una concreta riforma della contrattazione non può prescindere innanzitutto dalla costruzione di regole e di riconoscimenti reciproci tra le parti chiamate ad esercitare questa funzione. Definire chi è legittimato a trattare, su quali materie, a quale livello, in che quantità e con quali scadenze non è affatto secondario. Come non è affatto secondario stabilire se la contrattazione aziendale, alternativa o integrativa del CCNL, sia libera o obbligatoria e cosa succede se non arriva ad alcuna conclusione in tempi ragionevoli. In altri termini, mentre il semplice rispetto del CCNL mette, di fatto, tutte le aziende sullo stesso piano, come sarà possibile escludere situazioni di dumping contrattuale, seppur mascherato dalla volontà di un confronto strumentalmente trascinato all’infinito? (vedi ad esempio il caso della GDO dove Federdistribuzione ha aperto un tavolo di confronto impossibile da chiudere per le distanze sul merito del negoziato). Se la contrattazione non dovrà essere più sostenuta dalla messa in campo dei rapporti di forza e non dovrà assumere le caratteristiche di una semplice “tassa” (obbligatoria) sul lavoro ha bisogno di nuove regole e di nuovi approcci anche da parte del Sindacato che dovrebbe accentuare la sua natura costruttiva e collaborativa puntando anche ad una diversa professionalità dei suoi negoziatori. Non meno dalle imprese che dovrebbero riconoscere al sindacato, cosa tutt’altro che scontata, un ruolo propositivo e, di fatto, “intrusivo” nella destinazione degli eventuali incrementi dì produttività definita e prodotta dalla contrattazione stessa. E questo non in pochissime realtà aziendali come è oggi ma in tutte quelle imprese che vorranno cimentarsi nella contrattazione aziendale. Detto questo ha sicuramente ragione il prof. Ichino quando sostiene che è il governo della massa salariale, oggi sbilanciata sul CCNL, il punto centrale del problema, secondo il prof. Ichino, è che non può esserci alcun decentramento se non si affronta questo punto prevedendo deroghe, oggi non previste, che consentano alle imprese di destinare somme importanti al negoziato aziendale. Il problema c’è ma, personalmente, non credo sia risolvibile in questo modo. Non lo è per il Sindacato e non lo è per la stragrande maggioranza delle imprese piccole e medie. Un diverso approccio potrebbe essere dato da una riforma complessiva del salario contrattata e condivisa a livello centrale. Un nuovo modello salariale che preveda una parte minima in linea, ad esempio, con la CIG, una parte legata alla professionalità espressa e, infine, una parte legata all’andamento aziendale. La prima stabilita a livello nazionale, la seconda nella quale potrebbe essere concordato un range minimo e massimo a livello nazionale con applicazione a livello aziendale e la terza esclusivamente a livello aziendale. Ovviamente il CCNL potrebbe stabilire i minimi complessivi di riferimento delle singole voci per evitare situazioni distorsive e governare il welfare contrattuale. Questa impostazione, supportata da interventi legislativi e di modifica del codice civile, potrebbe consentire una gestione dei costi migliore per le aziende e spingere per la costruzione di un modello di formazione permanente a supporto della crescita e dell’impiegabilità dei lavoratori. Inoltre il coinvolgimento sull’andamento aziendale spingerebbe sicuramente ad una maggiore collaborazione e a un ruolo marcatamente propositivo le stesse organizzazioni sindacali. Per le aziende i vantaggi sarebbero dati dalla reversibilità legata ad elementi oggettivi di una parte della retribuzione individuale, di una maggiore spinta alla produttività individuale e di gruppo e a potenziali e interessanti sgravi fiscali. Per il sindacato e per i lavoratori i risultati sarebbero altrettanto evidenti. Un rapporto più consapevole maturo con la propria impresa, più formazione e crescita professionale, minori problemi per gli over 50 che, pur guadagnando di meno se non dovessero ricoprire ruoli professionali adeguati, non si troverebbero in situazioni di grave difficoltà personali sul mercato. È in un mix di questo tipo tra contratto nazionale e aziendale, tra esigenze dell’azienda e tutela del lavoratore che può essere trovata la soluzione migliore. Il punto ineludibile è che è comunque necessario che cambi il sistema attuale altrimenti vedo inevitabile che la crisi del modello attuale porti ad una giungla dove l’individuo è sempre più solo e nella quale sarebbe molto più difficile muoversi visti i ritmi e i problemi posti dalla globalizzazione e dalla competitività per le imprese.
Riforma della contrattazione: farla in fretta o farla bene?
