Corresponsabilità? Le navi non sono costruite per restare in porto

La stagione dei grandi contratti nazionali del settore privato si sta avviando ai titoli di coda. Ci sono distanze che devono ancora essere colmate in alcune categorie ma la sostanza non cambierà.

Un dato sembra emergere in modo pressoché definitivo. Non è più il conflitto sindacale tradizionale a spostare sostanzialmente il risultato finale. Così come la rigidità di alcune associazioni o federazioni datoriali, alla lunga, non riesce più ad imporre alcunché.

In altri termini, la legge del pendolo, è anch’essa entrata in crisi quindi i rapporti di forza, favorevoli o meno, non sono più una opzione perseguibile.

Il contesto mediatico, sociale ed economico spinge comunque e sempre per soluzioni condivise e non sollecita contrapposizioni inconcludenti e infinite. Tra l’altro molti degli stessi obiettivi enunciati da entrambe le parti nei negoziati presuppongono quasi sempre una sostanziale condivisione.

E questo vale sia per il welfare contrattuale, la bilateralità in generale ma anche per l’esigenza che emerge con forza nelle imprese più innovative di coinvolgere, condividere e ingaggiare su obiettivi comuni l’azienda intesa come comunità di persone.

Quindi occorre andare oltre l’apporto semplicemente individualistico mettendo in gioco la disponibilità, l’intelligenza collettiva e lo spirito di iniziativa dell’insieme dei collaboratori su obiettivi condivisi. Un’impresa che vuole coinvolgere deve conoscere innanzitutto le sue persone, proporre loro percorsi di crescita, premiarne il merito, condividere economicamente i risultati raggiunti.

Ma deve anche riconoscerne la maturità, l’apporto e gli specifici interessi collettivi di cui sono portatori. L’opposto dell’azienda fordista, di matrice autoritaria dove le persone erano tutte uguali, intercambiabili e da gestire nella singola mansione affidatagli. O collettivamente come numeri tramite il vecchio modello di relazioni sindacali.

In questa “nuova” impresa la cultura tradizionale della contrapposizione e del conflitto collettivo ancora presente in una parte del sindacalismo italiano non ha più ragione di esistere nei termini prodotti nel secolo che abbiamo alle spalle. Anche il linguaggio, utilizzato spesso dal sindacato stesso per insistere in una logica caricaturale un po’ forzata delle posizioni della controparte, rischia di essere controproducente innanzitutto per chi lo utilizza.

Senza mai dimenticare che, l’inevitabile conclusione, ormai generalmente “win win” di qualsiasi negoziato, rende l’enfasi spesso utilizzata nella comunicazione tradizionale assolutamente inadatta a gestire i risultati ottenuti.

Quando la narrazione impiegata a sostegno delle proprie tesi è distante dalla realtà il distacco che si crea tra chi parla e chi ascolta diventa inevitabile.

E, se tutto questo è vero, non sarà sufficiente lavorare sui luoghi del confronto. Non esiste alcun automatismo tra decentramento e un conseguente ruolo collaborativo e propositivo. Ne c’è alcuna disponibilità esplicita di tutto il sindacato né da parte degli imprenditori di darlo per acquisito.

Su questo equivoco merito e metodo rischiano di non coincidere e quindi di sprecare un’opportunità di innovazione e di crescita per l’intero sistema. L’impresa di oggi, ma soprattutto quella di domani non può prescindere dalla implementazione un vero sistema collaborativo.

Il successo sarà sempre più costruito insieme  ai clienti, ai fornitori, e ai partner ma anche insieme ai propri collaboratori con i quali andranno condivisi rischi e opportunità. Ciascuna componente, con il suo contributo, rafforza o indebolisce il brand, quindi, di fatto, accelera o frena i potenziali risultati.

Ma questo cambiamento presuppone visione, coerenza, rispetto e valorizzazione di tutti i soggetti in campo. Ma, soprattutto, coinvolgimento. E questo coinvolgimento non si ferma davanti ai cancelli né può escludere il sindacato a prescindere.

Soprattutto in tempi dove la navigazione è a vista e i rischi sono talmente elevati che non possono essere esclusivamente in capo all’imprenditore. Certo quando si coinvolge occorre saper ascoltare, condividere, ingaggiare e poi comunque decidere. Ma è una navigazione diversa dal passato. Più responsabile e attenta al contesto e a tutto l’equipaggio.

È la corresponsabilità.

Una parola tutta da riempire di significato concreto perché  le navi non sono costruite per restare in porto. Lo stesso vale per il sindacato. Tutto il sindacato. Ormai fermo ad un bivio: accettare il declino continuando a sognare un ruolo e un peso che non c’è più nelle singole imprese o cogliere la sfida della corresponsabilità fino in fondo?

E questa sfida non può essere raccolta se si inseguono ancora superate egemonie novecentesche o se si cerca solo di farsi concorrenza nelle imprese scavalcandosi sui contenuti del confronto con l’azienda stessa. A mio parere il sindacato in questo modo rischia solo di fare la fine dei polli di manzoniana memoria che si beccavano tra di loro mentre venivano portati dal pollivendolo.

La stagione che abbiamo alle spalle ha lasciato in eredità solchi profondi dentro il sindacalismo confederale tra differenti sigle difficili da superare. Forse non sarà sufficiente un rinnovo unitario di uno o più contratti per invertire la tendenza.

