La filiera agroalimentare nazionale. Cosa vale e chi sgomita per rappresentarla

Sinceramente non so se alla fine si imporrà Prandini o Barilla. Se Mediterranea la spunterà su Filiera Italia, se troveranno un percorso comune   e se la Grande Distribuzione continuerà a non schierarsi. Lo scontro che si è aperto, però, è al calor bianco. C’è in gioco la leadership dell’intera filiera alimentare nazionale e il rapporto con il Governo. L’industria alimentare di marca si sente assediata da tempo. Da una parte l’inflazione ha spinto i consumatori in parte verso  i discount e la marca del distributore, dall’altra Coldiretti con Filiera Italia punta alle singole imprese rinvigorita nel suo protagonismo dal rapporto privilegiato con il Governo.

L’intervista  di Paolo Barilla al Corriere serve proprio a provare a far uscire dall’angolo Unionfood. L’associazione mostra i muscoli mettendo in campo le sue  530 aziende. «I nostri associati sono grandi aziende centenarie che portano il nostro made in Italy nel mondo, imprese globali che operano in Italia e tante pmi familiari.» ha affermato Paolo Barilla, che oltre a essere vicepresidente, insieme al fratello Luca, del gruppo Barilla è presidente di Unionfood. E ha concluso; “L’attività dell’associazione, inoltre, riassume tutte le esigenze delle industrie associate, player con prospettive differenti, ma con una unica strada comune: la cultura del cibo e del modello italiano. Il 70% dei prodotti agricoli nazionali viene acquistato e trasformato da Unionfood”. In poche parole: “siamo noi i leader del Made in italy” nella filiera. 

L’elezione di  Emanuele Orsini in Confindustria  li rinfranca e chiude una fase iniziata con le incomprensioni del 2020  quando la confederazione di via dell’Astronomia guidata da Carlo Bonomi aveva tirato le orecchie proprio alle industrie alimentari aderenti a Unionfood allora guidata da Marco Lavazza, sulla loro disponibilità a chiudere il precedente rinnovo del CCNL in contrasto con il “patto di fabbrica”. Era  quindi inevitabile che aspettassero il momento più propizio per lasciare la panchina dove erano stati confinati e provare a farsi sentire, alzando la voce. Toccherà al Governo gestire la querelle. Il rapporto tra l’esecutivo e Coldiretti è solido ma il Governo non ha interesse ad aprire un nuovo fronte con Confindustria. Lo stesso Presidente, Orsini,  non può, però, tirare troppo la corda. Ha bisogno di ricostruire rapidamente un’interlocuzione con il Governo. Oggi nessuna confederazione (salvo proprio Coldiretti sulle sue materie) può dettare l’agenda al Governo. Quindi la sortita di Unionfood, con Confagricoltura al seguito in evidente contrapposizione a Coldiretti, in  questo contesto politico rischia di trasformarsi in un autogol. Per questo  sarebbe auspicabile ricomporla.

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La Grande Distribuzione vista attraverso il percorso professionale di un protagonista…

Daniele Cazzani è una persona che stimo e che ha un percorso manageriale molto interessante. Lo trovo in linea con le necessità di alcune realtà del comparto ma anche utile per giovani che, dopo gli studi, vogliono riflettere sulle loro traiettorie professionali. Ne  propongo il profilo prendendo spunto da una  chiacchierata con lui sul contesto che caratterizza la GDO, coinvolge i manager di oggi e consente di andare oltre alle indubbie capacità e competenze maturate. Elementi fondamentali, a certi livelli, ma non sufficienti se non corroborati da una visione del comparto e delle sue evoluzioni, dalla passione e dalla motivazione che devono contraddistinguere chi lo sceglie.

Bernardo Caprotti sollecitato a descrivere il comparto della GDO ebbe a sottolineare, con il realismo e la capacità di sintesi che lo contraddistinguevano: “diversamente da Armani e Luxottica che hanno «creato», noi (Esselunga) abbiamo soltanto cercato di dare un po’ di eleganza, di efficienza, di carattere ad un mestiere assai umile”.

