LIDL si rafforza in Sardegna con il nuovo hub logistico

E così mentre c’è chi continua a sottovalutarne il potenziale di crescita nel nostro Paese,  LIDL tira dritto.  Ha appena inaugurato la sua Direzione Regionale in Sardegna, ad Assemini, in provincia di Cagliari. Oltre 70 milioni di euro e più di 140 nuovi posti di lavoro. Nell’isola l’insegna tedesca ha oggi 23 punti vendita e 650 collaboratori. Un investimento all’interno di  un percorso di crescita aziendale che prevede, per i prossimi sei mesi, l’apertura di ulteriori 40 nuovi punti vendita. L’investimento complessivo previsto è di di 400 milioni di euro.

Presentato al CACIP (consorzio industriale provinciale di Cagliari) il 25 ottobre del 2022 ha prodotto, tra gli altri risultati, l’impiego di numerose imprese del territorio che ne hanno consentito una rapida realizzazione. Una sinergia nel segno dell’innovazione e dello sviluppo in area ZES (Zona economica speciale). Una collaborazione pubblico-privato che ha consentito importanti ricadute sul piano dell’occupazione e del rafforzamento delle infrastrutture. A Macchiareddu, di fatto, sta nascendo un grande polo per la logistica. 

Lidl intrattiene rapporti di fornitura con centinaia di aziende italiane.  Nel 2022 il totale delle forniture di beni e servizi acquistati in Italia da Lidl è ammontato a €6,2 miliardi, concentrati soprattutto nel comparto della produzione agroalimentare, che si configura come un forte traino alle esportazioni di prodotti alimentari grazie agli acquisti realizzati per il rifornimento degli scaffali di punti vendita dell’Insegna all’estero. Nel 2022, tali acquisti hanno rappresentato esportazioni dall’Italia per circa €2,4 miliardi (pari al 4,5% di tutto l’export food & beverage italiano), di cui il 24% è rappresentato da frutta e verdura (il 13% delle esportazioni totali del Paese) (elaborazione THEA Ambrosetti).

Il nuovo hub consente a LIDL una riorganizzazione logistica in Sardegna. La struttura, che sarà operativa dal 1° ottobre, permetterà di migliorare il servizio al cliente finale e allo stesso tempo di compiere un passo in avanti verso una logistica sempre più sostenibile ed efficiente con un risparmio di più di 5.000 tonnellate di CO2. Il centro logistico si estende su una superficie complessiva coperta di oltre 37.000 mq, ha una capacità di stoccaggio di 25.000 posti pallet, oltre a disporre di 101 baie di carico e 45 posti TIR. Il progetto, inoltre, risponde ai criteri di uno sviluppo edilizio sostenibile. La nuova Direzione Regionale, infatti, è dotata di un impianto fotovoltaico da 2.688 kW in grado di coprire circa il 50% del fabbisogno energetico del centro, ovvero l’equivalente dell’energia utilizzata da 1.350 abitazioni.

L’edificio è alimentato con energia proveniente al 100% da fonti rinnovabili e dispone di un sistema per il recupero delle acque piovane. Infine, il rivestimento esterno è frutto di uno studio che permette di mitigare anche l’impatto visivo della struttura all’interno del contesto circostante. Una strategia di sviluppo sostenibile a cui contribuirà anche un altro importante obiettivo che Lidl si è posta, ossia quello di raggiungere la decarbonizzazione dei trasporti entro il 2030. Il nuovo hub rappresenta non solo un simbolo di ampliamento aziendale, ma anche un nuovo slancio per l’economia sarda. Il ruolo della ZES è proprio quello di facilitare la realizzazione di questa crescita, creando le condizioni necessarie sia per un’evoluzione dello scenario logistico sardo, sia per il rafforzamento dell’impegno di Lidl in Sardegna. Un risultato importante che conferma l’attrattività della Zona Economica Speciale nel favorire gli investimenti nell’isola da parte di grandi nomi dell’impresa internazionale, determinando così nuove opportunità di sviluppo per l’economia regionale e riaffermando il suo ruolo strategico nel contesto nazionale.

Massimiliano Silvestri, Presidente di Lidl Italia, ha così commentato: “Siamo molto orgogliosi di inaugurare oggi la Direzione Regionale di Assemini, abbiamo realizzato questo straordinario progetto con grande determinazione alla luce della rilevanza strategica che riveste per noi e per la comunità sarda. Il primo punto vendita di Lidl in Sardegna è stato aperto nel 2002 e da allora il riscontro dei clienti è sempre stato molto positivo portandoci ad ampliare la nostra presenza. Con questa nuova struttura vogliamo dare ulteriore slancio al nostro sviluppo sull’Isola perseguendo una crescita responsabile che unisce innovazione e sostenibilità”. 

