I dati e il parere di molti esperti ci confermano che l’ascensore sociale si è fermato. Si discute su come farlo ripartire e le ricette non mancano. Oggi Di Vico sul Corriere se la prende sostanzialmente con le piccole imprese e con la loro incapacità di crescere. È un punto di vista. Io credo che ce ne siano anche altri. Innanzitutto se si accetta la metafora dell’ascensore sarebbe corretto accettare l’idea che, lo stesso, non è costruito per muoversi solo verso l’alto. Non è banale. Una società che prevede solo la possibilità di salire socialmente ed economicamente come indicatore qualitativo non è in grado di affrontare i cambiamenti quando questi sono profondi e di sistema. Preferisce ascoltare chi individua colpevoli negli altri (nella politica, nelle imprese, nella globalizzazione) più che chi cerca soluzioni non sempre facili e a portata di mano. In secondo luogo l’ascensore ha funzionato in Italia quando la spesa pubblica lo ha sorretto pesantemente. Si sono moltiplicati i centri di spesa, gli appalti pubblici, le cattedre universitarie, le professioni, i ruoli nella pubblica amministrazione, le consulenze, ecc. Inoltre nelle medie e grandi imprese le figure manageriali si sono espanse ben oltre la necessità concreta dei rispettivi business. Non è che la crisi e le ristrutturazioni le hanno ridotte, erano troppe e molte di esse inutili, nella fase precedente. Gli stessi schemi legislativi e contrattuali in materia di lavoro sono stati costruiti prevedendo solo la possibilità di crescita verso l’alto, a volte prevedendo l’anzianità come elemento di certificazione o automatismi di passaggio tra un livello e l’altro. Addirittura che fosse sufficiente seguire alcuni compiti per un periodo anche limitato per rivendicare uno status superiore e definitivo. In un mondo provinciale che prende in considerazione solo la sua inevitabile crescita è normale non prevedere che questa non potrà mai essere infinita. Il punto però è che nessuno si è preparato al peggio. E quindi le famiglie, i media e le istituzioni e, in ultima analisi, l’opinione pubblica in generale attende solo risposte che sblocchino, sempre verso l’alto, il meccanismo. Purtroppo quell’epoca è finita come sottolinea bene il sociologo Schizzerotto sul Corriere. Per crescere oggi occorre ben altro che attendere la volontà di sviluppo delle PMI! Innanzitutto, se parliamo di mercato del lavoro, occorrerebbe considerare, sul piano della crescita individuale, il mondo intero e non più solo il proprio Paese o, addirittura, la propria città come unico sbocco possibile. Magari con l’obiettivo di ritornare quando si è conquistata o raggiunta una certa solidità professionale e personale. In secondo luogo occorrerebbe costruire modelli nuovi di collaborazione e condivisione dei rischi nelle filiere dalla produzione al consumo. Questo imporrebbe la creazione di nuove figure manageriali nelle imprese e nelle reti che oggi non ci sono. Figure con sistemi retributivi e incentivanti profondamente diversi da oggi. E sorretti da una legislazione adeguata. In terzo luogo puntare a criteri meritocratici più spinti e ovunque che consentano ai migliori, indipendentemente dal loro ceto sociale di partenza, di emergere. Quello che penso è che è inutile far ripartire questo ascensore. È vecchio e superato. È stato creato nella prima Repubblica e sostenuto dalla spesa pubblica. Doveva servire a supportare i sogni delle generazioni post belliche e così è stato. Adesso basta. Occorrerebbe progettarne un altro dove il merito, la determinazione, la voglia di rischiare in proprio e l’ambizione personale possano davvero trovare posto. Ma soprattutto costruito per le generazioni future quindi non più legato a un concetto di crescita sociale vecchio e superato. La linea di demarcazione nel futuro si costruirà intorno al digital divide, alla padronanza delle lingue, alla cultura, al senso, alla qualità della vita e alla disponibilità alla mobilità planetaria. Gli status sociali si costruiranno e si distruggeranno più volte nella vita degli individui e delle imprese. Sapersi muovere in quel contesto farà la differenza.
Dobbiamo voler guardare avanti.