Per questo, un semplice spostamento del livello del confronto in un contesto ancorato a modelli più o meno formalmente conflittuali, suscita legittime perplessità negli imprenditori e, di per sé, non farà evolvere un bel nulla.

A volte mi sembra che chi ne scrive la faccia troppo semplice. Senza un riorientamento culturale unitario, il ruolo del sindacato, e quindi la contrattazione aziendale, non decollerà in chiave collaborativa neanche attraverso robusti incentivi economici ma resterà confinata (ad esaurimento) solo laddove ha messo radici tradizionali. O sotto il saldo controllo delle imprese.

E questo non è sempre un bene. Il sistema ha bisogno di profondi cambiamenti e di equilibrio, non di scorciatoie.

Contratto metalmeccanici. Vecchie egemonie e nuove sfide.

In un recente articolo su “Formiche” a firma di Berardo Viola e Fernando Pineda, ci sarebbe, secondo gli autori, una precisa strategia della Cgil tesa a ritardare la firma del contratto nazionale dei metalmeccanici in chiave anti Renzi.

Personalmente non lo credo realistico. La distanza tra la firma o meno del contratto dei metalmeccanici e il contesto politico nazionale è comunque tale da rendere inutile una mossa in questa direzione.

Il contratto dei metalmeccanici, pur importante nel sistema delle relazioni industriali del nostro Paese, non è più in grado, da diversi rinnovi, di determinare, da solo, il cambio di una stagione politica.Né di arrestarne l’evoluzione.

Landini può tranquillamente mangiare i tortellini se vince il “NO” ma non potrà né avrà alcuna convenienza ad ascriversene il merito.

Soprattutto per le conseguenze politiche ed economiche che il Paese, e quindi anche i lavoratori metalmeccanici, si troveranno a subire nel biennio successivo.

A mio parere la CGIL a livello confederale ha convenienza a concludere rapidamente con le organizzazioni datoriali. Che piaccia o meno il sindacato di Susanna Camusso sta guidando la trattativa con tutte le controparti in campo e con tutta l’intenzione di non subirne l’esito.

D’altra parte, nella stessa trattativa sulle pensioni avrebbe potuto manifestare ben altre reazioni ai giudizi di CISL e UIL viste le dichiarazioni di evidente insoddisfazione sul risultato.

Invece la CGIL non ne ha approfittato, come avrebbe potuto, in vista del referendum proprio perché, pur schierata per il “NO” non è su quello che sta giocando la vera partita.

Chiudere i contratti e sottoscrivere gli accordi con Confindustria, Confcommercio e le organizzazioni minori consentirebbe alla CGIL di serrare i ranghi, rilanciare sui contenuti e ricomporre un disegno unitario di lungo periodo con un profilo diverso dal passato nel quale cercare di rappresentarne l’asse portante.

L’impasse nel contratto dei metalmeccanici è dato più da una volontà egemonica della FIOM, mai sopita e di nervosismo evidente per l’attivismo della FIM CISL e del suo segretario generale. Tutti i contendenti sanno benissimo che il contratto si deve chiudere e che non c’è spazio per firme separate come nei rinnovi precedenti.

Non lo vuole Confindustria, non lo vuole Federmeccanica e, altrettanto importante, non lo vogliono né la FIM né la UILM. Ovviamente non lo vuole anche la FIOM.

La calendarizzazione di incontri negoziali e tecnici preannunciati, al di là dei tatticismi prelude ad una conclusione imminente pur nel rispetto delle liturgie.

C’è poi la tradizionale ritrosia presente in tutte le categorie della CGIL a mettere la firma sotto qualsiasi accordo. Mi ricordo che, Pierre Carniti, parlando negli anni ottanta del contratto dei metalmeccanici del ’66, di cui era uno dei leader indiscussi, disse che se fosse stato per Trentin, allora segretario generale della FIOM, la firma, dopo tutti quegli anni, sarebbe stata ancora in forse.

Però, al di là delle battute non credo che nessuno abbia interesse a correre il rischio di non chiudere.

Troppi contratti nazionali sono al palo e rischiano ben altre conclusioni. E non sono più tempi, questi, di strategie suicide di generalizzazione del disagio sociale con l’obiettivo di ottenere risultati sul piano organizzativo.

Il rischio di lavorare per il re di Prussia è molto più alto.

Contratto metalmeccanici. È meglio l’uovo oggi o la gallina domani?

Pur non dando nulla per scontato credo che si possa dire che siamo alle battute finali del rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Come sempre accade nell’ultimo miglio di tutti i negoziati, l’elemento sul quale si registrano ancora delle differenze è l’aumento salariale sia in termini quantitativi che qualitativi.

Mi sembra che una scelta sia stata compiuta da entrambe le parti in causa e cioè di iniziare uno spostamento significativo di materie e di spazi di negoziazione dal livello nazionale a quello aziendale.

Gli obiettivi, però, restano ancora diversi. Federmeccanica con questa operazione cerca di ottenere innanzitutto un depotenziamento significativo e definitivo del CCNL. In questo modo il ruolo di governo del salario della categoria, a quel livello, potrà, nel tempo, ridursi notevolmente.

Nelle intenzioni iniziali avrebbe voluto svuotarlo addirittura in tempi più rapidi ma l’operazione si è rivelata troppo indigesta ai sindacati. Il rinnovamento pensato dall’associazione datoriale, che lo si voglia o meno, passa anche da qui.

