L’inutile sforzo della disintermediazione…

Delle teorie modernizzatrici del nostro Premier quella sulla inevitabile necessità di delegittimare le grandi organizzazioni di rappresentanza è la meno comprensibile. I grandi sindacati datoriali e dei lavoratori mantengono un radicamento, una credibilità e una presenza capillare sul territorio che i Partiti non hanno più da anni. Sono, al di là dei luoghi comuni, di sicura utilità per i propri associati sia in termini di difesa, di risposta a problemi specifici che di proposta. Certo, è indubbio che la crisi ne abbia rallentato l’iniziativa, offuscato l’immagine e rallentato l’azione. La crisi, dunque, non le convinzioni del Presidente del Consiglio. Gli opinionisti, in questa querelle, si sono divisi tra chi ha ha seguito l’onda, soddisfatto, perché ha sempre tifato per la loro messa in mora e chi, al contrario, deluso dalla lentezza dei cambiamenti, ha preferito suonare “le campane a morto” sulla vitalità e sulle prospettive dei corpi intermedi. Mi spiace che Di Vico sul Corriere abbia scelto questa strada. Personalmente non la condivido. Parto dal fondo. Fosse anche e solo perché questa azione di delegittimazione favorisce le spinte populiste e demagogiche che rischiano di frantumare il Paese, le generazioni e le categorie produttive, dovrebbe essere motivo sufficiente di un rapido ripensamento. Il Paese ha bisogno di unità e di condivisione per affrontare le sfide che ha di fronte e per “cambiare verso” sul serio. Le organizzazioni di rappresentanza hanno tanti problemi ma hanno anche la consapevolezza che occorre cambiare in profondità. Ciascuna di loro nelle rispettive autonomie sta procedendo in questa direzione. Si può criticarne la lentezza, le incrostazioni burocratiche, forse anche la presunta autosufficienza e perfino, in alcuni casi, l’autocompiacimento, non la volontà di procedere in quella direzione. Sono importanti comunità in cammino leali verso le istituzioni, consapevoli della posta in gioco e disponibili a dare il loro contributo. Questa è una stagione diversa da quella della concertazione. È una lunga stagione di transizione. Nei prossimi anni si giocherà una partita nella quale le elites culturali, economiche e sociali rischiano di illudersi se pensano di giocarla senza un vero radicamento popolare. Il rischio, oggi, di gettare il bambino con l’acqua sporca è reale. È necessario predisporsi ad una nuova fase di convergenza e di collaborazione e, le organizzazioni di rappresentanza, possono e debbono giocare un ruolo importante. Occorre forse ripensare ad un luogo di incontro innanzitutto per tutte le organizzazioni datoriali ma anche per le organizzazioni sindacali. Un luogo nuovo di elaborazione e proposta comune. E da questo luogo lanciare una sfida positiva sul futuro al Governo e al Presidente del Consiglio. L’alternativa è insistere con un Paese spaccato, rancoroso, chiuso nei piccoli e grandi egoismi di categoria, di territorio e di generazione. Questo sforzo di unità va fatto e va fatto velocemente. Prima che l’Europa venga vissuta dai più come una matrigna con tutte le conseguenze del caso e che le guerre, sempre più vicine, ci impongano pesanti costi a cui non siamo preparati.

Lo sciopero e la sua attualità.

Trovo interessante lo spunto di di Vico sul Corriere di oggi sul ritorno di attualità dello sciopero. Medici, trasporti, GDO, tre indizi fanno una prova. È un ritorno al passato o un segnale debole di disagio sociale che viene colto da alcuni e sottovalutato da altri? Forse occorre partire da un altro punto di osservazione. La crisi, la disoccupazione, la paura di perdere il posto di lavoro costituiscono, da sempre, un deterrente fondamentale sul piano individuale, ad aderire o meno a forme di protesta costose sul piano economico. Più l’obiettivo è distante, omnicomprensivo e ‘politico” meno coinvolge. La credibilità di chi propone l’iniziativa poi fa la differenza. Ma nessuno di questi o altri elementi risolve il disagio che cova sotto la cenere. Un disagio economico, professionale, familiare e relazionale. Di Vico, giustamente, parla di welfare aziendale, sharing economy, staffetta generazionale e tutto quell’insieme di politiche riformiste che non accendono il cuore delle persone come antidoto possibile ma rischia di sottovalutare l’incoerenza continua dei messaggi che passano e contribuiscono ad alimentare il disagio dei singoli. Come può una commessa di supermercato accettare l’idea che 85 euro lordi e scaglionati in tre anni siano fuori dalla portata delle aziende della GDO? Un medico, un insegnante o un poliziotto per bene sentirsi paragonati, ad esempio, agli impiegati di una particolare regione sotto inchiesta o di un comune dove un vigile in mutande timbra il cartellino e non sentirsi indignati? Ciò che crea l’humus sul quale si innesta la reazione (per ora a macchia di leopardo) è l’ingiustizia diffusa che si percepisce e alla quale non c’è spiegazione che tenga. Sembra che tutto ciò che di negativo c’è nella nostra società sia ritenuto normale e scontato mente tutto ciò che riguarda il rapporto tra le persone, la loro dignità, il loro reddito, la loro futura pensione, i loro risparmi e il loro lavoro siano, appunto, problemi loro. È su questo che si crea il distacco. Ed è su questo che si crea la “necessità” di reagire. La risposta non sono le palestre, il welfare o un riformismo astratto che non incide nella vita quotidiana, non ne permea i valori di riferimento individuali che si sono via via persi spingendo le persone ad occuparsi dei fatti propri e della propria sopravvivenza fregandosene di tutto ciò che è comunità, socialità e condivisione. Si è incattivito il contesto sociale e tutti rischiano di continuare cercare scorciatoie che, purtroppo, non esistono. Questo disagio crescerà. Lo vediamo nei rapporti interpersonali, nell’accettare o meno il rapporto con lo Stato, nella clamorosa distanza tra ciò che i media ci offrono in termini di segnali di cambiamento o di interesse e la specifica realtà individuale fatta di problemi semplici ma spesso privi di soluzioni altrettanto semplici. Addirittura sembra che ai problemi reali le uniche risposte siano lo sfogatoio inconcludente dei salotti televisivi o una bella statistica che spiega in modo dotto e supponente che il problema è sempre un altro e che il “mio” problema me lo devo tenere… E allora lo sciopero non è più un antico rito collettivo di condivisione e solidarietà tra uguali ma è, al contrario, un segnale di insofferenza, di reazione individuale incattivita dal rendersi conto che i propri problemi economici, professionali umani non sono ritenuti importanti da nessuno di coloro che dovrebbero occuparsene. Io credo che il nocciolo della questione stia qui. Se le persone non trovano risposte al loro disagio, si incattiviscono, si irrigidiscono nelle loro convinzioni e cercano di reagire in qualche modo. Compito dei riformisti dovrebbe essere quello di comprendere questo disagio e riportarlo entro limiti accettabili cercando risposte concrete e non limitandosi ad alimentare domande. Altrimenti, dobbiamo saperlo che chi si mette alla testa di questo malcontento sta lavorando, più o meno inconsapevolmente, per il re di Prussia….

