In GDO (nel Sud) crescono giovani interessanti e nuovi progetti imprenditoriali. Il caso Rossotono.

Non si può non guardare con una certa curiosità al riposizionamento in corso da parte di  Apulia distribuzione. Gli ingredienti per una ricetta diversa dal solito ci sono tutti. Innanzitutto la decisione di mettersi in proprio. Dopo il lungo apprendistato come franchisee di Auchan e poi di Carrefour  i proprietari hanno deciso che è arrivato il momento di metterci la faccia e provare a giocare in un altro campionato. Non ci sono più quindi alle spalle i vecchi  franchisor responsabili di politiche commerciali rigide da aggirare con cautela, non c’è appesa fuori dall’entrata un insegna famosa ma  che al sud è percepita lontana e, di fatto,  mai radicata nel territorio.

Apulia Distribuzione è una realtà importante seppure con una dimensione multiregionale. Presenti  nel commercio all’ingrosso sin dai primi anni ’80, i fratelli Sgaramella nel 2001 fondano Apulia Distribuzione, che nel 2004 sigla un accordo di master franchising con Auchan. Nel 2020 i PDV diventano  Carrefour. L’insegna oggi opera in cinque regioni del sud: Puglia, Calabria, Basilicata, Campania e Sicilia con 378 store, ai quali si aggiunge il format cash & carry all’ingrosso Tuttorisparmio con 4 punti di vendita localizzati in Puglia.  Nel 2023 Apulia Distribuzione ha registrato un fatturato pari a 930 milioni di euro.

Che fosse questo l’obiettivo mai dichiarato lo si era intuito, quando, all’arrivo di Conad, Apulia si era defilata, rivolgendosi poi a Carrefour. Il loro DNA, non si sarebbe integrato alla cultura del Consorzio di oggi. Carrefour era l’ideale. Troppo concentrata su sé stessa e i suoi problemi per comprendere che la relazione con il nuovo franchisee, sarebbe durata comunque poco. Non credo si siano lasciati bene. Il dubbio che Apulia facesse buon viso a cattivo gioco, in Carrefour lo avevano percepito ma non potevano fare altrimenti. A Carrefour ha fatto male l’addio dopo quattro anni di partnership commerciale. Inutile negarlo. Una multinazionale in riorganizzazione che viene mutilata della presenza in alcune regioni non è un bel biglietto da visita per gli osservatori più pessimisti che quotano l’abbandono dal nostro Paese come estrema ratio presente nella testa dei manager chiamati a rimetterla in carreggiata. In fondo le multinazionali, oltre ai vincoli, offrono un ombrello che funziona quando piove ma può  essere d’impaccio quando tira vento alle spalle. VeGè era l’interlocutore ideale proprio per la sua flessibilità. E gli Sgaramella hanno visto, a mio parere, un compagno di strada ideale in Giovanni Arena presidente di VeGè. È un sud che pensa in grande. Verificheremo presto se il ritmo e gli obiettivi delle due realtà sono gli stessi.

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Grande distribuzione. Il futuro dell’insegna multi locale è nella condivisione

Un punto interessante sul quale riflettere viene posto da Eleonora Graffione presidente di Coralis un  consorzio di imprenditori italiani molto performante  nella sua composizione che opera nel settore distributivo. La definizione che Coralis ha scelto nella  sua presentazione aiuta: “Grandi imprese in piccolo formato, che pensano che produttori e distributori possano trovare futuro solo recuperando competenza, vicinanza, sostenibilità e passione”. L’argomento proposto  è la  dimensione di impresa come fattore di competitività nel contesto italiano. In un recente post Eleonora  Graffione ha scritto: “queste settimane, in diversi convegni, ho sentito spesso dire che “piccolo è bello” è un illusione tutta italiana. Sempre più la dimensione diventa una discriminante nei rapporti tra Industria e Distribuzione, peccato che il Retail è fatto di tante micro imprese familiari, e se non prendiamo coscienza della realtà e parliamo solo per grandi numeri siamo ciechi di fronte a una verità”.

