Il canto del cigno del 900…

Difficile prevedere come finiranno le due vertenze aperte in questi giorni. E, comunque si concluderanno, rappresentano l’inevitabile tramonto di una cultura che appartiene al secolo che abbiamo alle spalle. Un tramonto, però, troppo lungo che non possiamo più permettercelo.

Alitalia e tassisti rappresentano, che lo si voglia riconoscere o meno, due facce della stessa medaglia. Lo stesso potere di interdizione e, sostanzialmente, lo stesso target di cittadini/consumatori coinvolti. I primi invocano la nazionalizzazione, i secondi la difesa ad oltranza contro un futuro che non li prevede. Almeno così come molti loro intenderebbero affrontarlo.

Individualmente hanno buone ragioni. Le stesse del negoziante che chiude per l’arrivo nel quartiere di un supermercato che apre h24, del lavoratore che perde il lavoro perché la sua azienda delocalizza, del piccolo artigiano mobiliere brianzolo con l’arrivo di IKEA.

Loro sono diversi solo perché hanno ancora un enorme potere di interdizione. Ma il destino è comunque segnato. Entrambi, almeno così appare, non cercano, almeno per il momento, nessuna mediazione.

Ad oggi, sei giorni di blocco del servizio da parte dei tassisti. Sull’altro versante una reazione durissima su tutte le proposte aziendali. Il tono, in entrambe le vertenze, nasconde ovviamente preoccupazione e paura. Come nel 900 ci si affida e si spera che un terzo soggetto (il Governo) ci metta del suo per riportare indietro le lancette del tempo.

Nel caso dell’Alitalia ci sono evidentemente responsabilità da distribuire. Quindi non riguardano solo i lavoratori e i loro rappresentanti. Questa però è solo una magra consolazione. Personalmente mi ricorda la vertenza Unidal (Motta e Alemagna) sul finire degli anni 70 dove, dopo la presentazione di un piano che prevedeva quasi tremila licenziamenti respinto al mittente con lotte durissime, si concluse con oltre quattromila licenziamenti e la fine di entrambe le aziende.

Alitalia oggi è ad un passo dal fallimento. Non ha più nulla della compagnia di bandiera del secolo scorso né potrà ritornare ad esserlo. Può però essere oggetto di un profondo ridisegno del perimetro di attività e di una ridefinizione del numero degli addetti, del loro utilizzo e del costo complessivo del lavoro. Il confronto non può essere spostato su altro. Né sulle recriminazioni.

E va fatto in tempi sufficientemente rapidi affinché la ragionevole certezza di un suo possibile rilancio convincano azionisti e Governo a sostenerla con tutto ciò che è in loro potere decidere. Non esiste un piano B. Così come per i tassisti. Occorrerebbe mettere a loro disposizione e alle loro rappresentanze qualcuno che li aiuti ad evolvere con progetti, idee e modalità di lavoro nuove. Spingerli a prendere atto che non è nel muro contro muro che risiede il loro futuro.

Personalmente spero che il Governo non si limiti a rimuovere il vulnus che ha causato la protesta ma che, al contrario, apra un percorso di confronto aiutando almeno i tassisti più sensibili a riflettere su opzioni possibili, su come attivarle nel tempo e su come favorirle, su come, infine, attenuare le conseguenze del cambiamento necessario.

È vero che l’Anpal è solo all’inizio ma questo potrebbe essere un importante compito da affidargli. Come si costruiscono progetti imprenditoriali piccoli o grandi non è altra cosa rispetto a come si trova un lavoro dipendente dopo averlo perso.

Occorre abbassare il livello di paura nei confronti del futuro. Occorre aiutare le persone ad affrontarlo. Altrimenti non resta che la resistenza a oltranza.

Anche se, purtroppo, questo rappresenta il canto del cigno di abitudini e convinzioni che non si rassegnano a cedere il passo a modelli di risoluzione dei conflitti più concreti ed efficaci.

Eppur si muove…

La decisione della FIOM CGIL di lanciare una indagine a 360 gradi in FCA è, di per sé, un importante segnale di riposizionamento positivo che non va sottovalutato.

Dopo la firma unitaria del CCNL era comunque necessario affrontare il rapporto con la principale azienda del settore e, sul tema, con le altre organizzazioni sindacali.

Dichiarare apertamente come nel loro comunicato ufficiale che: “La nostra è un’inchiesta senza “paracadute”. Il tema non è dimostrare quello che noi già pensiamo ma capire come le azioni dell’azienda hanno cambiato le cose e se e quanto tutto quello che abbiamo cercato di fare come Fiom in questi anni, grazie allo straordinario lavoro dei delegati, è vivo tra i lavoratori. Bisogni e desideri in stabilimenti cambiati dalla crisi, dal contratto e dalla nuova organizzazione del lavoro.

È ovvio che questo prevede la nostra disponibilità ad accettare tutti i risultati che emergeranno e, in base a questi, riorientare le scelte di carattere sindacale.”

Da qui emerge tutta la concretezza della nuova direzione di marcia della FIOM impressa da Landini che segue il rinnovo del CCNL. Non solo in FCA. L’indagine dimostrerà ciò che non può non dimostrare: il cambiamento in atto negli stabilimenti non solo dal punto di vista tecnologico e organizzativo ma anche sociale.

La FIOM aveva scommesso sul declino e il declino non c’è stato. La ripresa del lavoro negli stabilimenti non ha risolto di per sé il problema della fatica o del salario ma ha creato delle condizioni nuove di appartenenza, condivisione e impegno tra i lavoratori che non erano né proponibili né percepibili nella fase declinante.

Soprattutto da quella parte dei militanti e dei delegati che, non comprendendo il cambio di fase, insistevano nel riproporre un modello che faceva perno sul contratto nazionale e sulla contrattazione aziendale in vigore, costruita negli anni precedenti la grande crisi.