Eppur si muove….

A leggere i giornali sembra immobile. Per alcuni, ormai inutile. Per altri addirittura dannoso. Il Sindacato confederale italiano è messo continuamente in discussione. Sembra affetto da una crisi irreversibile incapace di affrontare un contesto politico, sociale ed economico in continua evoluzione. Non è così. I contratti nazionali che si sono chiusi o che si stanno chiudendo coinvolgono importanti settori produttivi. Non tutti, ovviamente, ma sicuramente quelli che hanno, da sempre, saputo proporre o accettare “scambi” importanti sul piano negoziale. Sono categorie che difficilmente hanno dovuto impegnarsi in prove “muscolari” nei rinnovi contrattuali degli ultimi trent’anni. Se togliamo i chimici che si sono guadagnati da sempre e sul campo il diritto a contrastare sul piano della strategia contrattuale i metalmeccanici, gli alimentaristi e il sindacato del commercio sono sempre stati ritenuti incapaci di produrre riferimenti validi in termini di innovazione ma solo fino a quando i rapporti di forza si sono modificati provocando la crisi dell’egemonia dei metalmeccanici e della loro cultura sul resto del sindacato. Questo ha consentito nel tempo, ad esempio nel terziario, di costruire un solido sistema bilaterale e un welfare di qualità negoziando anche nastri orari, part time, misure di contrasto all’assenteismo e lavoro domenicale particolarmente indigesti per una cultura sindacale tradizionale e accompagnato, nello stesso tempo, lo sviluppo delle imprese. Negli alimentaristi e nei chimici si è impostato, negli anni, un modello di contrattazione aziendale di qualità che ha permesso di affrontare con intelligenza e visione del futuro le ristrutturazioni e le concentrazioni aziendali che si sono via via succedute. Oggi, pur a rapporti di forza profondamente cambiati, quella lungimiranza maturata in tempi passati consente a queste categorie la firma di importanti contratti nazionali e la continuazione di un dialogo utile alle imprese e quindi anche ai lavoratori con l’appoggio forte delle confederazioni. La proposta di “sindacato dell’industria” maturata in casa Cisl consentirebbe, anche ai metalmeccanici, di ritornare a giocare un ruolo forte e condiviso pur nelle diverse sensibilità categoriali che saranno chiamate a costituire questo nuovo soggetto. Resta fuori la FIOM ma la recente scelta di giocare sul confine tra aggregatore sociale e nuovo soggetto politico la porterà a subire le contraddizioni di un’area che, da sempre, vive tra leadership di scopo, agitatori politici d’antan e neo “sandinisti” in concorrenza perenne con i grillini che mantengono comunque una capacità di movimento maggiore e meno vincolata da storie personali e dalle ideologie. La Cgil, nel suo complesso ha tutto l’interesse a giocare di sponda con le altre due organizzazioni confederali e, di conseguenza, l’importante carta dell’unità sindacale, sia per ragioni difensive e di merito ma anche per il suo indubbio potenziale aggregativo. Va inoltre dato merito alla gestione di Susanna Camusso di aver avviato e portato avanti un processo di rinnovamento e ringiovanimento profondo nelle strutture di categoria e confederali che non tarderà a dare frutti anche sul piano politico. Contesto che invece è ancora “a macchia di leopardo” nelle altre due organizzazioni confederali. Comunque i processi di cambiamento sono in atto pur non essendo visibili nettamente agli osservatori distratti o in cerca di scoop troppo semplicistici. Sono processi decisamente lenti (forse troppo) che però segnalano una vitalità che caratterizza tutte le organizzazioni di rappresentanza radicate nei territori, che mantengono solidi valori di riferimento e che, nonostante qualche “mariuolo” e qualche burocrate di troppo, restano ancora un solido punto di riferimento per tutti coloro che non sono in grado di difendersi da soli. L’accordo sulla rappresentanza e la inevitabile intesa sulla contrattazione che presto arriverà vanno ovviamente in questa direzione. E questo al di là del giudizio che si può avere sull’efficacia concreta di queste intese. Quello che manca è forse la volontà di dichiarare esplicitamente e inequivocabilmente il cambio di passo e quindi la nuova direzione di marcia. Pesano sicuramente i guasti prodotti dalla deriva identitaria che ha caratterizzato ben oltre il necessario la storia recente dei rapporti tra le diverse organizzazioni al centro come in periferia, la stagione degli accordi separati e il disorientamento prodotto dai rimescolamenti dell’intero schieramento della sinistra politica e sociale. Ma questo non può più rappresentare un alibi. Sulle spalle dei dirigenti di oggi pesa la necessità di alzare lo sguardo e operare decisamente in una nuova direzione aprendo, se necessario, una vera fase costituente.

