenza tra cosiddetti garantiti e non garantiti rendendo sempre meno percepibile il confine tra lecito e illecito così come la necessità di garantirsi un reddito comunque messo insieme.

Se a questo aggiungiamo che (secondo i dati pubblicati ieri dal sole 24ore) “a fine 2016 oltre metà degli occupati dipendenti risultano ancora in attesa di un rinnovo contrattuale (il 50,5% per l’esattezza) e sempre a dicembre, l’attesa media di un rinnovo calcolata sul totale dei dipendenti è di 27,1 mesi, in crescita rispetto ai 22 mesi di un anno fa”. Ci rendiamo conto che la situazione rischia di creare un innesco molto pericoloso al quale non di può rispondere con i timidi segnali di controtendenza emersi sul piano economico e occupazionale.

Pensare di affrontare questa situazione con la “carta dei diritti” proposta dalla CGIL in solitaria o chiamando al referendum su voucher e appalti è come voler affrontare una polmonite con l’aspirina. In un Paese dove oggi un terzo dell’economia reale non rispetta alcunché che senso ha voler continuare a colpire chi, le regole, pur in situazioni di grande difficoltà, cerca di rispettarle? E per colpire quel terzo,  a mio parere, occorrerebbe una convergenza di tutto il Paese.

Le nuove regole andrebbero concordate e proposte insieme, da tutte le organizzazioni di rappresentanza, per essere efficaci.  Non servono fughe in avanti. Pensare di superare le proprie difficoltà organizzative (rinnovi contrattuali, adesioni marginali agli scioperi proclamati nel privato, declino organizzativo, ecc.) lanciando la palla nel campo della sinistra politica e parlamentare aumentandone la confusione serve solo ad aprire ancora di più uno spazio di iniziativa a chi ritiene di poterlo occupare con maggiore diritto perché in grado di reinterpretarlo aggiornandolo e finalizzandolo proprio a disintermediare e quindi mettere in difficoltà le organizzazioni di rappresentanza.

In nessun Paese del mondo si è riusciti a riportare indietro l’orologio del tempo a favore dei “vinti” della globalizzazione con la cultura del 900. Anzi. Bernie Sanders e Jeremy Corbin sono lì a dimostrare cosa succede immediatamente dopo quando si insiste a voler occupare con vecchi discorsi uno spazio politico quando il vento soffia altrove.

Aziende industriali, contratto del terziario…

Secondo i dati più recenti citati da Rita Querzé sul Corriere di oggi un terzo delle aziende iscritte ad Assolombarda (Confindustria) applica il contratto del Terziario firmato da Confcommercio.  E questo non da ieri.

Quindi l’idea sottesa nel cosiddetto “patto di fabbrica”, proposto dal Presidente Boccia ai sindacati confederali, sulla necessità di sviluppare una contrattazione nazionale specifica di produzione  confindustriale su industry 4.0 c’entra fino ad un certo punto.

La ragione della scelta delle imprese è molto semplice. Nel comparto manifatturiero i contratti sono settorializzati quindi risentono delle differenti culture (sempre di stampo fordista) prodotte nei differenti comparti merceologici. E questo crea, costi diretti, indiretti e vincoli organizzativi.

Nel terziario il contratto è uno solo. Da sempre. Costruito proprio per potersi adattare a settori molto diversi tra di loro. Quindi molto lasco. Questo lo rende decisamente più moderno, gestibile e modellabile su misura di esigenze specifiche o particolari.

Le aziende generalmente badano al sodo. Lo stesso sistema bilaterale costruita intorno al welfare aziendale ha bisogno di masse critiche rilevanti e di una cultura della flessibilità e del bilateralismo che non si improvvisa né nelle associazioni datoriali, né nei sindacati.

Qualche esempio. Nel CCNL del terziario, orari e organizzazione del lavoro hanno, come obiettivo principale, il soddisfacimento del cliente e l’adattabilità al mercato. Non è così nei comparti industriali dove al centro, che lo si voglia ammettere o meno, c’è ancora il prodotto e chi lo produce.