È così.  La “taglia” non necessariamente coincide con la dimensione competitiva di un’insegna nei territori dove è insediata. Né con la sua capacità di penetrazione. Pur apprezzando le multinazionali nelle quali ho sempre lavorato mi sono reso conto limitare l’analisi  alla  dimensione organizzativa in un contesto come il nostro può essere fuorviante.   L’esercito romano pagò a caro prezzo l’aver sottovalutato i sanniti, una popolazione che abitava in origine gli Appennini meridionali e furono necessarie tre guerre durissime per venirne a capo. La capacità di presidio di un territorio, il legame con i consumatori, le loro abitudini nella GDO sono concetti da valutare con cura. Lo stesso è successo alle multinazionali. Almeno fino all’arrivo di LIDL.

C’è, nel nostro Paese un evidente problema di taglia delle nostre imprese in tutti i settori merceologici che compongono l’intera filiera agroalimentare  ma la soluzione, per provare a superarla,  andrebbe trovata partendo dalla realtà. Non inventandosi scorciatoie teoriche o aspirazioni generiche  tutt’altro che praticabili. La dimensione, oltre ad un certo livello, tra le altre cose, non si raggiunge senza una struttura manageriale adeguata. E CEO, non imprenditori,  in grado di guidare un’insegna  della GDO (non un agglomerato di insegne, di franchisee o di cooperative e tolte ovviamente  le multinazionali) sopra i cinque miliardi di fatturato, in Italia,  non ce ne sono. Anzi, ce n’erano due: Francesco Pugliese e Sami Kahale. Entrambi, tra l’altro, nati professionalmente fuori dal comparto e ad oggi, non più in campo. Quindi, il problema è strutturale.

Oltre una certa soglia di insegna, normale in altri Paesi,  è molto difficile trovare una cultura manageriale  adeguata nel nostro Paese. Non è quindi solo un problema di imprenditori che non sarebbero in grado di crescere ma anche un’intera classe dirigente non  abituata a muoversi a certe dimensioni di fatturato in termini di visione, cultura e strategie di crescita. Nulla di male ma questa è la realtà. Imprenditori e manager sono in difficoltà a pensarsi fuori dal loro tradizionale perimetro di azione. Così come non sono spesso in grado di valutare le conseguenze delle loro “intuizioni” organizzative sul piano politico e sociale. Personaggi in  grado di tenere sulla corda qualsiasi competitor nazionale o estero si avventuri sul  loro terreno ma, al tempo stesso, “prigionieri” di quelle logiche. Leggi tutto “Grande distribuzione. Il futuro dell’insegna multi locale è nella condivisione”

Esselunga. Appalti e tensioni con i sindacati di base…

Capita, non solo nelle relazioni sindacali, di dover riflettere sulla differenza tra decisioni che nel breve risolvono un problema apparentemente irrisolvibile in altro modo ma, contemporaneamente, rischiano di complicarlo nel lungo periodo.  È la differenza tra tattica e strategia. Quando si parla di appalti, terziarizzazioni di attività e impatti sull’organizzazione, sia nel caso  di affidamenti esterni che di ripresa in carico spesso si sottovalutano le conseguenze sull’azienda, sulle persone e sui soggetti collettivi coinvolti.

Per le aziende il punto dirimente è rappresentato dal proprio modello organizzativo e quindi dal vantaggio o dallo svantaggio di gestire internamente  o meno una determinata attività nell’immediato e nel lungo periodo. Per le persone coinvolte, rappresenta la quantità e la qualità del lavoro e quindi il senso stesso del loro impegno   e per i sindacati esterni determina il ruolo, la credibilità e  il peso associativo. Tre punti di vista molto diversi tra di loro. Ogni intesa sottoscritta sul tema tende a modificare il contesto (in meglio o in peggio) per ognuno dei tre soggetti coinvolti. Comprendere questo aspetto e gestirlo  è fondamentale.  Altrimenti il problema è solo rimandato.