Lettera di assunzione o lettera di “ingaggio”?

Dopo tanti anni ho deciso di mettere mano al mio archivio personale. In fondo al cassetto della scrivania ho ritrovato una vecchia cartellina scolorita contenente la lettera di assunzione e i fogli paga del mio primo anno di lavoro. Non so bene perché sono finiti lì. Qualche appunto, uno scontrino di “Feltrinelli” e una vecchia agenda tascabile dell’epoca completavano i “reperti” ritrovati. Beh! Un po’ di nostalgia è immediatamente venuta in superficie non tanto perché sono passati molti anni ma perché ho cercato di ricordare quei giorni. Il colloquio , il primo giorno di lavoro, i colleghi e, appunto, la prima busta paga. Il “profumo” dei primi contanti nuovi di banca posseduti dopo un mese di lavoro. Nuovi, sudati e pronti da spendere. Ricordo la sensazione perché non avevo mai avuto, fino ad allora, tanti soldi in mano. In quell’azienda allora non si usavano ancora gli assegni o l’immediato versamento in un conto corrente. Era una busta robusta. Confesso che li ho contati; uno per uno sulla scrivania tra l’ilarità dei colleghi. Lo facevano anche loro, ovviamente, però senza farsi vedere. Non ho mai capito perché lo stipendio contrattuale e quindi il contenuto della busta paga non si deve mostrare. Non si fa e basta. Ricordo lucidamente come li ho spesi: ho comprato una borsa alla mia fidanzata, alcuni libri alla Feltrinelli e poco altro. All’atto pratico non erano granché. Ricordo solo che, quella sera, mia madre mi fece una lunga predica sul denaro, sulla sua fatica a guadagnarne a sufficienza per mantenerci decorosamente e sullo spreco. Capii immediatamente cosa avrei dovuto fare dal mese successivo. La lettera di assunzione era scritta in un linguaggio incomprensibile per un giovane. Rileggendola oggi, dopo tanti anni da Direttore Risorse Umane e quindi come estensore di lettere più o meno analoghe, la trovo ancora un pezzo di letteratura assolutamente incomprensibile. Devo ammettere che non si è fatta moltissima strada da allora. I diritti (solo minimo tabellare, mansione e livello di inquadramento) sovrastati dai doveri e dai riferimenti disciplinari. Molto più chiaro cosa non avrei dovuto fare rispetto a ciò che si aspettavano da me. La cosa che colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento a “come” avrei dovuto lavorare. C’era solo il “quanto”, il “quando” e il “cosa”. Il piccolo particolare è che il superamento del periodo di prova, il giudizio su di me da parte del mio responsabile, in altri termini, il mio futuro prossimo sarebbero dipesi da un elemento che nella lettera di assunzione non era minimamente menzionato. Il “come” era, quindi, solo un mio problema. Perché il “come” loro era altro: avrei dovuto ubbidire al capo, rispettare i miei colleghi, rispondere alle richieste e “timbrare il cartellino” in orario. E tutto sarebbe filato liscio. In altre parole ciò che era ed è molto importante fuori dall’azienda, soprattutto a quell’età, e cioè chi sei veramente e cosa potresti dare in più rispetto ad un altro, lì, non sarebbe interessato a nessuno. I miei interessi, la mia passione, la qualità del mio impegno sarebbero stati solo un problema mio. L’importante era fare ciò che “loro” si aspettavano da me. Fare le cose in modo giusto. Non necessariamente la cosa giusta. È stata la prima lezione di vita professionale. Fortunatamente le opportunità hanno disegnato altre traiettorie che mi hanno consentito di non perdere nulla delle mie capacità, della curiosità e della disponibilità a mettere in circolo passione e qualità dell’impegno. Sempre, però, a modo mio. Non è stato così per tutti. E pensare di pretendere oggi che ad intere generazioni professionali si possa esigere un comportamento opposto a quello preteso fino a pochi anni fa, pena dichiararne l’obsolescenza, è veramente una dimostrazione di superficialità umana e sociale. Ciascuno di noi, a suo modo, costruisce con l’impresa nella quale lavora in modo implicito un “contratto psicologico” che va oltre ciò che l’impianto giuslavoristico assicura. Ogni giorno diamo anche ciò che potremmo non dare. Ci restiamo male se non viene apprezzato e valorizzato dal capo o dai colleghi ma continuiamo a farlo perché fa parte del nostro DNA. Una commessa che al supermercato aiuta la persona anziana a trovare un prodotto anziché dirle: ” È là sullo scaffale in fondo!”, un impiegato pubblico che comprende le difficoltà di un lavoratore straniero e lo aiuta a compilare un modulo, un collega anziano che si accorge di un errore o di una mancanza di un collega più giovane e lo avvisa. Alcuni la chiamano la capacità di “unire i puntini”. Cioè saper mettere a disposizione dell’organizzazione il proprio contributo personale. Non è l’impegno, la presenza né la velocità a fare ciò che viene richiesto. È un altro tipo di sensibilità e di capacità che oggi fa la differenza. Sono mille i comportamenti che dimostrano che le aziende sono migliori e più performanti laddove le persone si sentono parte di un progetto, coinvolte, ingaggiate e non anonimi e insignificanti. Chi si occupa di sviluppo delle risorse umane oggi ha un compito importante. Finita la stagione dove “l’ossessione sui costi” esauriva tutto l’impegno delle direzioni del personale occorre veramente ritornare ad impegnarsi a costruire ambienti accoglienti, lavorare sul clima interno, dare opportunità di crescita e di sviluppo personale. Comprendere anche le esigenze personali. Oggi le aziende hanno sempre più bisogno di collaboratori maturi, capaci, ingaggiati e proattivi. Caratteristiche queste che non si comprano sul mercato ma che si possono costruire. Il contratto psicologico è l’elemento basico su cui innestare un rapporto di qualità e di reciprocità perché esprime la volontà di partnership vera di entrambi. Qualcuno, prima o poi, troverà anche le parole giuste e riuscirà a proporlo per iscritto mandando definitivamente in soffitta quelle lettere prestampate uguali per tutti ricchi di riferimenti normativi e contrattuali ma povere di maturità, coinvolgimento e passione.