A differenza degli altri sindacati di categoria la FIOM, non riuscendo a percepire un futuro dell’azienda, ha preferito scommettere sulla difesa di ciò che il passato aveva prodotto di positivo per i lavoratori pensando di poterlo difendere con l’iniziativa sindacale o con i ricorsi in magistratura. Ha sottovalutato la determinazione dell’azienda, l’assenza di alternative praticabili, la debolezza delle dinamiche confindustriali ma, soprattutto, il modificarsi dell’orientamento dei lavoratori che hanno scelto, insieme alle altre organizzazioni sindacali, di accettare una scommessa complessa con l’azienda piuttosto che una difesa ad oltranza di una realtà che non esisteva più se non nei ricordi collettivi di prima del massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali.

Questa indagine si svilupperà in un anno decisivo per il futuro di FCA è, se fatta bene, fornirà indicazioni importanti per il futuro stesso delle relazioni industriali. Quindi se ne potranno avvantaggiare anche le altre organizzazioni sindacali.

A Landini il compito di riportare un po’ di sana concretezza emiliana nelle relazioni sindacali della più importante azienda italiana. Agli altri la disponibilità e la pazienza di reggere qualche gomitata fuori misura.

Una ripresa di rapporti unitari in FCA resta comunque decisiva per il futuro di una parte importante del movimento sindacale italiano. Speriamo che questa indagine ne consenta un rilancio.

Contratti della Grande Distribuzione. Adesso tocca al Ministero del lavoro.

L’iniziativa era nell’aria. Rita Querzé ne scrive oggi sul Corriere. Sia Confcommercio che i sindacati di categoria non potevano non rompere gli indugi e chiamare il Ministero del lavoro alle sue responsabilità.

Ci sono aziende che applicano un contratto nazionale e si sobbarcano i relativi obblighi e costi e ci sono aziende che non applicano un bel nulla ma che ne godono dei benefici economici e contributivi. Per un paio di anni e fino a poco tempo fa la indubbia capacità di lobby di Federdistribuzione è riuscita a convincere il Ministero del lavoro che la firma di un contratto nazionale specifico fosse imminente spingendo così il Ministero a temporeggiare rispetto ai suoi obblighi di vigilanza.

La vicenda è nota. Federdistribuzione è uscita da Confcommercio e ha convinto le aziende che vi hanno aderito a puntare ad un contratto nazionale specifico proponendo obiettivi ambiziosi quanto difficilmente realizzabili.

Il sindacato, con sensibilità differenti, ha tentato di restare in gioco giocando su tutti i tavoli possibili pur trovandosi di fronte a richieste, non solo irricevibili, ma che rischiavano, se accettate, di sfaldare l’intero sistema contrattuale del settore. Il punto è che non tutte le aziende del comparto aderiscono a Federdistribuzione. Molte sono in Confcommercio, altre applicano il contratto nazionale della cooperazione, alcune, infine, quello di Confesercenti.

Federdistribuzione ha insistito nel tenere al tavolo negoziale i sindacati con la promessa di chiudere in breve tempo ma, questi ultimi non ci hanno messo molto a comprendere che questa situazione rischia solo di avere come effetto collaterale grave l’assenza di una copertura contrattuale per decine di migliaia di lavoratori e quindi anche una situazione di evidente dumping tra imprese.

Le difficoltà economiche del settore e l’assenza significativa di iniziative sindacali spingono molte aziende della GDO, addirittura, a preferire l’assenza di un contratto ad un contratto comunque e quindi la situazione si è, piano piano, infilata in una palude da dove sarà sempre più difficile uscire.

Da qui le polemiche e le cicliche accuse di Federdistribuzione a Confcommercio e ad una parte del sindacato di voler impedire la sottoscrizione del contratto. Tesi sufficientemente ardita perché presuppone l’esistenza, al contrario, di una altra parte del sindacato disponibile a firmare comunque cosa fino ad oggi non manifestata in nessuna sede ufficiale.

Confcommercio, d’altro canto, non può che tutelare l’interesse delle aziende che vi aderiscono e quindi il punto, per questa Confederazione, non è impedire la firma di un contratto altrui. Anzi. Semmai si raggiungesse, in questo infinito negoziato, un risultato economicamente o normativamente più vantaggioso per le aziende questo non potrebbe che essere rivendicato sia da Confcommercio che da Confesercenti e, infine, anche dallo stesso mondo cooperativo.

Occorre sempre tenere presente che il contratto di Federdistribuzione riguarda circa centocinquanta mila addetti mentre solo quello di Confcommercio oltre tre milioni di addetti. I rischi sono evidenti.

Il problema di chi ha firmato il suo contratto nazionale è che non può tollerare una situazione dove alcune imprese godono di un vantaggio a prescindere mentre chi ha rispettato le regole ne ha un danno. Tutto qua.

Come ho già avuto modo di scrivere la strada imboccata da Federdistribuzione è sbagliata. Se qualche anno fa poteva avere ancora un senso la polverizzazione contrattuale per garantire alcune prerogative, oggi è un inutile .

Occorrerebbe una maggiore lungimiranza puntando decisamente verso modelli che prevedano l’applicazione di un unico contratto nazionale del terziario con, eventualmente, alcune deroghe necessarie che garantiscano una specificità settoriale da cui far discendere un nuovo modello di contrattazione aziendale costruito sulle esigenze della singola impresa. I modelli contrattuali che si stanno costruendo vanno tutti in questa direzione.

Capisco che non è facile cambiare strategia quando l’esigenza politica di affermare la propria esistenza associativa impedisce di alzare lo sguardo. Ma il mondo è veramente cambiato e attardarsi verso vecchi modelli contrattuali rischia solo di impedire l’evoluzione del contesto.