Nel caso di Esselunga a Biandrate, a Pioltello o nella sua complessa rete territoriale, l’aver “internalizzato”  alcune attività,  prima gestite da terzi o averle giustamente passata a partner più affidabili, ha chiuso una fase di tensione ma ha contemporaneamente creato aspettative sul lungo periodo a sindacati e lavoratori  di difficile gestione. C’è da dire, in premessa, che Esselunga ha sempre avuto ottimi Direttori Risorse Umane in grado di affrontare situazioni di tensione con le organizzazioni sindacali. Il tipo di attacchi a cui oggi è sottoposta l’azienda da formazioni sindacali estreme e la loro frequenza  farebbe pensare che questa capacità di gestione sia venuta  meno.

Aggiungo che, almeno a parole, sembra sempre che tutti i soggetti in campo  abbiano interesse a far emergere situazioni radicate nel tempo   per riportarle ad un livello di maggiore trasparenza gestionale. Vale per le aziende che vogliono superare situazioni passate, vale per i sindacati confederali che hanno un interesse ad andare oltre  impostazioni che non li hanno  visti protagonisti. Non vale, però, per alcuni sindacati di base, persone o gruppi che, nelle fasi che hanno preceduto la normalizzazione, possono aver ottenuto vantaggi nella gestione di orari e attività, piccoli e grandi favori personali, riconoscimenti economici  (a volte) anche sottobanco.  Non sempre i vertici aziendali conoscono o approvano tutto ciò che avviene nei “piani bassi” nell’organizzazione. E spesso alcune situazioni incancreniscono fino a essere percepiti come “diritti acquisiti” o abitudini consolidate da chi ne gode i benefici. Elementi che, in presenza di cambi di gestione o di organizzazione, vengono inevitabilmente in superficie e rimessi in discussione.

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Famiglia cooperativa trentina. Quando piccolo è bello ma anche utile…

Ci sono argomenti sconosciuti ai più che raccontano la vitalità, la cultura e l’impegno delle comunità e che, a mio parere, meritano di essere condivise. Malé è il capoluogo della Val di sole in Trentino. In una sua frazione, Bolentina, risiedo per una parte dell’anno. Malé conta circa 2300 abitanti. Sul territorio comunale ci sono quattro punti vendita: IperPoli, Eurospin, Eurospar e Coop con la “Famiglia cooperativa”. Ho frequentato spesso questo punto vendita durante la pandemia. Quest’anno, pur con un ritardo di due, a causa della coincidenza con la pandemia, ha festeggiato i cent’anni di attività.

Il Trentino è terra di cooperazione. Don Lorenzo Guetti, primo di 13 figli di una famiglia contadina, cooperatore, giornalista, sacerdote, poi eletto deputato al Parlamento di Vienna fondò a Villa di S. Croce la prima “Società cooperativa di smercio e consumo” cioè la prima “Famiglia cooperativa” il 28 settembre 1890, e nel luglio 1892, a Quadra, la prima Cassa Rurale. A queste prime società cooperative seguirono poi molte altre, tanto che alla fine del 1898, anno della morte di don Lorenzo, le Famiglie Cooperative erano più di cento e le Casse Rurali una sessantina. Anni durissimi per i trentini fatti di povertà e isolamento; per far fronte alla crisi servivano idee e uomini visionari. Dai problemi di sopravvivenza dei contadini nasce l’intuizione di don Guetti: unire i suoi compaesani per renderli Soci, per acquistare insieme le merci e, in questo modo, risparmiare. Questa prima esperienza di Cooperazione alimenta in pochi anni lo spirito cooperativo in tutto il Trentino.

