È di oggi la notizia che il codacons pretenderà il rimborso del prezzo del biglietto di Expo a causa delle enormi file che rendono impraticabile una visita minimamente decente dell’esposizione. Sono sincero. Ho provato tenerezza per gli avvocati che hanno suggerito questa mossa. Roba da altri tempi.
Chiunque sia stato in Expo dopo agosto ha ben compreso la trasformazione che stava maturando sia nella composizione che nella numerosità dei partecipanti. Ormai tutti ben oltre l’Expo. Non era solo un problema di appartenere o meno alla schiera dei ritardatari che non volevano perdersi l’esposizione. Ci saranno stati anche questi. Ma restano una minoranza. Expo si è, via via, trasformato in una specie di Woodstock dove esserci è diventato più importante che vedere. Certo i padiglioni sono interessanti, gli odori o i profumi sono un po’ una via di mezzo tra un festival dell’unità e il mercante in fiera, le costruzioni sono affascinanti, ardite e particolari, ma la calca, la folla, il desiderio di essere in questo posto, qui e ora, ha superato ogni altra necessità o fatica. Follia collettiva? Non so. Io vedo centinaia di migliaia di persone contente. Un sabato mattina mi seduto in un bar all’entrata Triulza ad osservare le ondate di amici, scolaresche, coppie, single che alle dieci del mattino si accalcavano all’entrata e poi alla sera li ho osservati all’uscita. Stanchi ma felici. Avranno avuto, si e no, la possibilità di visitare due o tre padiglioni. Molti, tra di loro, chiacchieravano progettando di tornarci appena possibile. Le discussioni erano più che altro sulla lunghezza delle code a cui avevano partecipato. In realtà non avevano visto quasi niente ma erano stati lì. In mezzo a coetanei sorridenti e disciplinati. Ecco. A parte qualche incazzatura per i furbi esperti della “non coda” o in grado di infilarsi nelle cosiddette fast track le persone, sembravano serene e disciplinate. Si aspettavano questo e questo hanno trovato. Un grande luogo di incontro, di struscio collettivo di presenza. Ci sono alcuni avvenimenti che restano in ciascuno di noi, per sempre. Al di là di chi li ha organizzati. Si depositano in fondo ai nostri ricordi ed emergono quando ci si trova, la sera, con gli amici. Alcuni sono molto personali altri sono solo una testimonianza del tipo: io c’ero. Tutto qui. L’Expo per molti è uno di questi momenti. Adriano Celentano cantava nel ’67 un improbabile: “..Signorina se non sbaglio lei ha visto l’inter milan con me. Ma come fa lei a non ricordare. Noi eravamo in centomila allo stadio quel di’. Io dell’ in Inter Lei del mi Milan…” Potenza dei riti collettivi….
GDO. Essere di nuovo protagonisti o rischiare di essere irrilevanti: forse è arrivato il momento di riflettere
Da osservatore esterno ho maturato una personalissima convinzione: la grande distribuzione avrebbe sicuramente bisogno di farsi sentire, oggi più di ieri. La necessità di continuare a contribuire al processo di ammodernamento del sistema distributivo italiano, il rapporto con l’agricoltura nazionale e con l’industria di trasformazione; la riorganizzazione e rinnovamento dei formati e quindi il rapporto con le pubbliche amministrazioni; la necessità di mettere mano a un modello efficace di contrattazione nazionale e aziendale, i nuovi modelli organizzativi, la qualificazione, la formazione e il welfare del personale presuppongono la presenza di una forte spinta associativa che sappia guardare oltre le specifiche esigenze di concorrenza e di equilibrio tra insegne. Questa ultima necessità credo sia ormai superata così come si è conclusa la fase dove ad alcune insegne è riuscito il disegno di rafforzarsi definitivamente a spese di altre. Adesso occorrerebbe decisamente andare oltre. Non nei convegni o sulla stampa dove la professionalità di ottimi specialisti può fare la differenza ma dove si trovano le soluzioni, dove si incide sul serio e dove si determinano le decisioni a proprio o altrui favore. E non è più, sia chiaro, un problema tra grande e piccola distribuzione. È un problema di strategia. Che oggi sembra non esserci o non essere incisiva come dovrebbe essere necessario. Il perché è evidente. La GDO ha sempre condizionato la contrattazione nazionale di categoria pur non gestendola mai in prima persona. Lo ha fatto per oltre trent’anni. In altri termini con poco più di duecentomila addetti ha sempre dettato le condizioni di un contratto che copre oggi oltre tre milioni di persone. E ne ha tratto benefici indiscutibili. Purtroppo negli anni, anziché capitalizzare queste opportunità, ha preferito cedere a richieste assurde dei sindacati a livello aziendale costruendo accordi con vincoli organizzativi e costi relativi che dovrebbero essere contestati e trattenuti dalla pensione dei Direttori del personale e dei board che si sono succeduti in quegli anni. L’impasse di oggi è anche figlia di quel passato. E questa impasse porterà inevitabilmente con sé le tradizionali liturgie natalizie, le vertenze legali con i relativi costi e consoliderà ancora di più l’impressione, nel Paese, che nella grande distribuzione il lavoro è povero, mal pagato e di scarso interesse per chi vuole crescere e investire su se stesso. E, nei dipendenti, l’idea che le loro aziende non sono disponibili a concedere ciò che altre aziende dello stesso settore sono state disponibili a dare. Reazioni inevitabili quando si tira troppo la corda. E confondere, come si sta facendo, i limiti, i ruoli e le potenzialità di livelli contrattuali differenti porta ancora di più a non essere compresi. Così come sulle aperture e sulla pianificazione degli orari dove la GDO ha contribuito a costruire, a suo tempo in Confcommercio, una posizione forte mediana ma condivisa e inattaccabile sia sul versante sindacale che nelle