Cazzani viene da venticinque anni di esperienza nel Retail. Passa dalla gestione di centri commerciali alla grande distribuzione, dalla ristorazione commerciale all’ottica. Realtà che hanno maturato in lui una convinzione altrettanto precisa: “se qualcosa non ha (reale) valore per i tuoi clienti allora non avrà (reale) valore per il tuo business”. Chiunque lavori a certi livelli nella GDO sa quanto è importante partire da qui. La Grande Distribuzione sta vivendo un momento cruciale della propria storia; un momento in cui la competizione è sempre più forte e, nella quale, i confini tra i formati, almeno dal punto di vista del cliente, vanno sfumandosi e l’e-grocery, per quanto ancora di nicchia, rischia di costituire una minaccia per il futuro (perlomeno per chi non se ne doterà).

Non si può non concordare con Cazzani quando osserva come  il comparto sia arrivato al limite del perfezionamento di un modello di business che ha radici lontane in un passato che non tornerà più; gli stili di consumo sono cambiati, la recente fiammata inflazionistica ha solo accelerato alcuni fenomeni e, la decrescita dei volumi, è un dato di fatto, così come la ricerca da parte del cliente di sempre maggiore specializzazione. Anche il focus sullo sviluppo delle mdd, se non inserito in una strategia più ampia, rischia di essere di corto respiro, risolvendo, forse nel breve, alcuni temi sulla marginalità ma non impattando sul turnover e profittabilità complessivi. Allo stesso modo il back to basic, partendo dalla riscoperta dei freschi, che tanti operatori hanno inserito nei propri piani strategici, va contestualizzato e valorizzato, per evitare il rischio di divenire l’ennesima promessa generica percepita come commodity dai clienti.

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Conad. In fila per tre col resto di due?

Nelle cooperative aderenti al Consorzio Conad è già tempo di consuntivi. I dati sono buoni. Ciascuna nel proprio perimetro sta raggiungendo i suoi obiettivi. Nella teorica competizione con Selex il Consorzio nazionale punta a riconfermarsi al primo posto. Di Conad mi è sempre piaciuta la concretezza, i valori cooperativi che la caratterizzano e la rendono simile ad altre realtà internazionali in cui ho avuto modo di lavorare.

Luca Panzavolta AD CIA Conad lo ha sintetizzato benissimo: “La cooperazione non è solo un modo di fare impresa, è uno stile di vita. È un modo di pensare che mette al centro la persona e la sua crescita, che valorizza il lavoro di squadra e la collaborazione. È un modello di sviluppo sostenibile che pone al centro il benessere dei soci, dei dipendenti, del territorio e dell’ambiente”. È una realtà che dovrebbe essere caratterizzata da  una diversità “genetica” rispetto a un multinazionale o ad una azienda privata.

Ascoltare, convincere, condividere, negoziare, ingaggiare sono prassi quotidiana. Pensare al futuro non solo dei singoli  imprenditori ma dell’intero sistema è un dovere collettivo che è alla base della logica cooperativistica e che la differenzia da altri modelli imprenditoriali. Per questo  sono perplesso quando sento parlare di maggioranze e minoranze contrapposte nel suo governo interno. Come se, operare a Milano, a Trento o a Palermo (per fare un esempio) costituisse di per sé elemento sufficiente per alimentare un infinito gioco delle parti che, più che al futuro del consorzio, mira a perpetuare l’eterno presente di chi lo governa. Soprattutto perché, il vero rischio è che ciascuna cooperativa  si abitui a fare a meno delle altre cooperative.  L’esatto contrario dello spirito costitutivo. Un passo indietro che condannerebbe Conad ad una “regressione cosmica” riproponendo uno schema dove i rapporti tra i soci diventano sempre meno coinvolgenti e sempre più formali.