Una volta tolto l’ultimo tassello che, a loro parere, irrigidisce la contrattazione, la partita potrà cambiare regole e giocatori. La stessa proposta di decalage sul recupero dell’inflazione sposta temporalmente la data di scadenza ma va anch’essa in questa direzione. Il sindacato lo ha capito benissimo e, ad oggi, chiede risposte diverse.

È un passaggio molto delicato. Federmeccanica non sembra voler concedere (ed è corretto) alcuna esigibilità della contrattazione aziendale né territoriale ma, con la proposta di decalage, se confermata, crea una asimmetria evidente tra imprese che vorranno fare o meno la contrattazione aziendale.

Di fatto un incentivo a non farla visto da parte sindacale. Visto da fuori credo che il nodo principale sia questo. Lo sviluppo della contrattazione aziendale è una scelta ragionevole. Occorre però che sia condivisa nei suoi obiettivi e fino in fondo da entrambe le parti in causa.

La FIM CISL, che più si è spesa in questa direzione, è assolutamente d’accordo a spostare il baricentro però l’obiettivo è quello di condividere oneri e onori della vita delle imprese. Quindi dare senso e contenuti al termine “corresponsabilità” proposto con convinzione dal Presidente di Confindustria.

Federmeccanica sembra essere molto più cauta. Da un lato non ha mai usato quel termine esplicitamente. Ha sempre parlato di coinvolgimento, condivisione, ingaggio dei lavoratori. Mai del sindacato. Né interno né esterno alle aziende.

E non è una differenza da poco. La UILM sembra aver una posizione intermedia mentre la FIOM, poco attratta da queste “fughe in avanti” resta coperta. Non può non sottoscrivere il prossimo contratto ma può rallentarlo cercando di renderlo sufficientemente indigeribile anche alle altre due organizzazioni.

La questione di fondo è rappresentato dalla qualità e dalla direzione di marcia del rinnovamento auspicato. E quindi il grado di convinzione e il livello di mediazione accettabile per entrambi. L’alternativa è chiara: meglio un uovo oggi o la gallina domani?

È meglio un contratto nel solco della tradizione che accontenti tutti, quindi nessuno, o un patto vero tra innovatori che guardano al futuro del settore e del ruolo dei corpi intermedi?

La capacità di interpretare il nuovo e di guidare il cambiamento passa anche da questa scelta.

Pensioni, pensionati, pensionandi….

Ci siamo. Non riuscendo a mettere mani sulle pensioni retributive l’INPS ha lanciato una maledizione.

Chi va in pensione con il retributivo, lo dicono le statistiche, muore prima.

Questa mancava.

All’idea che i pensionati retributivi rubassero il futuro si giovani ci si stava abituando. Così come alla proprietà transitiva utilizzata dai media che omologa vitalizi e pensioni d’oro a tutte le pensioni calcolate con il metodo retributivo.

Prendo a prestito una metafora dell’amico Bentivogli per affermare che non è più buona cosa stare “pancia all’aria a Formentera”. Meglio “pancia a terra” in fabbrica.

Siamo alla frutta. Adesso attendiamo le dichiarazioni del Presidente dell’Inps che non essendo l’autore di questa sortita si sentirà in dovere di dire la sua.

Siamo di fronte alla scoperta dell’acqua calda.

Chi cura la propria salute, chi tiene allenato il proprio corpo e il proprio cervello, chi fa un lavoro meno pesante, campa di più.

Vien da pensare che, forse è proprio per arginare questa verità, che lo Stato cautela le proprie entrate con il fumo, l’alcol, il gioco d’azzardo e la benzina.

Se non puoi ridurli o tassarli (i pensionati retributivi) spaventali e dai a tutti gli altri (i pensionandi) una ragione per rinunciare al traguardo.

I prossimi anni, abituiamoci, saranno così. Dotti interventi di esperti delle pensioni altrui sulle curve e sui tassi di sostituzione alternati da minacce di contributi aggiuntivi o passaggi repentini a nuovi sistemi di calcolo.

Le trincee però sono scavate. Prima i vitalizi, poi le pensioni dei parlamentari e di altri potenziali privilegiati, poi le pensioni d’oro, poi le pensioni alte, poi la mia.

La vedetta eletta all’unanimità (via web) è Mario Capanna. Lui è là davanti sulla prima barricata. Ha smesso di lavorare presto, esce dal letargo solo per ricorrenze particolari tipo inaugurazione della Scala o rievocazioni del 68. Gode di ottima salute.

Cosa dirà oggi dopo aver letto la minaccia non tanto subliminale dell’INPS? Compagni, c’è uno spettro (il sistema pensionistico) che si aggira per l’Europa.

Non riuscendo a metterci le mani in tasca è passato alle maniere forti. Non vuole prenderci un contributo, vuole prenderci tutta la pensione. È il capitalismo, bellezza.

Ribelliamoci fino a che siamo in tempo.

La flessibilità del CCNL del terziario trova una nuova conferma.

È più importante la firma, comunque ottenuta, di un contratto nazionale o gli affidamenti che si costruiscono all’interno di consolidate relazioni sindacali tra le parti stipulanti?

Un negoziato, per quanto facile o complicato si possa presentare, non fotografa solo la rappresentatività o i rapporti di forza che le parti sono in grado di mettere in campo ma anche e soprattutto l’affidabilità reciproca.