La convinzione che nel nostro passato c’erano uomini (e donne) di grande valore di cui sentiamo l’umana mancanza è sicuramente condivisibile. Lo è meno se insistiamo con parallelismi improponibili. Se oggi ritornassero tra di noi i migliori dirigenti sindacali e politici del dopo guerra o della prima repubblica, a mio parere, verrebbero messi inesorabilmente in panchina. Vediamo la sorte che sta toccando al nostro ex Presidente Giorgio Napolitano. Invocato da tutti nel momento del bisogno, dimenticato o addirittura osteggiato dai più quando la politica ha cambiato priorità e convinzioni. È una legge inesorabile. Per quanto si creda il contrario è il contesto sociale, politico ed economico che modella le diverse tipologie di leadership e non viceversa. Le esalta o le appiattisce rendendole funzionali a sé. Ho imparato da tempo che, come ci ricorda il priore di Bose, “ogni stagione ha i suoi frutti”. Il sociologo Luca Ricolfi ci aveva già provato ad attaccare la leadership di Susanna Camusso, segretario generale della CGIL, proponendo una sorta di rievocazione nostalgica a favore dei sindacalisti della Cgil del passato, della loro leadership e della loro capacità di proposta e di mobilitazione. Anche Dario Di Vico ha manifestato una certa nostalgia auspicando una potenziale utilità contemporanea di Luciano Lama. Come se si potessero separare gli uomini dal contesto che li ha messi in luce. Non credo sia possibile. Inoltre, per quanto può valere, stimo Susanna Camusso con la quale ho negoziato e discusso accordi sindacali complessi in passato. Per come si è mossa la ritengo una leader riformista e capace che è riuscita a traghettare la Cgil dalla stagione degli accordi separati e dell’emarginazione a quella propedeutica a un nuovo percorso unitario. Ovviamente non condivido quasi nulla delle scelte politiche e sindacali di quella Confederazione ma questo non significa che io non sia in grado di comprenderne la qualità della leadership, la capacità di riposizionamento nel contesto dato, l’investimento sul rinnovamento delle risorse dell’organizzazione e l’apertura di un confronto positivo con Cisl e Uil dopo la nefasta stagione delle rispettive derive identitarie. Sicuramente lo ha fatto di più e meglio di altri se non altro perché lo ha dichiarato esplicitamente. Nel mondo non esistono più leader politici e sindacali di vecchia generazione, impiegabili oggi. È dunque il contesto che genera il profilo dei leader. Ad esempio Clinton e Sanders si confrontano da tempo ma oggi, il secondo ha nettamente oscurato il primo. Un tempo sarebbe stato semplicemente ridicolo pensarlo. Così come Corbyn rispetto a Blair. L’Europa in crisi di identità e alle prese con la globalizzazione non tollererebbe più un Kohl, un Adenauer, uno Spinelli o un Delors. Al massimo può rimpiangerli in qualche convegno. Oggi tocca ai leader “invisibili” e non eletti dai popoli come Yellen, Draghi, Lagarde. Sotto di loro i singoli capi di Stato e di Governo che ammortizzano le loro decisioni nei rispettivi Paesi con i Parlamenti ridotti sostanzialmente al ruolo di notai. Cosa dovrebbero fare i sindacati? Proporre scioperi generali a raffica come in Grecia o in Portogallo? O, al contrario, appoggiare acriticamente il Governo Renzi? Con il PD a pezzi, una parte della stessa CGIL sull’orlo di una crisi di nervi e l’opposizione politica in mano a Salvini e Grillo? E, non meno importante, con Cisl e Uil in una fase di evidente transizione sul piano organizzativo. Una auspicabile svolta unitaria e riformista non si improvvisa. Si costruisce. Certo il tempo a disposizione purtroppo non è molto ma la strada è segnata. Il Paese non può permettersi il declino dei corpi intermedi. Il giro di boa è rappresentato dal referendum di ottobre dove la vittoria del “SI” segnerà un chiaro spartiacque. E in vista di quella scadenza alcune “intemperanze disintermediatrici” del nostro Premier Renzi si affievoliranno lasciando spazio ad una maggiore consapevolezza sul ruolo dei corpi intermedi. Sia datoriali che sindacali. Se l’insieme delle parti sociali saprà cogliere l’importanza di questa nuova e indispensabile convergenza si creeranno le condizioni affinché ciascuno possa mettere in campo il proprio contributo. A meno che ci sia qualcuno che pensa che l’obiettivo di rendere più competitivo il nostro Paese, affrontarne i nodi gordiani che lo rallentano e portarlo definitivamente in Europa sia possibile farlo con un uomo solo al comando o con la semplice manutenzione delle regole che abbiamo oggi. Questo è il punto. Il confine tra riformisti e conservatori passerà da lì. C’è spazio per tutti. Soprattutto per chi vorrà giocare la partita.
Globalizzazione, liturgie del ‘900 e ricerca di nuove vie
Quando un negoziato come quello dei metalmeccanici non si sblocca la prassi sindacale prevede che occorre interromperlo e passare ad altre iniziative per modificare la presunta intransigenza della controparte. È così che si è sempre fatto. La liturgia prevede l’invio di una piattaforma, l’apertura del confronto sul merito delle richieste di entrambe le parti, un negoziato più o meno serrato e, infine, la conclusione come si dice sempre “con reciproca insoddisfazione” in relazione alle posizioni di partenza. Chiunque di noi ha vissuto sul campo la seconda metà del novecento conosce bene riti e modalità delle relazioni sindacali. È anche vero che dagli anni ’90 le “piattaforme” sono state sempre meno presentate dai sindacati e sempre più dalle imprese. In questo caso la liturgia prevedeva una dose di forte drammatizzazione iniziale tesa a far entrare in campo un terzo soggetto (lo Stato) sul quale scaricare parte degli inevitabili costi del negoziato. La globalizzazione e la crisi economica hanno messo definitivamente in difficoltà il ruolo redistributivo dello Stato lasciando in carico, in tutto o in parte, sui lavoratori e sulle imprese i costi relativi. Le riforme pensionistiche e degli ammortizzatori sociali sono andate sicuramente in questa direzione. Così come l’impossibilità, per le imprese, di scaricare sui prezzi eventuali richieste economiche o di aumentare i salari senza mettere mano al costo del lavoro complessivo che grava pesantemente sui conti delle imprese. Infine la produttività che non cresce anzi continua la sua decrescita infelice. Di fronte a questo scenario complesso il Governo è intervenuto con il Jobs Act, nella legge di stabilità ha confermato sgravi finalizzati alle assunzioni e rifinanziando gli strumenti di sostegno legati alla negoziazione aziendale in tema di produttività. Inoltre si appresterebbe, in autunno, ad intervenire sui modelli contrattuali se le parti non dovessero trovare soluzioni concordate. Poco o tanto, questo è. Poteva fare di più e meglio? Probabilmente si. Ma non è questo il punto. Le Confederazioni sindacali, a loro volta, hanno lanciato una loro proposta di riforma della contrattazione che, per il momento, sembra non trovare interlocutori particolarmente interessati ad entrare nel merito. Il quadro si completa con i contratti firmati del terziario e di importanti categorie industriali che assicurano un recupero economico ai lavoratori interessati. Altri contratti sono al palo, tra cui quello più importante dei metalmeccanici. Sul tavolo solo la proposta di Federmeccanica. Sette mesi di incontri non sono serviti a sbloccare il negoziato quindi temo che sia abbastanza difficile, a questo punto, accettare l’idea che l’intransigenza sia riscontrabile in una parte sola. Cioè quella datoriale. A chi non è coinvolto nel confronto non risultano proposte sindacali unitarie tese a superare lo scoglio principale. Quindi non si capisce perché l’altra parte dovrebbe modificarla unilateralmente. Cosa peraltro avvenuta, seppur in modo insufficiente nella forma e nella sostanza, secondo le organizzazioni sindacali. A meno che non si pensi che lo strumento dello sciopero, più o meno praticato, sia ancora lo strumento principe per “costringere” l’intransigenza altrui a modificarsi a favore della propria. Io credo di no. O la proposta di “rinnovamento contrattuale” è una banale tecnica di drammatizzazione del negoziato che, in questo caso, rischia solo di essere controproducente o ha una sua coerenza complessiva. In questo secondo caso l’obiettivo dei sindacati non può che essere quello di trovare una soluzione alternativa praticabile per entrambi e coerente con l’insieme dei risultati attesi. Altrimenti si ricade in una liturgia che stravolge inevitabilmente l’insieme dei contenuti della svolta proposta da Federmeccanica riportando il negoziato nel solco dei rapporti di forza e quindi in una logica perdente per chi si pone l’obiettivo di cambiare il sistema rendendolo più collaborativo o partecipativo. L’innovazione passa anche da qui. Dal linguaggio utilizzato, dalla volontà o meno di elaborare proposte alternative, dalla consapevolezza del cambio culturale necessario per costruire nuove relazioni industriali. Se il prezzo da pagare per firmare quello che Bentivogli ha giustamente definito “uno dei contratti nazionali più difficili della storia” è la rinuncia ad ogni rinnovamento in cambio di un adeguamento salariale in linea con l’inflazione che pregiudica, di fatto, la contrattazione aziendale e che cancella altri possibili risultati credo che sia poca cosa rispetto alle premesse. Una parte dell’innovazione possibile del sistema passa sicuramente dal rinnovo dei metalmeccanici. Così come è sempre stato anche per i chimici. Lo dice la storia della contrattazione del nostro Paese. Nuove opportunità si posso aprire solo se le rispettive basi comprendono la posta in gioco e la nuova direzione di marcia. Non è il compromesso che mancherà anche in questa negoziazione. È la sua qualità e la percezione che di questo risultato ne avranno lavoratori e imprenditori coinvolti che farà la differenza.
La nuova cultura delle imprese e del lavoro e la difficoltà a rappresentarla
Temo che i segnali ci siano tutti. Anche se c’è chi pensa di risolvere il problema limitandosi a decentrare la contrattazione o chi di rendere il contratto nazionale derogabile in caso di esigenze specifiche. Ma c’è anche chi spera di non dover modificare nulla. I corpi intermedi si confrontano con idee e proposte, i giuslavoristi di diversa provenienza si schierano e anche il Governo pare voglia intervenire sulla materia. E, dulcis in fundo, l’Europa che ci sollecita a mettere mano ad un nuovo modello. Sono la stragrande maggioranza delle imprese e dei lavoratori che restano, però, in larga parte estranei a questa discussione che rimane racchiusa in una cerchia di esperti ristretta e lontana. Certo ci sono le assemblee, gli scioperi e le prese di posizione sindacali che sembrano squarciare, con qualche reazione “old style”, la calma piatta mentre dal lato opposto della barricata gli addetti ai lavori si misurano su proposte più che altro tese a cercare di salvare “capra e cavoli”. Cosa sta succedendo veramente nel mondo di cui dovrebbero occuparsi le relazioni industriali? La fine del taylorismo sta trascinando con sé tutto ciò che ha caratterizzato il sistema nel secolo scorso. Anche un “comandamento” mai messo in discussione: una sensibilità comune e condivisa verso l’importanza