È il “negozio di casa”, spesso collocato in centro al paese o a poca distanza. Le Famiglie Cooperative sono presenti in tutte le vallate trentine e, in molti paesi, rappresentano l’unica realtà commerciale. La loro funzione diventa per questo anche sociale: spesso sono luoghi di relazione, presidi della socialità, prima che esercizi commerciali. Sì conoscono tutti. Con la loro presenza offrono però un servizio indispensabile.

In Trentino i negozi delle Famiglie Cooperative sono in parte associate a Sait (Coop) e, dal 2009,  in parte a Dao (Conad).  Quest’ultima nasce nel 1962 da un gruppo di 20 alimentaristi trentini e oggi conta circa 130 soci. È presente in tutto il Trentino A.A. e nelle province di Verona, Vicenza, Belluno, Brescia e Bergamo con circa 300 punti vendita. Nel 1992 ha contribuito a fondare Eurospin. Nel 2004 DAO avvia la partnership con Conad della quale diventa centro distributivo per le province di Trento, Bolzano, Verona, Vicenza e Belluno. È la più piccola delle cinque cooperative Conad ma anche una delle più attive e performanti. Leggi tutto “Famiglia cooperativa trentina. Quando piccolo è bello ma anche utile…”

Coop alleanza 3.0. Continuare a crescere tenendo insieme ciò che ha rappresentato la cooperazione e ciò che dovrà essere

L’inflazione nei consuntivi 2023 dell’intera GDO presenta le sue due facce. Migliora i bilanci delle aziende, pur segnalando un rallentamento dei volumi, e scarica i costi sui consumatori nonostante gli sforzi delle insegne per attutirne gli effetti.  Non sfugge a questa logica neppure Coop Alleanza 3.0 impegnata in una complessa operazione  di risanamento e rilancio definiti nel piano strategico 2023/2027. Il 2022  si era chiuso negativamente.  Così come gli anni precedenti.

La  stessa partecipazione al progetto Fico, a Coop Alleanza 3.0 era costata cara. Circa 13,5 milioni di euro.   La Cooperativa vi aveva aderito perché il suo impegno nella valorizzazione delle filiere agroalimentari italiane trovava una perfetta assonanza con le finalità, gli obiettivi e i valori di Fico, peraltro nella città in cui Coop Alleanza 3.0 ha la sua sede. Impossibile allora, sottrarsi ad un’operazione di quel profilo. L’ingresso del fondo di investimenti  Investindustrial di Andrea Bonomi in Eataly, l’hub gastronomico creato da Oscar Farinetti,  ha cambiato lo scenario di riferimento anche per FICO che non essendo mai decollato ha perso anche la sua centralità per la città. Se si ridimensionerà o si trasformerà in altra cosa non è più un problema di Coop. La rifocalizzazione delle attività caratteristiche in linea con il Piano Strategico e la progressiva eliminazione delle iniziative non a reddito, ha comportato la cessione delle quote e quindi la gestione di quella società, a fronte di un incremento delle quote detenute del fondo Parchi Agroalimentari Italiani (PAI).

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Dopo la firma del contratto di Federdistribuzione, UNES sceglie il CCNL Confcommercio

Essendomi trovato diverse volte a gestire le fasi concitate che precedono la chiusura di un contratto nazionale capisco le tensioni finali che le animano e che rischiano di far precipitare il negoziato. Ricordo ad un rinnovo del CCNL dei Dirigenti di Confcommercio le pretese di Auchan per ottenere una deroga esclusiva che le consentisse di non applicarne una norma contrattuale. Solo il buonsenso dei negoziatori evitò il deragliamento della trattativa. Potrei citare decine di esempi vissuti negli anni dove rappresentanti di singole aziende o dirigenti di associazioni territoriali trasformavano  il loro punto di vista o il problema da loro sollevato come vincolanti per accedere alla cosiddetta “non stop” negoziale che, per rispettare la tradizione, doveva concludersi nottetempo quando la stanchezza portava i più riottosi a più miti consigli.