diverse regioni. Anzi ha avuto il merito di condizionare non poco la posizione della più grande confederazione del terziario, favorendo un importante dibattito interno positivo e costruttivo ben diverso rispetto ad altre organizzazioni, come ad esempio Confesercenti, che si sono messe, anche per questo, alla testa di posizioni abolizioniste tra le più intransigenti. Oggi è chiaro che la posizione di Federdistribuzione non trova grandi ascolti e, probabilmente, rischia di essere accantonata rimettendo inevitabilmente in discussione abitudini e comportamenti di consumo ormai consolidati. Risultato, questo, che non giova a nessuno. E anche su questo tema, la difficoltà a costruire alleanze propositive, è evidente e sotto gli occhi di tutti. Infine il rapporto con l’agricoltura nazionale. C’è in atto da sempre una guerra tra industria alimentare e agricoltura che passa quasi sotto traccia sulla stampa mentre continua la polemica esplicita sulla presunta “voracità” della GDO e sulla sua evidente volontà di “affamare” l’agricoltura nazionale magari a vantaggio di altri Paesi esteri. È certamente scandaloso e inaccettabile. Ma perché accade tutto ciò? Non certo per mancanza di volontà o di impegno di Federdistribuzione. È un problema di massa critica, di alleanze, di capacità o meno di finalizzare iniziative di sostegno che, quando il vento soffia contro, diventano più impegnative e complesse da realizzare. Per questo occorrerebbe tornare ad essere protagonisti costruendo le convergenze necessarie con chi ci sta. Occorre però avere la volontà e saper rimettere in fila i problemi valutando i percorsi possibili. Soprattutto quelli che non si sono sufficientemente valutati perché si è stati troppo occupati a cercare scorciatoie impraticabili. A volte qualche passo indietro aiuta a osservare meglio lo scenario che si ha di fronte. Personalmente vedo tre priorità: trovare un punto di incontro con le organizzazioni maggiormente rappresentative sulle aperture che non penalizzi fortemente le imprese della GDO e che sappia trovare un equilibrio praticabile così come ritrovare con loro e con le organizzazioni sindacali un percorso serio e costruttivo sulla contrattazione nazionale che sappia andare oltre le disfide giudiziarie che, per loro natura, non portano da nessuna parte e i desideri impossibili della prima ora e, infine, riprendere un iniziativa che riporti un equilibrio sostanziale nella filiera dalla produzione al consumo. Per fare questo occorre crederci, lavorare con ostinazione ma anche con lungimiranza dando per scontato che non c’è alcuna soluzione a portata di mano ma che occorre comunque provarci verificando chi ci sta e a quali condizioni. E se queste condizioni, pur diverse dai propri desideri, incontrano le esigenze delle imprese. Le aziende oggi, hanno bisogno di punti di riferimento. Il compito di una federazione è di aiutarle ad individuarli.
Condividere, collaborare, partecipare. Una sfida non facile per il Paese
passare dalla cultura del conflitto a quella della partecipazione non è facile. Soprattutto quando resta l’ideologia del conflitto ma non più la possibilità di farlo. Restano i rancori, le accuse reciproche, la paralisi. È chiaro che non si partecipa né per forza né perché non ci sono altre alternative. In questi casi si subisce solo l’iniziativa altrui. Purtroppo in Italia siamo fermi qui. Io credo che occorrerebbe procedere per gradi. Innanzitutto sul piano macro. È vero o no che i corpi intermedi sono in discussione? Quindi occorre partire da lì trovando un terreno comune tra sindacati, imprese e associazioni rappresentative sull’identificazione di alcune semplici regole del gioco condivise. E occorrerebbe farlo in fretta. Riconoscimento reciproco, accordo sulla rappresentanza, salvaguardia della contrattazione nazionale, tutele minime per chi non ha un contratto nazionale di riferimento, consolidamento del welfare contrattuale. Ovviamente questo non basta. Occorre andare avanti. Cosa serve oggi al Paese per consolidare la ripresa e attrarre nuovi investimenti? Serve meno burocrazia, rapidità nella giustizia civile e regole semplici sul lavoro che consentano alle nuove imprese di decollare rapidamente. Cosa serve ai lavoratori? Riduzione del cuneo fiscale, politiche attive, tutele minime, incrementi salariali legati all’andamento aziendale, flessibilità nel lavoro e tra lavori. Beh! Un sindacato in grado di collaborare con le imprese, che sostiene la ripresa e la accompagna, che condivide con gli imprenditori gli elementi fondamentali di una rinnovata politica economica utile all’ammodernamento del Paese ricrea le condizioni per una ripresa vera di un ruolo propositivo che è altro rispetto alla vecchia concertazione. L’asimmetria di oggi condanna all’irrilevanza tutto il sindacato e aspettare con pazienza sulla riva del fiume che cambi qualcosa non è mai una buona politica. Quindi una strategia di collaborazione basata su elementi concreti, misurabili e condivisibili. Nel frattempo occorre continuare un processo di confronto unitario che abbandoni decisamente le ormai superate derive identitarie che si sono impadronite del confronto tra sindacati confederali. E, infine, un grande appuntamento nazionale condiviso che sappia coinvolgere il Paese con un linguaggio chiaro e diretto e che prospetti un percorso riformista, partecipativo e unitario. Ciascuno nel proprio ruolo e nelle proprie prerogative dovrebbe capire che il momento necessità di una svolta e di una leadership visionaria che sappia guardare al futuro. Il 900 è alle nostre spalle. Inutile voltarsi. Oggi, ci ricorda in una bellissima poesia Antonio Machado, non c’è un sentiero segnato da percorrere, la via si fa camminando ma, soprattutto, nessuno può più ritornare sui propri passi.