della contrattazione “collettiva”. Nazionale o aziendale che sia. È indubbio che il rapporto tra capitale e lavoro stia profondamente cambiando. Il “potere”, quello vero, è ritornato saldamente nelle mani dell’impresa che però, lo esercita in modo profondamente diverso dal passato anche perché è un “potere” subalterno ad altri poteri e vincoli ben più forti, finanziari e globali, dunque esterni all’impresa stessa. L’azienda soprattutto quella medio grande, al suo interno, è ormai molto pervasiva. E lo è sempre più a tutti i livelli. Spesso organizza in proprio welfare di qualità, si impegna in progetti di CSR e costruisce legami con il territorio. Propone valori, cultura, coinvolgimento, condivisione e identità. Investe sulle proprie risorse umane in un’ottica di retention e di scambio con il collaboratore pur non garantendo il posto di lavoro. E lo dichiara apertamente. È una realtà dove la retorica paternalistica ha ceduto il passo ad altre logiche. Oggi contano i risultati e gli obiettivi, individuali o di gruppo, per tutti. Se questi si realizzano, e sono giudicati positivamente, la relazione tra azienda e collaboratore si rafforza altrimenti si indebolisce o, addirittura, si compromette e si interrompe. È un rapporto adulto, coinvolgente, spigoloso, più trasparente rispetto al passato. Ma è un rapporto tra organizzazione e individuo quindi sempre più complesso da gestire in un contesto collettivo. Nazionale o aziendale che sia. Le Direzioni Risorse Umane sono impegnate in prima persona in questa costruzione al contrario del responsabile delle Relazioni Sindacali che è un po’ vissuto da tutto il board aziendale come un male necessario. Una sorta di depositario di liturgie del passato superate e spesso disattese. E, d’altro canto, è sempre più difficile, per gli stessi sindacati, avere un ruolo, rifarsi ad una solidarietà di stampo novecentesco tra le differenti tipologie di lavoratori perché ciò che era possibile tutelare o acquisire orizzontalmente in passato, tra soggetti tutto sommato simili, si è ormai sempre più verticalizzato (tra capitale e lavoro) nella singola impresa tra soggetti diversi. È come se si determinasse una nuova alleanza interna che, di fatto, mette tutti sullo stesso piano. Imprenditori, manager, lavoratori di ogni singola impresa. Il “nemico” è altrove. Ed è, a volte, allo stesso livello professionale, magari in un altro Paese concorrente. Nelle crisi aziendali è già evidente. Se c’è una soluzione, per difficile che sia, è condivisa tra imprenditore, management e lavoratori. Chi non accetta questa impostazione è inevitabilmente in contrapposizione con l’intero contesto aziendale. Si sta affermando un modello che prevede sempre più che chi è dentro accetti di misurarsi “contro” chi è fuori. Fuori dall’azienda e fuori dalla filiera nella quale l’impresa interagisce. In questa dimensione le dinamiche e le regole del gioco sono quasi tutte interne. Prevedono una nuova centralità della risorsa umana, del suo percorso e del suo apporto al successo dell’impresa così come il suo corrispondente e specifico riconoscimento economico e professionale. Uno scambio concreto, seppur asimmetrico nel potere. Certo ci sono anche i sindacati datoriali e dei lavoratori, le leggi, i contratti e tutto quel contesto che il fordismo ha portato con sé nel sistema delle relazioni tra individuo e organizzazione. Ma sono “altro”, lontani e sempre più avulsi dal contesto lavorativo di oggi. La crisi e la globalizzazione hanno cambiato profondamente le regole del gioco. Pochi, da fuori, se ne sono accorti. I segnali di insofferenza verso un sistema esterno di regole condivise e rispettate sono sempre più evidenti. Ed è nella impresa medio grande che questa tendenza si manifesta con maggiore evidenza. FCA, in fondo, ha solo segnalato l’esistenza di un problema. E, fortunatamente, si è trovato di fronte una parte del sindacato che ha capito immediatamente la posta in gioco. Ma lo stesso vale, ad esempio, per molte imprese del terziario moderno, della ristorazione o della GDO che cercano di affrancarsi da regole e contratti collettivi nazionali e aziendali. O di creare al loro interno nuove regole del gioco che rendono marginale il ruolo del sindacato. Interno o esterno che sia. E non mi si dica che questo è un problema riguarda solo le grandi imprese. Riguarderà tutti, prima o poi. Se non affrontato diventerà la norma. Anche in considerazione della modesta dimensione della stragrande maggioranza delle imprese. D’altra parte l’idea stessa che sia sufficiente sostituire la contrattazione nazionale con quella aziendale o di integrarla rappresenta un estremo tentativo di adattamento della vecchia cultura giuslavoristica italiana che fatica a comprendere l’evoluzione dei comportamenti e dei modelli organizzativi nell’impresa post fordista. Eppure basterebbe uno sguardo attento, nelle imprese del terziario avanzato, dove quei comportamenti e quei modelli organizzativi sono la norma, per verificare come la contrattazione decentrata sia praticata con percentuali da prefisso telefonico. E questo indipendentemente dalla dimensione aziendale. Se tutto questo è vero il lavoro di ricostruzione di un nuovo ed efficace sistema di relazioni sindacali moderno sarà indubbiamente lungo e complesso. E non può che partire dalla volontà di impegnarsi reciprocamente in un rapporto costruttivo, collaborativo e di rispetto. Anche facendo crescere una nuova cultura tra i propri associati. Ma questo è un ruolo importante e impegnativo che spetta ai corpi intermedi in prima persona. Non certo ad altri.
Quanto è distante la Germania?