Le aziende della GDO stanno attraversando una fase estremamente complessa che sta rimettendo in discussione la dimensione e la presenza di molti gruppi nazionali e internazionali sul mercato, i loro modelli organizzativi, gli stessi format di vendita. Molte di loro sono impegnate in sforzi formativi importanti che consentono a migliaia di giovani di crescere e sviluppare professionalità e carriera.

La stessa Federdistribuzione è impegnata su versanti importanti dove esercita un ruolo di accompagnamento di affermazione e di ammodernamento del settore con grande determinazione. Sul versante sindacale, al contrario, le esigenze delle singole imprese, hanno sempre impedito la costruzione di una vera cultura associativa che, per sua natura deve saper operare sintesi con le rispettive controparti.

Altrimenti ci si trova nella situazione in cui si è oggi. Cosa prevedibile fin dall’inizio di questa avventura…

La nuova stagione dei metalmeccanici

La recente firma unitaria del CCNL dei metalmeccanici è un risultato positivo a prescindere. Segna la volontà di riprendere un cammino concreto che guarda ben più lontano del merito e dei risultati del negoziato.

La stessa gestione delle assemblee di ratifica, il clima presente e la volontà comune di tenere al palo, senza se e senza ma, quel 20% di oppositori di mestiere ne sono la conferma.

Le tre organizzazioni hanno scelto, insieme, di investire nella prossima contrattazione aziendale e quindi hanno costruito un contratto nazionale che ne rappresenta la cornice indispensabile. Una contrattazione aziendale, che, laddove ne esisteranno le condizioni, cercherà di “sfidare” le aziende sul terreno della produttività, del coinvolgimento e quindi della condivisione e, ultimo ma non meno importante, della formazione continua dei lavoratori.

Landini ha capito benissimo che un riposizionamento del gruppo dirigente della FIOM in chiave unitaria era necessario. Andare per salotti televisivi in tempi di grillismo imperante significa solo lavorare per il re di Prussia. Che lo si voglia o meno. Anche perché, dai territori, i cosiddetti accordi “difensivi”, si sono, nel tempo, moltiplicati e la FIOM non si è certo sottratta ad apporre la sua firma gestendone con responsabilità e preoccupazione tutte le conseguenze.

Resta aperto il vulnus principale. Il macigno sulla strada del riposizionamento definitivo: la vicenda FCA. È un passaggio delicato perché coinvolge anche l’approccio culturale di numerosi dirigenti sindacali, di molti delegati e iscritti, non solo di quell’azienda. Le loro storie personali, le loro scelte ma, soprattutto le conseguenze di quelle scelte.

D’altra parte i sindacati, non solo quelli del comparto metalmeccanico, se ripercorriamo le scelte nell’ultimo decennio, entrano ed escono dai contratti firmati o rifiutati nei rinnovi successivi senza mai fare fino in fondo i conti con gli eventuali errori commessi precedentemente. Né proponendo autocritiche.

La vicenda FCA è però diversa. L’azienda è cambiata profondamente e ha sempre giocato le sue carte provocando essa stessa i sindacati con l’obiettivo di modificare il perimetro, i contenuti e le modalità del confronto. Solo la lungimiranza delle altre organizzazioni sindacali di categoria e la loro disponibilità ad esporsi e ad assumersi forti rischi politici ha consentito di riprendere per i capelli situazioni ormai quasi compromesse.

Ma l’azienda non è mai stata intenzionata a concedere sconti neanche ai firmatari degli accordi. Il livello, le modalità e i contenuti del confronto sono cambiati disegnando uno scenario proprio di un nuovo modello di contrattazione aziendale. E quindi di relazioni industriali. FIM e UILM lo hanno capito benissimo.

E qui, a mio parere, sta il punto vero. Non è tanto un problema di come rientrare in gioco limitandosi a superare il passato. Oggi ci sono nuove regole del gioco e nuove modalità di confronto. E lo vedremo concretamente nella gestione del contratto nazionale.

Fare paragoni tra i contenuti economici del recente contratto dei metalmeccanici e quello in vigore in FCA non serve a nulla. Anzi. È un inutile esercizio di stile. L’unico vero paragone che ha senso proporre è nella filosofia di fondo tra i due modelli che è sostanzialmente identica.

Di più. Non ci sarebbe stato il rinnovo del contratto nazionale unitario in questi termini se non ci fosse stato lo strappo FCA. Realtà dove la priorità, oggi, dei sindacati che hanno accettato la sfida, credo sia quella di consolidare il lavoro nel Gruppo e il suo perimetro produttivo nel Paese. Occorrono nuovi occhi. Altrimenti non si rientra in gioco. E, soprattutto, non si esercita nessun ruolo propositivo.

Il lavoratore FCA di oggi si sente, al contrario, in partita. Si riconosce nella sua azienda, ne condivide gli obiettivi, è parte attiva del suo rilancio. E quindi si aspetta dal sindacato un comportamento coerente. Sentire, in una intervista televisiva, un delegato sindacale di uno stabilimento del sud chiamare l’AD di FCA “dottor” Marchionne è un segno dei tempi.

C’è rispetto dei ruoli, sobrietà nei comportamenti e nelle dichiarazioni, condivisione di obiettivi. Le nuove relazioni industriali si costruiscono in FCA e altrove, anche su queste tre caratteristiche semplici. Ma, come tutte le cose semplici, sono molto difficili da declinare….

I sindacati tra tattiche e strategie..

La chiusura unitaria del CCNL dei metalmeccanici ha segnalato un dato importante. Dove più acuta era la crisi di rapporto tra le diverse organizzazioni sindacali (e la rispettiva controparte) il lavoro di ricucitura messo in campo dai rispettivi protagonisti è stato più costruttivo e convincente che altrove.

Il fatto segnala indubbiamente una maturità e una visione che i lavoratori, soprattutto quelli più vicini alle rispettive organizzazioni sindacali, non hanno mancato di apprezzare.

