lo sciopero è “solo” un diritto?

ovviamente c’è la Costituzione e quindi parliamo di un diritto particolare, giustamente tutelato per le sue implicazioni sociali, politiche e di conseguenza giuslavoristiche. Ma non è questo il punto. La garanzia costituzionale era ed è necessaria a tutela di un diritto che dovrebbe consentire la maggiore simmetria sociale possibile tra imprenditore e lavoratore. Almeno così era nelle intenzioni degli estensori di quell’articolo. Poi in quel diritto si sono infilati ben altre tipologie di attività, soggetti e situazioni che nulla avevano a che fare con uno strumento a disposizione del più debole trasformandolo in un diritto di chiunque esercitabile comunque. Nel tempo il legislatore, i parlamenti e i sindacati confederali hanno via via partorito codici di regolamentazione o di autoregolamentazione che ne hanno fortemente ridimensionato l’esercizio trasformandolo, di fatto, da un diritto individuale (pur sempre in vigore) in un diritto collettivo con regole e modalità tutto sommato accettabili. Purtroppo tutto questo non poteva reggere in un contesto di proliferazione di sigle sindacali, migrazioni tattiche tra una sigla è l’altra al solo scopo di mantenere privilegi individuali  e perdita di consenso e di potere da parte delle grandi organizzazioni confederali. Nel settore privato questa situazione ha avuto scarsi effetti concreti salvo forse in settori particilari come  i trasporti e la logistica. Nel pubblico, al contrario, la proliferazione delle sigle sindacali ha portato alla situazione odierna. Generalmente queste sigle si limitano alla proclamazione dello sciopero per costringere il potere pubblico locale o nazionale ad una risposta ma, la mancanza di risorse e di interlocutori in grado di rispondere, l’acuirsi di tensioni dovute al procrastinarsi dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, la concorrenza stessa tra sindacati spesso degenera in situazioni di grave difficoltà. Se tutto questo però fosse limitato alle sole dinamiche costituzionali costituirebbe un problema sociale e politico  limitato all’esercizio di un diritto. Favorevoli e contrari si potrebbero confrontare per giorni senza venirne a capo così come è stato fino ad oggi dove la destra accetta di buon grado lo sciopero di professionisti e/o di categorie particolari ma si indigna se lo stesso diritto viene messo in campo da categorie tradizionalmente  deboli, mentre la sinistra non si indigna se lo sciopero viene utilizzato dalle categorie di cui sopra per reazione pavloviana all’esercizio di un diritto ma  ne difende sostanzialmente l’esercizio per tutte le altre categorie. Ma non è questo il punto. Il punto è se terzi, cittadini, turisti, malati, viaggiatori, consumatori, debbano subire un danno senza averne alcuna responsabilità né possibilità di intervento. In altre parole se l’esercizio di un diritto può provocare danni a terzi che vengono trasformati in ostaggi di vicende a causa delle quali viene messo in discussione un loro diritto altrettanto importante. E allora che fare? Una via passa certamente dalla regolamentazione del diritto di sciopero estendendo ad altri settori la definizione delle modalità di proclamazione ed effettuazione delle agitazioni, la possibile precettazione, l’addebito di eventuali danni agli individui o ai sindacati che non rispettano le regole e quindi puntare a norme che riducano il rischio per gli eventuali terzi anche se questo non è assolutamente sufficiente. Lo abbiamo visto: un’assemblea in un’ora “strategica”, un ricorso ad assenze improvvise, una migrazione da una sigla all’altra provoca simpatie, opportunismi e via discorrendo che lasciano al palo le buone intenzioni. Occorre fare altro. Definire regole che impediscano la proclamazione di scioperi non preceduti da referendum con quorum significativi e che non lascino mai nelle mani di pochi la decisione, sanzioni pesanti per i trasgressori, precettazione automatica nel caso di rischio di danni indiretti, possibilità di sottoscrivere contratti e accordi limitati ai sindacati maggiormente rappresentativi che rispondono delle loro azioni o dei mancati controlli. Un vecchio sindacalista diceva:”l’unica regola valida per evitare che uno sciopero produca danni è non farlo”. Forse è vero. È certo però che la situazione sociale non sta migliorando e quindi dobbiamo prevedere una recrudescenza di questi fenomeni. Il problema è che avverranno in un contesto di minore credibilità e maggiore debolezza delle grandi organizzazioni sindacali. E questa debolezza, prima o poi lo capiremo tutti, non è un bene per il Paese. Per questo chi ha responsabilità politica di governo dovrebbe evitare continui processi di delegittimazione o di sottovalutazione di questo aspetto della vita democratica del Paese. Prima che sia troppo tardi.