Nei prossimi giorni si parlerà molto dell’intesa sul contratto raggiunta tra la IG Metall e la Confindustria tedesca. Gli aumenti erogati sono senza dubbio significativi. Aumenti del 2,8% da luglio 2016, seguiti da un + 2% nel 2017, non passeranno inosservati. Tra i sindacalisti meno attenti prevarrà indubbiamente la voglia di “strumentalizzare” questo dato in chiave nostrana sorvolando sulle specificità delle relazioni industriali tedesche, sul ruolo e sul peso dei sindacati aziendali e, infine, sulla cultura collaborativa complessiva e quindi disposta a condividere i rischi, ma anche i vantaggi, dell’economia di mercato e dei suoi andamenti. Non è solo un problema di PIL, anche se un + 0,7% nel primo trimestre, qualcosa vorrà pur dire. È un problema complessivo che è però presente anche sul tavolo contrattuale di categoria. In parte (purtroppo solo in parte) affrontato da categorie come i chimici, gli alimentaristi e nel terziario che, guarda caso, il loro contratto lo hanno firmato da tempo. Così come, sarebbe ingiusto non sottolinearlo, è stato da tempo affrontato in Fiat prima e in FCA poi è, molto probabilmente, anche in decine di imprese metalmeccaniche (vedi Maserati) dove la cultura collaborativa non è affatto diversa dalle aziende di altri Paesi nostri concorrenti. Sostanzialmente il rinnovamento contrattuale proposto da Federmeccanica ha tre capisaldi: la ricchezza si può distribuire solo dopo averla creata, capitale e lavoro nella singola azienda sono in grado di confrontarsi su esigenze e opportunità molto meglio di quanto lo siano oggi imbrigliati in vincoli contrattuali costruiti nel secolo scorso e, infine, le risorse umane nel post fordismo ridiventano centrali così come tutti i meccanismi di valorizzazione e di relazione dentro e fuori dell’impresa. Su queste tre questioni andrebbero misurate le distanze tra Germania e Italia, non sugli aumenti salariali erogati in un Paese dove questi tre temi sono già stati affrontati e risolti già nel secolo scorso!! Pur avendo lavorato per anni in un’azienda tedesca, sono stato personalmente colpito dalla reazione unanime delle parti sociali sul caso Volkswagen quando, in occasione dell’assemblea nella sede centrale, il sindacato IG Metall (a Wolfsburg hanno oltre il 90% di iscritti) ha distribuito una maglietta con la scritta “un’azienda, una famiglia”. È immaginabile una cosa del genere in Italia? Io credo di no. Anch’io, come direttore risorse umane, non avrei “osato” proporlo ai nostri sindacati di categoria. È solo un esempio ma questa diffidenza contribuisce a mantenere quella distanza, quella insofferenza anche tra i nostri imprenditori che non si fidano di un possibile ruolo protagonista del sindacato italiano e che, se non affrontate e superate, lasciano il campo esclusivamente alla logica dei rapporti di forza oggi indubbiamente sfavorevoli alle organizzazioni dei lavoratori. Anche a quelli più disponibili a muoversi in direzioni meno difensive e conservatrici. Per questo la partita si gioca essenzialmente su questo punto. Se si registreranno passi in avanti (piccoli o grandi non importa) in questa direzione avremo una evoluzione del quadro complessivo positivo e costruttivo. Altrimenti avremo perso una buona occasione di avvicinarci, sul serio, alla Germania.
Il rischio del pantano…
Vista da fuori sembra una situazione bloccata. L’incontro tra Federmeccanica e i tre sindacati dei metalmeccanici è finito come era sostanzialmente prevedibile. L’unica concessione a chi crede in un possibile sbocco positivo è che il confronto prosegue. Il sindacato, forte della propria valutazione sull’esito dello sciopero e quindi sul consenso alle proprie tesi, ha ribadito l’indisponibilità alla proposta economica datoriale, invariata nella sostanza, seppur modificata nella sua distribuzione temporale. Tra i tre segretari le sfumature non mancano. Maurizio Landini l’ha respinta al mittente, senza se e senza ma, sostenendo che il contratto nazionale non deve solo recuperare l’inflazione ma anche parte della produttività, Rocco Palombella ha ribadito che i livelli contrattuali devono essere due individuando nel secondo livello il luogo di contrattazione della produttività mentre Marco Bentivogli, sicuramente più attento alla delicatezza del momento, ha ribadito che la mancanza di certezze sulla esigibilità del secondo livello vanifica, essa stessa, la possibilità di confrontarsi sulla proposta datoriale. Tre sfumature che però mantengono alte le perplessità sindacali sull’esito positivo a breve del negoziato. Federmeccanica, dal canto suo, non ha cambiato l’impostazione di base. Era ingenuo pensare che lo facesse a seguito dello sciopero. E penso lo sarà altrettanto più avanti. Il punto centrale posto da Federmeccanica è che non si possono distribuire risorse senza averle prima create. Quindi la differenza non è solo quantitativa. È di sostanza. E non è modificabile con proposte tradizionali o senza mettere in campo rapporti di forza oggi non ipotizzabili. D’altro canto il punto debole della sua posizione è che molte aziende non sono disponibili, non si fidano o non sono attrezzate a confrontarsi sul serio con il sindacato in ogni singola realtà. E, in certe situazioni è difficile dar loro torto… Quindi la rigidità della proposta di “rinnovamento contrattuale” non lascia molti margini di manovra a entrambi i negoziatori. Tra l’altro la mancata conclusione del contratto dei meccanici influisce direttamente sull’apertura del negoziato tra Confindustria e Cgil, Cisl e UIL sulla riforma della contrattazione almeno in una prima fase dove né il nuovo Presidente confederale né tantomeno i tre segretari sindacali hanno interesse a teleguidare il negoziato in corso o a sconfessarne l’impostazione. Il rischio che tutto passi in seconda fila in attesa di una evoluzione del quadro politico e sociale è molto alto. Personalmente non credo sia conveniente per nessuno delle parti in causa. I prossimi incontri ci diranno di più e meglio sulla effettiva qualità del “rinnovamento” proposto. Continuo a pensare che nella proposta di Federmeccanica c’è lungimiranza, una rinnovata centralità delle risorse umane e quindi un alto tasso di innovazione. Quello che forse manca è una chiarezza definitiva sulla qualità del rapporto che si vuole costruire con il sindacato. Al centro come in periferia. Ma anche nella disponibilità del sindacato manca qualcosa di definitivo su questo argomento. L’equivoco non giova a nessuno. Credo che nei prossimi incontri si capirà meglio la direzione di marcia che le parti vorranno intraprendere.