la “terziarizzazione” dello sciopero
L’effetto mediatico che avvenimenti quali l’assemblea al Colosseo o lo sciopero indetto da USB che ha bloccato Roma è stato enorme. Così come le polemiche che ne sono scaturite. Ovviamente non succederà nulla né in termini di prevenzione intelligente né in termini di risoluzione dei problemi che hanno determinato quelle situazioni. Si preferisce continuare ad andare da indignazione a indignazione senza mai approdare a nulla. Forse sarebbe il caso di fermarsi a riflettere. I protagonisti dello sciopero come strumento di lotta e di difesa dei propri interessi sono sempre meno gli operai (quelli veri). Ormai scioperano con più frequenza medici, avvocati, pubblici dipendenti, vigili del fuoco, controllori di volo, tassisti, notai, e prefetti. Le manifestazioni pubbliche sono sempre più partecipate da pensionati, studenti, migranti, ecologisti o gente comune. Gli operai, costretti a creare questo strumento e suoi utilizzatori principali e legittimi per almeno un secolo lo hanno in qualche modo ormai messo in soffitta. Aris Accornero, nella enciclopedia dei ragazzi della Treccani, fa risalire il termine sciopero al verbo latino “exoperare” cioè smettere di lavorare. È interessante osservare che il suo significato, nella declinazione individuale, è più associato a smettere di lavorare più per pigrizia o per scarsa voglia di lavorare del singolo, idea questa che, nel corso del 900, è sempre emersa, soprattutto nei giudizi sprezzanti di chi avversava lo sciopero. Diverso è il suo significato collettivo che lo conferma, da sempre, come strumento di lotta sociale. Anche in altre lingue assume sempre un significato aspro e duro; Huelga in spagnolo significa anche picchiare, cozzare; in inglese o in tedesco strike e streich significano anche attacco e colpo. Un termine forte dunque. Se pensiamo alle condizioni di partenza, di povertà estrema, di emarginazione sociale e culturale che hanno determinato l’esigenza di inventare strumenti di difesa così necessari e estremi per cambiare la propria situazione non possiamo non convenire che, oggi lo strumento si è trasformato in altra cosa. Così come il diritto di riunirsi in assemblea conquistato con migliaia di licenziamenti, morti ammazzati nelle manifestazioni e tragedie di ogni tipo. Se ci limitiamo al nostro Paese e leggiamo la storia sindacale tra gli anni 50 e lo statuto dei lavoratori ci rendiamo conto di cosa è stata quella stagione per la classe operaia italiana. Nulla però di tutto questo ha coinvolto le categorie di cui sopra. Nessun licenziamento ha riguardato né il pubblico impiego né le categorie professionali che, nel tempo si sono impadroniti e utilizzano, alcune con una certa dose di spregiudicatezza, questo strumento estremo non già contro un padrone ma inevitabilmente contro categorie di cittadini che, di volta in volte, vengono prese in ostaggio in vicende che non li riguardano minimamente e di cui ne pagano in esclusiva le conseguenze.
È proprio questo fenomeno di “terziarizzazione” del diritto di sciopero sul quale sarebbe necessario ritornare a riflettere. Stiamo parlando dello stesso diritto di chi lo esercitava nei confronti di una controparte dura e spesso insensibile e in grado di resistere o di concedere o di un’altra cosa? E quindi in questo caso non sarebbe utile trovare diversi canali di composizione visto che quelli fino ad oggi previsti non hanno portato a risultati apprezzabili? Pierre Carniti sosteneva che l’unica regola utile per non creare danni a terzi con uno sciopero è non farlo. Ovviamente era un paradosso. Però è significativo che l’attenzione di tutti è su come regolare un diritto e non su come rendere stabile forme di dialogo e di ricomposizione che siano più adatte ai tempi. Non porsi il problema di cosa c’è oltre allo sciopero e oltre alla sua regolamentazione con l’obiettivo di renderlo inutile è veramente un segno del degrado raggiunto. Lo hanno saggiamente messo da parte gli operai (quelli veri) che lo hanno inventato perché hanno constatato sulla loro pelle che oggi, i vantaggi possibili, sono decisamente inferiori ai costi necessari per realizzarli e quindi cosa aspettiamo a capire che il problema non è come lasciare intatto un simulacro del passato salvo poi svuotarlo dall’interno! Più che costringerci ad accettare come inevitabile la terziarizzazione dello sciopero sarebbe meglio lavorare per cercare, insieme, come ricomporre i conflitti sociali nell’era della globalizzazione e della terziarizzazione dell’economia. Questa sarebbe una vera sfida.