Rapporto Industria di Marca/Grande Distribuzione. L’autunno si sta scaldando

Nella grande distribuzione alimentare cresce la tensione su dove si posizionerà l’asticella dei fatturati e dei margini di quest’anno dopo i numeri pur positivi ma spinti verso l’alto dall’inflazione. C’è preoccupazione sui volumi. Il sottocosto proposto per la prima settimana di settembre da LIDL non è quindi passato inosservato.  La GDO ha puntato, nel 2023 e oltre, sulla marca del distributore come antidoto ai prezzi della IDM e Mutti insieme a LIDL aprono il quadrimestre che chiude l’anno presentando insieme, in offerta, un prodotto leader di categoria come la passata di pomodoro. A mio parere, il segnale  che il gioco si fa duro. Francesco Mutti è uno dei leader dell’IDM e dal carrello tricolore in avanti il solco tra IDM e GDO si è ulteriormente ampliato. Nessun accordo né con il Governo né di filiera sul riallineamento dei prezzi. Tolta l’operazione Barilla, al massimo c’è disponibilità per iniziative comuni  sulle promozioni con le singole realtà. E ogni insegna, insieme ai suoi fornitori, fa quello che crede. 

Il fatto nuovo è che le critiche su promozioni, sconti o altro, fatte da concorrenti in GDO non sono mai state così esplicite e dirette. È raro che i rappresentanti di una catena attacchino esplicitamente altre insegne sulle politiche commerciali o gestionali.  Per questo l’intervento di Giorgio Santambrogio, tra l’altro vice presidente di Federdistribuzione, è apparso fuori misura. LIDL è una realtà leader. Sicuramente  un temibile concorrente. Non certo una realtà a cui si possono addebitare comportamenti scorretti. Quindi non può non esserci dell’altro.  “Io non sono d’accordo!” ha sentenziato il vice presidente di Federdistribuzione, pubblicando  il frontespizio del volantino dell’insegna tedesca promettendo di ritornare sull’argomento  più avanti di ciò che considera un triplete velenoso: “discount-sottocosto-leader di categoria”.

Francesco Mutti è amministratore delegato del Gruppo Mutti, azienda di Parma leader in Europa nel mercato dei derivati del pomodoro. Recentemente  intervistato da Adnkronos/Labitalia ha messo le mani avanti:  “La campagna 2024 di raccolta del pomodoro è veramente difficile, specie per il Nord Italia, dove non pensiamo che verranno raggiunti gli obiettivi produttivi. Ma naturalmente dobbiamo ancora finire l’intera produzione per poterne essere certi”.  Il Gruppo Mutti ha chiuso il 2023 con un fatturato complessivo di 665 milioni di euro, registrando una crescita del 18% rispetto all’anno precedente e ha da poco firmato l’accordo per la prossima campagna del pomodoro con le organizzazioni dei produttori del nord Italia. Esclude (per ora) che i prezzi del prodotto finale possano risentirne verso l’alto. Ovviamente non ha alcuna intenzione di diminuirli. Questa è il punto vero. Per questo Mutti, a mio parere, sapeva benissimo che scegliendo, in questa fase, l’azienda tedesca avrebbe innescato possibili polemiche. Lidl è uscita da Federdistribuzione sbattendo la porta sul CCNL. E questo ha lasciato il segno. È una realtà leader che tratta in proprio con Governo  e filiera agroalimentare. Esporta Made in Italy come e più di altri. Il segnale è chiaro. Con Mutti, si è definitivamente  “sdoganato” il rapporto tra i due mondi.

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Filiera agroalimentare. La qualità si paga.

In questo periodo, ogni anno, si parla (o si straparla) di prezzi. Peri consumatori, sempre troppo alti, per gli agricoltori, troppo bassi.  La nostra agricoltura finisce spesso sotto i riflettori più per le liti animate dalle  sue rappresentanze ufficiali o per i drammatici casi di sfruttamento del lavoro che per il ruolo che esercita nella filiera. La realtà ci dice che il sistema agroalimentare, dai campi alla ristorazione, raggiunge i 550 miliardi (stima del CREA Politiche e Bioeconomia) e i consumi alimentari hanno superato i 205 miliardi, con una spesa di 470 euro mensili per famiglia (Il Mulino – La nuova struttura dell’Agricoltura italiana). All’interno di questo sistema, l’agricoltura e l’industria alimentare e delle bevande rappresentano insieme quasi il 39% dell’intero valore. Completano il quadro il commercio all’ingrosso e al dettaglio, i quali insieme pesano per ben il 53% del totale. Infine, la ristorazione raggiunge un fatturato di quasi 45 miliardi, equivalenti all’8% del sistema complessivo. Dal punto di vista occupazionale parliamo di  1,6 milioni di occupati nel 2022, pari al 7% del totale dell’occupazione complessiva. 