Quante sono realmente le imprese che spingono per avere un nuovo modello contrattuale? Quante lo ritengono necessario? Ma soprattutto quali vantaggi concreti ne ricaverebbero? Chiunque vuole mettere mano al modello contrattuale italiano deve partire da queste semplici domande. I vantaggi per le organizzazioni sindacali sono evidentemente più chiari. Partiamo dalla realtà. Se prendiamo l’intero universo delle imprese italiane non possiamo non prendere atto che la contrattazione aziendale con le organizzazioni sindacali è presente in un numero esiguo di aziende. Se poi dovessimo entrare nel merito della qualità della contrattazione ci accorgeremmo che ciò che riguarda gli aspetti economici sono trattati da un numero ancora meno significativo di imprese e quasi sempre le organizzazioni sindacali si limitano a ratificare sostanzialmente le proposte aziendali. È la legge del pendolo. Le aziende contrattano solo se hanno problemi che sono costretti a condividere. In caso contrario decidono unilateralmente. Ovviamente ci sono eccezioni e esempi “virtuosi” di coinvolgimento delle organizzazioni sindacali ma, appunto, si tratta di eccezioni. Addirittura molte imprese di diversi settori sono impegnate a smontare i contenuti storici della loro contrattazione aziendale. Indennità, gettoni, percentuali aggiuntive al CCNL, mensilità aggiuntive, salario aziendale fisso, esclusione delle prestazioni domenicali, ecc. sono azzerate o rimesse in discussione quasi ovunque. In molti casi queste particolari condizioni erano già limitate ai collaboratori di vecchia data e non coinvolgevano i nuovi assunti già da molti anni. Se questa premessa è vera siamo in una situazione dove la stragrande maggioranza delle imprese, oggi, preferirebbe non contrattare alcunché con le organizzazioni sindacali. Questo non significa che non ci sia disponibilità ad operare economicamente sulle risorse chiave come peraltro già avviene o a legare parte del salario all’andamento dell’impresa o ad obiettivi specifici. Quindi qualsiasi riforma, per le imprese, non potrà prevedere incrementi di costi che non siano supportati da concreti (e sottolineo concreti) aumenti di produttività. Il professor Ichino cerca di risolvere il problema attraverso una proposta interessante ma, temo di difficile applicazione. Sostanzialmente lasciare ad ogni impresa la facoltà di applicare o meno il CCNL dotandosi, in quel caso, di un contratto aziendale equivalente costruito sulle specificità e sulle esigenze dell’impresa stessa. In alcuni e limitati casi potrebbe essere una buona soluzione. Gli attuali CCNL non consentono deroghe suglia aspetti economici e quindi non lasciano quello spazio necessario a costruire un sistema di incentivazione specifico. Nelle imprese medio grandi potrebbe essere una opportunità da percorrere. Oscar Giannino si spinge oltre auspicando addirittura la predisposizione di un “kit negoziale” che le organizzazioni datoriali potrebbero mettere a disposizione dei loro associati. Il kit del bravo negoziatore. Il caso Fiat ha fatto scuola e quindi sembra tutto abbastanza semplice. Purtroppo non è così. La storia della contrattazione aziendale nel nostro Paese è nota. Le aziende dove le organizzazioni sindacali erano radicate e più forti concedevano risultati normativi ed economici maggiori che poi venivano estesi a tutti attraverso la contrattazione nazionale anche a quelle aziende che non avevano alcun interesse ad accettarle o pressioni sindacali interne. E questo fino a quando le imprese maggiori hanno ben compreso che “nascondendosi” dietro le piccole e medie imprese potevano invertire una tendenza che loro stessi avevano contribuito a creare. Ritornare indietro è possibile ma occorre farlo con grande cautela. Oggi il rapporto tra imprese e sindacato è asimmetrico quasi ovunque. Ieri non era cosí. Domani chissà. Il CCNL è un punto di riferimento per la stragrande maggioranza delle imprese italiane e mantiene una funzione di equilibrio. Inoltre evita fenomeni di dumping contrattuale. Seguire le esigenze di poche seppur importanti aziende non è una scelta corretta. Semmai è l’esatto contrario. Per questo ci vuole cautela ed sarebbe buona cosa lasciare la scelta e la costruzione di una proposta alle parti sociali ovviamente facendo tesoro del contributo indispensabile dei veri esperti e studiosi della materia.
Ritornare ad investire sul capitale umano. Un dovere per ogni impresa.