Contrattazione: quale riforma?

adesso i sindacati si muovono in ordine sparso. La Cisl propone la sua riforma, Cgil e Uil chiedono che prima di discutere di un nuovo modello si firmino i contratti nazionali ancora aperti mentre le organizzazioni datoriali stanno a guardare perché credo sia improponibile, oggi, un negoziato separato. Infine il Governo che potrebbe essere tentato, in assenza di proposte, di mettere mano alla materia. Quasi tutte le proposte danno per scontato un punto che invece scontato non è: la contrattazione di primo, secondo o come la si voglia chiamare, si fa e si farà sempre e ovunque. Ci sarebbero solo da individuare luoghi, temi, livelli e i conseguenti sgravi fiscali. Mi sembra una tesi semplicistica. Oggi, pur in presenza di centinaia di contratti nazionali, abbiamo interi settori e comparti dove non vengono rinnovati o si trascinano senza trovare accordi per anni. E questo non è solo causato dalla intransigenza delle organizzazioni datoriali. È dato anche dal difficile contesto economico che spinge molte imprese e molti settori a cercare di liberarsi di uno schema contrattuale costruito in situazioni economiche e sociali completamente differenti. E questo elemento, mi sembra, non venga preso in minima considerazione dai “riformatori” del sistema. Le condizioni precedenti che hanno dato origine ad un sistema che aveva il suo centro nel contratto nazionale alimentato dalla contrattazione aziendale delle grandi imprese è finito. La contrattazione aziendale da “innovativa” o aggiuntiva è diventata o “concessiva”, perché si è dovuta confrontare con la realtà, o si è addirittura arrestata. Questo esaurimento del ruolo si sta via via estendendo al contratto nazionale. Da FCA o altre realtà che lo ritengono superato e che comunque fanno accordi condivisi (seppure in alcuni casi separati), ai tempi che si dilatano o alle furberie di chi, pur dichiarando la disponibilità ad aprire i negoziati, si guarda bene dal concluderli. Questa realtà non si risolve semplicemente con nuove architetture contrattuali. Occorre un vero ripensamento peraltro già iniziato nel CCNL del commercio appena firmato. Occorre cioè stabilire delle regole e dei contenuti con la possibilità delle parti di derogarne o sterilizzarne, in tutto o in parte, gli effetti se questi producono situazioni negative nelle singole imprese. Limitarsi a teorizzare il superamento del CCNL è un errore perché porta al far west non alla contrattazione decentrata. Ipotizzare decentramenti con obblighi a contrattare o penali è semplicemente illusorio o addirittura controproducente perché si verrebbe a creare solo una situazione dove la contrattazione aziendale viene sostituita da una sorta di una tantum obbligatoria. tra un CCNL e l’altro per la stragrande maggioranza delle imprese. È giusto detassare i premi di risultato e/o di produttività che, per loro natura sono aggiuntivi ma, secondo me, il problema dovrebbe essere risolto prevedendo una sostanziale rimodellazione della retribuzione in tre parti. Una che potrebbe rappresentare il nuovo minimo (uguale in tutti i settori) parametrato alla CIGS, una legata al ruolo professionale esercitato dal lavoratore e una terza legata all’andamento dell’azienda. Ovviamente la prima fissa, la seconda che può variare a seconda della professionalità espressa concretamente e la terza legata al risultato aziendale. Solo in questo modo le aziende non si trascinerebbero situazioni e inquadramenti fasulli e quindi potrebbero avere interesse a confrontarsi seriamente. Così come sul resto dei contenuti del negoziato che dovrebbero avere la stessa durata dell’accordo, riconfermati, o meno, solo se il contesto lo consente. Questo perché se non c’è interesse reciproco al confronto (dato dai rapporti di forza o da problemi specifici che necessitano un coinvolgimento) l’impresa tenderà sempre più a voler fare da sola. Così come sta succedendo in numerose situazioni dove la contrattazione aziendale è un ricordo lontano e quella nazionale è disattesa. Non capire questo può portare a conclusioni sbagliatele o a proposte difficilmente realizzabili nel contesto specifico del nostro Paese dove la contrattazione aziendale, checché se ne pensi, è una pratica assolutamente marginale.

meglio soli che “male” accompagnati?