Tempo fa avevo scritto: “È chiaro che la vera forza di un sistema policentrico, formato da più anime e da 5 grandi cooperative, qual’è Conad è solo nell’unità e nel gioco di squadra. Se viene meno emergono visioni e interessi differenti che rendono difficile il governo del Sistema. La ricerca di responsabilità altrui rischia di diventare la cifra del profilo e dei comportamenti di chi fatica a muoversi a quelle altitudini”. 

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Grande distribuzione. Il futuro dell’insegna multi locale è nella condivisione

Un punto interessante sul quale riflettere viene posto da Eleonora Graffione presidente di Coralis un  consorzio di imprenditori italiani molto performante  nella sua composizione che opera nel settore distributivo. La definizione che Coralis ha scelto nella  sua presentazione aiuta: “Grandi imprese in piccolo formato, che pensano che produttori e distributori possano trovare futuro solo recuperando competenza, vicinanza, sostenibilità e passione”. L’argomento proposto  è la  dimensione di impresa come fattore di competitività nel contesto italiano. In un recente post Eleonora  Graffione ha scritto: “queste settimane, in diversi convegni, ho sentito spesso dire che “piccolo è bello” è un illusione tutta italiana. Sempre più la dimensione diventa una discriminante nei rapporti tra Industria e Distribuzione, peccato che il Retail è fatto di tante micro imprese familiari, e se non prendiamo coscienza della realtà e parliamo solo per grandi numeri siamo ciechi di fronte a una verità”.

È così.  La “taglia” non necessariamente coincide con la dimensione competitiva di un’insegna nei territori dove è insediata. Né con la sua capacità di penetrazione. Pur apprezzando le multinazionali nelle quali ho sempre lavorato mi sono reso conto limitare l’analisi  alla  dimensione organizzativa in un contesto come il nostro può essere fuorviante.   L’esercito romano pagò a caro prezzo l’aver sottovalutato i sanniti, una popolazione che abitava in origine gli Appennini meridionali e furono necessarie tre guerre durissime per venirne a capo. La capacità di presidio di un territorio, il legame con i consumatori, le loro abitudini nella GDO sono concetti da valutare con cura. Lo stesso è successo alle multinazionali. Almeno fino all’arrivo di LIDL.

C’è, nel nostro Paese un evidente problema di taglia delle nostre imprese in tutti i settori merceologici che compongono l’intera filiera agroalimentare  ma la soluzione, per provare a superarla,  andrebbe trovata partendo dalla realtà. Non inventandosi scorciatoie teoriche o aspirazioni generiche  tutt’altro che praticabili. La dimensione, oltre ad un certo livello, tra le altre cose, non si raggiunge senza una struttura manageriale adeguata. E CEO, non imprenditori,  in grado di guidare un’insegna  della GDO (non un agglomerato di insegne, di franchisee o di cooperative e tolte ovviamente  le multinazionali) sopra i cinque miliardi di fatturato, in Italia,  non ce ne sono. Anzi, ce n’erano due: Francesco Pugliese e Sami Kahale. Entrambi, tra l’altro, nati professionalmente fuori dal comparto e ad oggi, non più in campo. Quindi, il problema è strutturale.

Oltre una certa soglia di insegna, normale in altri Paesi,  è molto difficile trovare una cultura manageriale  adeguata nel nostro Paese. Non è quindi solo un problema di imprenditori che non sarebbero in grado di crescere ma anche un’intera classe dirigente non  abituata a muoversi a certe dimensioni di fatturato in termini di visione, cultura e strategie di crescita. Nulla di male ma questa è la realtà. Imprenditori e manager sono in difficoltà a pensarsi fuori dal loro tradizionale perimetro di azione. Così come non sono spesso in grado di valutare le conseguenze delle loro “intuizioni” organizzative sul piano politico e sociale. Personaggi in  grado di tenere sulla corda qualsiasi competitor nazionale o estero si avventuri sul  loro terreno ma, al tempo stesso, “prigionieri” di quelle logiche. Leggi tutto “Grande distribuzione. Il futuro dell’insegna multi locale è nella condivisione”