GDO al bivio: l’intransigenza può essere una tattica, non una strategia..
Non c’è ancora una sentenza definitiva ma il Tribunale di Torino sembra aver imboccato una strada che può modificare i piani di Federdistribuzione che, nel frattempo a leggere i comunicati e i toni utilizzati, continua ad essere poco conciliante con le organizzazioni sindacali. L’intransigenza mostrata nel voler realizzare un proprio contratto nazionale non sta portando ai risultati sperati; il contratto non c’è e difficilmente ci sarà. Soprattutto non ci sarà nulla di diverso e di specifico rispetto al CCNL del terziario. Quindi, in estrema sintesi, tanto rumore per nulla. Al di là delle imprese che decideranno se e come seguire le indicazioni di Federdistribuzione, un dato è certo: l’intransigenza, se non è finalizzata ad un obiettivo preciso si trasforma spesso in un boomerang. Prendiamo ad esempio il tema delle liberalizzazioni. Si è partiti anche qui da una posizione intransigente. O tutto o niente. Confcommercio, pur condividendo la necessità di superare anche al proprio interno, le posizioni più ostili alle liberalizzazioni aveva tentato di trovare sintesi nell’interesse di grandi e piccole superfici. Tutto inutile. Altre organizzazioni hanno cavalcato l’opposizione più intransigente mentre Federdistribuzione, legittimamente, ha colto la possibilità di ottenere il massimo e quindi non ha voluto sentire ragioni. Oggi quella vittoria rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro. La politica sta facendo altre scelte che rimettono in discussione ciò che sembrava scritto sulla pietra. Dario Di Vico in un suo articolo ha invitato alla ragionevolezza le imprese della GDO invitandole a rientrare in gioco. Personalmente condivido quel pezzo. Era sbagliata l’intransigenza di allora è sbagliata quella di chi, oggi, vorrebbe rimettere in discussione tutto ribaltando la situazione. Occorre trovare un punto ragionevole di equilibrio. Sugli orari, sulla crisi delle grandi superfici, sul ridisegno delle città e, quindi sulle nuove aperture, ha poco senso procedere in ordine sparso. Così come sui contratti. Ha senso applicare nella GDO tre contratti nazionali con tre welfare differenti? Io non credo. Ovviamente non spetta a me individuare soluzioni ma, credo, che sia corretto interrogarsi sul confine tra tattica e strategia e, soprattutto, se, la difficoltà a dotarsi di una strategia aiuta le imprese in un momento nel quale si cominciano a cogliere i primi segnali di una ripresa.
Ancora sulla “provocazione” di Dario Di Vico
un vecchio proverbio arabo recita:”tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Mi sembra spieghi bene la piega che sta prendendo il dibattito sulla provocazione di Dario Di Vico sul ruolo del sindacato nelle nostre imprese. Al di là delle legittime opinioni un dato sembra emergere con chiarezza: in molte imprese il sindacato o non esiste o non esercita nessun ruolo. Inoltre, in alcune imprese, il contesto economico, la presenza di politiche di gestione delle risorse umane o la cultura imprenditoriale o manageriale hanno sviluppato o stanno sviluppando un sistema di gestione positivo per i lavoratori (e per l’impresa) che esclude la necessità di intermediare con le organizzazioni sindacali. Nella gestione dei manager e dei K people c’è sempre stato questo approccio. La concessione di benefit oltre l’auto, il telefonino e il p.c. si è diffusa in molte realtà, soprattutto multinazionali comprendendo via via assicurazioni, asili privati per i figli, contributo per affitto, rimborso spese mediche, ecc. fino ad arrivare a soluzioni più specifiche per rendere la vita degli espatriati meno ossessionata dalla burocrazia servizi di pagamento delle bollette, tintoria, gestione del tempo libero, ecc. L’obiettivo era chiaro: migliorare il clima interno, trattenere i migliori, rendere più complesso il lavoro dei cacciatori di teste che si trovavano a dover fare i conti non solo con la retribuzione da offrire ai potenziali candidati ma con benefit che non tutte le aziende erano disposte a concedere più rivolti alla qualità della vita. Ovviamente questi benefit erano e sono riservati ad un numero ridotto di persone. La profondità della crisi e i mutamenti profondi del mercato del lavoro li hanno messi in discussione e, via via, sono scomparsi. È rimasta però la cultura che li aveva generati che è ben altro rispetto al cosiddetto “paternalismo” che viene evocato ogni volta che si esce da quanto previsto dal CCNL ma che è molto ambito dalle persone. In un’azienda ciò che conta veramente è il clima. Un contesto positivo ti fa sentire parte di una squadra vincente indipendentemente dal tuo ruolo. Hai la consapevolezza di essere in un’azienda che crede nelle proprie risorse e che investe in formazione, sviluppo e magari in qualcosa in più che altrove non c’è. Avere la possibilità di essere valutati, aiutati a crescere, corretti, incentivati e ben altra cosa che non contare nulla. Tutto questo non ha nulla ha che fare con il paternalismo. È un sistema di gestione che funziona e che va ben oltre il rispetto o meno del CCNL, dell’inquadramento pofessionale e della gestione collettiva. Punta sul merito, sull’adesione ai valori aziendali, sull’individuo. È questo checché ne pensino i detrattori, funziona e spinge a performance migliori, al coinvolgimento e alla