Un passo avanti o due indietro?
Quando non tocchi palla è sempre difficile stabilire se è iniziativa dell’avversario o tua difficoltà a fare la partita. O entrambe le cose. Oggi siamo qui. Il Governo sembra muoversi a tutto campo sui temi del lavoro e della previdenza con atti o proposte di merito. O anche semplicemente con annunci. Alcuni importanti contratti nazionali sono stati firmati, altri no e, infine, sul tavolo c’è un documento unitario sulle relazioni sindacali e sulla contrattazione che non sembra incontrare grandi apprezzamenti sul versante datoriale. E questo senza prendere in considerazione il percorso in solitaria che la Cgil sta portando avanti per conto suo in tema di diritti e opposizione alle decisioni presenti e passate del Governo. Ad oggi sembra difficile pensare che la situazione si possa sbloccare a breve. I contratti, dei meccanici e della PA, sono al palo e difficilmente troveranno una composizione tradizionale. Sugli altri contratti aperti è buio pesto mentre il segretario della UIL annuncia la possibilità di uno sciopero generale se la situazione dovesse continuare a restare ingarbugliata. Elezioni amministrative, Brexit, legge di stabilità e referendum spostano indubbiamente l’attenzione dell’opinione pubblica altrove. Nel frattempo i sindacati elencano le loro buone ragioni mentre le imprese non sembrano particolarmente preoccupate del rischio di peggioramento del clima sociale impegnate con determinazione a cogliere ogni possibile segnale di ripresa vero o presunto che possa esserci. In questo contesto è difficile fare previsioni. Anche perché il Governo, non essendo sollecitato a muoversi diversamente da proposte o alternative praticabili, conferma la propria volontà di bypassare sistematicamente ogni confronto con i corpi intermedi. A mio parere non è una situazione positiva. Né per il Governo né per le parti sociali. Per il Governo perché scommettere esclusivamente su “fai da te” e sulla presunta ripresa da zero virgola rischia di eroderne il consenso. Per le parti sociali che restano confinate in panchina ai margini del gioco in attesa di una probabile discesa in campo che non arriva mai. Intanto il Paese si avvita su se stesso. Ma se la politica tenta in qualche modo di uscire dall’impasse così non è per i corpi intermedi. Abituati a difendersi e a contrapporsi l’un l’altro non riescono ad individuare una strategia comune che sappia far convergere tutti su alcuni punti essenziali. Ognuno sembra procedere seguendo un proprio percorso. Alcuni elementi oggettivi, però, dovrebbero portare ad una riflessione comune. Innanzitutto la proposta di “rinnovamento contrattuale” di Federmeccanica che segnala, al di là delle inevitabili dichiarazioni propagandistiche l’esistenza di un problema serio per chi deve affrontare le sfide della globalizzazione e della tecnologia: la necessità che tra capitale e lavoro si trovino nuove convergenze di interesse. Questa sfida il sindacato non sembra comprenderla fino in fondo. Soprattutto non sembra cogliere il rischio che questo comunque avverrà con o senza di loro. Il balletto sulle adesioni allo sciopero sul contratto testimonia un vecchio rito ma non aggiunge nulla di nuovo all’evoluzione del contesto. In secondo luogo la disaffezione, sempre più marcata, di molte imprese in numerosi settori alla contrattazione collettiva. Sia aziendale che nazionale. C’è un problema di costi, ovviamente, ma anche un problema di personalizzazione non colto (coinvolgimento, merito individuale e variabilizzazione) con il quale occorrerà misurarsi. Prima o poi. In terzo luogo c’è un problema di contesto. Che lo si ammetta o meno non emergono complessivamente segnali di forti tensioni sociali che giustifichino linguaggi, atteggiamenti e rivendicazioni tradizionali. Anche solo di carattere difensivo. È un po’ come se si fosse creata una frattura sempre più evidente tra le percezioni e le liturgie dei rappresentanti e dei militanti in senso stretto verso le necessità reali e la disponibilità a mettersi in gioco in prima persona dei rappresentati. E così mentre la società reale vive la necessità di individuare percorsi e soluzioni praticabili oggi, la rappresentanza (in generale) si schiera ipotizzando distribuzioni del reddito, obiettivi contrattuali e linguaggi di difficile comprensione. Anche per i rispettivi e presunti bacini di riferimento. È così alle contraddizioni tra territori e generazioni se ne aggiunge un’altro tra affermazioni e risultati che non aiuta a ricomporre un terreno di iniziativa concreto. Occorrerebbe un passo in avanti che non c’è ancora. Ed è un passo che non si può compiere da una parte sola. E, soprattutto, non si può compiere se si lascia giocare liberamente l’arbitro per mancanza di schemi di gioco. Il Governo lo si “contrasta” con proposte che sappiano andare oltre la semplice difesa delle proprie posizioni e prerogative. Quel tempo è finito. Insistere non serve e non porta a nessun risultato. Grecia e Spagna sono lì a dimostrarlo per chi avesse dubbi in proposito. Ecco perché resto convinto che, in assenza di un passo in avanti di tutti i corpi intermedi, ce ne attendono due indietro. È questa non credo sia una prospettiva utile per il Paese.