I danni del falso “Made in Italy” agroalimentare…

La filiera  agroalimentare nazionale cresce. Le nostre esportazioni nel 2023 hanno toccato i 62 miliardi di euro. Restano però diversi ostacoli da superare. Essendo un Paese essenzialmente trasformatore, la bilancia commerciale della filiera italiana è ancora negativa. Inoltre l’Italia si attesta al quinto posto in Europa per valore delle esportazioni agroalimentari. Non va poi sottovalutato che il settore è composto per l’83% da piccole imprese, che contribuiscono solo all’11% dei ricavi del settore. A questo  occorre aggiungere un dato che fa riflettere sul potenziale a nostra disposizione e quindi sul futuro.

Il valore del Food&Beverage italiano potrebbe potenzialmente raddoppiare senza il cosiddetto “Italian Sounding”. I consumatori esteri hanno infatti acquistato 63 miliardi di prodotti tipici italiani “falsificati” che non provengono dal nostro Paese. Si tratta di un fenomeno diffuso maggiormente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in America latina e in diversi altri mercati, inclusi quelli europei e fa riferimento all’uso di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni di prodotti agroalimentari non italiani. Una sorta di falso Made in Italy soprattutto nel settore agroalimentare, che sfrutta la reputazione di ciò che si produce nel nostro Paese per commerciare prodotti che poco vi hanno a che fare. 

Come analizzato nel dettaglio da The European House-Ambrosetti. “L’Italian Sounding – ha evidenziato Benedetta Brioschi, partner TEHA – è competitivo grazie a prezzi mediamente inferiori del 57% rispetto ai prodotti originali. Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del Parmigiano può essere ridotto fino al 38%, quello del mascarpone fino al 50% e della pasta secca fino al 54%”. Ogni giorno nel mondo vengono acquistati o consumati in locali di ristorazione migliaia di prodotti alimentari e bevande italiane non originali. Sono imitazioni o addirittura prodotti contraffatti che rispondono alla grande domanda di cibo italiano che come confermato da recenti studi è la cucina più amata al mondo. Ragù (61,4% Italian Sounding vs 38,6% vero prodotto italiano), parmigiano (61,0% vs 39,0%) e aceto balsamico (60,5% vs 39,5%) sono i tre prodotti più presenti in versione “imitazione” sugli scaffali della grande distribuzione all’estero.

“Le regioni più colpite dal fenomeno – spiega Valerio De Molli – Managing Partner & CEO, The European House – Ambrosetti – sono quelle che concentrano la propria esportazione su prodotti ad alta intensità di Italian Sounding, come i prodotti a base di carne o i prodotti lattiero-caseari, così come verso i Paesi più sensibili al fenomeno (Giappone, Brasile e Germania)”. “La tutela del Made in Italy – continua De Molli – è una priorità e l’implementazione di nuovi regolamenti DOP e IGP a partire dal 2024 rappresenta un passo significativo in questa direzione.“L’Italian Sounding – conclude Valerio de Molli – si può contrastare attraverso iniziative economiche e industriali in sinergia con un cambiamento culturale soprattutto nella consapevolezza del consumatore estero.

Certamente è prioritario realizzare investimenti produttivi, ma anche comunicare con efficacia il “Made in Italy” con iniziative di educazione del consumatore. Da un lato  la riduzione delle barriere doganali e l’internazionalizzazione della filiera italiana della distribuzione possono essere fattori determinanti così come una forte disincentivazione all’indicazione fallace in etichetta, ma anche la creazione di ambasciatori del Made in Italy e l’adozione di tecnologie che permettano una precisa tracciabilità del prodotto”.