crescita. Ovviamente questo riguarda quella parte dei collaboratori che per ruolo individuale o per appartenenza a reparti importanti può fare la differenza per quell’impresa. Detto questo alcune imprese non si fermano qui. Vanno oltre e propongono sistemi premianti specifici per gruppi o per l’insieme dei lavoratori. Oppure propongono forme di welfare aziendale che comprendono sconti in palestre, spacci, ecc. e, perché no, forme di integrazione della previdenza e della sanità. Alcune lo fanno consorziandosi, altre da sole. Tutto questo non c’entra nulla con il sindacato? Dipende. Dopo aver perso la battaglia sui superminimi individuali o di gruppo adesso ha senso bollare come paternalistica o sbagliata una realtà che premia non solo il singolo lavoratore ma spesso l’intera collettività? Io non credo. Ci sono aziende che se lo possono permettere o che sperimentano modelli gestionali innovativi. Basti vedere la sede di Facebook a Milano o di Google solo per fare un esempio per rendersi conto che in molti casi ruoli, scrivanie, coinvolgimento sono necessariamente diversi. Sono realtà dove il sindacato non c’è o se c’è non interferisce quasi mai. Anzi. E allora dov’è il problema. Non c’è antisindacalità in tutto questo. C’è una proliferazione di modelli gestionali e organizzativi diversi dal tayolorismo che consentono di costruire un patto nuovo e diverso tra impresa, management e collaboratori. Dove si sa benissimo che si può essere licenziati l’indomani o che l’azienda può anche fallire e quindi conviene a tutti scambiare professionalità con formazione, crescita e contropartite che vanno oltre l’aspetto economico. Ovviamente non è cosí per tutti. È quindi c’è spazio per il welfare contrattuale che va consolidato e dotato di governance efficaci, c’è spazio per un sindacato moderno che non scambia per paternalismo il welfare della luxottica altrimenti non verrà compreso dagli stessi lavoratori. Ma se non vuole diventare un sindacato a cui ci si rivolge solo quando quel patto viene meno si deve prender atto che la fine del taylorismo e l’affermarsi di una cultura propria delle nuove generazioni che pretendono maggiore maturità nel rapporto di lavoro con più coinvolgimento, possibilità di crescita personale e meno burocrazia impone un salto culturale. Altrimenti il rischio non è che il sindacato scompaia ma che declini diventando, purtroppo, marginale.
Collaborare è meglio di partecipare…..
Quando si parla di partecipazione dei lavoratori nell’impresa riaffiora la solita discussione sul modello tedesco. Anche Susanna Camusso lo riprende nell’ultima intervista alla Stampa indicandone anche due temi su cui indirizzare la discussione: investimenti e organizzazione. Cioè due temi dove non ci sarà mai, in Italia, una disponibilità vera delle imprese. Si potrà parlare di comunicazione preventiva, di collaborazione finalizzata ad affrontare il mercato ma, fino a quando la cultura sindacale non avrà decisamente imboccato la strada della condivisione dei valori e della cultura delle imprese non ci saranno passi avanti. E Susanna Camusso lo sa bene. Quindi il discorso sulla partecipazione tedesca o italiana resta ancora nel campo della propaganda. La vera sfida dovrebbe essere quella di prendere atto che una stagione si è chiusa e contribuire a ridisegnare nuovi confini (piú ridotti) per l’attività sindacale. Certo è difficile per chi ha vissuto l’epopea degli anni 60 ma sarà inevitabile. L’unico modello di partecipazione che si è affermato negli anni da noi, il professor Baglioni lo avrebbe chiamato di “partecipazione concessiva”. Un modello che non mette in discussione le scelte aziendali ma le accompagna cercando di attenuarne i possibili effetti negativi sui propri rappresentati. Oggi, sulla carta, è possibile occuparsi di tutto e quindi il rischio è che non si conti nulla su niente. Certo si può sempre lasciar fare le imprese restando in panchina senza condividere alcunché. Però un sindacato che non si confronta, non discute e non sottoscrive accordi non serve a nessuno. Per questo piú che parlare di partecipazione (tedesca o italiana) io parlerei di collaborazione allo sviluppo delle imprese e del lavoro. Si sta aprendo un dibattito interessante nella Cisl, nelle sue categorie e in alcune importanti strutture sul modello di sindacato dei prossimi anni. Forse è il caso di partire da lì. Non c’è una soluzione e ci sono enormi diffidenze da superare anche in campo imprenditoriale. Una cosa però è certa: il taylorismo ha imboccato il viale del tramonto e si sta portando con sé la vecchia cultura novecentesca che ha permeato le relazioni sindacali, i modelli contrattuali e il lavoro sia sul piano della qualità che della quantità. Lasciare che la globalizzazione e il mercato ridisegnino il nuovo perimetro è un errore. E non sarã né un accordo tra le parti sulla rappresentanza né un accordo sui livelli contrattuali a cambiare la direzione di marcia che ha preso il Governo. Così come i rapporti di forza, sicuramente asimmetrici, che oggi spingono le imprese verso modelli ben diversi da quelli auspicati da chi crede nell’equilibrio e nel confronto. Non c’è molto tempo perché nei prossimi mesi si determinerà la direzione di marcia, Per le organizzazioni di rappresentanza (datoriali e dei lavoratori) si apre una fase importante. L’importante è non sprecarla.