Lontano è vicino…

Essere genitori oggi è un po’ più difficile del solito. È domenica e siamo seduti a tavola. I telegiornali trasmettono in continuazione notizie e immagini da Bruxelles. Ci sembra tutto esagerato. Non sappiamo nulla. Solo che nostra figlia è là. Ad ogni squillo di cellulare o ad ogni sms qualcuno scatta in piedi. Subito dopo. Con una scusa qualsiasi parte una telefonata per rassicurarci e rassicurare. Vedere in una camera ardente una ragazza che ha l’età di tua figlia fa riflettere. Sentire i discorsi che accompagnano questa tragedia mette ansia. Mi colpisce anche il giornalista che cammina per le strade deserte della città che ha più o meno la stessa età. Oggi sembra che lavorino solo loro. I precari, i giovani sherpa, i militari. Forse anche i giovani terroristi. Ascolto distrattamente e con fastidio gli interventi di statisti e politici che mostrano i muscoli tra di loro o che minacciano probabili sfracelli. Mia figlia mi rassicura. Resterà chiusa in casa. E domani? Domani Bruxelles smette i panni sonnolenti e rallentati del week end e riprecipiterà nella sua quotidianità di capitale europea. Zeppa di tutto. Razze, popoli colori. Chi può fermarla? Oggi parlano di cinture esplosive che girano indisturbate, gas pronti ad essere usati, antidoti che vengono immagazzinati per rischi prossimi venturi. Ieri sera, ad una certa ora, il comitato di crisi di Bruxelles su Twitter si è fermato per fine turno. Basta notizie. Ci sentiamo domani mattina, era il messaggio. Anche la burocrazia quando non è opprimente rischia a volte il ridicolo. Ragazzoni armati che girano mascherati con tanto di armi cariche e pronte all’uso e Twitter che rimanda al giorno dopo ogni informazione con la rete. È anche questo il segnale di come non sappiamo affrontare  la situazione. Troppi esperti, professori del cinismo e della strategia antiterroristica che ci spiegano, sempre dopo, cosa non è stato fatto prima. Teorici della chiacchiera che riempiono gli studi televisivi. Gaber nel suo bellissimo pezzo “c’è un’aria” descrive questa incapacità di rappresentare il dolore e la speranza. Ma noi siamo qui. Tra un inno nazionale e la retorica del “non vinceranno mai”. Riflettere, bisogna riflettere. È questo il mondo che vogliamo? E stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per costruire un mondo diverso? Io credo di no. I nostri ragazzi che decidono di vivere altrove per realizzare i loro desideri meriterebbero di più. Meriterebbero un Paese che pensi a loro non solo quando, purtroppo, cadono vittime di una tragedia. Mia figlia non vuole tornare. Vuole poter restare là per imparare, crescere come donna e come cittadina di una nuova Europa. Non odia nessuno e i suoi amici vivono in ogni parte del mondo. Chiede solo a noi adulti di abbandonare la retorica del giorno dopo e di credere di più in un futuro possibile. Se così fosse forse oggi sarebbe una delle tante domeniche serene riempite da un collegamento Skype e dall’orgoglio di genitori convinti della scelta della propria figlia. Senza ansie, timori e paure che un ragazzo della sua età o poco più possa incontrarla e, senza nemmeno conoscerla, distruggerne i sogni.