Se la contraffazione può essere legalmente impugnabile e sanzionabile, la stessa cosa non vale per i prodotti cosiddetti di Italian Sounding che si servono di denominazioni geografiche, immagini e marchi che richiamano all’Italia, inducendo il consumatore ad associare erroneamente l’imitazione al prodotto autentico italiano. Per citare alcuni esempi: Parmesan, che imita il Parmigiano Reggiano, Mozarella, che viene spacciata per mozzarella di bufala, Salsa Pomarola, venduta in argentina, Zottarella prodotta in Germania, e Spagheroni olandesi.

L’Italian Sounding spesso si è avvalso dell’esperienza e delle conoscenze produttive di emigranti italiani: è infatti maggiormente diffuso proprio nei Paesi che hanno rappresentato le tradizionali aree  di emigrazione e dove le comunità italiane sono più radicate. All’inizio, costruendo le aziende con le stesse produzioni realizzate in Italia da parte degli espatriati nei nuovi paesi; successivamente creando nuovi prodotti con marchi di fantasia che richiamano nomi italiani. In molti casi, i discendenti di emigrati italiani hanno semplicemente usato (o tuttora usano) il loro cognome italiano come un marchio per i prodotti che, di fatto, non hanno più alcuna relazione con quelli originali.

Bottiglie di vino di livello mediocre spacciate per Prosecco, olio taroccato e improbabili mozzarelle di bufala. Il web rischia poi di essere la nuova frontiera delle falsificazioni alimentari, dove domanda e offerta si incontrano e spesso si trovano fregature colossali con danni per la salute e l’economia sana. Le radici di questo scenario si possono individuare in diversi fattori, tra cui una notevole distanza geografica dall’Italia, differenze nelle abitudini alimentari e nella consapevolezza delle eccellenze Made in Italy, oltre a barriere normative e doganali. Inoltre, l’analisi  evidenzia che in 3 casi su 10 il consumatore straniero si orienta su una tipicità gastronomica italiana quando questa prevede una spesa più bassa, piuttosto che la garanzia della reale provenienza territoriale.

Tutto questo provoca conseguenze immaginabili anche sull’occupazione che Filiera Italia stima in 300mila posti di lavoro in meno. Affrontare il fenomeno è, dunque, prioritario. Secondo una stima elaborata da  Ismea e The European House – Ambrosetti su dati Istat l’Italian sounding potrebbe essere convertito, almeno parzialmente, in export effettivo in un lasso di tempo di soli undici anni, grazie all’effetto congiunto di una forte accelerazione degli investimenti da parte delle aziende, della capacità di rendere questi investimenti molto più produttivi e dallo sfruttamento efficace dei fondi destinati alla filiera agroalimentare da parte del PNRR.

A questo andrebbe aggiunta una campagna che affronti la scarsa conoscenza della distintività del nostro agroalimentare nel consumatore straniero, un intervento sulle barriere all’accesso di alcuni mercati, sulla limitata conoscenza  dei mercati di riferimento da parte delle piccole imprese italiane del comparto e sulle barriere di comunicazione tra queste e i consumatori di altri Paesi.

Conad e il “suo” discount Todis alle prese con il dilemma del porcospino.

È un rapporto complesso quello tra il leader di mercato della GDO e il “suo” discount. C’è forse da scomodare Schopenhauer e il dilemma del porcospino per comprenderlo perché se troppo vicini, i porcospini,  nella stagione più fredda, si scaldano a vicenda ma,  i reciproci aculei rischiano di ferirli entrambi, se si allontanano sono destinati a patire il freddo. Una situazione destinata  a durare almeno fino a quando non  si riesce a stabilire una  corretta distanza reciproca tra di loro. E questo non vale solo  per i porcospini.