Manager sarà lei!
Se pensiamo al recente dibattito sulla “buona scuola” o quello sulla sanità italiana la parola manager, presso parte dell’opinione pubblica ha un accezione certamente negativa. Chi rivendica maggiore managerialità nel settore pubblico spesso viene spinto a dover scegliere tra efficienza ed efficacia, tra cultura aziendale, intesa come cultura del costo come priorità, e cultura del servizio, quasi come questi mondi fossero sempre e comunque inconciliabili. Gaber si inserirebbe in questa disputa ricordandoci forse che l’efficienza è di destra mentre l’efficacia è certamente di sinistra. È una discussione che segnala un modo di pensare abbastanza radicato e diffuso nel nostro Paese. Non tanto e non solo nel settore pubblico. La scarsa presenza manageriale nelle piccole e medie imprese rappresenta un altro segnale evidente. Il nostro sembra essere, per certi versi, un Paese di imprenditori e lavoratori autonomi che vogliono o che cercano di fare da sé e che individuano come potenziali concorrenti nella divisione del reddito disponibile, pensionati, lavoratori pubblici e dipendenti (manager, impiegati e operai) delle grandi aziende, soprattutto del nord. Salvo eccezioni circoscritte i dati sembrano confermare questa situazione. Questa peculiarità ha contraddistinto la storia economica del nostro Paese ne ha evidenziato i suoi limiti ma ne anche rappresentato la sua forza. Mi ricordo negli anni ’70 una battuta di un imprenditore che, fino a quel momento aveva resistito ad assumere un manager esperto di marketing che si visto accogliere con questa frase: “Si ricordi che la nostra azienda è diventata importante senza il marketing, vorrei continuasse ad esserlo, nonostante il marketing”. Personalmente credo che, fino all’avvento della globalizzazione, questa peculiarità poteva resistere e mantenere un suo tratto distintivo. Non se lo può più permettere in un’epoca come quella che si è aperta. E questo vale sia nel settore pubblico che non ha più risorse da sprecare ne da investire che nella piccola e media impresa che, per crescere e misurarsi con il mondo, ha bisogno di cultura, capacità e competenze che sono connaturate più alla figura del manager che del piccolo imprenditore tradizionale. L’azienda nella filiera nella quale è inserita sta cambiando. Deve saper dialogare con il mondo e integrarsi nel territorio di cui è espressione. Deve valorizzare capacità e competenze dei propri collaboratori siano essi manager o altro, deve porsi diversamente con fornitori e clienti. Deve saper sviluppare partnership adeguate alle sfide che ha di fronte. Deve saper interpretare un ruolo imprenditoriale diverso dal passato. Meno autonomo e individualista più collaborativo e intraprendente. Deve essere lui stesso in qualche modo un manager e saper interagire con manager preparati che possono portargli visioni e punti di osservazioni del mondo e del business più aperti. Così come nel pubblico dove la cultura manageriale è indispensabile per gestire e razionalizzare le risorse economiche e umane a disposizione. Ma anche i manager, però, devono cambiare. Lavorare in una piccola impresa non è come lavorare o interagire con colleghi in una multinazionale. La dimensione produce una cultura diversa, dove la sostanza, la rapidità e la capacità di risposta ai problemi è più di tipo imprenditoriale. È l’esempio personale, la conoscenza concreta del problema, la capacità di proporre soluzioni innovative ma praticabili e di sapersi assumere le proprie responsabilità che fanno premio sullo status o sul proprio percorso professionale. L’esperienza e la conoscenza di un problema non sono sufficienti se non utilizzate per convincere e coinvolgere. In questo sta la qualità di un manager: sapersi confrontare con la realtà, offrire soluzioni praticabili e creare il clima interno adatto alle sfide da affrontare. E, ultimo, ma non ultimo, la capacità di gestire il proprio capo che, in questo caso non è un manager a sua volta in carriera ma è il proprietario dell’azienda. Nel pubblico, ovviamente, le cose sono diverse. Non c’è l’imprenditore, il business e il mercato. C’è però una cultura che deve affermarsi e crescere. Quella del bene collettivo, dell’etica del lavoro e della centralità del cittadino. Anche su questo un manager non si improvvisa. Servono anni, formazione, valutazione e strutture che possano aiutare la creazione di una classe di manager diversa, aperta e desiderosa di portare le risorse umane di cui ha la responsabilità alla realizzazione degli obiettivi a loro assegnati. Serve una nuova cultura del merito e dello sviluppo delle risorse che nel pubblico è ancora lontana dall’essere immaginata, decisa e praticata. Deve avere nel proprio DNA una capacità di collaborazione positiva tra le diverse componenti in campo e un approccio costruttivo con le organizzazioni sindacali senza esserne succube. Nel caso delle piccole e medie imprese un ruolo importante potranno esercitarlo le organizzazioni datoriali e manageriali con iniziative specifiche formative, di comunicazione e di proposta. Nel settore pubblico è forse necessario un salto generazionale e culturale anche dei manager e un diverso ruolo tutto da costruire. È solo così che il termine “manager” potrà assumere, per tutti, una valenza positiva e riprendere quell’importanza che deve avere in una società moderna, complessa e globalizzata come la nostra.