Innanzitutto occorre dire che non c’è alcun legame tra l’arretratezza culturale e organizzativa,  le irregolarità  di vaste aree del comparto agricolo con  i rapporti di filiera. Lo sfruttamento del lavoro laddove è radicato risale a ben prima della nascita della grande distribuzione. Altra cosa sono contestazioni specifiche a chi commette reati o si comporta scorrettamente.  A questo proposito si potrebbero citare fiumi di dati. Gli agricoltori disonesti e i commentatori superficiali si nascondono dietro queste scuse. Un’attività economica deve reggersi sul giusto compenso a tutti i suoi componenti. Lavoratori compresi. Altrimenti deve necessariamente chiudere. Tollerare lo sfruttamento al proprio interno giustificandolo con un altro tutto da dimostrare contro i settori a valle è la dimostrazione evidente della malafede.

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Unieuro. A Forlì tirano la corda senza però spezzarla..

L’Opas di Fnac Darty a questo punto non si può definire ostile né la proposta incongrua ma la reazione a Forlì ci sta. L’acquisizione è stata avanzata ufficialmente dal gruppo francese  Fnac-Darty, assieme alla società Ruby Equity Investment del suo principale azionista, il miliardario ceco  Daniel Kretinsky, con lo scopo di creare un gruppo, forte in Europa occidentale e meridionale (Francia, Italia, Spagna, Benelux, Svizzera), con l’obiettivo di superare i 10 miliardi di euro di ricavi nell’elettronica di consumo e negli  elettrodomestici, acquisendo un operatore che in Italia ha il 17% del mercato. Per l’operazione i francesi avrebbero messo sul piatto circa 250 milioni di euro.

Leggo che gli azionisti valutavano  le azioni in portafoglio a 8 euro mentre l’offerta francese è di 12 euro. In Fnac Darty si aspettavano questa reazione.  “Deciderà il mercato”, è la loro convinzione.  C’è tempo fino alla fine di  ottobre. Avuto il via libera  della Consob –, tutti gli azionisti potranno vendere fino al 25 ottobre. Nel primo incontro formale del CDA (sette componenti indipendenti, due rappresentanti di Iliad e due manager) cinque consiglieri hanno ritenuto il corrispettivo non congruo, cinque lo hanno ritenuto congruo e uno si è astenuto. Per la valutazione negativa sul prezzo offerto si sono espressi Alessandra Bucci, Pietro Caliceti, Paola Elisabetta Galbiati, il ceo Giancarlo Nicosanti Monterastelli e il Dg Maria Bruna Olivieri, mentre l’astensione è arrivata da Daniele Pelli. L’hanno giudicata  “congrua”, Laura Cavatorta, Stefano Meloni, Alessandra Stabilini, Giuseppe Nisticò, Sales and Customer care Director di Iliad Italia e Benedetto Levi, CEO di iliad Italia.  Questi ultimi, hanno fatto di necessità virtù, sottolineando che l’offerta “si colloca nella parte bassa della forchetta di valori individuati e non cattura pienamente le potenzialità dell’azienda”.   Questo primo risultato interlocutorio era  prevedibile. Senza accordo l’alternativa è, ovviamente,  andare a una conta “sul campo”.

Il Board ha poi rilevato altre criticità in riferimento alle informazioni fornite dai francesi “circa le motivazioni dell’offerta, i programmi futuri e le eventuali operazioni straordinarie successive all’offerta stessa, confrontati con gli obiettivi strategici avviati e perseguiti dal gruppo Unieuro e comunicati al mercato”. Difficile però pretendere in questa fase un dettaglio maggiore.  Gli stessi sindacati di categoria sono preoccupati “per la mancanza di informazioni e per le possibili conseguenze di tale operazione per le lavoratrici e i lavoratori di Unieuro spa”. “Filcams Fisascat e Uiltucs ritengono che l’eventuale acquisizione possa minacciare gravemente la continuità dell’attuale perimetro aziendale e occupazionale di Unieuro in Italia, minandone l’autonomia gestionale”, da qui una urgente richiesta di incontro. pastedGraphic.png“Appare a maggior ragione preoccupante dal punto di vista commerciale, il fatto che tra i soci di Fnac-Darty figura con oltre il 20% Ceconomy AG, gruppo che controlla Mediamrkt/Saturn, marchio già presente in Italia con insegna MediaWorld e principale competitor di mercato nel nostro Paese”, proprio di Unieuro. “Si ritiene pertanto indispensabile, a tutela degli oltre 5000 dipendenti della Società in Italia, che Unieuro spa ponga in essere tutte le iniziative utili a garantire, in questo contesto, la continuità aziendale e la salvaguardia integrale dell’occupazione, a partire dal personale di Sede, oltre che di tutta la rete vendite”.