Ai tavoli negoziali si fanno intendere molte cose pur di ottenere un risultato. Da entrambe le parti, però, di quelle parole non resta molto. Questo contribuisce inevitabilmente a incrinare la credibilità concreta dei negoziatori e delle organizzazioni che rappresentano.

Chi oggi non riesce a chiudere i contratti paga anche questo scotto. Le parole, le dichiarazioni, gli impegni non sottoscritti nero su bianco senza quella credibilità che si conquista sul campo, non sono sufficienti a garantirne l’affidabilità.

E, quella credibilità non può che essere di tutto il gruppo dirigente, unitariamente inteso, se il negoziato è di una intera categoria, quindi di natura nazionale. Ma questo vale anche per le associazioni datoriali che sono chiamate a garantire il rispetto di ciò che si concorda nelle imprese che applicano il contratto stesso.

Se restiamo nel terziario, uno degli errori di Federdistribuzione è stato proprio pensare che per sottoscrivere un contratto nazionale bastasse indicare un proprio perimetro esclusivo di riferimento e, all’interno dello stesso, promettere alle imprese associate un risultato teoricamente allettante per i loro amministratori delegati in costante ricerca di riduzione dei costi.

Riproponendo, più o meno inconsapevolmente, uno schema novecentesco a parti rovesciate quando i sindacati di categoria promettevano nelle assemblee dei lavoratori piattaforme ricche di obiettivi di improbabile realizzazione.

E non considerando minimamente che l’atteggiamento apparentemente disponibile di questa o quella organizzazione sindacale manifestato a questa o a quella azienda, si sarebbe trovato a fare i conti con un equilibrio da individuare tra parole e affidamenti in testi da concordare ma anche e soprattutto con le dinamiche dell’intero comparto del terziario gestito dalle stesse organizzazioni sindacali con ben altri interlocutori.

E, per dirla con una brutta locuzione sostantivale maschile in grande uso di questi tempi, il “combinato disposto” di richieste irrealizzabili in un contesto ben più ampio del perimetro ipotizzato ha determinato lo stallo nel quale il negoziato si è arenato.

E adesso trovare una “exit strategy” per loro non sarà impossibile ma resta molto più complesso di prima e rischia di non essere affatto indolore in termini di costo per le imprese e di ripercussioni economiche per i lavoratori coinvolti.

L’affidabilità, la coerenza, il senso di responsabilità non si manifestano solo all’atto della firma di un contratto di nuovo conio ma accompagnano i contraenti per tutta la durata dello stesso.

Non ci può essere nulla di automatico né di scontato. Se così fosse si minerebbe alla base la logica stessa dell’esistenza di un contratto nazionale.

Nel caso del contratto nazionale del terziario questa coerenza ha determinato la sospensione della tranche sottoscritta e prevista per il mese di novembre. Il sindacato di categoria (Filcams, Fisascat e Uiltucs) e la Confcommercio hanno concordato di rinviarne l’erogazione.

Ovviamente un atto di questa portata dettato da lungimiranza e senso di responsabilità verrà analizzato da diversi punti di vista meno che da quello fondamentale. Il contratto nazionale ha un futuro solo se si conferma come un prodotto di una responsabilità condivisa.

Nell’interesse delle imprese ma anche dei lavoratori. In questo caso di ben oltre tre milioni di addetti. Non farà notizia come tutto ciò che riguarda il terziario ma, come dice spesso il Presidente Sangalli: “terziario, si ma secondi a nessuno”.

E così è stato sul terreno dell’innovazione contrattuale e delle relazioni sindacali. Un contratto nazionale, soprattutto in un comparto come il terziario, per reggere in un contesto in continua evoluzione deve essere flessibile, derogabile, adattabile e modificabile.

Non certo solo ogni quattro anni. Lo ha dimostrato producendo recentemente un contratto aziendale innovativo a Venezia per oltre 500 giovani, lo dimostra sospendendo una tranche di aumento con l’accordo unitario di tutto il sindacato di categoria.

È una strada, offerta a tutti i settori, che permette il consolidamento di una necessaria tutela collettiva che solo un CCNL può garantire ma anche una opportunità nuova per le imprese che in questo modo possono programmare tarando i propri costi e il proprio agire ad un contesto in continuo cambiamento.

Perché le aziende continuano ad applicare i CCNL?