Tutti i negoziati, vivono di fasi precise. Nella prima, entrambe le parti, rappresentano i loro “irrinunciabili” punti di vista. Spesso provocatori. Per le associazioni questa è la fase della sommatoria delle esigenze delle singole aziende. È la fase del “Non debemus, non possumus, non volumus”. È un “NO” a prescindere mascherato da accuse reciproche, tatticismi, drammatizzazioni sullo stato dell’arte. Ovviamente anche dalla presenza di problemi di contesto. Sembra assurdo ricordarlo ma, nel caso dei recenti rinnovi dei  CCNL del terziario e della distribuzione moderna questa fase è durata anni. Anni che hanno comportato evidenti risparmi sul costo del lavoro. Nella seconda fase del confronto  si inizia a prendere atto che, al di là delle possibili prove  di forza a cui il sindacato potrebbe ricorrere, qualcosa andrà comunque fatto. È la fase dove i negoziatori, pur ribadendo i loro punti di vista, iniziano ad ascoltare anche le ragioni degli interlocutori. Fase delicatissima ma fondamentale perché propedeutica alla terza fase dove entrambe le parti iniziano a cogliere gli spazi sui quali costruire il negoziato vero e proprio.

Nel rinnovo di cui ci stiamo occupando c’è però una differenza fondamentale tra i meccanismi decisionali delle due confederazioni (Confcommercio e Confesercenti) da una parte e quelli delle due associazioni (Federdistribuzione e ANCC per Coop) dall’altra. Le prime due, hanno come protagonisti funzionari ed esponenti politici centrali e  territoriali pur con l’anomalia, per la prima volta,  della presenza di una azienda (Conad) forte dei suoi 80.000 dipendenti che ha esercitato per lungo tempo un condizionamento evidente teso ad allungare i tempi del negoziato stesso. In queste realtà, la decisione di firmare o meno è essenzialmente politica. Spetta esclusivamente ai vertici confederali decidere se ci sono le condizioni.

Nelle associazioni, al contrario,  è la volontà della maggioranza delle insegne che hanno più peso a stabilire la presenza o meno delle condizioni. Le associazioni e i loro funzionari coordinano, suggeriscono, propongono ma non decidono nulla. E qui casca l’asino. Da un lato c’è chi comprende che una sintesi va trovata e la partita va chiusa. Dall’altro le alleanze e le divergenze tra insegne, la personalità dei rispettivi leader, l’aver visto riconoscere o meno le proprie aspettative, e, ultimo ma non ultimo il lavoro che l’associazione ha fatto (o non ha fatto) nel tempo  per guadagnarsi una autorevolezza decisionale fanno la differenza. In quella fase concitata, LIDL essendo una realtà leader, alla luce delle chiusure di Confcommercio e Coop si è assunta la responsabilità, condivisa anche da altri, di chiedere la “nonstop” finale con i sindacati. Leggi tutto “Dopo la firma del contratto di Federdistribuzione, UNES sceglie il CCNL Confcommercio”

Firmato il CCNL distribuzione moderna. Cosa prevede e cosa ci si aspetta da domani

Come ho già scritto, la firma del CCNL della Distribuzione moderna era fondamentale per chiudere una fase. Confcommercio insieme a Confesercenti hanno avuto il merito di individuare, con il sindacato di categoria, il riferimento economico che togliesse dal tavolo il rischio di dumping tra CCNL. Federdistribuzione ha capito che un CCNL “distintivo” non lo si poteva costruire quando la campanella aveva ormai segnalato che era arrivata la fine della ricreazione. LIDL, lo dico per chi finge di non volerlo capire, ha interpretato molto bene, la campanella e ha messo tutti davanti alle proprie responsabilità. La cooperazione ha fatto il suo, con la solita serietà.