Todis nasce nel 1994 come insegna del canale discount di PAC 2000A, la più grande cooperativa del consorzio Conad, che possiede una rete  oggi presente in 5 regioni: l’Umbria, il Lazio, la Campania la Calabria e la Sicilia. La sua gestione passa attraverso Iges Srl e, dal  2008, grazie alla costituzione della società Addis srl, copre altro territorio, condividendolo (40/60) con un’altra cooperativa del consorzio, Conad Adriatico che, sommando le regioni di pertinenza, diventano così dieci. Gestisce 313 punti vendita e chiude il 2023 con 1 miliardo e 167 mila euro. Le altre cooperative del consorzio restano sostanzialmente alla finestra salvo DAO che, ancora prima del suo ingresso in Conad, aveva intuito il potenziale del formato ed è presente in Eurospin, leader di mercato.

Il cambio di passo in Todis comincia però nel 2016 con la nomina a Direttore Generale di Massimo Lucentini, uno dei top manager più interessanti e preparati  della GDO, che è riuscito a mettere a terra un’idea innovativa di discount fuori dai canoni classici del formato e sempre più simile a un vero e proprio supermercato a marca privata specializzato nei freschi e votato alla prossimità. Nella Capitale, più che altrove,  sta facendo la differenza rispetto ai concorrenti. Todis interpreta a suo modo  una formula ibrida con al centro la convenienza corroborata dalla qualità e dalla varietà dell’offerta.

Ne ho già parlato, tempo fa, indicando uno dei numerosi progetti dell’azienda chiamato  “rione”. Il format del punto vendita, dedicato ai 22 Rioni che delineano il cuore della Capitale e che prendono il nome dal quartiere che li ospita. Un formato rivolto alle zone  centrali, ricco di servizi con un assortimento particolarmente incentrato sul segmento Premium e sul Food To Go. Comunicazione bilingue vista la forte presenza di turisti, tecnologia che accompagna e facilita l’acquisto grazie alla presenza di numerosi strumenti per poter visionare, ad esempio, tutte le caratteristiche dell’offerta vinicola. Una evidente  priorità del cliente sul formato. Una interpretazione aggiornata del concetto di “convenienza”.

“Per il 2024 puntiamo a superare il 4,5% di quota di mercato e di chiudere l’anno con un incremento di fatturato tra il 6% e l’8%” – ha dichiarato Lucentini. “Molto dipenderà dall’andamento dei volumi, al momento in ripresa, addirittura per Todis meglio del mercato di riferimento”. Un 2023 caratterizzato da un’espansione importante con un investimento di oltre 40 milioni di euro. 13 aperture di affiliati e l’acquisizione della rete Fresco Market (“ex” Tuodì), composta da 25 punti vendita, un’operazione che ha rafforzato la leadership di Todis nell’area romana, portandola a raggiungere una quota di mercato nel canale del 37,5% a Roma e nel Lazio del 28,1%. (fonte GLNC Nielsen). Per il 2024, l’insegna ha in programma di aprire altri 24 punti vendita con un investimento di circa 20 milioni di euro tra aperture e ristrutturazioni di negozi già esistenti.

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L’inutile guerra sul “made in Italy” nella filiera agroalimentare..

  La bagarre è solo all’inizio. Da una parte Coldiretti e la “sua” Filiera Italia, dall’altra UnionFood (Confindustria) e Confagricoltura con Mediterranea. In mezzo il Governo di centro destra che pur avendo Coldiretti tra i suoi sponsor più coinvolgenti cerca di avere buoni rapporti anche con le altre due Confederazioni. La posta in gioco (in apparenza) è chi deve assumere, in commedia, la parte dello strenuo difensore del Made in Italy.

Sarà Coldiretti, quindi il settore primario da loro interpretato, a dare le carte e le patenti a tutta la filiera o toccherà all’industria agroalimentare con le “cattive” multinazionali dell’agroalimentare al seguito? Confagricoltura, da parte sua,  probabilmente si era stancata di essere tenuta ai margini da questo Esecutivo “innamorato” della concorrente   e, così, tra un “avversario” che gli sta davanti e un “nemico” che gli sta alle spalle ha scelto di stare con l’avversario. “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” ha tuonato Luigi Scordamaglia a nome di Filiera Italia, attaccando frontalmente Confagricoltura per la subalternità all’industria nell’operazione “Mediterranea”.