In tutte le survey in cui si interrogano, ad esempio gli associati di Confcommercio, l’esistenza e la gestione del CCNL viene vista come un plus. Poter disporre di un contratto nazionale di riferimento è vissuto, dai più, positivamente. La stessa Federdistribuzione da quando ha lasciato Confcommercio non si è mai posta il problema di passare ad una contrattazione aziendale ma, al contrario, si è da subito mobilitata per proporre un proprio contratto nazionale di riferimento. Oscar Giannino, a suo tempo, ha proposto di superare i contratti nazionali dotando le aziende di ogni dimensione di un kit specifico che consenta di affrontare in azienda il tema (sic!). Altri propongono di affidare un nuovo mestiere ai consulenti del lavoro. Altri ancora di lasciare al “buon cuore” dell’imprenditore la remunerazione dei propri collaboratori. Neofiti della materia, osservatori distanti dalle imprese, propugnatori di scorciatoie si sono sbizzarriti in soluzioni di ogni tipo. Non le imprese. Meno ancora gli imprenditori che non vogliono problemi là dove non ci sono. Cosa succederebbe se non ci fossero i CCNL? Innanzitutto si creerebbe molto più lavoro per gli avvocati e per i consulenti. Ovviamente anche per i tribunali. Nella maggioranza dei casi assisteremmo  all’effetto “badante”. Persona di fiducia fino a quando serve e quindi disponibile a rispondere a tutte le esigenze del datore di lavoro ma proponente causa certa quando per un motivo o per un altro il rapporto di lavoro si dovesse mai interrompere. Visto dalle piccole imprese l’ombrello del CCNL copre tutto. Se lo si applica si evitano forme di dumping tra aziende, si tengono lontano ispettori del lavoro e sindacalisti, si impediscono richieste pretestuose. Nelle medio grandi consente flessibilità collettive, determina un confine netto e accettato tra diritti e doveri. Soprattutto evita contenziosi perché dura un numero di anni sufficiente a raffreddare eventuali tensioni. Ultimo ma non ultimo evita che, in presenza di rapporti di forza sfavorevoli, l’azienda debba trovarsi in situazioni nelle quali eventuali concessioni possano pregiudicarne opportunità future. Nelle contrattazioni aziendali questo è successo spesso. Mai in quelle nazionali. Per impreparazione o per inadeguatezza di chi affianca l’imprenditore. O per mancanza di lungimiranza. Può essere sostituito? Su molti aspetti si, su altri meno. I neofiti della contrattazione sono convinti, spero in buona fede, che possa essere sostituito tout court. Non è così. Inviterei chi pensa questo a lasciare le discussioni da salotto e recarsi alle quattro del mattino davanti ad un qualsiasi magazzino logistico dove i Cobas o qualche centro sociale si apprestano a mettere in pratica il loro modello di contrattazione aziendale. Capiranno da soli cosa significa. O per par condicio dove la debolezza del sindacato lascia i lavoratori in balia per anni di imprenditori senza scrupoli che non vogliono sentir parlare di concedere alcunché a nessuno. L’unica strada praticabile è un modello misto dove siano chiare le materie di pertinenza del livello nazionale e, altrettanto chiare, le materie di pertinenza aziendale o territoriale. E dove nessuno possa fare il furbo da una parte e dall’altra. Concludo ricordando a chi non ha mai sottoscritto personalmente un contratto (aziendale o nazionale che sia) di astenersi da semplificazioni fuorvianti. I meccanismi di coinvolgimento, negoziazione, sottoscrizione e gestione di un contratto non sono cose che si improvvisano. In Italia solo le organizzazioni che rappresentano lavoratori e imprese possono metterci mano. Oppure la legge. E le proposte di modifica, tutte quante, devono essere soppesate e valutate nelle loro conseguenze concrete. Fortunatamente tra chi ne parla a proposito, ma anche a sproposito, e chi dovrà deciderne l’architettura futura c’è una notevole distanza. E questo è un bene per tutti.

Una contrattazione che sappia andare oltre i vecchi confini.