Philip Kotler ci ha abituato a interessanti anticipazioni di quello che potrà essere l’evoluzione del business nel futuro. Non a caso parla di evoluzione H2H come evoluzione del B2B e del B2C. H2H che significa semplicemente Human to Human. La parola chiave sarà sempre di più rappresentata dalla personalizzazione. Ma come si può personalizzare il rapporto con il cliente in un contesto che rischia di essere sempre piú spersonalizzato come nell’impresa di oggi? Un altro esempio che segnala un cambiamento in corso è rappresentato da Starbucks. L’azienda americana ha deciso di sostenere economicamente i propri dipendenti che vogliono riprendere a studiare iscrivendosi all’università. L’azienda sa benissimo che i propri collaboratori (chiamati significativamente partner) potrebbero andarsene una volta raggiunto il loro obiettivo professionale ma non ritiene questo rischio un problema. Ha capito che l’apprendimento e la formazione continua rsppresentano la base sulla quale costruire un serio rapporto di partnership con vantaggi reciproci. In futuro dovrà essere così per tutte le imprese. La convinzione che l’impiegabilità di un collaboratore non sia un problema dell’azienda è figlia del contesto che abbiamo attraversato in questi anni. L’impresa trova nel mercato del lavoro ciò che serve, assume, decide inquadramento e retribuzione e, infine, licenzia quando le capacità o le competenze o i comportamenti o il costo espressi dal singolo non sono più in linea con i dettami aziendali. Questa impostazione che avrebbe dovuto favorire la nascita di una cultura di partnership vera tra impresa e collaboratore è degenerata a causa dell’assimetria del rapporto di potere tra i contraenti il patto stesso. La crisi ha poi fatto il resto. Basti solo sottolineare che fino a dieci anni fa era normale restare in una azienda per tre quattro anni e poi cambiare per migliorare la propria posizione. Oggi molte imprese non superano i tre quattro anni di vita e quindi spesso non sono in grado di onorare nessun patto pur sottoscritto con convinzione. Per questi e altri motivi lo scambio è stato via via sostituito dall’imposizione di comportamenti pretesi, dall’impossibilità a mantenere accordi sottoscritti trasformando cosí, in molti casi, il rapporto di lavoro in un vincolo solo per uno dei contraenti. È questo non crea certo quel clima necessario nel quale la prestazione individuale mette in circolo il massim possibile. E non basta più ricorrere alle classiche liturgie aziendali per motivare, spingere e coinvolgere i propri collaboratori che vengono sempre più percepite come finte e prive di coerenza. Nel breve le aziende hanno pensato di affrontare il problema quasi esclusivamente sul piano generazionale. Fuori gli over qualcosa e dentro stagiaire o giovani con il miraggio della carriera. I cosiddetti talenti. Politiche retributive estremamente selettive, strutture piatte, coinvolgimento full time o meglio h24. Ma questo, nel lungo periodo, funziona solo se la cultura del lavoro e dell’impegno professionale restano quella delle generazioni precedenti improntate su di un’etica del lavoro a prescindere. Quelle che vengono, in molte realtà, messe alla porta. Le nuove generazioni chiedono altro. Impegno si ma anche vita privata, formazione continua, crescita professionale, gerarchie meno opprimenti e più coerenti. Capi che insegnano e coinvolgono. Non che sfruttano idee e proposte. Rispetto e riconoscimento. Ma tutto questo non si ottiene con l’imposizione o con le regole del contesto precedente. Altrimenti nasce la disaffezione, il disimpegno e, prima o poi, la contestazione. Cambiare significa anticipare e rimettere le direzioni risorse umane a lavorare seriamente sul capitale umano a loro affidato. Significa considerare le risorse umane un patrimonio aziendale e non numeri in mano a capì isterici. Significa investire. Formazione continua finalizzata ad una effettiva impiegabilità della risorsa. Percorsi di carriera, colloqui di valutazione e sviluppo finalizzati alla crescita professionale. Un’azienda è innanzitutto rappresentata dal clima interno. È sentirsi parte di una squadra coerente e leale con i suoi membri che fa la differenza. Creare il contesto necessario è innanzitutto compito dell’impresa. E sarà la vera sfida dei prossimi anni.
la contrattazione nella GDO ha un futuro?
le ultime vicende sindacali che hanno coinvolto diverse situazioni locali sono emblematiche di un contesto che cambia rapidamente non sempre compreso dagli attori in campo. Ha ragione Di Vico oggi sul Corriere a porre il problema. Nel comparto manifatturiero il sindacato viene puntualmente scavalcato dai lavoratori stessi chiamati direttamente o indirettamente dall’azienda in caso di picchi produttivi. Dalla vicenda FCA in avanti rare volte le imprese si sono fermate davanti alle prese di posizione di parte o di tutti i sindacati. E quando lo hanno fatto (vedi whirpool o altre) è stato per evidenti errori di gestione della vertenza. Diverso è il caso della GDO. Da un lato la disdetta del CCNL del terziario e la mancata sottoscrizione di un nuovo contratto specifico con Federdistribuzione evidenzia la debolezza reale del sindacato di settore. Lasciare oltre centocinquantamila lavoratori senza contratto dove le OOSS vantano il maggior numero di adesioni rispetto ad altri comparti del terziario è significativo di una difficoltà evidente di mobilitazione mentre dall’altro, la radicalizzazione di alcune vertenze (vedi IKEA) testimonia la difficoltà di dare uno sbocco credibile ad una vertenza che rischia