Ma di cosa stiamo parlando? Parole forti a parte, l’obiettivo dell’insolita alleanza tra Confagricoltura e Unionfood resta un altro: ridimensionare  il nemico comune: la Coldiretti. “Mediterranea”  non nasce a caso. È l’alleanza tra produttori e trasformatori agricoli promossa proprio da Confagricoltura e UnionFood in risposta a Filiera Italia, l’alleanza tra la produzione agricola con un centinaio di imprese italiane di trasformazione alimentare e diverse catene della distribuzione organizzata, creata da Coldiretti. In campo i due leader di Mediterranea. Il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, e il presidente di Unione Italiana Food, Paolo Barilla con l’obiettivo dichiarato di “rafforzare le filiere e la loro efficienza dal campo alla tavola e per promuovere la Dieta Mediterranea nel mondo.  Mediterranea” rappresenta una compagine del valore di 106 miliardi di euro con 650mila addetti”. In realtà l’obiettivo è regolare i conti con l’arcinemica Coldiretti.

In epoca di disintermediazione l’insieme dell’associazionismo di impresa è oggettivamente più debole. Cerca così spazio facendosi concorrenza tra associazioni più che dedicarsi ai temi comuni della filiera e a come risolverli. Il Governo parla con gli imprenditori (e con il mondo del lavoro) spesso direttamente scavalcando, se serve,  le stesse organizzazioni  di rappresentanza. Queste ultime cercano quindi di riposizionarsi. Chi schierandosi in posizione sostanzialmente filogovernativa, chi, più defilata e chi, come la CGIL tra i sindacati, decisamente all’opposizione. Tra quelle filogovernative, Coldiretti è la più determinata. Ha un rapporto privilegiato con il MASAF (Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) e con il Ministro Francesco Lollobrigida.

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Giovanni Arena. Un potenziale interprete “predestinato” del futuro della Grande Distribuzione

Ho aspettato qualche giorno prima di proporre le mie riflessioni sulla nomina a Cavaliere del Lavoro, da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di Giovanni Arena un  imprenditore della GDO nazionale oltreché siciliana. Un riconoscimento importante, il cavalierato,  istituito da Vittorio Emanuele III nel 1901 per valorizzare i protagonisti del mondo del lavoro distintisi per spirito di iniziativa, coraggio e intelligenza imprenditoriale. Ovviamente mi unisco ai complimenti per la scelta e per la persona.

Giovanni Arena  Amministratore Delegato e Direttore Generale del Gruppo omonimo, è riuscito a creare valore nel passaggio generazionale, vero punto debole dell’intera  GDO, al nord come al sud, trasformando un’eredità familiare in una realtà   importante e riconosciuta della distribuzione organizzata non solo in Sicilia. Ovviamente insieme alla sua famiglia e alla sua squadra. Impegnato in diversi ruoli nella Fratelli Arena S.r.l., fondata nel 1976 e con radici che risalgono al 1922, oggi occupa più di 3.300 addetti, conta quasi 200 punti vendita presenti in tutte le province siciliane e in quella di Reggio Calabria ed opera con le insegne Iperstore Decò, Superstore Decò, Maxistore Decò, Supermercati Decò, Gourmet Decò, Local Decò e SuperConveniente. La realtà imprenditoriale più importante della grande distribuzione, in Sicilia e non solo con oltre 1 miliardo di fatturato. Nel 2022 ha istituito la Fondazione Gruppo Arena, con iniziative nella solidarietà alimentare e nel campo culturale, sociale ed educativo.

“Per me è un grande orgoglio ricevere questo grande e meritato riconoscimento, ma che devo sicuramente a tutta la mia famiglia, a tutto il mio gruppo di lavoro, dai manager a tutti i miei collaboratori”. Ha commentato il neo Cavaliere che ha anche aggiunto: “Si può fare impresa anche in Sicilia stando all’interno delle regole e dei sani principi, facendo crescere, oltre che la propria azienda, anche il territorio”.