I corpi intermedi oltre le caricature
ci risiamo. Adesso tutte le responsabilità e i ritardi di questo Paese sarebbero da addebitare al Sindacato. Il Presidente di Confindustria, ma non solo lui, ritorna su un vecchio luogo comune. Il Sindacato, tutto il Sindacato senza alcuna distinzione non sarebbe in grado di cambiare e di muoversi alla velocità imposta dal contesto. E, questa volta, lo afferma un imprenditore che ha fatto del dialogo e del confronto con le parti sociali un suo tratto distintivo nella gestione delle sue aziende. Perché dirlo ma, soprattutto, perché dirlo ora quando il confronto sul modello contrattuale e sulla rappresentanza sta ritornando al centro del dibattito. Squinzi non parla a caso e il luogo da cui ha lanciato questo messaggio è estremamente significativo. Personalmente credo che uno dei meriti fondamentali di Squinzi sia quello di aver archiviato definitivamente la stagione degli accordi separati. Fin dall’inizio del suo mandato il messaggio è sempre stato chiaro: Confindustria tratta con il sindacato confederale e non con parte di esso quindi o evolve in chiave unitaria tutta l’interlocuzione o non ci potrà essere alcuna interlocuzione. Molti hanno letto, sbagliando, questa posizione come uno schiaffo alla CISL e una forte apertura di credito nei confronti della CGIL di Susanna Camusso alle prese con l’opposizione interna della FIOM di Landini. Un’opposizione interna più mediatica e chiacchierona che concreta in grado, però, di provocare la reazione della Fiat e l’uscita da Confindustria della stessa. E questo per Squinzi era ed è un problema vero. E quindi una CGIL in grado di ritornare a firmare accordi e ad esercitare il suo ruolo nel sistema di relazioni industriali a livello nazionale avrebbe comportato un rinnovato ruolo di Confindustria sia sul fronte interno che esterno. E questo risultato è stato sicuramente raggiunto. Poi però è arrivato Renzi con la sua carica di insofferenza nei confronti di tutti i corpi intermedi anch’egli indisponibile a percorrere una strada di accordi separati con i sindacati. E questo non tanto perché condivideva la scelta del Presidente di Confindustria di spingere il Sindacato verso una posizione unitaria e costruttiva ma per poterlo trasformare in un avversario superabile, lento nelle decisioni e facile da accusare di conservatorismo e di essere uno dei freni alla crescita e allo sviluppo del Paese. Due strategie diverse che in comune avevano solo la messa in soffitta la stagione degli accordi separati. Più concreta e orientata a ricostruire un contesto utile quella del Presidente di Confindustria, più finalizzata alla rottura di equilibri consolidati e quindi anche del rapporto tra organizzazioni datoriali e sindacali quella di Renzi. La strategia del Presidente di Confindustria, condivisa anche dalle altre organizzazioni datoriali, ha sostanzialmente funzionato, la CGIL è tornata al centro della scena, ha firmato anch’essa l’accordo sulla rappresentanza e, nel Terziario, l’importante CCNL che nelle due tornate precedenti era stato firmato solo da CISL e Uil di categoria mettendo in un angolo Landini e la sua strategia politica di opposizione sociale. Oggi nessuno ipotizza il ritorno alla stagione degli accordi separati. Ovviamente il Presidente di Confindustria non era e non è mosso dalla volontà di limitarsi a ricostruire il sindacato unitario, ci mancherebbe. Il suo obiettivo era di ricostruire una apparente simmetria nella relazione dentro la quale poter perseguire i propri obiettivi. Anche perché i rapporti di forza oggi sono indiscutibilmente a favore delle imprese. Rappresentanza e rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, procedure di raffreddamento del conflitto, regole di approvazione dei contratti, decentramento di parte dei contenuti della contrattazione sono gli obiettivi nei confronti del sindacato. E questi obiettivi sono realizzabili o attraverso un’intesa che in questo momento si presenta difficile o attraverso una legge. Da qui i toni (quasi di sfida) dal palco della festa azionale dell’unità. E da qui il messaggio di sostegno al Governo sul fisco. È una mossa forte per restare in gioco. Al sindacato manda a dire, sbrighiamoci altrimenti se ne occuperà la politica con tutti i rischi conseguenti e al Governo che l’appoggio di Confindustria è fuori discussione ma è condizionato dai risultati concreti che si otterranno sul fisco e non dai proclami. Di fronte non tanto a questa sortita ma a ciò che questa sortita significa il sindacato deve rispondere non già scendendo sul piano della legittima polemica ma trovando le risposte e le strade per ricostruire un serio cammino unitario su proposte praticabili. Tutti i corpi intermedi sono ad un punto critico del loro percorso. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” era un vecchio slogan della CISL. Sono passati piú di vent’anni. Questo è il punto vero. Ci sono segnali incoraggianti. Dai sindacati dell’industria della CISL, da alcune regioni del Nord dove cresce la consapevolezza che occorre fare un deciso passo avanti. In questi anni la deriva identitaria ha impedito l’affermarsi di una nuova cultura condivisa e praticabile fuori dai propri confini organizzativi. Ma il sindacato, tutto il sindacato come gli altri corpi intermedi hanno una vitalità e una capacità rigeneratrice spesso sottovalutata da chi non li frequenta da vicino. E questa vitalità presente soprattutto nei territori è destinata a produrre esigenze di cambiamento e di innovazione. Io credo che, quando la polvere della polemica si abbasserà e lascerà il campo alle proposte e al negoziato lì occorrerà essere presenti con idee e strategie praticabili. Questo è quello che conta.