Proporre, come chiave di lettura, una FIOM consenziente perché militarizzata e quindi dipendente dai voleri di Maurizio Landini come ha fatto Giuliano Cazzola mi sembra francamente esagerato anche perché tenere in una perenne tensione inconcludente una organizzazione sindacale e i suoi militanti può funzionare con un COBAS di modeste dimensioni non con una grande organizzazione che comunque fa parte della CGIL.

Il contratto dei metalmeccanici non è affatto sbilanciato a favore delle imprese. Contiene impegni, costi, soprattutto futuri, che vanno ben al di là di di quanto un’associazione di imprese ha mandato di sottoscrivere se non in una fase di riorientamento strategico delle relazioni sindacali, dei ruoli della contrattazione e del futuro dell’intero sistema.

C’è un equilibrio sostanziale che rappresenta una indubbia particolarità in un contesto dove le piattaforme sindacali, pur preparate con cura, si sono infrante contro muri datoriali sempre meno disponibili.

Gli impegni contenuti e la gestione dello stesso contratto ne marcheranno il cammino, lo collocheranno nella giusta dimensione e ne consentiranno una giusta valutazione solo alla fine del percorso concordato tra le parti.

Modalità di partecipazione dei lavoratori alla crescita e allo sviluppo delle loro imprese, ruolo della contrattazione aziendale, revisione dell’inquadramento, formazione dei lavoratori come diritto soggettivo, sicurezza sul lavoro, solo per citare alcuni temi rilevanti, costituiscono una base di confronto di notevole contenuto e spessore. Ed è su questo che si chiariranno i confini dentro il quale il cosiddetto “Patto di fabbrica” troverà o meno uno sblocco plausibile e concreto. Oppure resterà solo sulla carta. Ed è per questo che il percorso di confronto tra i massimi organismi di FIM, FIOM e UILM avviato oggi è molto importante.

Non va però sottovalutato, che tutto questo avviene in un contesto di relazioni tutte da ricostruire tra le diverse organizzazioni sindacali sia in categoria che a livello confederale.

Innanzitutto in categoria dove le tendenze egemoniche della FIOM, che si sono manifestare fortunatamente solo nel rinnovo del contratti minori o in periferia, non sembrano destinate a rientrare facilmente nonostante l’impegno di tutte le segreterie nazionali.

Così come in FCA dove, sempre la FIOM, non segnala alcuna volontà concreta di “redenzione” quasi come continuasse ad attendere la realizzazione della profezia negativa evocata con una certa ossessione in tutti questi anni che ha trasformato Maurizio Landini in una sorta di Voldemort della saga di Harry Potter che, temendo di essere sconfitto da un bambino nato da poco, tenta di ucciderlo, continuando ad attaccarlo fino a quando, almeno nella saga è lui ad essere sconfitto definitivamente.

Per non parlare della carta dei diritti proposta dalla CGIL che, pur rappresentando un interessante punto di osservazione di una possibile evoluzione del mondo del lavoro non ha nulla che la possa mettere in relazione con il disegno strategico concordato con Federmeccanica nel dettato contrattuale dei metalmeccanici appena firmato se non sui principi generali. O con quanto ipotizzano tutte le organizzazioni datoriali per rilanciare il lavoro e favorire la ripresa.

Infine il referendum con la sproporzione evidente tra i contenuti rimasti sul tappeto e le conseguenze politiche e sociali che potrebbe innescare. Conseguenze che solo un sindacato unito su proposte chiare potrebbe evitare. Ultimi ma non ultimi gli imminenti congressi sindacali con tutte le tensioni e i nervosismi tipici delle stagioni riservate alla riproduzione.

Segnali a volte difficili da decifrare o da interpretare per un osservatore esterno soprattutto perché le tattiche e i segnali trasmessi rischiano di prevalere sulle necessarie strategie da mettere in campo.

D’altra parte le difficoltà della Politica sono evidenti. Così come sono altrettanto evidenti le difficoltà di una sinistra sociale che fatica a rientrare in campo perché insiste su un’idea di lavoro sempre più difficile da realizzare quindi lontana dalle esigenze del Paese e dalle urgenze delle nuove generazioni. E, come già sottolineato, sempre più lontana dalle disponibilità delle imprese e delle loro organizzazioni di rappresentanza.

Il rischio è di abbandonare la strada della concretezza e della contrattazione tipiche del sindacato per rifugiarsi nella pura testimonianza.

Ed è su questo, sulla comprensione del contesto e delle risposte che solo il confronto tra sindacati e con le rispettive controparti può determinare, che la differenza tra espedienti tattici e visione strategica chiarirà il ruolo che i gruppi dirigenti dei sindacati, confederali e di categoria ma anche di tutti i corpi intermedi, vorranno giocare nei prossimi mesi e che ne segnalerà il possibile rilancio o il declino. I segnali, purtroppo, sono ancora abbastanza contraddittori.

Ristrutturazioni aziendali e responsabilità da condividere.

Se per quanto riguarda una qualsiasi attività produttiva è possibile ipotizzare una sua riconversione non è così per un punto vendita della GDO. Soprattutto se di grandi dimensioni.

Se il fatturato non è adeguato il negozio, piccolo o grande che sia, va chiuso. Più tardi lo si fa, peggio è sia per la redditività complessiva dell’azienda ma anche per i lavoratori.

La reazione del sindacato, in questi casi, è generalmente pavloviana. Sanno tutti benissimo che non ci sono alternative e che la procedura non andrà oltre i 75 giorni ma nessuno se la sente di proporre altro, oltre a qualche ora di sciopero che, nella maggioranza dei casi, non serviranno a nulla.

Le parti sociali nel nostro Paese sono in grado di gestire qualsiasi situazione meno la più grave: il licenziamento. Se stiamo all’ultima vicenda in ordine di tempo e che coinvolge una grande multinazionale francese il comunicato della Filcams CGIL recita: “Le argomentazioni dell’impresa hanno portato ad evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il costo del lavoro e la redditività dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati”.