Il diritto soggettivo alla formazione giustamente sottolineato da tutti come rilevante nell’ultimo contratto dei metalmeccanici, è presente nel contratto dei dirigenti del terziario già dal 1994. Così come, dallo stesso anno, per i Quadri che sono nel CCNL dei lavoratori del terziario. La formazione è centrale ed è diffusa a tutti i livelli, il welfare sanitario copre già oltre un milione e mezzo di lavoratori. 

Infine se pensiamo alla implementazione di una nuova attività, la fase di test di un prodotto o di un servizio e la loro relazione con il lavoro necessario sia in termini di costo, durata, qualità e inquadramento ci rendiamo conto della profonda differenza  tra i differenti modelli contrattuali e quello del terziario.

La stessa Federdistribuzione, nel suo tentativo di uscita dal CCNL del terziario (in corso da oltre due anni), vorrebbe mantenerne la flessibilità, gestire autonomamente parte (non tutta) della bilateralità, e pagare ancora meno i lavoratori di quanto stabilito nel CCNL firmato da Confcommercio. Operazione non facile da realizzare e soprattutto che rischia di innescare una inevitabile fase di dumping pericolosa per tutto il comparto spinto ad una infinita gara al ribasso con risultati immaginabili per i lavoratori coinvolti.

Nel comparto industriale i metalmeccanici hanno appena concluso un contratto propedeutico anche ad industry 4.0. Come può pensare Confindustria di costruire un “patto di fabbrica” che prescinde da questa realtà consolidata? E con chi? Che cosa è il CCNL dei metalmeccanici se non la base per il “patto di fabbrica”?

Tempo fa Marco Bentivogli prospettava la costruzione di un sindacato industriale di nuovo conio, in grado di valorizzare la manifattura sul piano della difesa degli interessi nazionali del settore e dell’evoluzione del lavoro sia nei contenuti che nel rapporto con l’impresa. Quella, credo, resta l’unica strada praticabile.

Le organizzazioni di rappresentanza, datoriali e sindacali, devono rendersi conto che il problema non è come recuperare le aziende o i lavoratori sotto le proprie insegne con operazioni di semplice presidio dell’offerta di servizi. O di concorrenza tra sigle. Altrimenti si aprirà ad una fase incontrollabile di dumping contrattuale.

Il tema centrale è quale rappresentanza è, e sarà, funzionale alle imprese e ai lavoratori in un mondo globalizzato.

Il 900 ha costruito intorno alla manifattura fordista una ideologia è un modello organizzativo e contrattuale prevalente che si è esteso a tutti i settori. Quel modello è in declino.

Probabilmente, nel privato, servirà puntare decisamente verso un modello contrattuale nazionale più leggero costruito intorno a 3 comparti principali: terziario, industria, agroalimentare con contrattazione aziendale, territoriale o di comparto collegate.

Il punto è se i corpi intermedi saranno in grado di comprendere che il futuro non è nella competizione organizzativa sull’esistente ma nell’individuare cosa, imprese e lavoratori, hanno bisogno nella transizione verso il nuovo paradigma economico e sociale e di come metterlo loro a disposizione.

È lì, è solo lì, che chi avrà  più tela da tessere….

E del CNEL, cosa ne facciamo?

Di tutti gli argomenti proposti nel referendum stravinto dal NO, quello sul CNEL era l’unico dov’è tutte le parti in causa ne auspicavano la soppressione.

L’operazione, tra l’altro, era già iniziata con lo spostamento di parte dei dipendenti, la promessa al CSM della sede e le dimissioni di molti consiglieri. L’esito del referendum pone evidentemente un problema.

Cosa fare di un organo costituzionale nel quale nessuno ha creduto più di tanto per decenni. Un dato mi sembra inequivocabile. Tra l’intenzione dei costituenti e la pianta ormai appassita che avrebbe dovuto essere abolita con il referendum il salto logico è enorme.

L’art. 99 della Costituzione recita: “Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa.
E’ organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.”