I contratti di lavoro tra declino e nuove opportunità
Sono assolutamente convinto che i contratti aperti vadano chiusi il più rapidamente possibile. I corpi intermedi hanno ragione di esistere se sanno comprendersi e trovare, insieme, sintesi positive. Per questo non vorrei generare alcun equivoco su questo punto. Ritengo però che sia comunque necessaria una riflessione oltre la linea dell’orizzonte del “qui e ora”. E, soprattutto cercare di distinguere ciò che è necessario fare da ciò che occorrerebbe fare per accompagnare la crescita e lo sviluppo delle nostre imprese. L’azienda di domani sarà profondamente diversa rispetto a quella di oggi. Questo è l’unico punto sul quale sembrano essere tutti d’accordo. Le divergenze nascono sul come arrivarci e sul cosa occorrerebbe fare. Molti imprenditori, sbagliando, credono possibile arrivarci da soli. Così come molte grandi imprese multinazionali o meno. Anche molti manager credono possibile arrivarci da soli. Passione, impegno, formazione e una dose massiccia di tecnologia. What else? Come direbbe l’attore George Clooney nella nota pubblicità del caffè… “Chi fa da sé, fa per tre” è ancora una convinzione diffusa. In alcuni casi funziona. Sia per l’imprenditore che investe su di sé e sulla propria famiglia evitando con convinzione e/o preoccupazione l’apporto di manager esterni, sia per il manager che mette entusiasmo e determinazione nelle proprie scelte professionali e pensa di conquistare, da solo, i traguardi sempre più sfidanti che lo aspettano. Qui sta il punto. L’impresa del futuro sarà profondamente diversa e non solo a parole. Gli imprenditori e i manager, oggi, chi più chi meno, spesso cercano di fare le cose che hanno sempre fatto in modo nuovo, domani, invece, tutti saranno chiamati a fare cose nuove in modo nuovo. Questa è sostanzialmente la differenza di fondo. E quel mondo va preparato, non subìto. Innanzitutto occorrerebbe costruire un terreno di convenienze positive e di convergenze di investimento tra Stato, imprese e singole persone. Se non si converge tutti sulla costruzione di un modello diverso sarà arduo costruire un nuovo approccio. Senza favorire la sperimentazione di soluzioni innovative nelle imprese, senza luoghi e occasioni di sviluppo della ricerca, della creatività, dell’ingegno delle persone e dei territori e senza investire sull’educazione dei giovani mettendo loro a disposizione nuove opportunità e metodologie sarà difficile fare sistema. E questo è un compito a cui le rispettive rappresentanze sindacali potrebbero dare un importante contributo. Aggiungo che, se usciamo per un momento dalla logica un po’ scontata sull’importanza della formazione in generale e dello sviluppo professionale è necessario porsi qualche domanda pur considerando e dando per acquisite le eccezioni e i comportamenti già virtuosi presenti in molte realtà. Pensando alla frammentazione del tessuto produttivo italiano e a condizioni attuali, perché le imprese tradizionali, soprattutto le piccole e medie, dovrebbero investire sulle proprie risorse? Perché dovrebbero favorire la crescita professionale senza nessuna garanzia che questo investimento sia utile e resti nell’impresa stessa? E come si lega il fatto che, mentre l’impresa tende inevitabilmente ad investire su una una formazione funzionale alle esigenze del proprio business, al manager (e non solo) interessa, sempre di più, investire su di sé guardando anche più lontano, oltre l’azienda dove è occupato? Per questo occorrerebbe ragionare in termini di sistema. Altrimenti le reciproche convenienze bloccheranno qualsiasi cambiamento significativo. Investire nell’immateriale resta un investimento ad alto rischio. Può produrre grandi vantaggi o pesanti conseguenze economiche sull’azienda quindi un rischio che non può più, come in passato, essere messo esclusivamente sulle spalle della sola impresa o del singolo imprenditore. Lo vediamo oggi dove gli investimenti sono al palo. E non cresceranno solo con la leva del credito. Questo implica più condivisione ma anche meno garanzie. Oggi i contratti di lavoro non sono così. Prevalgono tutele e condizioni costruite in un epoca dove avevano probabilmente ragione di esistere. Segnalavano una appartenenza, un confine, uno status giuridico e formale oggi ormai insidiato dal basso da Paesi e persone disposte a lavorare con meno garanzie e dall’alto dal consolidarsi nelle aziende di una visione di autosufficienza entro i propri confini di valori, mission e strategie. E a farne le spese rischiano di essere soprattutto i lavoratori. Per questo i contratti di lavoro futuri dovrebbero assumere un orizzonte nuovo. Sperimentare, osare di più uscendo dalla logica fordista che li ha caratterizzati fino ad ieri. Dovranno diventare contenitori di welfare vecchio ma anche aprirsi al nuovo, fissare i minimi sotto i quali nessuno può scendere e leggeri sulle norme che ha ancora senso che riguardino tutti ma, nello stesso tempo, consentire adattamenti, personalizzazioni, sperimentazioni.
Abbiamo bisogno di maglie larghe non di camicie di forza! Persone e organizzazioni hanno interesse a condividere rischi e opportunità. Ciò che oggi hanno a disposizione per realizzarlo è insufficiente. Il futuro dei corpi intermedi, dei contratti di lavoro nazionali, di comparto o aziendali passa anche da qui. Dalla volontà di confrontarsi sugli approdi possibili del lavoro nel nuovo paradigma economico e sociale a livello globale, delle imprese e di come si organizzano e del ruolo della legislazione e dei sistemi di regolazione che ne derivano. Però in questo ordine. Purtroppo si tende a partire da ciò che si ha cercando di adattarlo al futuro. Questo sforzo, pur lodevole, ormai non è più sufficiente.