Il piano di Fnac Darty (insieme al veicolo di investimento Ruby Equity, a sua volta controllato da Daniel Kretinsky) è già scritto. Iliad e l’asset manager Amundi cedono le loro quote (oltre il 17%) a quelle già possedute da Fnac Darty (4,4%) portando l’Opa ad oltre il 20%. Tanto Fnac Darty, quanto Iliad e Amundi (controllata da Crédit Agricole) sono tutte e tre francesi. In Unieuro manca un azionista di maggioranza visto che il primo socio è il magnate delle tlc, anch’esso francese, Xavier Niel con il 12,1% mentre il figlio del fondatore, Giuseppe Silvestrini, ha il 6,1%. Il resto è parcellizzato fra azionisti con quote sotto il 5%. L’offerta è oltremodo interessante per i piccoli azionisti soprattutto perché nei piani del gruppo francese c’è prima il delisting di Unieuro dalla Borsa di Milano e quindi possibili operazioni straordinarie di fusione e ristrutturazione con il veicolo finanziario Holdco detenuto al 51% da Fnac e per il 49% da Ruby.  Leggi tutto “Unieuro. A Forlì tirano la corda senza però spezzarla..”

L’inflazione cala ma i prezzi non scendono e pochi si accorgono che il clima è cambiato..

La GDO italiana l’ha svangata a suo tempo con il cosiddetto “patto anti inflazione”. Il conto del “caro carrello”, che comunque è stato salato, lo hanno pagato in contanti i consumatori (e, in parte,  volumi di vendita della GDO). Le responsabilità sono state recapitate, dalla politica, ad un altro indirizzo. Il problema sembrava ormai alla spalle. Non è così. Skrinflation e greedflation hanno  accompagnato la riduzione dell’inflazione confondendo i consumatori e lasciando loro la convinzione che in molti ci hanno marciato e ci stanno ancora marciando. E il problema è tutt’altro che archiviato. Non solo da noi.

La Food Industry Association è intervenuta duramente in risposta a Kamala Harris appena incoronata alla convention di Chicago come candidata del Partito Democratico. La sua Presidente Leslie G. Sarasin ha dichiarato: “ È l’inflazione, non certo nostre presunte speculazioni sui prezzi, che ha causato aumenti dei prezzi tra i beni di consumo”. E ha aggiunto che le discussioni sui prezzi degli generi alimentari dovrebbero “rimanere radicate alla  realtà e ai dati, piuttosto che oggetto di  speculazione  politica”.

Kamala Harris ha presentato un programma economico definito «aggressivamente populista» dal Washington Post. L’economia e l’inflazione sono priorità per i cittadini americani. Harris incolpa gli imprenditori e i retailer di ricercare profitti scaricandoli sui portafogli dei consumatori e del reddito degli agricoltori. Il cosiddetto price gouging. Se eletta, ordinerà alla Federal Trade Commission di lavorare con i procuratori generali degli Stati per perseguire speculatori di ogni genere, comprese le catene di supermercati e le grandi aziende agroalimentari che controllano le forniture alimentari. Kamala Harris vuole che l’agenzia si concentri sull’arresto dei prezzi alle stelle della carne, la cui produzione  (manzo, pollo, tacchino e maiale) è controllata da poche aziende. Farà anche in modo che la FTC combatta le mega-fusioni e acquisizioni che limitano la concorrenza.

A febbraio, la FTC si è formalmente opposta alla mega-fusione di due tra le più grandi catene di supermercati del paese, Kroger e Albertson’s, tra gli applausi della National Consumers League e della United Food and Commercial Workers, che annovera tra i suoi membri lavoratori del settore alimentare, addetti alla lavorazione della carne e lavoratori degli allevamenti intensivi di pollame. La FTC si è anche rivolta al tribunale per bloccare l’accordo da 24,6 miliardi di dollari, che secondo l’agenzia riduce la concorrenza per i consumatori e i posti di lavoro per i lavoratori. Le udienze della corte federale su tale causa inizieranno il 26 agosto a Portland, Oregon. Leggi tutto “L’inflazione cala ma i prezzi non scendono e pochi si accorgono che il clima è cambiato..”