I costituenti non avevano affatto pensato a quel simbolo dello spreco di risorse pubbliche che nel tempo il CNEL ha dimostrato di essere ma a qualcosa di importante, utile al Paese perché in grado di portare la voce e le proposte dell’Italia che lavora e produce integrandole, in un contesto di democrazia rappresentativa, al Parlamento.

Un ruolo, a mio parere, ancora più importante oggi dove la distanza tra il Paese reale e le sue rappresentanze è sicuramente aumentata. Una cosa però è certa.

Questa ridefinizione del ruolo dell’istituto non può essere lasciata a chi oggi ne occupa ancora qualche vecchia e traballante poltrona. Leggere che Presidente e vice Presidente rimasti in carica stanno autonomamente presentando ad altri organi costituzionali proposte di autoriforma rende ancora più triste l’epilogo di un fase che va, al contrario, prontamente chiusa.

Il compito di ridisegnarne i nuovi confini non spetta a loro. Spetta alle organizzazioni delle imprese, del lavoro e del volontariato. Personalmente spero se ne facciano carico presto.

Auspico tre caratteristiche fondamentali. Innanzitutto il CNEL dovrebbe diventare un luogo di elaborazione, di confronto e di proposta comune sui temi del lavoro. I componenti dovrebbero essere pochi, non pagati essendo retribuiti dalle rispettive organizzazioni, soprattutto di alto livello e realmente rappresentativi della loro parte.

Dipendesse da me metterei anche qualche vincolo sull’età dei consiglieri e sulla loro provenienza perché di tutta questa gente che ripete a pagamento le stesse cose da almeno quarant’anni non se ne può più. Ma questo so che resterà solo un pio desiderio.

Spazio alle imprese, ai manager, al lavoro. Alla cultura della partecipazione e del confronto. Luogo di certificazione della contrattazione e dell’innovazione sociale e organizzativa. Un luogo vivo, vivace e strategico per il Paese.

Stiamo vivendo anni decisivi per il futuro del lavoro. Pensare di creare un luogo riconosciuto dove i corpi intermedi si possano impegnare positivamente e costruttivamente insieme per il bene del Paese e senza pretendere nulla in cambio mi sembrerebbe un buon viatico.

Non solo per un nuovo CNEL.

Il futuro non si attende. Si fa.

“Employability” è la parola chiave. Potrà aprire molte porte. La traduco subito per evitare che Landini ci veda subito una fregatura: impiegabilità. È, in concreto, l’unica opzione possibile nel mondo del lavoro di oggi, ma soprattutto di domani.

Necessita innanzitutto di una convinta responsabilità personale corroborata da strumenti e opportunità definite dalle leggi o dai contratti. Nel recente contratto del metalmeccanici le parti hanno concordato attraverso il diritto individuale alla formazione un primo strumento fondamentale. L’importanza di questa intuizione va ben oltre il testo contrattuale. È però il primo passo nella direzione giusta.

In un mondo globalizzato il lavoro e i suoi diritti collegati non si possono tutelare astrattamente. Capitale e lavoro si muovono con spazi e logiche diverse. Pensare che possano valere le regole del 900 quando il lavoro a tempo indeterminato era la regola e quando il lavoro si svolgeva sostanzialmente in una o poche aziende è una illusione che rischia di costare molto cara ad una intera generazione.

Se alziamo lo sguardo da qui a dieci anni il lavoro prevalente sarà profondamente diverso da oggi. Meno lavoro a tempo indeterminato nelle forme oggi conosciute e più lavoro autonomo in forme che già oggi si stanno delineando nel resto del mondo. Un confine destinato a diventare sempre meno netto.

Il lavoro operaio stesso cambierà profondamente. Sia verso l’alto dove l’uso di macchinari sempre più complessi imporrà titoli di studio e continue specializzazioni sia verso il basso dove dove la concorrenza sul costo del lavoro metterà sempre più a rischio le tutele tradizionali.