di non portare ad alcun risultato concreto. Senza contare che in situazioni di tensione ben più significative e importanti (Carrefour, Auchan, BILLA, PAM) le stesse sono state gestite diversamente sia sindacalmente che mediaticamente. Ma cosa sta succedendo nella GDO? È chiaro che il vecchio modello contrattuale che si reggeva su un CCNL del terziario di basso costo integrato da una contrattazione aziendale aggiuntiva non regge più e non da adesso. Ha cominciato BILLA nel 2004 con la disdetta del contratto integrativo e poi via via si sono aggregate molte altre imprese con alterni risultati fino a quando Federdistribuzione, sbagliando, ha pensato di di poter imporre alle OOSS un CCNL estremamente vantaggioso per le aziende aderenti per rimediare ai costi e agli errori organizzativi che le singole imprese avevano commesso negli anni con lo scopo di mantenere la pace sociale al loro interno. Sbagliando, ovviamente, perché era del tutto evidente che le OOSS non avrebbero potuto sottoscrivere un CCNL diverso da quello del Terziario firmato poi con Confcommercio e senza tenere conto dell’altro CCNL firmato dalle COOP che operano anch’esse nella GDO con una presenza significativa. Napoleone diceva che “tutto puoi chiedere ai tuoi soldati meno che sedersi sulla punta delle loro baionette”. In altre parole una strategia di imposizione che ha portato l’intero comparto aderente a Federdistribuzione su di un binario morto. Questa situazione, sommata alle esigenze specifiche delle singole imprese, ha determinato la crisi delle relazioni sindacali impedendo quel salto di qualità necessario che, al contrario, ha trovato uno sbocco nella firma del CCNL del terziario con, ad esempio, la possibilità di derogare in pejus a fronte di esigenze specifiche. Personalmente credo che occorrerebbe partire dal contratto nazionale appena firmato da Confcommercio.. Pensare di sostituire la contrattazione nazionale con quella aziendale o di settore nel comparto dei servizi è un errore. Lo è perché, con la cultura attuale, assegnerebbe esclusivamente ai rapporti di forza il risultato. Lo si è visto nel passato a favore dei sindacati interni e esterni e lo si può vedere oggi a favore delle imprese. E lasciare ai rapporti di forza il risultato in un contesto dove non c’è una consapevolezza ed un riconoscimento reciproco stabilizzato e neppure una storia di relazioni sindacali costruttive porta a situazioni ingovernabili. Senza questa consapevolezza il settore scivolerà sempre più verso un modello di sindacato corporativo tipo quello dei centri della logistica e dei trasporti dove il sindacalismo confederale è stato stravolto è costretto ad inseguire i Cobas e le aziende non ne hanno tratto alcun vantaggio concreto. Per questo l’invito di Di Vico a ragionare su un nuovo modello di relazioni e regole del gioco è importante. Serve però la consapevolezza che occorre andare oltre agli attuali rapporti di forza e saper guardare lontano. Negli anni 70 quando i rapporti di forza erano favorevoli ai sindacati è nata la cultura della bilateralità. Forse oggi occorrerebbe fare un passo avanti e costruire una nuova cultura della collaborazione che significa condividere necessariamente momenti negativi (non subirli e basta) accettando i ridimensionamenti e i tagli necessari ma, contemporaneamente, creando le premesse per assicurarsi i benefici appena la stabilizzazione del mercato lo renderà possibile. Solo in questo modo può crescere una nuova consapevolezza. Ovviamente bisognerà avere la capacità di comprendere che sacrifici e benefici non possono essere per sempre. Dovranno avere una durata temporale accettabile e condivisa. Per questo il CCNL del terziario non può che essere il punto condiviso unico per tutto il comparto prevedendo semmai specificità, deroghe e condizioni particolari per coloro che decidono di adottarlo. Pensare che il percorso inverso sia praticabile e trovarsi alla fine con tre o quattro contratti nazionali solo nella GDO sarebbe un errore. Per non commetterlo occorrono imprese e sindacati che guardano avanti con maggiore fiducia nel futuro ma anche di rispetto dei rispettivi ruoli. Oggi più che mai.
Etica e Sindacato: occorre separare il grano dal loglio.
il dibattito sul reddito di alcuni sindacalisti che si è scatenato in rete in queste settimane sta portando con sé diverse interessate strumentalizzazioni. È singolare come alcune professioni siano più esposte di altre al pubblico ludibrio. Politici, sindacalisti e a volte lo stesso clero scontano sempre generalizzazioni semplicistiche ogni volta che uno o più esponenti di quei mondi viene coinvolto in scandali o comportamenti eticamente discutibili. Sembra che non esista responsabilità individuale. Ogni volta è l’intera categoria che deve difendersi o subire una condanna complessiva quanto generica. Non succede per i medici, i giornalisti, gli avvocati o per i giudici e neanche per i manager per citare alcune categorie spesso soggette a critiche causate da comportamenti non sempre irreprensibili. La prima giustificazione è che alcune professioni sono considerate da una parte dell’opinione pubblica, eticamente importanti e quindi chi vi accede deve essere diverso, unico, superiore. Se, per certi versi è comprensibile per il clero, per le altre c’è molta strumentalità in questa visione. Politici e sindacalisti sono spesso oggetto di critiche a prescindere e, nella scala di gradimento popolare, non occupano quasi mai i primi posti. Per certi versi godono di pessima fama. E allora perché accanirsi quando viene alla