Un tempo i confini erano chiari. Salario, condizioni di lavoro, diritti. In altri termini più soldi e meno lavoro. Anche il promotore della contrattazione nel settore privato era sostanzialmente uno solo: il sindacato esterno o interno alle imprese. Poi il contesto economico e sociale ha imposto le sue regole e la contrattazione, ha, di fatto, cambiato spesso promotore affidando anche all’azienda e ai suoi manager il compito di ridisegnarne contenuti e confini. Quella è stata la fase nella quale sono stati rivisti innanzitutto poteri e ruoli dell’iniziativa delle rappresentanze sindacali interne e esterne che, nel tempo, hanno continuato a perdere peso. Nei contenuti, l’azienda ha ripreso (soprattutto nella grande impresa dove lo aveva in parte ceduto) il controllo del lavoro, della sua organizzazione, dei tempi e dei modi di esercitarlo. Tutto questo, però, ha retto fino a quando si trattava “semplicemente” di ridurre gli eccessi della fase precedente, ristabilire ruoli gerarchici e rapidità decisionali, tenere sotto controllo (e ridurre) i costi. Nel frattempo, nelle imprese, era cresciuta, via via, la consapevolezza che i nuovi modelli organizzativi, la marginalizzazione degli interlocutori collettivi, l’affacciarsi di nuove esigenze e di nuove generazioni poneva la necessità di gestire con maggiore attenzione il proprio capitale umano. Innanzitutto le proprie risorse chiave ma poi, sempre più collaboratori, attraverso sistemi di valutazione, di riconoscimento e di sviluppo professionale, con l’obiettivo di avere un clima interno positivo, una condivisione sostanziale dei propri valori e un impegno costante nella realizzazione di obiettivi di business sempre più complessi. In questa fase, c’è stato un forte ridimensionamento dell’area delle relazioni sindacali e un forte impulso alla altre aree delle direzioni risorse umane maggiormente dedicate allo sviluppo delle risorse. Le nuove forme di flessibilità in entrata (stage, TD, apprendistato, ecc.), l’obsolescenza degli inquadramenti contrattuali ormai datati, i nuovi modelli organizzativi e relazionali, il mutare delle esigenze, soprattutto delle nuove generazioni, le nuove tecnologie, la necessità di riconoscere l’impegno sia a livello individuale che di gruppi hanno via via modificato in profondità l’approccio di chi si occupa di risorse umane in azienda. L’approccio di Federmeccanica al rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ad esempio, è figlio di questo filone di pensiero. Non è un ballon d’essai ispirato da un banale tentativo messo in atto per contenere le richieste economiche. E farebbe male il sindacato, tutto il sindacato, a sottovalutarlo. Semmai occorrerebbe capire se e come sarà possibile, per loro, rientrare in gioco. E su quali materie. Tutto e subito non è proponibile. I rapporti di forza oggi sono talmente asimmetrici e sfavorevoli al sindacato da rendere estremamente difficile anche la sola esigibilità tout court della contrattazione aziendale. E la diffidenza delle imprese sulle reali capacità di cambiamento e di innovazione del sindacato è molto alta. Quindi la strada è in salita. Esistono però alcuni spazi che possono essere coperti. Innanzitutto il welfare contrattuale (previdenza, sanità e formazione). In secondo luogo un altro terreno di condivisione e di cambiamento potrebbe essere rappresentato da un approccio diverso al tema dell’inquadramento professionale. Marco Bentivogli fa il suo mestiere quando accusa Federmeccanica di non voler mettere mano ad un dettato contrattuale partorito nel 1973. Personalmente sono convinto anch’io che occorra affrontarlo. Però tutta la materia. Codice civile, legge 300 e contratti nazionali. Altrimenti non si innova nulla. Si creano solo le premesse per un inutile quanto infinito contenzioso legale. E qui capisco la cautela di Federmeccanica. Un altro tema potrebbe essere la struttura del salario che  privilegia, in massima parte, il fisso sul variabile. In un contesto fordista poteva andare bene. Oggi no. Ad esempio il cuore dell’accordo aziendale del Fondaco dei Tedeschi a Venezia (concordato con i sindacati) prevede una deroga al CCNL del terziario tale da consentire un livello di inquadramento inferiore ma con un sistema incentivante robusto legato a obiettivi individuali e di gruppo. E, per i lavoratori, non è un passo indietro. Anzi.  Però si potrebbe andare ben oltre. E poi il tema del welfare aziendale a 360 gradi. E qui il modello Luxottica docet. Ma non solo. In FCA i buoni benzina un tempo avrebbero fatto sorridere. Oggi sorride solo qualche sindacalista “old style”. Non certo i lavoratori che sanno bene la differenza tra netto e lordo. Ovviamente alcuni aspetti hanno senso solo nella media o nella grande azienda e in quei contesti possono essere sviluppati. Altri temi potrebbero trovare risposte in un sistema bilaterale rinnovato, a livello territoriale o in negoziati di comparto. Insomma questa discussione sui contratti e sui livelli del confronto può essere un momento importante per ridisegnare uno spazio vero di corresponsabilità e di nuovo protagonismo per il sindacato e per le associazioni datoriali. L’accordo sulle pensioni è lì a dimostrare che si può fare molto in termini di cambiamento di mentalità e di approccio. Almeno occorrerebbe provarci.

Se piace ai sindacati…..

È successo dopo il recente accordo sulle pensioni ma la stessa reazione l’ho registrata, in una situazione certamente più modesta, sull’intesa precedente all’apertura di una nuova e importante iniziativa commerciale a Venezia. Per una parte degli opinionisti un accordo con i sindacati, se ha ricadute economiche, sarebbe meglio non farlo. In altri termini ciò che piace ai sindacati non va bene. Indipendentemente dal merito. Per chi sostiene questa tesi sei miliardi sulle pensioni sono uno spreco. Meglio tirare la corda all’infinito. Poi, purtroppo, davanti al magazzino logistico di Piacenza ci scappa il morto e molti di questi opinionisti improvvisamente scoprono che la delegittimazione continua dei sindacati confederali (quindi di fatto di tutti i corpi intermedi) porta con sé la degenerazione del sistema. E devono fare i conti con cobas e centri sociali che strumentalizzano lavoratori immigrati, comunque sottopagati, che vengono alle mani con camionisti incavolati bloccati davanti ai cancelli. Il sistema delle relazioni industriali è di fronte ad una svolta. O imbocca con decisione (da entrambe le parti) la strada della “corresponsabilità” o, involvendosi, rischia di diventare sempre più ininfluente come sta succedendo per i partiti. E quindi sempre più instabile. Un altro esempio, abbastanza singolare, coinvolge le dinamiche che hanno preceduto l’apertura di un’iniziativa commerciale importante a Venezia. Non solo cinquecento posti di lavoro a tempo indeterminato, progetti importanti di formazione che consentiranno a centinaia di giovani di trovare la loro strada professionale e un welfare significativo ma anche un’organizzazione del lavoro impegnativa, distribuita sull’intero anno che quindi coinvolge l’intera settimana lavorativa e inoltre un’inquadramento professionale di ingresso che dura ben più di ciò che avverrebbe in un contesto normale ma che viene affiancato un sistema di incentivazione importante sia di carattere individuale che collettivo. Il sindacato, tutto il sindacato, lo ha sottoscritto ben consapevole della posta in gioco e quindi la valutazione positiva, anche della CGIL locale, è un elemento importante. Non è stato un negoziato facile perché il rischio che nel sindacato prevalesse l’idea che ci si trovasse di fronte ad una apertura classica tipo grande distribuzione (con il clima che oggi c’è nelle relazioni sindacali nella GDO) e non ad un’iniziativa completamente nuova e diversa, era molto forte. Ma così non è stato. Il sindacato, tutto il sindacato, ha compreso la posta in gioco, sostenuto le sue tesi, ottenuto le sue contropartite e concordato di derogare tutto ciò che poteva consentire un investimento importante nel nostro Paese. Per l’azienda è stato un ottimo accordo così come per la Confcommercio che ha seguito l’intera vicenda anche per dimostrare che quanto concordato in sede di rinnovo del CCNL del terziario trovava una conferma importante in un’impresa ad alta visibilità internazionale, di grandi dimensioni ma interessata, a precise condizioni, ad optare per un accordo aziendale costruito in deroga al contratto nazionale piuttosto che ad altre formule oggi invocate da molti neofiti della materia ma destinate ad un insuccesso certo. Solo leggendo il testo si comprende la qualità e la natura dello scambio, lo sforzo chiesto e ottenuto di adattamento alle specifiche esigenze di un gruppo che ha un modello organizzativo e di gestione del personale di successo mai sperimentato in Italia che però funziona in tutto il resto del mondo. Un modello che ha bisogno di fidelizzare i migliori, che mette al centro la produttività, le performance individuali e di gruppo, la formazione continua, che premia la qualità della prestazione e che, per questa ragione, non può restare bloccata in un sistema di inquadramento tradizionale o con una possibilità scarsa di valutazione della persona alla luce anche di un percorso formativo che dura mesi ed è interamente finanziato dall’azienda. Il sindacato ha compreso la convinzione dell’azienda che ha accompagnato questo importante investimento economico, la determinazione messa in campo, la scelta di optare per contratti a tempo indeterminato e un modello che potrebbe essere replicato in altri città italiane o in altri Paesi europei. Ne parla bene? Occorre esserne soddisfatti perché finalmente superiamo questa idea che ciò che è bene per una parte deve essere subìto dall’altra. L’accordo sulle pensioni è una buona cosa. Così come spero sia il prossimo accordo sulle relazioni sindacali tra organizzazioni datoriali e sindacali. Ed è una buona cosa se i metalmeccanici così come i chimici, gli alimentaristi e il terziario otterranno un buon contratto che piace alle imprese e soddisfa i lavoratori. Se poi questi contratti sono condivisi da tutto il sindacato significa che il clima nel Paese può cambiare. Ed in questo momento sarebbe molto importante. Dipende solo da noi.