I luoghi del lavoro, la sua durata giornaliera, le competenze per mantenerlo o per cambiarlo saranno profondamente diversi rispetto ad oggi. E se il lavoro si dovrà cercare con maggiore frequenza, mantenere con professionalità forti e aggiornate, gestire nelle fasi di transizione, le politiche attive saranno fondamentali. Soprattutto davanti al rischio di una ripresa di sviluppo senza ripresa occupazionale.

Il futuro non si aspetta. Si fa.

Su queste nuove traiettorie ci si può impegnare ciascuno per la propria parte (sindacati, imprese, studiosi della materia) oppure si può attendere e subirle. E, nel frattempo parlare d’altro.

Ma dietro il futuro del lavoro non c’è solo il destino di una generazione. C’è in gioco il ruolo dei contratti, delle organizzazioni di rappresentanza, l’evoluzione stessa dei sistemi formativi, della scuola, del welfare vecchio e nuovo, delle politiche del lavoro.

Di tutto questo, oggi, c’è poco all’ordine del giorno. Ci sono opinioni, studi, segnali ma non c’è una volontà comune che punta decisa in quella direzione. Per questo il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ha dato un segnale importante che non va sottovalutato. Né fatto fallire.

Sarebbe deprimente dover discutere e duellare per un anno sul tema dei voucher trasformati in una sorta di Fort Alamo del 900 pur sapendo che nulla hanno a che fare con il contesto tracciato sopra.

Una cosa è certa e il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ne è la dimostrazione plastica. Non c’è aria per battaglie ideologiche nel Paese. Né di rivincite per minoranze di Partito. C’è una precisa volontà di delegittimazione della Politica e delle Istituzioni. E i soggetti preposti a realizzare questo obiettivo sono già in campo.

Non saranno i voucher a spostare consenso. Anzi. Il punto vero è che nel furore di questa battaglia di retroguardia si rischia di non capire che il resto del lavoro si modellerà da solo sui rapporti di forza imposti dalla competizione globale.

La durata dell’orario di lavoro. Solo una convenzione del 900?

Otto ore di lavoro, otto per vivere e otto per riposare sono stati un obiettivo per molti anni nel secolo scorso del movimento operaio e sindacale. Una volta raggiunto, si è tradotto nelle leggi e nei contratti diventando un riferimento per tutti. Una convenzione, appunto, accettata da tutti.

Sopra questo limite c’è il lavoro straordinario, sotto il part time. Per molti lavori è ancora così. Per altri, i nastri orari e una diversa distribuzione dell’orario settimanale dovuta ad esigenze di ottimizzazione degli impianti o di servizio, hanno abbassato quella soglia.

A questo schema nato e cresciuto nell’era fordista si sono aggiunti ferie, permessi e quant’altro che, pur rappresentando legittime conquiste, accentuano il divario tra le ore potenzialmente lavorabili in un anno e le ore effettivamente lavorate.

Questo, ovviamente, per tutti quei lavori dove è l’ora di lavoro che può rappresentare un indicatore convenzionale accettato da tutti. Per altri è la prestazione in sé, la realizzazione o meno di uno o più obiettivi concordati a stabilire la quantità di tempo necessario al loro raggiungimento.

Quindi, in questi caso, le cosiddette otto ore sono solo un indicatore formale di riferimento ma non hanno nessun legame con la retribuzione o il tempo di lavoro. E, tutto questo, senza voler entrare nel merito del lavoro autonomo o professionistico dove l’indicatore orario è decisamente fuori luogo.

È del tutto evidente che se l’organizzazione aziendale cambia sia in termini qualitativi che quantitativi anche grazie alla introduzione di tecnologia o di innovazioni organizzative una tradizionale distribuzione dell’orario di lavoro produce inevitabilmente esuberi a meno che non si intervenga introducendo nuove attività supportandole con formazione adeguata e non si attivino politiche attive in grado di gestire le transizioni tra un posto e l’altro.

Ma queste politiche che, nel nostro Paese, a differenza che altrove, si configurerebbero già come risposte innovative e assolutamente necessarie non sono in grado, da sole, di rispondere a ciò che, la crisi da un lato e, l’innovazione tecnologica e organizzativa dall’altro, mettono già oggi a disposizione delle imprese.