“sono d’accordo con Schauble” tuona Fassina. “Lo dice anche Papa Francesco” sottolinea il  Bernocchi di turno. “In Germania fanno così” ci assicura Landini. Mi fermo qui ma potrei continuare all’infinito. Il senso è sempre quello: strumentalizzare un aspetto della vita politica, sociale o istituzionale di altri Paesi per rendere più credibile il proprio ragionamento. È molto utilizzato da una parte della sinistra. Soprattutto estrema. Citare un’affermazione di un esponente di un mondo distante per avvalorare i propri ragionamenti altrimenti inascoltati. C’è una parte di quel mondo che non è interessata al Governo del Paese e forse, nemmeno troppo, ad entrare in sintonia con gli strati sociali che pur dicono di rappresentare. Intervengono da professori che hanno capito tutto, si segnalano per i distinguo continui e ingessano le gambe alle formiche. In genere sono personaggi astiosi e tristi. Non perdono mai per le loro debolezze ma perché gli altri sono sleali. Fanno danni continui perché non dicono cose campate in aria anche se, quasi sempre, impraticabili. Sono presenti dappertutto. Si muovono in quell’interstizio della coscienza che non distingue le aspettative dalla loro realizzazione concreta. E quindi suscitano dubbi. Nella politica, nel sindacato nelle associazioni. Di solito creano aree a loro immagine e somiglianza. E, ovviamente, non riescono a allearsi con altri soggetti contigui se non partendo dalla loro alterigia. È la Micronesia della politica. Tutti disposti ad unirsi però alle rispettive condizioni. Rendono meglio se hanno un nemico.csoprattutto se occupa uno spazio contiguo al loro. Altrimenti se lo creano e, nel crearselo, disfano il lavoro altrui. Sono demolitori di professione. Oggi sono stati messi in un angolo dai populisti e dai demagoghi. Siccome nascono e proliferano nella vecchia sinistra si trovano in difficoltà quando devono combattere con un nemico che non conoscono. I loro nemici con cui cercano di litigare continuamente sono il sindacato e i partiti della sinistra riformista. Che, anziché isolarli, cerca a volte di comprenderne alcuni argomenti proposti rischiando un perenne immobilismo. Ne sa qualcosa Siriza e le sue beghe interne. Con gli altri oppositori sono tolleranti anche se vengono sbeffeggiati continuamente. Da Grillo in primo luogo. Lo spazio per loro inevitabilmente si riduce e quindi tentano di far nascere sensi di colpa nelle aree tradizionali dove, al contrario, si sta cercando di affrancarsi da questa cultura minoritaria e condannata  alla sconfitta. Che fare? Lasciarli al loro destino. Nel sindacato e nel Paese. Basta guardare la fine che hanno fatto altrove. Scavalcati da populisti di ogni risma o da oltranzisti monotematici. L’alternativa non può essere tra la loro retorica e altre retoriche. Ma tra la demagogia e la concretezza. Gli elettori stanno con chi affronta e risolve i problemi non chi vende ricette immaginifiche. Il riformismo e il gradualismo sono più complessi da proporre ma pagano di più nel lungo periodo.

la visione uno non se la può dare…..