Il futuro dei corpi intermedi e il futuro del Paese: una scommessa importante

Oggi è indubbio che comanda la legge del pendolo. Il sindacato italiano è sostanzialmente ai margini nelle imprese, estromesso dai principali tavoli di confronto politico e in difficoltà sui rinnovi contrattuali. A Verona, città con il più basso tasso di disoccupazione, gli industriali nella loro recente assemblea non hanno accennato minimamente alla prossima stagione contrattuale quasi non esistesse il problema. Le proposte e le iniziative del sindacato non fanno audience sui media. Non va meglio a chi si occupa di relazioni industriali in azienda. Sempre più ai margini nella gerarchia. Né alle associazioni datoriali, seppur impegnate a fondo e infine non si può non registrare un scarso interesse mediatico sui temi del lavoro. Dagli 80 euro e fino al Jobs act, passando attraverso il “conta assunzioni” mensile, l’iniziativa è passata nelle mani del Governo che addirittura “minaccia” di intervenire con una legge sulla rappresentanza se, entro la fine dell’anno le parti sociali non troveranno un accordo. Per non parlare della previdenza dove il Presidente dell’Inps, uscendo del suo ruolo, si è sostituito al Governo (ma anche alle parti sociali) presentando proposte di riforma più o meno azzardate. Infine la discussione sui livelli della contrattazione dove ciascuno, ormai, può dire la sua. Forse abbiamo toccato il livello più basso. È del tutto evidente che un modello di relazioni sindacali costruito quasi esclusivamente sui rapporti di forza (reali o mediatici) è dotato di un sismografo che registra immediatamente quando questi si modificano. Innanzitutto si sono modificati nell’impresa e da qui il venire sempre meno della contrattazione aziendale (sia in termini qualitativi che quantitativi) con le successive disdette della contrattazione interna; nella sempre più marcata distanza tra le piattaforme sindacali presentate e il contenuto degli accordi sottoscritti, negli allungamenti dei tempi della contrattazione nazionale e negli equilibri finali che sempre più comprendono la rimessa in discussione dei cosiddetti “diritti acquisiti”. Addirittura c’è anche chi arriva a teorizzare il superamento della contrattazione collettiva. Certo, tutto questo ha ragioni di contesto interno e internazionale precise e non attiene, come sostiene malignamente Ricolfi solo alla qualità dei sindacalisti o degli addetti ai lavori. È ingeneroso e sbagliato. Lama, Di Vittorio, Mortillaro o chiunque altro si troverebbero nelle identiche situazioni dei migliori negoziatori odierni. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” è uno slogan felice però di difficilissima attuazione per chiunque. La legge del pendolo, poi non lascia spazio a nessun ragionamento. Il punto semmai è un altro. È di questo che ha bisogno il Paese? Se la risposta è sì, il discorso è chiuso. Andiamo avanti così. Se, al contrario, ci si dovesse rendere conto che non può essere un “pendolo” a stabilire chi detta le regole del gioco in un dato momento storico dobbiamo riprendere a ragionare insieme. Tutti, a parole, siamo per il cambiamento. Purtroppo auspichiamo quasi sempre quello degli altri. Il nostro è però fondamentale. Un vecchio proverbio arabo recita: “se vuoi vedere pulita la via, comincia dallo zerbino di casa tua”. Credo sia un ottimo consiglio. Innanzitutto non credo che i corpi intermedi possano cambiare da soli, ciascuno per conto proprio. Esiste una simmetria evidente che li collega. Nessuno ha esclusivamente in sé la forza di correggere i propri difetti soprattutto perché alcuni di questi sono comuni e si giustificano proprio perché sono simmetrici. C’è un pezzo di strada che occorrerebbe fare insieme. Tra le organizzazioni datoriali in primo luogo ma anche con le organizzazioni sindacali. Quale Paese abbiamo in mente? Quali pesi e contrappesi politici e sociali pensiamo debbano coesistere? Lasciamo che si affermi una società darwiniana dove c’è chi vince e chi sopravvive come può oppure riflettiamo intorno ad un progetto di società dove le opportunità di partenza sono per tutti e dove esiste un welfare moderno che protegge chi ne ha bisogno? E come deve essere questo welfare? Come è sempre stato o con una maggiore integrazione pubblico/privato? E cosa siamo disposti a mettere di nostro sul tavolo per raggiungere quegli obiettivi? Molte di queste o di altre domande segnano il campo, le regole e la partita che si vuole giocare; soli o insieme. Ma solo affrontandole possiamo immaginare il ruolo delle parti sociali dei prossimi anni che potranno scegliere se collaborare per costruire il futuro o confrontarsi aspramente all’infinito come i “polli di Renzo” di manzoniana memoria. La Politica, nel bene o nel male, sta cercando di ridisegnare nuovi confini a ciò che nel 900 era dato per scontato e collocato da una parte o dall’altra. Equilibri e opportunità cambiano nel mondo e riposizionano ricchezza e povertà, vincoli e opportunità. E questa partita c’è chi ha deciso di giocarla solo in difesa forse sperando che chi oggi da le carte venga mandato presto a casa e tutto torni come prima. Io credo sia un errore. Personalmente “sogno” un percorso diverso. Non contando nulla, posso permettermelo. Sogno l’avvio di una fase costituente di riposizionamento dei corpi intermedi. Renzi ha lanciato Human Technopole Italy 2040 pensando al futuro della ricerca, della tecnologia e delle scienze e alle opportunità per il nostro futuro come Paese. Occorrerebbe avere il coraggio di lanciare un progetto analogo nelle scienze sociali pensando ai nostri figli e al Paese nel quale dovranno vivere. E in questo progetto una parte rilevante dovrebbe essere costruita intorno ai sistemi collaborativi all’interno delle filiere nazionali e internazionali. Ed è solo se le migliori intelligenze sociali del Paese decideranno di mettersi in gioco che si può sperare di venire a capo dei nostri problemi, di superare i rischi di frantumazione del Paese e di contrasto generazionale, di dare un senso e una speranza al mondo del lavoro e dell’impresa. Certo può essere ingenuo pensare che tutto ciò possa avvenire in un Paese che si è ormai acconciato per scontrarsi su tutto sperando così, di non cambiare nulla. Però io ho fiducia che il tempo del cambiamento sta arrivando. Non dobbiamo solo farci cogliere impreparati.