Contratto metalmeccanici: siamo alla svolta?

sindacatiOggi riprende il negoziato sul contratto dei metalmeccanici. La cautela sull’esito è d’obbligo perché su quel tavolo si giocano molte partite. Non solo per i lavoratori e i sindacati di categoria coinvolti direttamente ma anche per il Governo, per Confindustria e per gli stessi sindacati confederali. Già questo è abbastanza singolare perché erano diversi rinnovi contrattuali che non si respirava questa sensazione. È un negoziato che, lo si voglia o no, potrebbe chiudere una fase storica e ne potrebbe riaprire una nuova. Al tavolo Federmeccanica che sa benissimo che è arrivato il momento di stringere e, possibilmente di chiudere, ma che non intende sacrificare l’essenza della sua proposta di “rinnovamento contrattuale”. Dall’altro i vertici dei sindacati di categoria che tornano prepotentemente sotto i riflettori e che sanno di giocare una partita che ha, tra gli effetti collaterali, anche lo scopo di contribuire a ridisegnare il profilo futuro del sindacalismo italiano. E quindi il loro peso e il loro ruolo, anche personale, in quella prospettiva. Intorno al tavolo ci sono spettatori altrettanti interessati. Il Governo che non vuole trovarsi anche questo problema in una stagione già difficile, Confindustria che deve, sia ricucire al suo interno che rilanciare un nuovo protagonismo a tutto campo, ma che, in assenza di accordo, non può procedere su altri tavoli e quindi rischia di vedere indebolita la sua leadership anche nei confronti del Governo stesso. I sindacati confederali che, solo da un accordo complessivo e unitario segnerebbero un importante punto a loro favore propedeutico ad un percorso di cambiamento ineludibile. La qualità delle leadership si misurano in questi frangenti. La chiave di volta è rappresentata dall’equilibrio, tutto da individuare, tra contratto nazionale e contrattazione aziendale. La “corresponsabilità” invocata anche dal Presidente di Confindustria Boccia passa inevitabilmente da lì. Dalla capacità dell’impresa di coinvolgere, ingaggiare e condividere rischi e opportunità con chi rappresenta il lavoro. Un sistema maggiormente collaborativo si affermerà solo se si consoliderà una cultura che mette al centro l’azienda come luogo dove insieme si crea la ricchezza che poi dovrà essere distribuita. Se la strategia è condivisa il percorso è negoziabile sia nei tempi che nelle modalità. Per questo motivo sono moderatamente ottimista. Al di là della giornata di oggi che essendo troppo carica aspettative può anche concludersi con un nulla di fatto. Importa la direzione di marcia e questa, credo, sia in parte segnata.