luce un comportamento individuale scorretto? E soprattutto, perché i più incarogniti accusatori sono coloro i quali non nutrono alcun rispetto a prescindere per queste professioni? La prima riflessione che mi sento di fare è che c’è un mondo mediocre che non ama chi fonda il proprio agire sull’etica. Essere onesti e disponibili verso gli altri, pensare al bene comune, cercare di perseguirlo, impegnarsi ben oltre ciò che il corrispettivo economico consentirebbe è sempre visto con sospetto. Chiunque abbia frequentato sindacalisti, preti o politici seri si rende conto che la stragrande maggioranza è gente per bene. Soprattutto che si è orgogliosi di averli come amici. Sono persone speciali, uniche che ti trasmettono una grande serenità e fiducia nel futuro. Sono un grande antidoto al pessimismo della ragione. Spesso lontani mille chilometri dalle piccole miserie con cui ciascuno di noi, comuni mortali, deve confrontarsi quotidianamente. Disponibili, seri, pronti a darti una mano. A volte ingenui, sinceramente scandalizzati di fronte alle piccole e grandi ingiustizie di tutti i giorni alle quali noi siamo purtroppo rassegnati. Una cosa che mi dispiace è proprio questa volontà dei mediocri di voler gettare sempre il bambino con l’acqua sporca. Questa incapacità di rispettare le persone per bene e generalizzare sempre comunque. Mi immagino come si sentano in questi giorni decine di migliaia di sindacalisti di base dentro e fuori i luoghi di lavoro additati da giornalisti trasformati in giudici improvvisati o da intellettuali che fanno della provocazione il loro stile improvvisamente accumunati a chi sa muoversi con disinvoltura incollato alla propria poltrona da anni. Poche mele marce nella cassetta ma sufficienti a costruire un’opinione sulla qualità di tutte le mele. Lo stesso discorso vale per i preti pedofili o per i politici disonesti. A chi giova distruggere ciò che di buono c’è nelle professioni che fanno dell’impegno sociale, politico o religioso un punto distintivo forte? Io credo che occorra indignarsi sicuramente nei confronti dei disonesti ma avendo ben chiaro la differenza tra il grano e il loglio. Poi servono, ovviamente, i regolamenti, i codici, le espulsioni e le condanne perché le prediche non bastano e i disonesti non devono mai avere il sopravvento. Né il “così fan tutti.” Ma occorre anche avere il coraggio del rispetto. Con molti sindacalisti e politici onesti mi sono confrontato e mi confronto tutti i giorni. Spesso abbiamo opinioni e visioni differenti nel merito dei problemi ma il rispetto per chi sceglie di impegnarsi con gli altri e per gli altri, per quanto mi riguarda, non viene mai meno.
Londra H 24 un futuro auspicabile?
lo scontro tra sindacati e amministrazione locale a Londra va ben oltre il problema del funzionamento notturno della metropolitana. C’è in gioco un’idea di futuro della città e del modo di vita occidentale. Una città in funzione h24 e Londra si propone come modello di riferimento. A prima vista è un modello che può piacere. Chi non vorrebbe avere tutto e subito? Una città in grado di offrire ogni cosa è di permettere di viverla a ciclo continuo ha certamente un suo fascino. È facile prevedere che scenderanno in campo molti sostenitori di questa ipotesi con buoni argomenti provocando un dibattito dove sarà difficile distinguere le rispettive buone ragioni riuscendo contemporaneamente a separarle dagli interessi generali di breve e di lungo periodo. Ma cosa c’è dietro una città che funziona h24? Prima di tutto una organizzazione del lavoro delle attività della città completamente diverse, una sorta di ciclo continuo che coinvolge tutti, servizi privati e pubblici da ridisegnare su chi dovrà lavorare dunque più occupati, non necessariamente professionalizzati. E qui sorge un primo problema. Da un lato ci sarà chi può permettersi di vivere e lavorare in orari decenti non mettendo in gioco i suoi e i cicli biologici dei suoi cari, dall’altro una massa notevole di persone che per vivere dovranno adattarsi alla nuova realtà mettendo in gioco il proprio sistema relazionale e familiare, la propria salute e il proprio reddito. Chiunque abbia mai lavorato nei turni di notte può capire la portata del problema solo da questo punto di vista. Un secondo problema è rappresentato dalla necessità di riorganizzare i servizi per chi lavora: trasporti, welfare, asili, scuole, ecc. a meno che non si pensi che che questo sia un problema da mettere in carico agli individui coinvolti. In questo caso nascerebbe la necessità di creare un mercato del lavoro estremamente povero aperto a immigrati e poveracci indigeni disposti a tutto pur di avere un reddito. Cioè un modello sociale darwiniano dove i più forti sopravvivono decorosamente e gli altri saranno costretti ad arrangiarsi. Quindi una messa in discussione radicale dei diritti e delle conquiste sociali del ‘900. Un terzo problema è rappresentato dalle regole della concorrenza soprattutto nei confronti delle attività commerciali. I piccoli esercizi se non saranno costretti a chiudere dovranno lavorare prendendo come modello gli asiatici che tengono aperte le loro attività senza garantire alcun particolare standard di servizio europeo. Infine la qualità della vita. Nelle famiglie, nei quartieri e nella città. Ottima per turisti, ovviamente meno per i residenti. Quindi ci si orienterà verso quartieri riservati a chi potrà permetterselo e gli altri si arrangeranno. Una bella prospettiva, mi sembra. Manzoni diceva:”non tutto ciò che viene dopo è progresso.” Mi sa che aveva ragione..