Grande Distribuzione. Aumentano i punti vendita, diminuiscono i consumi alimentari

Chi più chi meno,  siamo circondati da punti vendita di ogni tipo. Se prendiamo ciò che è emerso nell’ambito del progetto Urban Pulse 15 del Centro studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne, in collaborazione con Il Sole 24 Ore il 39% dei cittadini italiani ha già oggi punti vendita di alimentari sotto casa. Sia della GDO (iper e supermercati, discount e minimarket) che del piccolo commercio al dettaglio (panifici, macellerie, pescherie, fruttivendoli, e così via). Ad aggiudicarsi la classifica delle città che hanno la possibilità di raggiungere un punto vendita alimentare a piedi, è il Mezzogiorno con ben 14 città tra le prime venti. Le più lontane dall’obiettivo sono invece Belluno, Rieti, Udine e Treviso, dove solo 1 cittadino su 4 può raggiungere a piedi il supermercato.

C’è quindi ancora spazio di resistenza per il piccolo commercio e per la prossimità GDO, franchisee, discount, ecc. e contemporaneamente la necessità di ripensare i punti vendita più grandi al di fuori di quel raggio. Mentre gli esperti continuano a riflettere sui tradizionali  formati distributivi e le loro peculiarità il consumatore va dove gli conviene. E se può risparmiare sulla spesa,  sul tempo per gli acquisti  e sulla benzina, lo fa volentieri. C’è però, come sostiene Andrea Meneghini, in atto un cambio definitivo del concetto di vicinato, e questo cambio passa soprattutto per un travaso del fatturato da un cluster all’altro. Nel caso della Grande distribuzione, ovvero iper e supermercati, discount e minimarket è Torino a detenere la percentuale maggiore di residenti (80,8%) servita da un supermercato entro i 15 minuti. Segue Milano (75,9%), Pescara (75,5%) e Livorno (71%). Diverso è però il rapporto tra centri città e hinterland delle stesse. La grande distribuzione vince nelle aree metropolitane, mentre il commercio al dettaglio si piazza meglio nelle aree extraurbane e soprattutto nel Sud.

“Contano anche le abitudini di consumo differenti – afferma Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro studi Tagliacarne – al Sud si predilige il negozio sotto casa e il rapporto con il negoziante, a cui viene chiesto di conservare il prodotto prescelto o di portarlo a casa. Un tipo di rapporto che, in un Paese che invecchia, sarà (forse) sempre più importante coltivare in futuro, ovunque”. Se la distribuzione alimentare svela una predominanza delle città del Sud, analizzando la situazione dal punto di vista dei servizi di pubblica utilità (scuole, ospedali e servizi di mobilità), il primato torna al Nord. Quindi il modello della “Città a 15 minuti” coniato dallo scienziato franco-colombiano Carlos Moreno, obiettivo di molti sindaci italiani di grandi città, per il commercio, non sarebbe particolarmente complesso da raggiungere. In buona sostanza, quasi ci siamo già.

Al di là dei giudizi sulla vivibilità delle realtà che vantano il primato un dato è certo: in alcune aree c’è una eccessiva sovrapposizione, in altre il piccolo commercio presenta i suoi limiti generazionali e le sue difficoltà di prospettiva ma regge, in altre ancora, i limiti strutturali dei formati maggiori e i luoghi dedicati allo shopping e all’intrattenimento  rischiano l’obsolescenza se non ripensati rapidamente. È così mentre Coldiretti, Confagricoltura e Confindustria (Union food)  si accapigliano su chi può vantare la rappresentanza della dieta mediterranea nel mondo, Confcommercio, l’altra grande delle big four  dell’associazionismo datoriale ci racconta che i consumi alimentari nazionali sono a dieta. E non da oggi. La tendenza al contenimento degli acquisti di prodotti legati all’alimentazione domestica copre un intero trentennio oggetto dello studio  e, semmai, si accentua, nel 2024. Leggi tutto “Grande Distribuzione. Aumentano i punti vendita, diminuiscono i consumi alimentari”

Il contributo della grande distribuzione a sostegno delle fasce più deboli

C’è una parte del mondo industriale che non si è limitata a banalizzare  il cigolante ”carrello anti inflazione” contestandone l’utilità ma, di fronte al perdurare dell’inflazione, ha deciso di aggirare l’ostacolo a proprio vantaggio.  Era chiaro che l’intervento del Governo e delle Associazioni che ne hanno condiviso la finalità non poteva essere risolutivo per un problema che ha origini ben più complesse ma l’obiettivo politico era comunque importante: segnalare all’opinione pubblica una preoccupazione comune, un impegno e una volontà condivisa.  Tra l’altro iniziative analoghe sono state messe in atto in altri Paesi europei.