Motivazioni chiarissime. Ma per evitare un giudizio di merito il comunicato conclude con: “Le informazioni declinate dall’impresa sono risultate generiche e improvvisate”.

Si preferisce quindi addossare le colpe all’azienda, pronunciando frasi di rito, proclamando lo stato di agitazione e lasciar passare il tempo. L’azienda, dal canto suo, sa che questo è il prezzo da pagare. Un dialogo tra sordi.

Così come i trasferimenti di sede o di attività. Le aziende devono essere sempre attente ai costi. Ottimizzano strutture, semplificano gli organigrammi, concentrano attività.

Giampiero Castano, coordinatore dell’unità del ministero dello Sviluppo economico per la gestione delle vertenze delle imprese in crisi, ed ex sindacalista, insinua che queste operazioni possono nascondere la volontà di ridurre il personale. Non è così.

Due unità produttive sottoutilizzate o sovradimensionate sono entrambe a rischio. Concentrare le attività in una sola consente di gestire meglio i servizi comuni, gli affitti dei siti e determinare migliori sinergie. Molte sedi direzionali saranno a rischio nei prossimi anni. Così come molti siti produttivi.

L’insegnamento da trarre in queste vicende è se esistono o meno alternative di gestione e quindi se le parti sociali anziché agire o reagire passivamente, pur nel rispetto di leggi e contratti, sono in grado di assumere iniziative, individuare strumenti specifici, studiare formule di accompagnamento perché come sostiene Fabio Savelli, a commento di un ottimo articolo di Rita Querzé sul Corriere di oggi, “il proprio lavoro lo si salva solo spostandosi”. Su questo, fortunatamente, non partiamo da zero. In alcune categorie si stanno sperimentando opzioni interessanti. Però non ancora unitariamente.

È chiaro che per i singoli colpiti da un licenziamento la strategia del “il posto di lavoro non si tocca…” oggi non funziona più. Al massimo funziona nella prima parte della procedura. Poi scatta il “si salvi chi può”. Gli attuali ammortizzatori sono studiati per lasciare, di fatto, la persona sola con il suo problema.

Strumenti quali, il trasloco, la differenza sul costo di affitto, i distacchi temporanei, un interlocutore per le pratiche burocratiche, un supporto sui servizi sociali (scuola, sanità, relazioni, ecc.) e sulle modalità dell’inserimento lavorativo sarebbero molto più importanti se gestiti insieme dall’azienda e dai rappresentanti sindacali. Nelle aziende di cultura francese alcune di questi aspetti vengono gestiti attraverso il cosiddetto “plan social”.

Un insieme di strumenti che devono consentire al lavoratore licenziato di rimettersi in gioco. Ma con una assunzione di responsabilità anche dell’azienda che lo licenzia.

Nelle riflessioni sulle politiche attive il tema sulle concentrazioni di attività, sui trasferimenti intergruppo, i distacchi presso terzi, le nuove opportunità interne e la formazione aziendale necessaria e, non ultimo, tutti gli strumenti alternativi al licenziamento dovrebbero trovare la possibilità di approfondimento indispensabile.

Oggi il lavoro si perde e si trova dove c’è. Dare per scontato che quando lo si perde in un’azienda, lo si può trovare solo fuori e da soli non è così scontato. Almeno occorrerebbe crederci, superare i pregiudizi ideologici e provare ad individuare soluzioni percorribili.

Voucher e FCA viaggiano insieme.

Pedretti, segretario generale dello SPI CGIL, è una persona equilibrata. Nell’intervista al Corriere dimostra quella pacatezza e quella lungimiranza che solo chi ha cominciato a lavorare a 15 anni ed ha attraversato tutte le principali vicende sociali del nostro Paese può avere.

Conosce la CGIL e la FIOM come le sue tasche. Distribuiva l’Unità nelle fabbriche quando il solo fatto di leggerla poteva portare al licenziamento. Non come oggi dove nessuno la legge più e i suoi giornalisti vengono licenziati. È cambiato il mondo e lui lo sa bene.

Nella vicenda dei voucher si è mosso con coerenza. Sa benissimo che dovrà alimentare con i suoi, gazebo e manifestazioni a favore dell’abrogazione dei voucher, e continuare ad utilizzarli per pagare i pensionati che aprono e tengono vive le sedi del sindacato.

Come sa benissimo che, alla fine di questa vicenda, esisteranno ancora strumenti analoghi. L’ha detto lui e lo ha ribadito con altre parole Susanna Camusso: per la CGIL, i voucher non devono sostituire lavoro altrimenti regolamentabile. Segnali comunque di disponibilità, se li si vogliono cogliere all’interno di un negoziato serio.

Dove temo la CGIL sopravvaluti la fase politica e sociale attraversata dal nostro Paese è quando ritiene che questo referendum sta rimettendo al centro del dibattito il tema del lavoro. Purtroppo non è così. O meglio questo dovrebbe essere lo sforzo che i corpi sociali insieme dovrebbero fare anziché rinchiudersi nei rispettivi recinti.

Il tema centrale per chi vive i problemi e forse meno per chi ne discute, lo hanno capito benissimo i grillini, è il reddito delle persone. Anche di chi lavora. E questo indipendentemente da come questo reddito sia costruito. Lo ha capito benissimo anche Trump che, nonostante la ripresa del lavoro ottenuta sotto Obama, ha vinto le elezioni anche su questo.

Il referendum sui voucher così come sarebbe stato quello sull’art. 18 è permeato da una cultura sindacale profondamente nordista che vede il lavoro e le sue regole come erano state concepite nel 900. Ovviamente per chi quelle regole poteva dettarle o contribuire a scriverle.

È una cultura lontana dai problemi reali di chi il lavoro non lo trova, di chi lo trova solo in nero, di chi, pur trovandolo, deve restituire parte del suo guadagno al caporale di turno, da chi vive con la pensione di qualcun altro, di chi deve emigrare.