Il 900 è alle nostre spalle?
se c’è una cosa chiara dopo la vicenda che ha coinvolto la Grecia è che debito e democrazia sono diventativun ossimoro. Puoi fondare nuovi partiti, puoi protestare come ti pare ma in una economia globalizzata e interdipendente prima paghi i tuoi debiti e poi, nel mondo, qualcuno forse ascolta la tua opinione. È questo non vale solo per la Grecia. Ovviamente questa affermazione rende necessario un profondo lavoro di riscrittura di ciò che è indispensabile per ricostruire un patto di convivenza tra popoli e tra comunità. Io non temo l’esplosione di localismi o l’affermazione di movimenti demagogici. Lo do per scontato. Come do per scontato che una loro eventuale vittoria in un Paese termina un secondo prima o un secondo dopo l’ affermazione elettorale. Alla prova di Governo il meccanismo è comunque destinato ad incepparsi. Come in Grecia. Credo oggi si possa sempre più parlare di una entità politica ed economica sovranazionale che governa, attraverso il debito e le regole che lo governano, i singoli Paesi decidendone la crescita o il declino, costringendo chi democraticamente li dirige a politiche compatibili con quanto deciso altrove e rendendo inutili filosofie, istituzioni e pratiche costruite nei secolo precedente.. Il declino delle politiche nazionali parte da qui. Non è un caso che Mario Draghi messo di fronte alla scelta tra fare il Governatore della BCE o il Presidente della Repubblica in Italia non ha avuto il minimo dubbio nel restare dov’è. A quel livello, come nelle multinazionali, la nazionalità non conta nulla. Contano le competenze e l’accettazione di valori e filosofie tipiche di quella cultura. Il punto quindi non è ratificare la subalternità di un popolo all’altro come sembrano propendere oggi i media. Secondo me non c’è una supremazia tedesca. C’è una supremazia economico finanziaria sul mondo che in Europa è garantita dalla Germania per le sue politiche compatibili con quella visione. Ma anche la Germania deve sottostare alle regole che il suo apparato economico e finanziario ha contribuito a scrivere. Quindi il problema è di tutti. E se fosse così non è sufficiente votare un partito o un movimento per cambiare verso. Tutto ciò che va in quella direzione trova consenso nel mondo economico finanziario mentre ciò che non risponde a quei requisiti porta al declino e quindi all’intervento esterno, diretto o indiretto. Da questo ne discende che tutti i tentativi messi in atto per uscire soli o in compagnia da queste regole sono destinati al fallimento. Se continuiamo a pensare con la testa nel 900 rischiamo di ridurre il tutto ad uno scontro tra ultra liberisti e keynesiani, quindi affrontabile politicamente o elettoralmente.vChi pensa questo è convinto che esploderanno conflitti nazionalistici o localismi e che questo farà cambiare la politica nei singoli Paesi. Io credo che tutto questo non avverrà fino a quando ci saranno Paesi indebitati e subalterni e quindi impossibilitati ad avere una strategia credibile in altri Paesi dove, anche se vincessero forze disponibili al cambiamento, si troverebbero a dover spiegare al proprio elettorato appena conquistato con promesse demagogiche che è giusto in un mondo globalizzato sacrificarsi per i vicini o rinunciare all’uovo oggi in vista di una ipotetica gallina domani. La crisi della socialdemocrazia europea in fondo nasce da qui. Se sviluppa una politica progressista perde i voti, se si sposta al centro si snatura. Ed è lo stesso motivo per cui la destra è destinata a vincere molte battaglie ma a perdere la guerra perché è costretta a spostarsi sempre più a destra entrando anch’essa in conflitto con l’establishement. Quindi continuerà un processo di omologazione economica, politica e sociale in atto. Se così fosse a noi non resta che continuare sulla strada intrapresa per recuperare quella credibilità internazionale che non possiamo avere in questa situazione. Rimettere a posto i nostri conti utilizzando il massimo di flessibilità che i nostri partner ci consentiranno di utilizzare. Sul versante negativo abbiamo sul nostro territorio le tre principali organizzazioni criminali mondiali, uno dei più alti debiti, una parte importante del Paese, il sud, messo peggio della Grecia e un’altra parte, il nord in grado di integrarsi rapidamente con il mondo se marciasse da solo. Sul versante positivo abbiamo oltre quattro milioni di imprenditori, la seconda manifattura d’Europa, un Paese affascinante da rilanciare nel mondo e oltre al Made in italia e alla creatività che tutti ci invidiano, una capacità di resistenza e di adattamento fondamentali nelle fasi di cambiamento. Dovremmo poter contare su qualcuno che parla chiaro al Paese e su uno sforzo di convergenza tra “gli uomini di buona volontà” presenti in tutti gli schieramenti politici. Solo così guadagneremo la possibilità di dire la nostra. Non sarà molto in un mondo globalizzato e interdipendente ma è certamente la base per poter avere il tempo di ricostruire quei punti di riferimento che nel 900 erano chiari e che oggi non esistono piú.