etica, dignità e senso del lavoro

In tempi di Jobs act e di lotta alla disoccupazione è difficile affrontare il tema del senso del lavoro, della sua organizzazione e delle modalità della prestazione in modo nuovo, diverso dal passato. È un tema centrale. Se ne sono accorte, nel mondo, le aziende più avanzate che hanno capito quanto occorra cambiare e proporre idee nuove che partano da una diversa filosofia del lavoro, della sua organizzazione, dei luoghi dove si svolge e che sappia mettere al centro la persona. In altre parole un luogo dove provare anche ad essere sereni e, perché no, addirittura felici. È l’altra faccia, altrettanto importante, del welfare aziendale o della responsabilità sociale dell’impresa. È l’impresa che sa anche guardare dentro se stessa. È l’idea, sempre più diffusa, che, per le persone, soprattutto le più giovani, è importante trovare un significato al proprio agire non solo nelle relazioni private e nella comunità nella quale sono inseriti ma anche nell’ambiente professionale. I tedeschi utilizzano un termine molto preciso:”Eigenschaften” (qualità umane). Un termine che non viene proposto per inseguire le mode farlocche che, purtroppo, in alcune imprese hanno caratterizzato le politiche di gestione delle risorse umane ma che punta a mettere concretamente le persone al centro rendendo compatibili ad esse l’eccesso di visione a corto termine, l’utilizzo strumentale di alcuni modi di essere (ad esempio: declamare valori e non praticarli, motivare senza essere motivati, utilizzare stage in modo scorretto, ecc.) e un’attenzione ai costi fine a se stessa così come si è prodotto in questi anni. È sempre interessante notare come lo scambio più importante che si realizza tra collaboratore e azienda nulla ha a che fare con l’impianto giuslavoristico che lo sorregge. Passione, creatività o entusiasmo non sono mai compresi né presi in considerazione. Tre caratteristiche, oggi molto più determinanti di ieri, che fanno la differenza tra due persone, ne caratterizzano l’impegno, il profilo professionale e il rapporto con la propria attività e il contesto aziendale. In altri termini mentre è normato con un dettaglio a volte esasperante l’aspetto quantitativo, disciplinare e normativo del rapporto ciò che dovrebbe caratterizzare la qualità della prestazione è pretesa (o data per scontata) ma non compresa nello scambio. È un po’ come se, la qualità dell’impegno, fosse solo un problema etico del singolo collaboratore. E non che il lavoro è innanzitutto realizzazione personale e riconoscimento sociale quindi ben più di una semplice prestazione dietro corrispettivo economico. E quindi coinvolge anche l’impresa. Questo limite discende sicuramente dalla cultura tayloristica che ha permeato la stragrande maggioranza delle organizzazioni aziendali, il contesto economico, sociale e contrattuale e ha, di conseguenza, contribuito a costruire il rapporto di lavoro con regole, norme e schemi che rendono molto difficile la valorizzazione della qualità del lavoro e del contributo specifico del singolo. La grande poetessa Wislawa Szymborska nella sua poesia sulla banalità del CV ci ricorda cosa è sempre stato considerato:…”Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano….” Ma oggi tutto questo non è più sufficiente. Oggi si discute di nuove competenze, nuove forme di selezione e di gestione delle risorse umane, nuovi ambienti di lavoro. Tutto questo rimette prepotentemente al centro l’importanza della qualità vera del singolo lavoratore. Ritorna d’attualità il senso che ognuno assegna o meno al suo lavoro e quindi le organizzazioni devono essere sempre più in grado di produrre senso perché anche la produttività migliora se alle competenze e all’impegno richiesto a ciascuno, il singolo trova anche un significato a quello che sta facendo e quindi è disponibile ad aggiungere un suo contributo specifico. Anouk Grevin, nota sociologa francese, sottolinea come:”..purtroppo per i managers tradizionali contano i risultati e non la misura di quanto chi li ottiene mette di se stesso. L’impegno che i lavoratori offrono, nessuno lo vede e lo valorizza e ciò crea nei lavoratori senso di frustrazione e di malessere.”
Imboccare questa strada significa saper ridare al lavoro un significato più vero, riconoscendo non solo l’impegno personale ma anche ciò che va oltre la prestazione e il suo riconoscimento economico e normativo. Una sfida vera per il management nei prossimi anni.
Il successo delle organizzazioni più performanti passerà dalla consapevolezza che le risorse umane sono uniche e insostituibili se coinvolte e messe in condizione di dare il meglio di sé. Ma questo implica una capacità manageriale e delle organizzazioni di rimettersi in gioco e creare momenti veri di ascolto e di risposta ai problemi, alle proposte e alla richiesta di protagonismo dei propri collaboratori.