Il jobs act tra luci e ombre.
ancora una volta i numeri rischiano di trasformarsi nel giudizio di Dio. Lo scontro tra favorevoli e detrattori è ormai al calor bianco. Gli interventi si sprecano. Il Jobs act genera assunzIoni o sono gli sgravi fiscali che spingono le aziende a scegliere il contratto a tutele crescenti? È corretto mettere a disposizione una massa di sgravi così rilevanti alle imprese senza che queste risorse generino assunzioni aggiuntive? La sospensione dell’art. 18 era proprio necessaria? Dall’altra parte diversi esponenti del Governo e dei partiti di maggioranza con dichiarazioni ottimiste e rassicuranti che, ogni mese, ci raccontano la loro versione. in mezzo la credibilità del nostro Paese. Il Jobs act ha un indubbio valore simbolico che va ben oltre i suoi aspetti concreti. Questo dovrebbe essere chiaro a tutti. È, per certi versi, come la legge Fornero. Sono atti che si trasformano in elementi fondamentali a sostegno della nostra credibilità internazionale. Che ci piaccia o meno. Ed è da qui che bisogna partire per formulare giudizi obiettivi, altrimenti si trasforma in uno scontro tra ragionieri con il pallottoliere. Ovviamente il Governo esagera ed enfatizza i risultati e non considera i giudizi di merito che, spesso, manifestano buone ragioni. E questo irrita fortemente, chi, pur condividendo una strategia riformista seria, non ha condiviso l’impostazione del provvedimento. Non possiamo non considerare che il Jobs act viene dopo la legge Biagi ma non me rappresenta l’evoluzione. Per certi versi è un passo indietro. Nella Biagi c’era la chiara consapevolezza che il lavoro era cambiato e che sarebbe cambiato ancora di piú e che il problema principale fosse creare opportunità di lavoro. Il confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo sta perdendo di significato e non sarà certo il contratto a tutele crescenti a invertire la tendenza. Nel Jobs act c’è un’idea del lavoro più tradizionale. Forse più “confindustriale” e meno terziaria proprio mentre l’economia si sta terzarizzando sempre di più. Però era anche l’unica strada praticabile per il PD (prima della diaspora interna) impegnato fino a poco tempo fa in una critica serrata della legge voluta dal centro destra in un periodo di forti divisioni sindacali. C’era voglia di voltare pagina sperando in un diverso atteggiamento della sinistra PD e della CGIL. Non è un caso che tutti i tentativi di disponibilità al dialogo portati avanti dalla CISL sono stati fatti cadere. Adesso non si può tornare indietro facilmente anche perché l’idea che la tipologia del lavoro classico a tempo indeterminato è l’unica da perseguire e tutto il resto è precarietà è sicuramente prevalente nel Paese e nelle forze politiche. È prevalente ma, purtroppo, è sbagliata e impraticabile. Il 60% del PIL è prodotto dal settore terziario che, per sua natura ha bisogno di flessibilità del lavoro e di tipologie differenti. L’industria, che piaccia o meno, continuerà a produrre dove è piú conveniente quindi non offrirà grandi sbocchi occupazionali nel Paese e, infine, la ripresa, se ci sarà, sarà jobless. Il mercato del lavoro per i giovani è ormai globale e, comunque, le carriere saranno costituite da un patchwork di attività che dovranno essere assemblate in modo completamente diverso da quelle delle generazioni precedenti con tutti i problemi di welfare da gestire individualmente e contrattualmente anche perché il welfare pubblico sarà ine inevitabilmente ridimensionato. Per questo occorrerebbe piú coraggio e più visione del futuro sia da parte delle organizzazioni datoriali che sindacali. Il lavoro che cambia non può essere solo argomento da convegni. Deve ritornare ad essere materia di riflessione e di proposta. Però una cosa deve essere chiara. Il punto di partenza deve tenere conto del contesto nazionale e internazionale nel quale siamo inseriti, gli obblighi e la credibilità che dobbiamo mantenere e possibilmente accrescere e, infine, il contenuto delle proposte che devono essere utili ad accompagnare il processo di integrazione e di cambiamento, anche culturale, che abbiamo di fronte.