Quindi la riflessione dovrebbe andare oltre e provare a comprendere la necessità stessa di alcune tipologie di luoghi di lavoro, il tempo e le risorse economiche che occorrono per raggiungerlo, le modalità di esecuzione e, di conseguenza, il tempo necessario al suo svolgimento e infine il suo corrispettivo economico.

Contemporaneamente occorrerebbe ragionare sugli eventuali recuperi di produttività e su come redistribuirli uscendo, però, da una logica fordista. Ovviamente tutto questo porta a ulteriori riflessioni sulla tipologia dei contratti, sul ruolo delle organizzazioni di rappresentanza e sulla loro prospettiva.

Giuseppe Sabella, sempre molto attento alle dinamiche del lavoro, ha scritto recentemente dell’esperienza emiliana a cui sta lavorando il giurista Piergiovanni Alleva. Al di là del caso specifico non sono molto convinto che quella sia la strada giusta. In altri termini temo che parlare del lavoro che c’è e su come distribuirlo su più teste non porti da nessuna parte. Non si esce dal paradigma fordista e quindi ci si blocca davanti alla entità dello scambio e a chi ne deve sopportare i costi.

Nel mercato globale le nostre imprese sono parte di filiere internazionali, ne condividono le strategie e ne subiscono i vincoli. Difficilmente li condizionano. E, in questi vincoli, il lavoro, se affrontato in modo tradizionale, è destinato a subirne le conseguenze in termini di quantità, qualità, costo e remunerazione. Addirittura di localizzazione. Sono gli stessi contratti di fornitura o di subfornitura che producono quei vincoli sempre più difficili da eludere.

E da questa situazione non se ne esce rivendicando una specificità nazionale  ma solo cercando di ridisegnare e innovare i modelli organizzativi e la qualità del lavoro. Tra l’altro il recente contratto dei metalmeccanici e il piano Calenda possono dare un aiuto importante nell’evoluzione di questa nuova cultura.

Disconnettersi o connettersi con il futuro del lavoro?

Dopo il CV anonimo proposto per evitare discriminazioni nelle assunzioni la Francia procede con una nuova legge sul “diritto alla disconnessione” entrata in vigore dal 1 gennaio 2017.

Una legge voluta dalla Ministra del Lavoro Miryam El Khomri che obbliga le aziende con oltre 50 dipendenti a stabilire, con i propri collaboratori, delle regole per consentire loro il diritto di ignorare email, messaggi o SMS aziendali fuori dall’orario di lavoro.

Non è chiaro però come verrà effettivamente attuata. Quello che è certo è che, in mancanza di accordo tra le parti coinvolte le aziende sarebbero tenute a comunicare esplicitamente cosa verrà chiesto ai dipendenti al di fuori dell’orario di lavoro.

Le nuove tecnologie portano con sé una modifica sostanziale del luogo, del tempo, del contenuto e delle modalità di effettuazione di molti lavori. Pensare di riportare tutto dentro leggi e contratti costruiti nel novecento è sinceramente assurdo. In Italia nella vecchia cultura aziendale industriale il tempo passato sul posto di lavoro era un elemento di valutazione positiva del collaboratore.

Chi faceva gli “straordinari” era giudicato un leale e fedele collaboratore. Poi via via negli anni, agli straordinari “pagati”, nel rispetto del contratto nazionale, si sono sostituiti indennità omnicomprensive, superminimi, reperibilità, gettoni di presenza, ecc. con l’obiettivo di forfetizzarne il pagamento sganciandolo così dalle ore effettivamente effettuate in più o in meno. I vecchi “straordinari”, pagati ad ore, sono rimasti (ancora oggi) solo ai livelli più bassi dell’inquadramento professionale. E, in molte situazioni, se vogliamo dirla tutta, solo per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato.

Per tutti gli altri, in molti casi, gli straordinari pagati sono, piano piano, scomparsi. Sono però rimaste le prestazioni oltre l’orario. La tecnologia ha fatto il resto rendendo il proprio impegno aziendale sostanzialmente ininterrotto.