Sul reddito di cittadinanza condivido le tesi di Ricolfi sulla sua impossibile realizzazione però è indubbio che ha un potere semplificatorio e di attrazione di cui occorre tenere conto.

Il referendum e il dibattito che lo accompagnerà scoprirà inevitabilmente questo vaso di Pandora. E la CGIL non aprirà una nuova stagione all’insegna dei diritti da riconquistare. Abbasserà solo il ponte levatoio consentendo a chiunque di infilarsi con la propria demagogia.

Come si fa a non accorgersi che il disagio sociale ha già preso altre strade sul piano politico inseguendo altri pifferai e non lo si recupera più richiudendosi in parole e slogan che non scaldano più i cuori da tempo neanche dei militanti più stretti ma, al contrario, accettando la sfida del cambiamento?

Occorre stabilire alcune priorità, condividerle nel movimento sindacale ma individuare anche i luoghi del confronto e della proposta con le organizzazioni datoriali prima che sia troppo tardi. E la CGIL oggi ha un dovere in più rispetto allo stato di difficoltà strategica in cui versano altri sindacati. Oggi soli non si va da nessuna parte.

Per questo, ad esempio, non capisco il silenzio di Landini sulla vicenda FCA. FIM e UILM si sono pronunciate. Così come la solita sinistra dei salotti televisivi tutta soddisfatta delle accuse all’arcinemico Marchionne.

La FIOM non può stare in mezzo al guado. Il nostro PIL, giusto o sbagliato, è trascinato dalle vendite delle auto FCA, se c’è una possibilità di ripresa dobbiamo assolutamente consolidarla soprattutto in questo momento di incertezza.

Se di fronte alla prima prova di unità il sindacato dei metalmeccanici anziché reagire come i colleghi della IG metall in difesa dell’industria nazionale si smarca, non la vedo molto bene. Voucher e FCA sono due facce della stessa medaglia.

Ognuno evidentemente è libero di scegliere di andare nella direzione che crede. Ma un vero segnale di cambiamento passa da come il più importante sindacato italiano ricostruisce un tessuto unitario e propositivo e uno dei suoi più importanti sindacati di categoria reagisce di fronte alla delegittimazione della principale industria italiana.

Ed è su questo che si misura la qualità dei gruppi dirigenti. Non è tempo, questo, di né né.

Disconnettersi o connettersi con il futuro del lavoro?

Dopo il CV anonimo proposto per evitare discriminazioni nelle assunzioni la Francia procede con una nuova legge sul “diritto alla disconnessione” entrata in vigore dal 1 gennaio 2017.

Una legge voluta dalla Ministra del Lavoro Miryam El Khomri che obbliga le aziende con oltre 50 dipendenti a stabilire, con i propri collaboratori, delle regole per consentire loro il diritto di ignorare email, messaggi o SMS aziendali fuori dall’orario di lavoro.

Non è chiaro però come verrà effettivamente attuata. Quello che è certo è che, in mancanza di accordo tra le parti coinvolte le aziende sarebbero tenute a comunicare esplicitamente cosa verrà chiesto ai dipendenti al di fuori dell’orario di lavoro.

Le nuove tecnologie portano con sé una modifica sostanziale del luogo, del tempo, del contenuto e delle modalità di effettuazione di molti lavori. Pensare di riportare tutto dentro leggi e contratti costruiti nel novecento è sinceramente assurdo. In Italia nella vecchia cultura aziendale industriale il tempo passato sul posto di lavoro era un elemento di valutazione positiva del collaboratore.

Chi faceva gli “straordinari” era giudicato un leale e fedele collaboratore. Poi via via negli anni, agli straordinari “pagati”, nel rispetto del contratto nazionale, si sono sostituiti indennità omnicomprensive, superminimi, reperibilità, gettoni di presenza, ecc. con l’obiettivo di forfetizzarne il pagamento sganciandolo così dalle ore effettivamente effettuate in più o in meno. I vecchi “straordinari”, pagati ad ore, sono rimasti (ancora oggi) solo ai livelli più bassi dell’inquadramento professionale. E, in molte situazioni, se vogliamo dirla tutta, solo per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato.

Per tutti gli altri, in molti casi, gli straordinari pagati sono, piano piano, scomparsi. Sono però rimaste le prestazioni oltre l’orario. La tecnologia ha fatto il resto rendendo il proprio impegno aziendale sostanzialmente ininterrotto.

Prima ritenuta un benefit e quindi uno status symbol esclusivo la tecnologia si è trasformata, in alcuni casi, in un’ossessione per molti. In Germania, in diverse aziende, ad una certa ora, viene tagliata la connessione, in altre aziende le mail, oltre un certo orario, vengono cancellate. Forse basterebbe un po’ di buon senso e di maggiore capacità di organizzare il proprio e l’altrui lavoro.

Funzionerebbe in Italia una legge come quella francese? Personalmente credo di no. Non c’è ancora una cultura adeguata in molte aziende. I rapporti interpersonali, anche a certi livelli, non sono paritari. Il capo “democratico” esiste fino ad un certo punto come sa bene chiunque si è trovato in situazioni concrete di disagio.

E se il capo non sa gestire i collaboratori, li tiene inchiodati alla scrivania fino a tardi o pensa che sia assolutamente legittimo gestirli “a chiamata” come e quando vuole, non c’è legge che tenga. Meglio cambiare il capo.

In genere non sono mai le aziende in quanto tali a pretendere determinati comportamenti. Quindi nascono e si diffondono per precise manie di alcuni responsabili o per loro difficoltà a gestire picchi di attività e coinvolgere i propri interlocutori solo in orari decorosi.