Lobby e buona politica
questa idea che la rappresentanza e/o la tutela degli interessi collettivi siano sempre e comunque negativi o forieri di conservazione la trovo inaccettabile. È vero che nel nostro Parlamento e nel Paese agiscono e intervengono lobbies e lobbisti che hanno come unico scopo quello di favorire interessi particolari. E su questo è giusto intervenire con una regolamentazione chiara che eviti abusi. Detto questo però non è possibile far passare l’idea che tutto ciò che è difeso dalle organizzazioni di rappresentanza (datoriali, sindacali, associazioni, ecc.) sia assimilabile alle lobbies. Non è così. Battersi contro la liberalizzazione totale degli orari è una battaglia di progresso o di conservazione? In tutta Europa esiste una regolamentazione sulle aperture dunque sono conservatori pure loro? La battaglia contro la desertificazione dei centri storici e quindi contro le licenze facili all’insediamenti dei centri commerciali è stata sempre vista come una lotta anti moderna. E adesso che abbiamo desertificato i centri storici delle medie città del nord e abbiamo in crisi i centri commerciali sorti nel frattempo come funghi dove sono i sostenitori della modernizzazione a vanvera che hanno imperversato sui quotidiani negli anni scorsi? E allora non facciamo di ogni erba un fascio. Ci sono liberalizzazioni utili e altre meno altre addirittura sono dannose. Abituiamoci a distinguere le une dalle altre. Le farmacie, ad esempio, sono un’altro film. Hanno accettato di buon grado di trasformarsi negli anni in piccoli supermercati del benessere e della salute e adesso non possono lamentarsi se i supermercati propongono prodotti prima presenti solo nelle farmacie. Così vale per molte altre situazioni. Quali sono gli interessi dei cittadini e chi deve tutelarli? Alesina e Giavazzi sembra propendano per una democrazia diretta. Solo i cittadini sono in grado di difendersi dalle lobbies. Io non credo. basta andare ad un’assemblea di condomino per rendersi conto di come si muove la società civile allo stato brado…. Esistono le associazioni, i sindacati le organizzazione di rappresentanza che servono anche a questo. Ce ne sono di tutti gli orientamenti e quindi possono e debbono intercettare le esigenze dei loro rappresentati e difenderle. Alla politica il ruolo di mediazione. Oggi sembra un’utopia. Ma se non ritorniamo a dare importanza alla democrazia delegata e quindi al ruolo delle organizzazioni di rappresentanza non arginiamo le lobbies. Le aiutiamo e basta.
un passo avanti e due indietro
l’endorsement alla proposta Cisl sulla riforma della contrattazione di Di Vico non mi convince. Dal punto di vista del metodo non credo sia utile continuare a spingere sulle divisioni sindacali sperando di trascinare la Cgil o puntando ancora ad accordi separati tra organizzazioni datoriali e sindacali. Quella stagione si è fortunatamente conclusa e non ha nessun senso riaprirla. Anche perché, è bene sottolinearlo, la deriva identitaria e la stagione delle divisioni hanno prodotto guasti sia sulla qualità dell’iniziativa sindacale complessiva ma anche sul necessario rinnovamento dei gruppi dirigenti e della loro capacità propositiva. Landini, che piaccia o meno, è uno dei tanti sottoprodotti della stagione delle divisioni. Nel contenuto dell’articolo non condivido definire comunque quella proposta una buona base di discussione. Sul primo punto. La CGIL e le sue categorie sono impegnate in uno sforzo di rinnovamento, ringiovanimento e sburocratizzazione che dovrebbe trovare maggiore attenzione negli osservatori e nei media. L’attuale segreteria confederale è impegnata concretamente in una battaglia vera sulla natura e sulle prospettive del sindacato e, il radicamento sociale e la sua concreta e certificabile rappresentatività, meriterebbero maggiore rispetto. Anche da parte del nostro Premier che, sottovalutando il ruolo e il peso delle organizzazioni di rappresentanza, riesce in una missione impossibile: non prendere minimamente in considerazione la Cisl e le sue aperture con conseguenze immaginabili e non comprendere la differenza tra la Cgil i suoi dirigenti e i suoi militanti rispetto alla minoranza del suo partito. È vero che può esserci maggiore sintonia con loro su alcuni punti programmatici rispetto alla visione blaeriana di Renzi ma è altrettanto vero che sono mondi diversi. L’insofferenza di molti importanti dirigenti politici della minoranza PD nei confronti della Cgil è cosa nota. Non capirlo è un errore. Inseguire l’altrui elettorato dando per scontato che il proprio non abbia alternative è possibile; pensare però che gli iscritti alla Cgil siano sempre e comunque parte del proprio elettorato è un errore. Lo è sempre stato, con tutte le delusioni del caso, per chi ha pensato di uscire dal sindacato portandosi appresso un pacchetto di voti “sicuri” ma inesistenti e lo sarà per chi pensa di poterne fare comunque a meno. Pesi e