Prima ritenuta un benefit e quindi uno status symbol esclusivo la tecnologia si è trasformata, in alcuni casi, in un’ossessione per molti. In Germania, in diverse aziende, ad una certa ora, viene tagliata la connessione, in altre aziende le mail, oltre un certo orario, vengono cancellate. Forse basterebbe un po’ di buon senso e di maggiore capacità di organizzare il proprio e l’altrui lavoro.

Funzionerebbe in Italia una legge come quella francese? Personalmente credo di no. Non c’è ancora una cultura adeguata in molte aziende. I rapporti interpersonali, anche a certi livelli, non sono paritari. Il capo “democratico” esiste fino ad un certo punto come sa bene chiunque si è trovato in situazioni concrete di disagio.

E se il capo non sa gestire i collaboratori, li tiene inchiodati alla scrivania fino a tardi o pensa che sia assolutamente legittimo gestirli “a chiamata” come e quando vuole, non c’è legge che tenga. Meglio cambiare il capo.

In genere non sono mai le aziende in quanto tali a pretendere determinati comportamenti. Quindi nascono e si diffondono per precise manie di alcuni responsabili o per loro difficoltà a gestire picchi di attività e coinvolgere i propri interlocutori solo in orari decorosi.

Non è un caso che quando una persona non è all’altezza della posizione che occupa scarica sui collaboratori responsabilità, tensioni e stress. Figuriamoci se può intensificare la “tortura” ben oltre il raggio della scrivania! Personalmente più che una legge che rischia di non essere applicabile o di portare con sé reazioni e conseguenze negative in contesti organizzativi complessi opterei per delle regole aziendali da comunicare all’atto dell’assegnazione del cellulare o del pc.

Come per l’auto aziendale. Se è a totale disposizione della persona il suo utilizzo dovrebbe valere in entrambe le direzioni. E quindi, come prevede la legge francese, stabilirei un elenco ragionato di opzioni di chiamata oltre l’orario di lavoro. Così come sul posto di lavoro bilancerei il diritto a non essere controllato a distanza con un altrettanto modesto utilizzo personale degli strumenti tecnologici messi a disposizione dall’azienda durante l’orario di lavoro. Viceversa se il telefono, ad esempio, è di esclusivo uso aziendale, non ha senso il suo utilizzo fuori dal normale orario di lavoro se non per motivi estremamente seri. Ma questi restano interventi utili solo se ci si concentra sul breve.

Il punto però è che la tecnologia mette e metterà sempre più a disposizione sistemi che amplificano la produttività individuale e di gruppo, che superano sempre più il confine tra tempo di lavoro e tempo da dedicare a se stessi o ai propri cari, che mantengono perennemente connesse le persone tra di loro e, inevitabilmente, ne consentono però un controllo molto più accurato sulla loro attività.

Questo implica un forte salto di qualità culturale innanzitutto nei modelli organizzativi aziendali che dovranno essere più aperti e coinvolgenti e quindi nella gestione dei collaboratori, soprattutto dai millenials in avanti ma anche nella progettazione dei luoghi di lavoro che già oggi sono sempre meno simili a quelli tradizionali.

In questo senso più che una legge che, di fatto, cerca di stabilire regole facilmente aggirabili da chiunque occorrerebbe riflettere e lavorare su come rendere meno novecentesco il lavoro.

I confini tra lavoro tradizionale e lavoro autonomo, tra tempo di lavoro e tempo per sé, la sua durata, il suo riconoscimento, il suo inquadramento, i modelli formativi necessari, le politiche attive, il welfare vecchio e nuovo, il tempo perso per andare e per tornare dal lavoro, la necessità o meno dei tradizionali luoghi di lavoro, le forme di coinvolgimento e di partecipazione agli obiettivi e ai risultati aziendali.

Su questo siamo veramente indietro tutti troppi occupati a pensare a come ci si difende nei territori noti (da entrambe le parti) e non come esplorare insieme le opportunità offerte dal mondo che ci si sta aprendo di fronte.