Aggiungo che, per la GDO, era l’occasione di smarcarsi dalle accuse di essere, essa stessa, causa del problema e non possibile parte della soluzione. In realtà, chi non ha sottoscritto il patto, sapeva benissimo che, consumatori a parte, l’inflazione avrebbe potuto portare  vantaggi immediati ai conti delle imprese. E così sono state messe in atto altre due strategie che miravano a contenere la reazione dei consumatori traendone  il massimo vantaggio possibile in una condizione oggettivamente complessa. La descrivono bene due brutti termini inglesi: shrinkflation e greedflation.

La prima, banalmente punta a ridurre la quantità o qualità di un prodotto nella confezione senza che il suo prezzo però venga ritoccato. Il vantaggio supposto, da chi lo mette in pratica,  è che i clienti faticano a percepirne l’effetto. La seconda, detta greedflation, si basa sul banale aumento dei prezzi non necessariamente giustificati dall’inflazione. I consumatori tendono comunque a subirlo perché il clima determinato dagli aumenti dei prezzi in generale lo rende credibile. Semmai ripiegando su sostitutivi (vedi discount e MDD).

La morale di questa vicenda, lo sottolineo per chi è convinto che, passata la nottata, per la spesa quotidiana tutto tenderà a ritornare come prima, è che, non sarà affatto così.  L’uscita dalla pandemia, l’inflazione, le preoccupazioni per il contesto stanno agendo da acceleratore, modificando le abitudini di spesa e i consumi degli italiani. Aggiungo che l’inflazione, i suoi effetti sulla spesa delle famiglie e sulle scelte   dei consumatori, proprio grazie ai i comportamenti dei soggetti in campo, si sono inevitabilmente trasformati in uno grande spot a favore di discount e marca del distributore.  Un sostanziale autogol per l’industria di marca.

Banalizzato  il carrello tricolore, aumentati i prezzi e sgrammati i prodotti siamo arrivati ad oggi. Due dati su cui riflettere. Il primo è che sul tema della shrinkflation, nella GDO si è mossa con forza Carrefour  France e pochi altri. La maggioranza delle insegne ha preferito abbozzare per non sollecitare reazioni  da parte dell’industria di marca spingendola ad aumentare i prezzi e provocando così un danno ulteriore. Il secondo dato è che, attraverso  la greedflation, molte imprese hanno aggiustato i bilanci 2023.

Pochi lo hanno sottolineato, a parte la GDO, che pur protestando con i fornitori ha tentato di resistere in parte assorbendone i costi. ”Se non puoi convincerli (i consumatori), almeno confondili”, parafrasando la legge di Truman, sembra essere stata la tattica adottata da una parte dell’industria di marca e su chi l’ha seguita. Purtroppo a danno delle famiglie  e, di fatto, pure dei volumi di vendita delle insegne della GDO. Il Consiglio dei ministri, in ritardo  e con i “buoi ormai usciti dalla stalla”, ha  approvato il disegno di legge annuale per il Mercato e la Concorrenza introducendo una misura di contrasto al fenomeno della cosiddetta “shrinkflation” prevedendo  un obbligo di informazione a favore del consumatore attraverso l’apposizione di una specifica etichetta nel prodotto esposto. Leggi tutto “Il contributo della grande distribuzione a sostegno delle fasce più deboli”

Dao Conad. A Trento raddoppia e apre il secondo ‘autonomous store’

Mi ero perso l’inaugurazione di Verona a due passi dal balcone di Giulietta nel mese di novembre. Non potevo perdermi una visita  del secondo ‘autonomous store’ a Trento aperto a maggio dalla cooperativa Dao Conad. La prima impressione è che l’evoluzione tecnologica, rispetto ai primi Amazon Go, è notevole. Non siamo ancora al “telepass” autostradale ma poco ci manca. Per questo il confronto tra favorevoli e scettici alle casse senza cassiere, dovrebbe spostarsi sul “quando” il nuovo sistema sostituirà inevitabilmente il tradizionale modello piuttosto che perdere tempo sui limiti organizzativi e tecnologici ancora presenti.