Non è un caso che quando una persona non è all’altezza della posizione che occupa scarica sui collaboratori responsabilità, tensioni e stress. Figuriamoci se può intensificare la “tortura” ben oltre il raggio della scrivania! Personalmente più che una legge che rischia di non essere applicabile o di portare con sé reazioni e conseguenze negative in contesti organizzativi complessi opterei per delle regole aziendali da comunicare all’atto dell’assegnazione del cellulare o del pc.

Come per l’auto aziendale. Se è a totale disposizione della persona il suo utilizzo dovrebbe valere in entrambe le direzioni. E quindi, come prevede la legge francese, stabilirei un elenco ragionato di opzioni di chiamata oltre l’orario di lavoro. Così come sul posto di lavoro bilancerei il diritto a non essere controllato a distanza con un altrettanto modesto utilizzo personale degli strumenti tecnologici messi a disposizione dall’azienda durante l’orario di lavoro. Viceversa se il telefono, ad esempio, è di esclusivo uso aziendale, non ha senso il suo utilizzo fuori dal normale orario di lavoro se non per motivi estremamente seri. Ma questi restano interventi utili solo se ci si concentra sul breve.

Il punto però è che la tecnologia mette e metterà sempre più a disposizione sistemi che amplificano la produttività individuale e di gruppo, che superano sempre più il confine tra tempo di lavoro e tempo da dedicare a se stessi o ai propri cari, che mantengono perennemente connesse le persone tra di loro e, inevitabilmente, ne consentono però un controllo molto più accurato sulla loro attività.

Questo implica un forte salto di qualità culturale innanzitutto nei modelli organizzativi aziendali che dovranno essere più aperti e coinvolgenti e quindi nella gestione dei collaboratori, soprattutto dai millenials in avanti ma anche nella progettazione dei luoghi di lavoro che già oggi sono sempre meno simili a quelli tradizionali.

In questo senso più che una legge che, di fatto, cerca di stabilire regole facilmente aggirabili da chiunque occorrerebbe riflettere e lavorare su come rendere meno novecentesco il lavoro.

I confini tra lavoro tradizionale e lavoro autonomo, tra tempo di lavoro e tempo per sé, la sua durata, il suo riconoscimento, il suo inquadramento, i modelli formativi necessari, le politiche attive, il welfare vecchio e nuovo, il tempo perso per andare e per tornare dal lavoro, la necessità o meno dei tradizionali luoghi di lavoro, le forme di coinvolgimento e di partecipazione agli obiettivi e ai risultati aziendali.

Su questo siamo veramente indietro tutti troppi occupati a pensare a come ci si difende nei territori noti (da entrambe le parti) e non come esplorare insieme le opportunità offerte dal mondo che ci si sta aprendo di fronte.

Lavoro, strumentalizzazioni e buona politica…

Tre notizie, quasi da prima pagina, che fanno discutere.

I voucher trasformati in problema prioritario e drammatico, la sentenza della Cassazione che ha ritenuto non necessario essere in presenza di una crisi aziendale, un calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento e, infine il caso Almaviva con le sue implicazioni sindacali e sociali.

Nel primo caso la preoccupazione per il probabile referendum richiesto dalla CGIL ha scatenato una campagna di disinformazione con al centro la numerosità dei voucher e una serie di abusi commessi in alcune situazioni.

Pochi riferimenti internazionali a situazioni analoghe, scarso interesse a comprendere le dinamiche e i fenomeni correlati, disinteresse quasi totale all’endemico fenomeno del lavoro nero o malavitoso in Italia. Ma, soprattutto, il tentativo di far credere che, l’eliminazione dei voucher sia in sé un elemento positivo e possa portare a forme di stabilizzazione del lavoro saltuario.

A chi serve questa pessima gestione della notizia? Non credo alla CGIL che rischia di vincere una battaglia sull’onda emotiva del post referendum ma di perdere, immediatamente dopo, la guerra.

Né, credo, all’opinione pubblica che rischia di essere inutilmente trascinata in una discussione sulla precarietà del lavoro su presupposti scorretti perdendo di vista il problema principale: il lavoro. Come si crea, come e dove lo si può trovare, come lo si mantiene, e cosa si deve fare se lo si perde. E questo non è solo un problema per addetti ai lavori.

La sentenza della Cassazione sul licenziamento è, da questo punto di vista, paradigmatica. I motivi che spingono un’azienda a ricorrere a licenziamenti individuali o collettivi sono quasi sempre riconducibili a motivazioni organizzative o gestionali.

Il fatto che, secondo alcuni, si dovrebbe attendere sempre e comunque una situazione economica di non ritorno per poter procedere, ha solo determinato la proliferazione di accordi sindacali fantasiosi e lacunosi, di “non accordi” con ampia facoltà a procedere unilateralmente da parte delle aziende, di licenziamenti “spintanei” tollerati e di incentivazioni individuali di ogni tipo.

Adesso, con un certo ritardo, la Cassazione certifica ciò che chiunque ha avuto a che fare con ristrutturazioni o riorganizzazioni sa da sempre e cioè che come sosteneva il Macchiavelli, “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al Popolo”.

A volte occorre prendere decisioni drastiche e in tempi certi. Altrimenti il problema diventa irrisolvibile. E non servono avverbi o aggettivi  per mascherare la realtà. Purtroppo.

Infine il caso Almaviva. Nessuno spiega che, una volta aperta una procedura di mobilità, una sua eventuale interruzione rischia di invalidare la procedura stessa.

Qualche anno fa mi trovai in una situazione analoga. Durante un difficile negoziato che coinvolgeva tutta una intera rete nazionale di vendita il sindacato confederale mi chiese di recuperare una filiale al sud che, chiusa l’anno precedente, stava terminando gli ammortizzatori sociali. In questo modo gli ultimi lavoratori rimasti avrebbero guadagnato un anno di ammortizzatori arrivando così alla pensione.

Faticai a convincere i vertici della multinazionale che non capivano perché fosse necessario riaprire un capitolo chiuso da tempo però concordammo con le OOSS che, per questi ultimi, non sarebbe stato ovviamente possibile prevedere alcun trasferimento al nord essendo in grado di agganciare la pensione.