Socio di Confcommercio Caltanissetta-Enna da sempre, nel 2010, a soli 32 anni è stato nominato presidente dal direttivo regionale siciliano di Confcommercio. Attivo e intraprendente fin da giovanissimo sempre con uno sguardo attento all’associazionismo di categoria. AD e DG del Gruppo Arena, nonché Presidente di Gruppo VéGé. Non elenco i numerosi riconoscimenti in Sicilia e nel Paese che ne caratterizzano il percorso imprenditoriale  e il profilo personale. Come si dice in gergo calcistico: un “predestinato”. Fin qui, dunque, ciò che ha fatto e che tutti hanno giustamente sottolineato. Leggi tutto “Giovanni Arena. Un potenziale interprete “predestinato” del futuro della Grande Distribuzione”

Bennet. La strategia del gambero….

Camminare all’indietro può sembrare strano. Alcuni animali lo fanno per diversi motivi. Per guardarsi  alle spalle, per difendersi dai pericoli  o per avere una migliore visuale. I gamberi sembrano camminare all’indietro.  In realtà non è così. Sono in grado di compiere movimenti differenti. In caso di pericolo, hanno la capacità di fare un balzo indietro, come se in realtà camminassero verso quella direzione.  Tuttavia, scampato il pericolo, i crostacei ritornano a muoversi normalmente; ma tra le loro capacità resta, senza dubbio, quella di potersi spostare con facilità in ogni direzione.

Bennet credo abbia scelto la strategia del gambero. Più che accollarsi costosi quanto problematici rilanci commerciali delle grandi superfici, inseguire nuovi formati distributivi sul loro terreno, ingaggiare manager profeti del  “ghe pensi mi”, sta ricentrando il proprio business ripiegando verso i suoi territori di elezione, mantenendo le importanti proprietà immobiliari  e cedendo le attività che non ritiene remunerative né rilanciabili in tempi ragionevoli. Nell’estate del 2019, quando acquistò tre punti vendita ex Auchan da Margherita distribuzione (Nerviano, Cesano Boscone e lo store di Viale Monza a Milano) mi ero convinto che avessero individuato, come Iper La Grande I,   la ricetta segreta per governare la crisi delle grandi superfici. In effetti i suoi punti vendita sembravano tenere testa ai concorrenti. Anche  per questo, credo,  si erano ottimisticamente accomodati al tavolo di Margherita Distribuzione rivendicando  una porzione dello spezzatino di Auchan in smobilitazione. 

Dei tre retailer medi lombardi  dotati di  un loro specifico DNA territoriale, la varesotta Tigros, la valtellinese Iperal e la comasca Bennet, è solo quest’ultima che ha deciso di premere il freno cercando di “tirare il fiato” e ripiegando su un perimetro commerciale meno turbolento e cercando di mettere a reddito  gli spazi che si vanno liberando di sua proprietà.  Le prime due, puntano decise ad insidiare la rendita di posizione di Esselunga in Lombardia. Ne hanno intuito l’affanno,  e quindi provano a marciare con una manovra a tenaglia sulla provincia di  Milano con punti vendita di grande qualità e sfruttando, dall’altro lato, l’analoga avanzata dei discount che costringe l’azienda di Pioltello a torsioni organizzative e di business particolarmente complesse sul piano delle scelte commerciali e dei costi. E ne stanno approfittando. Bennet, no.  La strategia del gambero impone altre mosse. Adriano De Zordi, il CEO, è uomo di numeri. Difficile eccitarlo con le fantasie dei colleghi commerciali. In Bennet si è sempre occupato di conti con l’incarico evidente  di farli tornare. Conosce l’azienda meglio delle sue tasche. Non è un caso che la “ritirata strategica” è stato accompagnata da cambiamenti manageriali in ovvia sintonia con il riposizionamento.
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