Cerco di ricapitolare la situazione se mi assiste la memoria. Conad, Lidl, Sigma, Sisa, Eurospin, Crai, gruppo Arena e diverse altre aziende applicheranno  il CCNL di Confcommercio. In Conad alcuni soci applicheranno, per ragioni storiche, quello di Confesercenti. Così come Coop e altre collegate, ovviamente,  quello  della cooperazione. Le altre insegne, multinazionali, nazionali, multi regionali, locali o franchising, (tolte quelle che, soprattutto al sud, applicano nei loro punti vendita  contratti locali suggeriti dai rispettivi consulenti del lavoro) applicheranno quello di Federdistribuzione.

Quest’ultima, se non spreca l’intera vigenza del nuovo CCNL, appena firmato,  per la seconda volta, ha il dovere di lanciare una sfida al sindacato di categoria che spero raccolga a sua volta, per lavorare insieme alla costruzione di  un nuovo profilo e un contenuto preciso che trasformi questo “patchwork” di testi costruiti inizialmente sul piccolo commercio di vicinato a partire dagli anni 50 del secolo scorso in un testo moderno, condiviso e utile ai lavoratori e alle imprese della Grande Distribuzione di oggi e di domani. Elemento fondamentale per ricostruire quell’unità, almeno sul piano della condivisione del perimetro del comparto e del lavoro applicato in quelle realtà.

Per fare questo occorrerebbe innanzitutto evitare  giudizi superficiali. La distintività riguarda l’intero perimetro della GDO. Preferibilmente in un unico testo condiviso da tutti i firmatari dei differenti CCNL. Se non fosse possibile, come seconda scelta, basterebbe  ripercorrere  il percorso che ha portato, prima Confcommercio e Confesercenti, poi la Cooperazione e infine Federdistribuzione, in modalità inversa, consentendo a tutti le parti di capitalizzare e mettere a fattor comune con le Organizzazioni Sindacali di categoria le rispettive esigenze e contenuti. Sarebbe una svolta storica. Basterebbe partire dal welfare che è già in buona parte condiviso.

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Contratto Distribuzione Moderna. Comunque la si pensi, è ora di firmarlo.

Che questi rinnovi di contratto nel terziario e nella distribuzione moderna sarebbero stati più complessi da portare in porto  dei precedenti, era evidente. I cinque anni trascorsi corrispondono ad un’era geologica in termini di business. Terziario e GDO sono cambiati in profondità attraversati da accelerazioni prima  sconosciute. Pensiamo, ad esempio, alle insegne che hanno lasciato  il campo, a chi è subentrato, all’esplosione del franchising, alla crisi dei grandi formati. All’affermarsi dei discount. Il contesto socio economico ha fatto il resto.

Va anche ricordato che, fino al precedente CCNL, quello  firmato da Confcommercio del 2015,  in campo, da entrambe le parti, c’erano leadership forti e riconosciute sia sul fronte datoriale che sindacale. Una storia importante che aveva attraversato diversi rinnovi contrattuali e che aveva consentito di costruire un impegnativo sistema bilaterale e di welfare si era  però ormai chiusa e una nuova, in grado di “capire e gestire  il cambiamento”,  andava reciprocamente  individuata. Lo avevano fatto altre categorie industriali a cominciare dai metalmeccanici. Federmeccanica e il sindacato di categoria avevano messo al centro il lavoro, il suo cambiamento, l’esigenza di coinvolgere le persone nella vita dell’azienda.

Non lo ha voluto fare Confcommercio che, nel 2019 non solo ha affidato ad un profilo  lontano da questi temi, la responsabilità politica del Contratto nazionale  ma ha pure ridimensionato l’area tecnica del lavoro e del welfare confederale senza porsi il problema di una sua necessaria evoluzione. Federdistribuzione, poi, solo nel 2018 era riuscita a siglare, insieme al sindacato di categoria, un suo CCNL, identico a quello di Confcommercio pur con uno “sconto” sul monte salariale.