contrappesi in una società complessa sono importanti. Sottovalutarli è sbagliato ancorché inutile. È vero che anche in altre confederazioni o categorie ci solo segnali di nuovi approcci e c’è forse maggiore velocità di cambiamento (vedi ad esempio l’idea del sindacato dell’industria nella Cisl) ma il processo di sburocratizzazione in corso nella Cgil andrebbe considerato con maggiore attenzione. Nel merito posso condividere che, la presenza di una proposta da parte Cisl, è di per sé un fatto positivo. Ma è il contenuto che non mi convince perché non affronta la ragione principale alla base della crisi del sistema contrattuale italiano. Il punto centrale è la rigidità del sistema attuale che si fonda su un modello statico, sia esso centrale o aziendale, basato su diritti acquisiti che si mantengono inalterati nel tempo anche quando i tempi cambiano e centrati su un modello organizzativo collettivo e tayloristico. Qualsiasi riforma che non parta dalla revisione della struttura del salario, dalla modificabilità delle condizioni in rapporto all’attività concreta svolta dal lavoratore, alla reversibilità di tutto ciò che viene contrattato all’interno di una durata certa, al legame con l’andamento aziendale, a sgravi fiscali mirati, e ad un consolidamento del welfare contrattuale è destinata a produrre poco. Non dimentichiamo mai che la contrattazione aziendale è un fenomeno sostanzialmente irrilevante sul totale delle imprese. E quindi non può reggere, soprattutto di questi tempi, un operazione che rischia solo di aggiungere costi e vincoli alle imprese. e questo non credo sia una buona cosa, soprattutto non credo sia praticabile.
ISTAT, la cruda realtà e una possibile risposta
è in atto una modesta ripresa senza sostanziale occupazione aggiuntiva. Occorre farsene una ragione perché solo così si potranno individuare risposte concrete. L’articolo di Di Vico oggi sul Corriere conferma i dati usciti dall’istat e smentisce l’ottimismo di chi, dall’inizio dell’anno, un mese annuncia il successo del jobs act e il mese successivo non sa bene cosa dire. Dovrebbero tutti darsi una calmata altrimenti alla confusione seguirà una caduta di credibilità che colpirà tutti: ottimisti, pessimisti e commentatori. Un dato mi sembra chiaro: non c’è alcun incremento sostanziale dell’occupazione. Continuo a pensare che l’esigenza di disegnare un percorso credibile e la necessità di ottenere immediatamente dei risultati importanti non si sposano facilmente in nessuna situazione tanto meno in un contesto economico e sociale come il nostro e quindi l’invito alla cautela è sempre necessario. Il Jobs act rappresenta una risposta tattica ad una difficoltà concreta: impostare una strategia di lungo periodo. È certamente un metamessaggio rivolto al mondo sulla nostra volontà di fare determinate riforme, è un segnale inviato alle imprese soprattutto quelle che hanno bisogno di lavoro tradizionale, è un messaggio rivolto a quella parte della società che vuole crederci perché sente aria di ripartenza, è un messaggio alla politica e ai sindacati. È un messaggio che costa caro in termini economici ma, è evidente, che non può essere la soluzione del problema. La soluzione sta nella ripresa economica sulla quale però pesa il ragionamento presentato da Di Vico oggi è cioè che siamo di fronte ad una parziale ripresa di un ciclo economico probabilmente senza alcuna ripresa occupazionale. O con modeste risposte sul piano occupazionale. Questo impone necessariamente la riflessione e la definizione di approcci diversi. Susanna Camusso parla della necessità di un “piano per il lavoro”, Pierre Carniti, tempo fa, aveva proposto una leva civile europea per il lavoro dei giovani, altri autorevoli punti di vista hanno parlato di edilizia, lavori pubblici, salvaguardia del territorio, ecc. Domenico de Masi invita a partire da una lotta decisa dello Stato contro la criminalità organizzata e con un grande progetto formativo come pilastri indispensabili per rilanciare il sud. Opinioni certo scollegate tra di loro. Personalmente mi domando perché non si ha il coraggio di lanciare una grande iniziativa di confronto aperto a tutti nel Paese. Una conferenza nazionale sull’occupazione che coinvolga le nostre migliori teste e che affronti il tema da tutti i punti di vista e elabori proposte praticabili. Una sorta di chiamata in campo costruttiva, propositiva, utile. Un contributo alla solitudine del Governo costretto a mosse tattiche in mancanza di una strategia condivisa dal Paese. Per una volta la politica inconcludente, i benaltristi, gli oppositori di principio, i legulei e tutta la compagnia di giro del non per il no lasciamoli a casa. Condividiamo le nostre migliori proposte e spingiamo tutti nella stessa direzione. I dati, purtroppo, parlano chiaro. Non abbiamo molto tempo da perdere e le risorse da dedicare sono poche. Per una volta, fidiamoci della nostra capacità di collaborare e di costruire.