Dal discorso di Papa Francesco al Sinodo della famiglia

“Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticare che la tua vita è la più grande azienda al mondo.
Solo tu puoi impedirle che vada in declino.
In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano.
Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.
Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.
Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza.
Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti.
Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell’anonimato.
Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi.
Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.
Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia.
È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un’oasi nei recessi della nostra anima.
È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita.
Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.
È saper parlare di sé.
È aver coraggio per ascoltare un “No”.
È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.
È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.
Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”.
È avere il coraggio di dire: “Perdonami”.
È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”.
È avere la capacità di dire: “Ti amo”.
Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice …
Che nelle tue primavere sii amante della gioia.
Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.
E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.
Poiché così sarai più appassionato per la vita.
E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta.
Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.
Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.
Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.
Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.
Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza.
Non mollare mai ….
Non rinunciare mai alle persone che ami.
Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!”
Inviato da iPhone

Trentenni fra trent’anni

Ai bambini in futuro forse non dovremo più chiedere: «Cosa ti piacerebbe fare da grande?». Piuttosto dovremmo dire: «Preparati ad essere in grado di fare tante cose». Secondo Rohit Talwar chi oggi ha 11 anni, probabilmente vivrà fino a 120 anni e rischia di lavorare fino a cento.
Incredibile? Forse è presto per dirlo. In Inghilterra, l’aspettativa di vita media oggi è oltre gli 80 anni e cresce ogni anno. A questi ritmi, un bambino di oggi vivrà almeno fino a 120 anni. E questa è una stima prudente. Contemporaneamente vediamo crescere i livelli di automazione nella vita quotidiana. Stanno nascendo nuove forme di smart software che rimpiazzeranno sempre più lavori. Questo porterà alla scomparsa di molti mestieri attuali, calcolati tra il 30 e l’80%. Da qui a 50 anni, saranno poche le persone che lavoreranno full-time. Molti non lavoreranno proprio. Sarà meglio o peggio? E chi li manterrà? Chi può dirlo?
Il sistema pensionistico e il welfare al quale siamo stati abituati si modificheranno profondamente nel prossimo futuro, perché è impossibile mantenerli con persone che vivranno fino a 120 anni. Quindi dovremo lavorare diversamente e molto più di oggi per essere sicuri di poterci mantenere fino a quelle età.
E questo solo per dire come è difficile immaginare come sarà la vita tra 20/30 anni.
Se trent’anni fa avessero proposto la legge Fornero o il Jobs act sarebbe scoppiata la rivoluzione. Negli anni 90 si poteva accedere tranquillamente alla pensione a 47 anni attraverso un mix costituito da CIGS, mobilità ed eventuali integrazioni aziendali consentendo di fatto un numero significativo di prepensionamenti. Il comparto industriale si è anche ristrutturato così. Altri tempi, dunque. Nessuno, allora, si è preoccupato delle conseguenze sul lungo periodo. Chi ha trent’anni oggi è nato allora. Nessuno  ha chiesto loro di condividere o meno quelle scelte. Allora quel sistema andava bene a tutti: sindacati, imprese e lavoratori. Molti dei beneficiati sono, oggi, i genitori di questi ragazzi. Qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi del conto lasciato alle future generazioni? Non credo. Non dimentichiamo che dopo la prima guerra mondiale il sistema pensionistico era a capitalizzazione. Quindi assolutamente autosufficiente. Poi c’è stata la seconda guerra mondiale che ha bruciato praticamente tutte le risorse accumulate. Il dilemma, allora, fu se ricostruire il sistema precedente o andare sostanzialmente a debito tra generazioni. Scelta questa seconda strada si è scelto un sistema a ripartizione sapendo che, probabilmente, avrebbe retto per alcuni decenni. E così è stato. Cosa succederà tra trent’anni alle pensioni dei trentenni diventa oggi uno degli argomenti di una grande discussione spesso ansiogena. Noi possiamo solo limitarci ad aggiustamenti progressivi tra il vecchio sistema retributivo e quello contributivo. Non esiste “la soluzione definitiva”. Chi la propina è in mala fede. Parliamoci chiaro, nessuno può fare previsioni serie e attendibili su cosa succederà. Ci si può cimentare, ovviamente, però il rischio che si consideri solo la situazione attuale proiettandola in un futuro remoto è molto forte. Però solo con le variabili oggi a disposizione cioè al netto della tecnologia, delle innovazioni organizzative e sociali, delle crisi cicliche e della globalizzazione del lavoro. Nessuna riflessione sulla possibile evoluzione del contesto socio economico, nessuna sui flussi migratori reali; nessuna sul nuovo welfare necessario a generazioni che lavoreranno diversamente e più a lungo e con modalità completamente diverse. Per questo le ipotesi vanno prese con grande cautela. La drammatizzazione non serve. Tra trent’anni i trentenni non so se staranno meglio o peggio so solo, per certo, che loro ci saranno di sicuro e nel frattempo, a tutti noi, cittadini di oggi, viene richiesto di aiutarli a progettare un nuovo contesto economico, sociale e culturale diverso e funzionale a quello nel quale loro dovranno vivere. A noi il dovere di evitare di alimentare conflitti generazionali basati su ipotesi tutt’altro che scontate.