Quel segnale sui costi, sottovalutato dal sindacato di allora, aveva fatto presagire, agli osservatori più attenti, che si stava consolidando nel comparto della GDO una ridefinizione  del rapporto di lavoro che mirava ad una riduzione complessiva del suo costo, iniziata ben prima, sfruttando le maglie larghe offerte dalla legislazione, poi con il superamento della contrattazione aziendale, o con il  suo ridimensionamento, in una logica, per così dire, “restitutiva”.

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Aldi e Esselunga alla ricerca di uno spazio nella Milano che verrà…

Milano è un grande cantiere. Nel ridisegno di ciò che sarà la città le principali insegne della Grande Distribuzione si posizionano scommettendo su ipotesi di futuro. C’è chi scommette sui centri commerciali, chi sui nuovi quartieri e chi cerca di insediarsi in luoghi più tradizionali. Sarà comunque una città polarizzata in termini di reddito, dove residenti, soprattutto anziani, lavoratori dei servizi poveri, soprattutto immigrati, nuovi giovani  professionisti legati al terziario di mercato e turisti la frequenteranno determinandone il nuovo volto. Una città ricca, europea, essenzialmente terziaria con sacche di povertà, emarginazione e disagio.

Nella transizione tra vecchio e nuovo chiudono molti negozi, librerie, piccole botteghe alimentari e aprono altre attività. Le cause sono il livello degli affitti, la concorrenza dell’e-commerce e il mancato ricambio generazionale. Dal 2019 al 2023 hanno chiuso in città oltre 1200 negozi. Un calo del 4%. Crescono “minimercati e negozi di alimentari”, spesso gestiti da stranieri, con un +21,6% nel confronto fra 2019 e 2023.  Sono cresciuti anche i ristoranti. Oggi sono più di 4600. Un aumento, quindi, di circa l’11%. Un trend su cui riflettere. C’è chi si immagina un futuro fatto di strade deserte, gente chiusa in casa a ordinare ciò che serve attraverso il PC. Personalmente non credo sarà così. Ci sarà un po’ di tutto. Come dev’essere.

Un caso interessante, in controtendenza,  coinvolgerà uno storico Cinema di Milano: il  Plinius di viale Abruzzi nella zona est di Milano, nel quartiere Città Studi. Un altro quartiere in grande trasformazione. Chiuso per ristrutturazione il cinema riaprirà ad agosto insieme ad un punto vendita Aldi. Un binomio interessante. Aldi è presente in 18 Paesi. In Italia da maggio del 2015, a Milano ha già sei punti vendita. Altri sette in provincia; 177 nel nord italia (Trentino AA, Veneto, Friuli, Lombardia, Emilia, Piemonte). Il Plinius non è un cinema qualsiasi. Nasce nel 1936 con una capienza  di oltre 2 mila posti dotato di  un palcoscenico per spettacoli dal vivo di varietà, ma anche per commedie e lirica.  È il luogo che il grande Totò sceglie per la sua prima esibizione in una città del Nord Italia. Dopo la guerra diventa un locale esclusivamente per proiezioni cinematografiche di seconda e terza visione. Nel 1967 diventa un cinema punto di riferimento per tutti i milanesi. È chiuso ormai da qualche settimana per ristrutturazione. Sul sito e sui social annuncia la riapertura prevista per agosto, promettendo un salto nel futuro con  “poltrone premium, food & beverage e tecnologia”. I dipendenti sono stati ricollocati nel multiplex Le Giraffe di Paderno Dugnano, anch’esso gestito dalla famiglia Dattilo proprietaria del Plinius.