Fatto l’accordo due lavoratori, tramite un avvocato suggerito dai COBAS, lo impugnarono sostenendo che, pur essendo vicino alla pensione sarebbero stati comunque disponibili al trasferimento in qualsiasi zona del Paese.

Nessuno però glielo aveva proposto proprio perché loro stessi avevano concordato, tramite i sindacati, un’altra soluzione.

Quella vicenda, costruita in buona fede insieme alle organizzazioni confederali e con il consenso tra le parti, avrebbe purtroppo potuto finire molto peggio causando l’annullamento della procedura con costi e conseguenze gravissime.

Per questo posso capire l’atteggiamento di Almaviva e questo indipendentemente da altri argomenti di cui non ho elementi sufficienti per giudicare.

C’è stato un tempo dove era possibile trovare un’intesa. Quel tempo però si è esaurito nei tempi e nei modi previsti dalla procedura stessa. Le lettere di licenziamento ne sono solo la conseguenza inevitabile.

Tre vicende apparentemente differenti con un unico comune denominatore. Nella materia del lavoro contano solo gli elementi oggettivi. Le norme e ciò che è scritto nelle leggi e nei contratti. Il resto appartiene alle opinioni.

La “Politica” può creare le condizioni affinché le parti in campo abbiano a disposizione strumenti adatti, opzioni concrete e tempistiche certe nelle quali esercitare i rispettivi ruoli.

Oppure la politica stessa può strumentalizzare, sulla pelle dei lavoratori, prospettando soluzioni inesistenti come ha fatto l’on. Di Maio un minuto dopo la conclusione della vicenda.

Purtroppo il Paese avrebbe bisogno di buona politica e di buoni politici. E di buona informazione. Soprattutto nelle vicende sindacali.

Il futuro dei voucher è con o senza Speranza?

C’è chi ha paragonato il PD Speranza a Turigliatto, chi ha ricordato che Bersani stava con Monti quando sono stati lanciati i voucher e che il Governo Renzi, semmai, ne ha solo regolamentato l’uso. Tutto inutile.

Intorno ai voucher sembra si stia giocando lo scontro finale sull’identità della sinistra italiana.

Il merito, come sempre in questo caso, non esiste. O meglio non interessa a nessuno. Per quanto riguarda non posso che condividere le parole di Anna Soru sulla Nuvola del Corriere con le quali sottolinea il rischio che, in caso di interventi, chiaramente emotivi, si peggiori addirittura la situazione “costringendo” un massiccio ritorno al lavoro nero.

Recentemente sono stati pubblicati dei dati che è meglio conoscere prima di schierarsi. Vediamoli pacatamente.

Innanzitutto Il voucher è l’unico strumento per retribuire in modo regolare “lavori saltuari”. Non ha alternative, né possiamo davvero credere che queste attività saltuarie si coprano con assunzioni “tradizionali”.

Il suo utilizzo assicura un riconoscimento retributivo comprensivo anche del pagamento di contributi previdenziali per prestazioni saltuarie e accessorie e la copertura assicurativa INAIL.

L’utilizzo dei buoni lavoro, è aumentato perché le riforme di questi ultimi anni hanno di fatto tolto alla disponibilità’ delle imprese qualsiasi strumento regolare per pagare prestazioni accessorie.

Infine, occorre ricordare che, mediamente ogni persona, con il voucher, prende 600 euro all’anno; pensare dunque che ci sia un forte abuso generalizzato è una lettura forzata.

La stessa INPS attraverso le analisi pubblicate sul suo sito ci dice che:

1) Per la maggior parte dei prestatori di lavoro accessorio, il volume di voucher percepiti è modesto: in media nel 2015 si è trattato di 60 voucher pro capite e la mediana è decisamente inferiore: 29 voucher.

2) I lavoratori che hanno percepito più di 1.000 euro netti con voucher risultano 207.000 mentre coloro che hanno percepito meno di 500 euro risultano quasi un milione e quindi evidente che non si tratta di lavoro sostitutivo.

3) Circa il 50% dei prestatori sono lavoratori attivi con altra occupazione o percettori di ammortizzatori sociali (sono il 50% del totale stabilmente dal 2013)

Per essere più precisi sono :

– Pensionati: la loro quota risulta pari all’8%. (Tre su quattro sono pensionati di vecchiaia).

– Soggetti mai occupati: sono pari al 14% (meno di 200.000). Si tratta essenzialmente di giovani (la mediana è vent’anni).

– Silenti (ex occupati e disoccupati di lunga durata ): sono attorno al 23%.

– Indennizzati (essenzialmente percettori di Aspi, MiniAspi o Naspi): sono il 18%

– Occupati presso aziende private: sono il 29% (quasi 400.000). Tra questi si individuano:
− 26% occupati a tempo indeterminato e full time;
− 28% occupati a tempo indeterminato e part time;
− 46% occupati, soprattutto giovani, con contratti a termine subordinati

– Altri occupati: pari all’8% sono lavoratori domestici, operai agricoli, lavoratori autonomi, casse professionali, dipendenti pubblici).

Per queste ragioni possiamo affermare, senza nessuna possibilità di smentita che:
l’effetto di sostituzione di precedenti rapporti di lavoro è molto limitato e i soggetti interessati sono in maggioranza studenti, pensionati e lavoratori in regime di ammortizzatori sociali.

Questo dicono i numeri. Il resto sono strumentalizzazioni ideologiche di chi non ha argomenti veri. A mio parere il Governo deve continuare ad insistere sulla strada della tracciabilità e dei controlli per evitare usi impropri dei voucher penalizzando chi non ne fa un uso corretto.

Scegliere, al contrario, di abolirli o di ridurne fortemente l’utilizzo senza introdurre altri strumenti analoghi sarebbe solo un grave errore.