Si fa presto a dire: “sei un Quadro”…

Secondo i dati diffusi da Manageritalia sulla base dei report elaborati dall’Inps, in Italia ci sono oltre quattrocentocinquantamila “quadri”. Età media 47 anni (45,6 per le donne) e prevalentemente di sesso maschile, sebbene le donne che ricoprono questo ruolo siano aumentate del 24% dal 2008 al 2012, diventando più numerose delle dirigenti di sesso femminile.
Quasi centomila i professionisti presenti solo nel terziario del nostro Paese. Una via di mezzo tra la figura del Dirigente, oggi anch’essa in crisi di identità, e altre figure tipiche dei tradizionali inquadramenti contrattuali.
Una categoria in crescita, relativamente giovane e in cerca, forse, di un riconoscimento definitivo.
Il nome, certo, non aiuta: Quadro.
Oggi da più parti soppiantato dal più familiare termine inglese “manager” accompagnato da “qualcosa d’altro” che ne completa o ne contorna il significato.
La prima volta che il termine “quadro” è stato utilizzato per indicare quella specifica declaratoria del personale di un’azienda, prevista dal Codice Civile, è stato nel 1931 ma, già nel 1752, secondo il Dizionario Storico della lingua francese, il termine (“inquadrare” per indicare un insieme di ufficiali e sottufficiali che comandano dei soldati di un reggimento oppure degli individui: i quadri di un battaglione, ecc.) venne usato per la prima volta nel gergo militare da cui derivano buona parte dei termini utilizzati dalla cultura tayloristica industriale.
All’estero, soprattutto in Francia, il termine “Cadre” si è affermato con maggiore forza e ha una sua dignità specifica. Da noi, no.
È un termine polisemico. Ha una sola etimologia (quadro deriva da quadrus, quadrato in latino).
In altri Paesi esiste un contratto nazionale specifico che ne definisce perimetro e confini. E ne stabilisce varietà, ruolo e responsabilità. Da noi, no.
Da noi essere “quadro” non conferisce alcun status sociale. Al mare, al vicino di ombrellone, la moglie non può dire:”Mio marito è un Quadro”.
Meglio un generico:” Mio marito è un Manager”.
Suona meglio. Il termine quadro non identifica professionalmente. Inquadra, appunto. Per questo è venuto in soccorso l’inglese. Che spesso viene usato a sproposito.
Quadro è una termine che identifica solo una declaratoria contrattuale e il conseguente livello retributivo. Su questo aspetto, credo, dovrebbe essere fatto uno sforzo maggiore di analisi e di identificazione di nuovi percorsi professionali possibili e di riconoscimento soprattutto in contesti organizzativi profondamente diversi dal passato.
In Italia, In termini di benefit aziendali, la vera differenza con la figura del dirigente la fa il welfare a disposizione. Sanità e previdenza, innanzitutto. E questi sono, per un quadro, contrattualmente insufficienti. Ormai l’auto, il cellulare e il p.c. li hanno quasi tutti. E quindi non distinguono ma, semmai omologano. Tra l’altro questi strumenti hanno perso la loro funzione di benefit “esclusivi” trasformandosi in normali strumenti di lavoro. Spesso invasivi. Non avendo un orario di lavoro definito il professionista rischia di essere solo sempre disponibile e rintracciabile. Il Quadro può ancora contare sull’art. 18 a differenza di altre figure apicali. Almeno per chi è oggi in azienda con un contratto a tempo indeterminato. Va da sé che è molto difficile pensare di restare in una posizione di responsabilità, pur tutelato dalla legge, in un’azienda che ha deciso di non credere nella possibilità di continuare il rapporto di lavoro. Quindi occorre mantenere nel tempi competenze specifiche, capacità, responsabilità e autonomia. Ma anche competenze trasversali. Per continuare ad essere competitivi sul mercato. Da qui l’esigenza di percorsi di formazione e sviluppo continui ed efficaci. Ma tutto questo confluisce in un termine giuslavoristico ormai insufficiente, “Quadro”, appunto. Difficile da affrontare contrattualmente perché è un termine che piace ancora ai sindacati perché fa tanto “categoria”: I “Quadri”. Blanditi, vezzeggiati e ascoltati quando fanno una scelta di campo sindacale. Meno quando vorrebbero avere voce sulle proprie specificità nei contratti nazionali e aziendali. Nelle imprese occupano ruoli di grande responsabilità, partecipano a team anche internazionali o, addirittura, sono l’alter ego dell’imprenditore. Fuori dall’azienda sono una categoria apicale di un contratto nazionale zeppo di figure professionali massificate. È questo che, forse, li rende disinteressati ad una omologazione dentro un contesto tradizionale. La fine del “Taylorismo” culturale e contrattuale forse li rilancerà e gli restituirà un perimetro e un ruolo maggiormente definiti. I temi di interesse vanno da un maggiore riconoscimento del loro contributo al successo dell’azienda alla creazione di un’area professionale meglio definita e diversificata. Infine è forte la richiesta di un welfare più importante, aziendale o contrattuale, che tenga conto di vecchie e nuove esigenze di una popolazione che spesso “vive” in azienda. Le giovani generazioni, le nuove tecnologie e un contesto più globalizzato e interdipendente costringeranno contratti e codice civile a fare un deciso passo in avanti. E questo, anche se difficile, è certamente auspicabile.