Nessuna trasformazione totale, quindi. In realtà “il cinema rimarrà – conferma al Giorno la proprietà –: avrà tre sale, le più capienti, completamente rimodernate, con accanto un punto vendita Aldi, nell’immobile che sarà sempre di nostra proprietà. L’intenzione è far convivere le attività unendo una realtà storica come la nostra con una più giovane e lavorare in sinergia”. Aprirsi anche a un’anima più commerciale garantirà la sostenibilità economica in un momento in cui i cinema in città sono diventati una rarità, soprattutto i monosala. Ma anche i multisala non se la passano bene: basti pensare all’Odeon, che diventerà centro commerciale, con previsione di “ricollocare“ le sale, che passeranno da 10 a 5, nei sotterranei. “Il nostro è un business nel quale crediamo ancora”, conferma la proprietà. “In primis per una questione affettiva”, visto che la gestione familiare oggi è alla terza generazione: il fondatore Mario De Martini ha passato il testimone alla figlia Marina De Martini la quale lo ha ceduto al figlio Salvatore Dattilo, attuale gestore, e alle sorelle. Sarà interessante vedere come Aldi interpreterà questa location. L’insegna tedesca non è nuova a interessanti variazioni sul tema. Vedremo le sinergie che proporranno. Leggi tutto “Aldi e Esselunga alla ricerca di uno spazio nella Milano che verrà…”

LIDL lascia Federdistribuzione e applica il CCNL firmato da Confcommercio…

Un distinguo forte  che non passerà certo inosservato. Lidl lascia Federdistribuzione in polemica sulla mancata firma del contratto nazionale e, di conseguenza, applicherà il CCNL firmato da Confcommercio. In Federdistribuzione  c’era entrata due anni fa, il  23 aprile 2021 portando i suoi oltre ventimila dipendenti e i suoi 700 punti vendita. Al centro della strategia di Lidl allora come oggi la sostenibilità economica, sociale e ambientale. La responsabilità sociale nei confronti dei propri collaboratori ha quindi pesato non poco in questa decisione.

Lidl si è trovata spiazzata all’interno di dinamiche associative incomprensibili per una realtà di quel profilo dove ha prevalso chi, non avendo problemi di interlocuzione sindacale, ha puntato al rilancio sapendo di non correre alcun rischio. Tra le aziende associate non solo Lidl era per chiudere. Alcune come Selex, sono rimaste sorprese, dalla reazione dei sindacati per l’abbandono del tavolo. Altre speravano in una rapida conclusione.

Nella decisione ha pesato il cambio di atteggiamento di Federdistribuzione che, poco prima della firma di Confcommercio e Confesercenti ne aveva contestato i rilanci giudicandoli inopportuni  e, subito dopo, si è posta di fatto sulla stessa linea, rivendicando una distintività apparsa provocatoria non solo ai  sindacati di categoria. Com’è ho recentemente scritto “Lo stallo, se si trasforma in risultato, non è  un’opzione negoziale. È una rinuncia al proprio ruolo”. Questa uscita segnala la presenza di rigidità interne alla Federazione che rischiano di trascinare l’intera vicenda in un cul de sac dagli esiti imprevedibili. La rapidità con cui si è manifestata questa uscita spinge i cosiddetti “falchi” all’arroccamento e i sindacati a confermare la bontà delle ragioni alla base della rottura.

Per Federdistribuzione questo era il primo vero CCNL. Quello firmato nel 2018 era una sostanziale ricopiatura di quello di Confcommercio con uno “sconto” sul salario. L’area lavoro di Federdistribuzione, composta dai direttori risorse umane delle insegne, è arrivata  impreparata alla scadenza, non ha fatto quasi nulla per cinque lunghi anni per costruire un percorso alternativo e distintivo con l’interlocutore  sindacale cedendo ruolo e iniziativa  ai CEO delle insegne che in larga parte  di questa materia non ne capiscono un granché salvo per i costi che genera. Questi ultimi, soprattutto se piccoli imprenditori, hanno dei sindacati una visione approssimativa e legata alla loro realtà specifica. E quindi non hanno valutato  né il contesto politico e sociale né la necessità di chiudere rapidamente la partita. Leggi tutto “LIDL lascia Federdistribuzione e applica il CCNL firmato da Confcommercio…”