le trattative per il rinnovo di qualsiasi contratto sono un test interessante per misurare la presenza o meno della capacità di visione dei negoziatori. Il negoziato è, per sua natura, un compromesso e quindi giocano sicuramente un ruolo i rapporti di forza, il contesto generale e/o aziendale, la personalità e la stima che i rappresentanti assegnano alla propria controparte e anche la fiducia che ciò che si concorda sarà rispettato. Però in ogni negoziato si afferma sempre un senso, una direzione di marcia un elemento che rappresenta la ragion d’essere della trattativa: la capacità di inserire quegli obiettivi in una strategia credibile e riuscire a trasmetterla ai propri interlocutori. Fu così per la CISL negli anni 50/60 con la contrattazione articolata e poi dall’insieme dei sindacati confederali negli anni della svolta dell’Eur e dell’assunzione di forti responsabilità per arrivare poi fino alla concertazione. Poi il vuoto. Dall’altra parte fondamentalmente Confindustria e Confcommercio hanno creato due modelli in parte uguali per l’influenza del taylorismo, in parte diversi perché al centro delle negoziazioni di area Confcommercio il welfare contrattuale ha sempre avuto un peso rilevante dimostrando, in questo modo, una notevole capacità di visione. Visione presenti anche nelle controparti sindacali di quella fase storica. Ovviamente su Confindustria e sulle sue categorie ha pesato la necessità di reggere l’urto maggiore causato dai rapporti di forza in campo e quindi la necessità di difendere tout court le imprese. In quegli anni sono nati tra l’altro lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore, le leggi sulla sicurezza sul lavoro, la contingenza e il suo superamento, ecc. Tutti elementi che, nel bene e nel male, hanno segnato, per una generazione, un protagonismo è una partecipazione che ha avuto effetti positivi su tutta la società italiana. Cosa accumulava richieste e strategie era la visione di un futuro da condividere. Oggi non è più così. Sembra prevalere la navigazione a vista, il breve periodo, i tatticismi. Le richieste (un tempo si chiamavano piattaforme) sono mediocri. E tutte tese a mantenere ciò che c’è. Anzi. sembra più importante limitarsi a condizionare le richieste datoriali senza valutare se le stesse sono dannose per il futuro dei propri associati, inutili o potrebbero, nel tempo, provocare più problemi di quanti ne risolvano nel breve. E qui diventa evidente la mancanza di visione. Nessuno è disponibile a partire dal contesto. Azzerando ciò che va azzerato e costruendo un contenitore e naturalmente nuovi contenuti degni di reggere il medio/lungo termine. Da qui la crisi dei modelli contrattuali e la scorciatoia che oggi va per la maggiore che affiderebbe la soluzione al livello aziendale. Nessuna riflessione sulla nuova cultura necessaria, sugli strumenti, sui contenuti  e sul modello di sindacato piú idoneo ad affrontare quello che è un vero e proprio cambio di paradigma economico e sociale. Ha ragione Bentivogli quando dice che un Sindacato, pur unitario, senza una strategia non va da nessuna parte. Però temo sia poco ascoltato. E questo vale sia per il sindacato confederale ma anche per i piccoli sindacati o le associazioni  di nicchia. Un rinnovo contrattuale deve avere un soggetto, un cuore e un’anima. Un perché, innanzitutto. Non basta che sia scaduto. Questo poteva valere in passato. Oggi non è più sufficiente. Anche qui, la visione del futuro. O c’è o non c’è. E se non c’è non basta alzare la voce.

Nel 2050 ci saranno ancora le organizzazioni di rappresentanza?

In rete compare spesso questa domanda. In genere si parla di Confindustria soprattutto dopo il caso Fiat. Come tutto ciò che sa di ‘900 sembra destinato a restare alle nostre spalle. Ma è proprio così? Io credo di no. L’impresa da sola può fare molto. Può aprire, sottoscrivere un contratto, può affermarsi sul mercato. Può innovare, mettersi in rete, sviluppare il proprio capitale umano e può anche chiudere. L’impresa ha il suo ruolo sociale ed economico indipendentemente da tutto. Ma l’impresa da sola non va da nessuna parte. Non è in grado di proporre leggi che ne tutelino l’iniziativa indipendentemente dal colore del Governo, non è in grado di gestire le regole del gioco, non è in grado di muoversi, in assenza di precisi punti di riferimento, nelle filiere nazionali e globali. Quando l’impresa ha bisogno di uscire dal suo particolare deve saper individuare e trovare un livello che tuteli anche i propri interessi ma non solo quelli. Quindi le esigenze delle imprese intese come categoria sono aggiuntive e differenti. Confindustria ha rappresentato questa esigenza per tutto il 900. E continuerà a farlo anche in futuro. Potrà cambiare nome, mission, uomini, modalità di approccio ma l’esigenza di tutela politica ed economica resterà. È certo che le aziende singole possono lasciare l’organizzazione senza subire alcun contraccolpo. È successo anche per i sindacati dei lavoratori. Fino a quando qualcuno si è accorto che il loro peso organizzativo era irrilevante nelle imprese e, di conseguenza, è crollato anche il loro peso politico. Senza contrappesi una società si sfalda. Tra territori, generazioni, categorie economiche, interessi. In tutto il mondo questi contrappesi esistono. Forse sono in crisi di identità e di ruolo. Ma esistono. Non credo si trovino senza prospettiva. Siamo in una fase di transizione tra un paradigma economico e sociale che è finito e uno nuovo che non c’è ancora. Oggi la politica, l’economia, le religioni, i vecchi e nuovi player mondiali stanno ridisegnando ruoli, compiti e funzioni. In questo disorientamento generale si rischia sempre di gettare il bimbo con l’acqua sporca. Occorre avere chiaro gli interessi di lungo periodo delle imprese e del Paese e avere una visione del futuro coerente. Nel breve, purtroppo, hanno ragione tutti. Prevalgono gli esperti in scorciatoie. Ma non esistono soluzioni semplici per problemi complessi. Confindustria e le altre organizzazioni datoriali sanno di dover cambiare ma spesso i loro “cacicchi” locali non hanno alcuna intenzione di farlo e tendono a conservare la propria rendita di posizione. Fino a quando dura. Fortunatamente noi italiani siamo bravissimi ad avvicinarci all’orlo del baratro ma altrettanto bravi a non finirci dentro. Sarà così anche per le organizzazioni di rappresentanza.