Un negozio  di vicinato di poco più di 200 metri quadri in piazza  Santa Maria Maggiore dove ha sede la chiesa più importante di Trento, insieme al Duomo, costruita nel Cinquecento in occasione del Concilio Tridentino. Bellissimo il campanile (il più alto della città con i suoi 53 metri). Una piazza molto bella sottratta al degrado da poco anche attraverso l’apertura di nuove attività economiche a cominciare proprio dal  “Tuday Conad”. Nel negozio si può pagare con l’apposita app, oppure con carta o bancomat. Il personale c’è. La tecnologia, come è evidente,  non svuota il negozio dagli addetti. Il lavoro di queste persone è prestare attenzione ai clienti, non  passare ore a scansionare prodotti seduti alla cassa.

Nel punto vendita, c’è di tutto. E la convenienza non cambia rispetto ad altri store. Interessante la bilancia per l’ortofrutta. Ogni prodotto posizionato  viene riconosciuto e visualizzato sullo schermo della bilancia SM-6000 AI – DIGI Italia (Gruppo TERAOKA) che consente la conferma della scelta con un semplice tocco, senza la necessità di numeri o codici. Un avanzamento tecnologico esportabile anche nei supermercati tradizionali. Un passo in avanti verso la semplificazione della spesa quotidiana.

Centrali i protagonisti: retailer e partner tecnologico.

Innanzitutto la cooperativa Dao (Dettaglianti Alimentari Organizzati) che gestisce in Trentino e nelle province vicine 280 punti vendita a marchio Conad. DAO nasce come gruppo nel 1962 dalla volontà di 20 alimentaristi della città di Trento. Oggi i soci sono più di 120. Dal 2004 opera come centro distributivo Conad per le province di Trento, Bolzano, Verona, Vicenza e Belluno e sono presenti nelle province di Brescia e Bergamo con l’insegna Maxì. Il fatturato di tutto il gruppo, comprensivo delle società partecipate, ammonta a 422 milioni di Euro, con un incremento del 13% rispetto al 2022. Il numero totale dei collaboratori sfiora le 2000  persone.  In Trentino nelle zone montane che spesso contano meno di 1000 abitanti, i negozi ad insegna Conad insieme a quelli di Sait (Coop) rappresentano una fonte sicura e affidabile di approvvigionamento.

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Imprenditori immigrati e commercio tradizionale…

Oggi nessuno fa più caso se la pizza è sfornata da un pizzaiolo egiziano o napoletano. Ci abbiamo messo qualche decennio a capire che una pizza fatta bene e il pizzaiolo che la prepara sono due cose diverse. Secondo un’elaborazione  della  Camera di commercio di Milano su dati del registro imprese a Milano ci sarebbero 119 pizzaioli egiziani contro 31 campani e 10 napoletani doc A Roma il 18,1% delle pizzerie e’ gestita da egiziani e il 10% nella provincia di Monza e Brianza. La tradizione resiste ancora a Napoli dove solo due egiziani risulterebbero titolari di un ristorante e nessuno registrato come pizzeria.

Se guardiamo i dati al 31 dicembre 2023 in Italia ci sono 775.559 imprenditori nati all’estero (10,4% del totale) e 586.584 imprese a conduzione prevalentemente straniera (11,5%). Negli ultimi dieci anni (2013-2023), appare evidente la diversa tendenza tra imprenditori nati in Italia (-6,4%) e nati all’estero (+27,3%). Anche nell’ultimo anno il numero di immigrati è aumentato (+1,9%), mentre quello dei nati in Italia ha subito un lieve calo (-0,6%). (Elaborazioni Fondazione Leone Moressa). 2,4 milioni di lavoratori immigrati, producono 154 miliardi di PIL (9%). Sono previsti almeno altri 574 mila ingressi per lavoro tra il 2023 e il 2026. E  il fabbisogno di manodopera rimane alto a causa di crisi demografica e gap di competenze.

La popolazione straniera residente in Italia si conferma stabile a quota 5 milioni ad inizio 2023, pari all’8,6% del totale. L’età media degli stranieri è 35,3 anni, contro i 46,9 degli italiani. In Europa, i Paesi con più immigrati per lavoro sono Polonia, Spagna e Germania. In Italia, il rapporto tra ingressi per lavoro e popolazione residente (11,3 ogni 10 mila abitanti) rimane per ora inferiore rispetto alla media Ue (27,4). Il primo canale d’ingresso in Italia, infatti, rimane il ricongiungimento familiare (38,9% del totale). L’incidenza sul PIL aumenta sensibilmente in Agricoltura (15,7%), ed Edilizia (14,5%). In dodici anni (2010-22), gli immigrati sono cresciuti (+39,7%) mentre gli italiani sono diminuiti (-10,2%). Incidenza più alta al Centro-Nord e nei settori di Costruzioni, Commercio e Ristorazione.