Il futuro dei voucher è con o senza Speranza?

C’è chi ha paragonato il PD Speranza a Turigliatto, chi ha ricordato che Bersani stava con Monti quando sono stati lanciati i voucher e che il Governo Renzi, semmai, ne ha solo regolamentato l’uso. Tutto inutile.

Intorno ai voucher sembra si stia giocando lo scontro finale sull’identità della sinistra italiana.

Il merito, come sempre in questo caso, non esiste. O meglio non interessa a nessuno. Per quanto riguarda non posso che condividere le parole di Anna Soru sulla Nuvola del Corriere con le quali sottolinea il rischio che, in caso di interventi, chiaramente emotivi, si peggiori addirittura la situazione “costringendo” un massiccio ritorno al lavoro nero.

Recentemente sono stati pubblicati dei dati che è meglio conoscere prima di schierarsi. Vediamoli pacatamente.

Innanzitutto Il voucher è l’unico strumento per retribuire in modo regolare “lavori saltuari”. Non ha alternative, né possiamo davvero credere che queste attività saltuarie si coprano con assunzioni “tradizionali”.

Il suo utilizzo assicura un riconoscimento retributivo comprensivo anche del pagamento di contributi previdenziali per prestazioni saltuarie e accessorie e la copertura assicurativa INAIL.

L’utilizzo dei buoni lavoro, è aumentato perché le riforme di questi ultimi anni hanno di fatto tolto alla disponibilità’ delle imprese qualsiasi strumento regolare per pagare prestazioni accessorie.

Infine, occorre ricordare che, mediamente ogni persona, con il voucher, prende 600 euro all’anno; pensare dunque che ci sia un forte abuso generalizzato è una lettura forzata.

La stessa INPS attraverso le analisi pubblicate sul suo sito ci dice che:

1) Per la maggior parte dei prestatori di lavoro accessorio, il volume di voucher percepiti è modesto: in media nel 2015 si è trattato di 60 voucher pro capite e la mediana è decisamente inferiore: 29 voucher.

2) I lavoratori che hanno percepito più di 1.000 euro netti con voucher risultano 207.000 mentre coloro che hanno percepito meno di 500 euro risultano quasi un milione e quindi evidente che non si tratta di lavoro sostitutivo.

3) Circa il 50% dei prestatori sono lavoratori attivi con altra occupazione o percettori di ammortizzatori sociali (sono il 50% del totale stabilmente dal 2013)

Per essere più precisi sono :

– Pensionati: la loro quota risulta pari all’8%. (Tre su quattro sono pensionati di vecchiaia).

– Soggetti mai occupati: sono pari al 14% (meno di 200.000). Si tratta essenzialmente di giovani (la mediana è vent’anni).

– Silenti (ex occupati e disoccupati di lunga durata ): sono attorno al 23%.

– Indennizzati (essenzialmente percettori di Aspi, MiniAspi o Naspi): sono il 18%

– Occupati presso aziende private: sono il 29% (quasi 400.000). Tra questi si individuano:
− 26% occupati a tempo indeterminato e full time;
− 28% occupati a tempo indeterminato e part time;
− 46% occupati, soprattutto giovani, con contratti a termine subordinati

– Altri occupati: pari all’8% sono lavoratori domestici, operai agricoli, lavoratori autonomi, casse professionali, dipendenti pubblici).

Per queste ragioni possiamo affermare, senza nessuna possibilità di smentita che:
l’effetto di sostituzione di precedenti rapporti di lavoro è molto limitato e i soggetti interessati sono in maggioranza studenti, pensionati e lavoratori in regime di ammortizzatori sociali.

Questo dicono i numeri. Il resto sono strumentalizzazioni ideologiche di chi non ha argomenti veri. A mio parere il Governo deve continuare ad insistere sulla strada della tracciabilità e dei controlli per evitare usi impropri dei voucher penalizzando chi non ne fa un uso corretto.

Scegliere, al contrario, di abolirli o di ridurne fortemente l’utilizzo senza introdurre altri strumenti analoghi sarebbe solo un grave errore.