Illegittimi controlli a distanza o legittimi controlli di apparecchiature aziendali?

Ci risiamo. Nessuno si è mai sognato di protestare all’assegnazione di strumenti quali il telepass, la carta carburante, il cellulare o il p.c. portatile. Addirittura per un manager, insieme all’auto, costituiscono ciò che vengono  definiti benefit e dati per scontato. Anzi pretesi, come è ovvio che sia. Quasi sempre vengono usati sia per lavoro che per motivi extra lavorativi. Lo sanno tutti. Azienda e collaboratori. L’azienda sa esattamente come vengono usati e il collaboratore sa che l’azienda è perfettamente a conoscenza del loro utilizzo. Dal telepass si ricava dove e quando un collaboratore transita in autostrada. Dalla carta carburante dove, a che ora fa il pieno e se il consumo è in linea con i consumi standard. Cosí è per le telefonate. I gestori mandano con una certa regolarità consumi e numeri telefonici chiamati (pur con modesti accorgimenti a tutela della privacy). L’azienda sa perfettamente dove è stato il suo collaboratore, quanto si è fermato da un cliente, dove ha perso tempo, con chi ha parlato, quanto ha usato il p.c. per cosa e per quanto tempo. Sia quando lavora che quando è in ferie o in malattia. E questo da sempre. Questo ha comportato problemi particolari? No. Se un collaboratore esagera nell’utilizzo qualcuno glielo fa notare. Direttamente o indirettamente. Altrimenti non succede proprio nulla. Se c’è dolo grave scattano provvedimenti disciplinari? Si. Se un collaboratore in malattia ha l’auto in qualche località vacanziera, è normale che nasca un sospetto. Così come se una utilitaria improvvisamente consuma come una fuoriserie. Non c’è nessun grande fratello. È un problema di rapporto fiduciario che non deve mai venire meno. I controlli a distanza non incidono sulle idee o sulle affermazioni del collaboratore. Semmai la rete vene scandagliata prima dell’assunzione di un collaboratore. Quindi fuori dalla portata della legge 300. Che fare? Informare il collaboratore di come l’azienda utilizzerà le informazioni e informare il collaboratore dei rischi che corre in caso di abuso o di violazione delle policy aziendali. Tutto qui. Questi interventi fanno parte di una normale attività di gestione dell’organizzazione che, in forza della tecnologia, si dilata e va oltre i confini tradizionali. E, infine, superare nei testi definitivi le possibili contraddizioni create negli articoli della legge 300. Tutto qui. Non serve complicare la vita delle imprese né far passare l’idea che le stesse passano il tempo a controllare i collaboratori. L’invenzione del semaforo ha reso meno semplice l’attraversamento spontaneo delle strade perché ha certamente ridotto la libertà individuale del pedone. Forse qualcuno all’epoca ha protestato ma una cosa è certa. Se conosci come funziona ti muovi di conseguenza. La protesta dei sindacati è, ovviamente, strumentale. Pensare di affidare a loro un intervento preventivo è pura follia. Sarebbe come se qualcuno avesse pensato di affidare alle Poste italiane un controllo preventivo sul traffico delle mail.  Inutile, burocratico è inefficace. Non c’è mai stata protesta all’assegnazione di questi strumenti e nessuno ha mai rifiutato un benefit con queste motivazioni. In azienda, che piaccia o meno, c’è un livello di rispetto e di democrazia ben diverso da quello degli anni 70. Allora veniva licenziato chi leggeva L’Unità. Oggi chi lavora all’Unità. Non mi sembra una differenza da poco.