Nel commercio alimentare, da noi, per ora sono essenzialmente piccoli negozi a conduzione familiare situati in centri commerciali periferici o in quartieri periferici frequentati prevalentemente da immigrati asiatici, o nord africani. Nonostante la loro recente crescita, questi negozi rappresentano ancora una percentuale estremamente modesta sul totale dell’intero comparto alimentare. Oggi temo che chi osserva i fenomeni si limita a guardare il presente proiettandolo nel futuro.  A mio parere il destino del commercio, piccolo o grande che sia,  è ben diverso. Oggi non parlo di omnichannel, multinazionali o tecnologia. Né di affermazione o crisi di formati distributivi, di sconti o di promozioni. Penso però che tra i diversi fenomeni da analizzare, dovremo fare i conti anche con altre situazioni  a cui non siamo ancora preparati. Negozi per ora, che sembrano lontani anni luce, dalle nostre abitudini. Leggi tutto “Imprenditori immigrati e commercio tradizionale…”

Unire le forze per crescere. Il caso Decò Italia.

Inutile voltarsi indietro. Solo tra il 2012 e il 2023, in Italia, sono spariti oltre 111mila negozi al dettaglio (-20,2%, un’impresa attiva su cinque) e 24mila attività di commercio ambulante. La stessa GDO che aveva rappresentato lo spauracchio del piccolo commercio a partire dagli anni 70 del secolo scorso sta interpretando in termini dimensionali un modello di business  che, complessivamente,  inizia a intravedere il suo capolinea. Pochi si interrogano sul suo futuro. Sia l’incedere lento ma progressivo dell’online con la crescita dei discount che la proliferazione “selvaggia” dei punti vendita nei territori  segnalano che, la fase dove c’era spazio di crescita per tutti, indipendentemente dalla taglia e dalle risorse economiche e umane a disposizione,  si avvia al suo declino.

Sono due, a mio parere,  le domande cruciali che un piccolo imprenditore si trova oggi a dover rispondere. Innanzitutto se l’impresa che ha messo in piedi o ereditato dai suoi genitori e che è stata costruita in un certo modo debba andare avanti sempre così. Se il mantenerla e continuare a gestire avendo la stessa strategia, la stessa idea di fondo e la stesse intuizioni di chi lo ha preceduto anziché un vantaggio competitivo non rischi di trasformarsi piano piano  in un’ossessione etnocentrica. Le imprese sopravvissute o affermate, anche senza necessariamente crescere in doppia cifra, sono quelle dove le generazioni che le hanno ricevute in qualche modo le hanno reinterpretate attualizzandole. In altre parole se da “eredi”  si sono fatti, essi stessi,  “imprenditori”. L’impresa non basta replicarla uguale a sé stessa quando cambia il contesto intorno. Va necessariamente trasformata. La seconda  domanda è se, di fronte agli inevitabili passaggi generazionali  è più importante che sopravviva l’impresa oppure che ci continui a lavorare dentro la famiglia indipendentemente dalla capacità e dalle competenze che esprime. A queste due domande un imprenditore preoccupato del futuro della sua impresa non può sfuggire.

Il 99% del tessuto imprenditoriale italiano è rappresentato da PMI: un esercito di imprese che svolgono un’attività fondamentale per l’economia del nostro Paese. Il punto è come non perdere i vantaggi della dimensione senza subirne i limiti. Penso alla conoscenza del mercato di riferimento, alla flessibilità, al rapporto più stretto e personale con i clienti e con i collaboratori, che si traduce a sua volta in una maggiore fidelizzazione che facilita la personalizzazione dei servizi per soddisfare ogni esigenza e determina nei dipendenti un maggior coinvolgimento nella vita e  negli obiettivi dell’azienda. Creando però, alleanze e sinergie con altre realtà simili, si possono creare condizioni positive sia sui costi che sulla competitività ma soprattutto sulle prospettive future. Avere un partner permette di accedere a nuove risorse inclusi nuovi clienti, tecnologie e capitali. Creare una partnership con altre aziende consente di acquisire nuove conoscenze, condividere i rischi, mitigare le esposizione alle recessioni e ai cambiamenti imprevisti del mercato. La condivisione dei rischi economici e degli investimenti è un volano determinante per la crescita per le piccole insegne. Ciò consente anche  l’ingresso su nuovi mercati e il contatto con nuovi clienti.

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