Dirigenti e outplacement, una nuova opportunità offerta dal contratto nazionale dei manager del terziario

Il nuovo contratto nazionale dei dirigenti del terziario (recentemente firmato da Manageritalia e Confcommercio) ha affrontato in modo innovativo il tema del ricollocamento dei manager in transizione di carriera. L’articolo 40 infatti recita: “le parti concordano che in caso di licenziamento (diverso da giusta causa) o di risoluzione consensuale nelle sedi conciliative, su formale richiesta del dirigente, l’azienda definirà l’attivazione di una procedura di outplacement, sempreché lo stesso non abbia attivato un contenzioso giudiziale o arbitrale avverso il recesso intimato. L’azienda liquiderà alla società di outplacement individuata d’intesa con il dirigente interessato, un voucher per compartecipare alle spese, di importo pari a euro 5.000,00 netti, non monetizzabile, da utilizzare entro 12 mesi dall’interruzione del rapporto di lavoro. Sono fatte salve condizioni di miglior favore concordate individualmente”. Inoltre l’articolo 21 in tema di aggiornamento e formazione professionale per i dirigenti afferma, al punto 8, “il CFMT (Centro di formazione management del terziario) definirà convenzioni con le principali società di outplacement presenti sul mercato per favorire la conoscenza ad imprese e manager, anche al fine dell’utilizzo del voucher di cui all’articolo 40”. In considerazione di questo mandato CFMT ha già sottoscritto un accordo con AISO (Associazione italiana società di outplacement) con lo scopo di concordare un sistema di standard rigorosi che impegnano le società aderenti ad operare in termini di qualità e trasparenza i più elevati possibili onde garantire risultati certi e misurabili. E questo pur consentendo, a dirigenti e aziende, di scegliere in piena autonomia tra tutti gli operatori presenti sul mercato.
Il programma concordato tra AISO, Manageritalia e CFMT prevede:
bilancio delle competenze e delle caratteristiche personali
Progetto professionale: bisogni, desideri e loro realizzabilità concreta
ricerca di opportunità manageriali o imprenditoriali
Preparazione all’inserimento e monitoraggio successivo
Strumenti: banche dati, reportistica, supporto logistico sul territorio e customer satisfaction
Tempi: 12 mesi di calendario o fino alla conferma del rapporto di lavoro. (Il dettaglio dell’accordo sarà presto scaricabile sia sul sito di CFMT che su quello di AISO). Questo accordo prevede inoltre che il dirigente, a cui si applica questo contratto, possa usufruire gratuitamente di cinque attività formative specifiche presso il CFMT da svolgere durante tutto l’anno successivo alla data di cessazione (a libera scelta o concordate direttamente con la società di outplacement). Le novità di questo accordo sono diverse. Innanzitutto il voucher verrà corrisposto solo se il dirigente e l’azienda decidono di avvalersi dell’OTP. Quindi, per la prima volta, un vero incentivo a scegliere questa strada. In secondo luogo le parti, con questa intesa, puntano a selezionare e valorizzare le società che rispondono a determinate caratteristiche finalizzate a garantire, al dirigente in transizione, risultati concreti e misurabili. Infine il rapporto stretto con CFMT dovrà consentire sia la certificazione che il monitoraggio dei percorsi con la possibilità di concordare attività formative mirate che consentano al dirigente una maggiore rapidità di ricollocamento. Questo accordo non nasce per caso. È stato preceduto da un altro importante progetto svolto dal 2008 al 2015 che ha visto impegnato il CFMT in rapporto stretto con Manageritalia e che ha consentito il ricollocamento di oltre 1200 manager. Quella esperienza, pur valutata positivamente, ha consentito una sua strutturazione definitiva in questa nuova proposta concordata nel recente contratto nazionale. Personalmente ho sempre creduto nella necessità di costruire risposte efficaci che aiutino le transizioni professionali. Mi sono occupato di ricollocamento fin dal 1995 implementando in Italia il modello francese nel gruppo Danone e ho potuto incontrare diversi e validi professionisti della materia ma anche soggetti inadeguati che hanno contribuito a rallentare il decollo dell’OTP nel nostro Paese. Per questo credo nella validità di questo accordo proprio per la serietà degli interlocutori individuati e per gli impegni sottoscritti. In Italia il ricorso all’OTP sta purtroppo crescendo lentamente lasciando, di conseguenza, le persone sole a gestire con grandi difficoltà una interruzione forzata del proprio percorso professionale. Aziende e singoli hanno purtroppo scelto la strada più breve puntando ad accordi di natura esclusivamente economica. Ma, nel corso degli anni, cercare un lavoro è, a sua volta, diventato sempre di più un lavoro e quindi l’apporto di tecniche consolidate e percorsi formativi adeguati possono veramente fare la differenza per chi non è in grado di muoversi da solo sul mercato. Le parti sociali nel terziario (Confcommercio e Manageritalia) hanno individuato questa soluzione e affidato al CFMT il compito di gestirla nell’interesse esclusivo dei manager in difficoltà. Sono convinto che, insieme alle aziende aderenti ad AISO e con il sostegno di Manageritalia, lavoreremo per valorizzarne il contenuto e dare così ai colleghi in transizione una risposta utile e adeguata e, in questo modo, rafforzare uno degli aspetti innovativi del contratto nazionale di lavoro che mette già a disposizione della categoria, oltre ad una importante previdenza integrativa (Fondo Mario Negri e Fondo Pastore) e ad un assistenza sanitaria integrativa (FASDAC) di prim’ordine, un centro di formazione (CFMT formazione) che garantisce ai singoli manager un aggiornamento continuo e a tutte le imprese del terziario il supporto nei loro progetti di cambiamento e riorientamento del proprio capitale umano. Questo nuovo compito si integra molto bene con altri progetti che il CFMT sta portando avanti per consentire ai manager di prevenire, nei limiti del possibile, momenti di difficoltà e di obsolescenza professionale.