Crisi, esigenze vere delle imprese e contratti aperti nel terziario
La vicenda dell’interruzione del negoziato per il rinnovo del CCNL di Federdistribuzione è certamente da inserire in un contesto più ampio che vede, non solo le imprese della GDO, in difficoltà sul versante dei fatturati, dei margini e del costo del lavoro in particolare. La ricerca di nuovi modelli di business, la saturazione dell’offerta in molte realtà territoriali, l’impossibilità di scaricare sui prezzi gli aumenti richiesti rendono il quadro contrattuale del settore piuttosto complesso. E se a questo aggiungiamo che le difficoltà sono presenti anche in altri comparti del terziario commerciale e del turismo ci rendiamo conto che il problema assume connotati più ampi sui quali occorrerebbe riflettere più in profondità. La stagione delle vacche grasse è finita da tempo e, per questo, non hanno più ragione di esistere condizioni e concessioni aziendali erogate in tempi lontani quando la crescita era a due cifre. Il sindacato del settore lo ha capito benissimo e si muove con estrema cautela contrattando o subendo l’iniziativa delle imprese a livello locale, che chiedono e ottengono sospensioni di norme contrattuali aziendali o spingono per ottenere la trasformazione o l’abolizione temporanea di istituti ormai datati. Ovviamente le aziende non sono tutte uguali. Alcune intravedono nuove opportunità di business e si attrezzano, altre continuano lentamente un declino inarrestabile. Il confronto tra di loro, sul piano commerciale, è sempre più aggressivo perché gli strumenti a disposizione sono gli stessi, così come i clienti e la loro disponibilità economica. Per questo le tipologie delle prestazioni, i nastri orari, il lavoro domenicale e il suo costo, le differenze di retribuzione tra giovani e baby boomers, sono problemi centrali in queste realtà che, addirittura, possono comportare chiusure o compromettere le aperture di nuovi punti di vendita. Il commercio per sua natura non delocalizza, però, i grandi gruppi internazionali possono investire altrove con maggiore convinzione, se disincentivati. E questo non è un bene. Il sindacato, dal canto suo, non è sostanzialmente in grado di reagire su di un terreno diverso dal passato. Da un lato perché è sempre stato poco propenso a entrare in conflitto con la sua base di riferimento. I baby boomers, appunto. Vicini alla pensione, legge Fornero permettendo, sono i più sindacalizzati ma anche i meno disponibili al cambiamento. Dall’altro lato si trova a dover gestire il rapporto con l’insieme dei lavoratori, soprattutto quelli più giovani preoccupati per il loro contratto e quindi del futuro del loro posto di lavoro che sfuggono inevitabilmente ai richiami della solidarietà sempre più impegnati a “combattere” sotto la propria insegna aziendale “contro” le altre insegne e poco attirati da aumenti irrisori che non scaldano certamente i cuori né mobilitano le coscienze. Quindi “il cane si morde la coda”. Le aziende non hanno margini di manovra, il sindacato pure. Come se ne esce? Innanzitutto rendendosi conto che lasciare ai rapporti di forza la soluzione dei problemi non è mai una mossa intelligente. Non lo è stata quando il pendolo oscillava in favore dei sindacati, non lo è oggi dove i rapporti di forza sono a vantaggio delle imprese. Attendere tempi migliori lasciando marcire una situazione dove al disagio delle imprese si somma quello dei lavoratori che, pur non seguendo le indicazioni dei sindacati, sanno benissimo di avere retribuzioni nette basse, non è una buona cosa. Non lo è per l’economia in generale come tra l’altro ha sottolineato la stessa Banca d’Italia, non lo è per l’impegno che viene giustamente richiesto ai propri collaboratori nei confronti dei clienti e non lo è perché, l’umiliazione dei sindacati e la banalizzazione del loro ruolo, porta con sé fenomeni di radicalizzazione imprevedibili, purtroppo già presenti in altri comparti economici. Il lavoro della GDO è spesso sottovalutato e l’impegno delle imprese nell’assunzione continua di giovani poco considerato. È un errore. Nei punti vendita, si cresce, si imparano mestieri, ci si forma anche per professioni e per carriere ben più importanti. Il clima interno però è decisivo e quindi le aziende non credo siano indifferenti alla necessità di trovare soluzioni condivisibili. Inoltre, gli accordi, quando sottoscritti con convinzione sono fondamentali per accompagnare il contesto sia nella crisi che nella ripresa quando le imprese si troveranno nell’assoluta necessità di sviluppare una situazione sempre più collaborativa. In secondo luogo anche il sindacato deve capire che non si possono più distribuire risorse senza averle prima create. Se l’inflazione è praticamente inesistente, i costi non possono aumentare se non legati concretamente ad incrementi di produttività reale. Le aziende non hanno solo il costo del contratto nazionale. Nel contratto dei metalmeccanici, ad esempio, i sindacati del settore hanno calcolato che solo il 5% dei lavoratori non hanno percepito benefici economici, in linea con i minimi contrattuali proposti, nel quadriennio precedente. Quindi esiste un effetto trascinamento dei costi e una incidenza della contrattazione aziendale che non possono non essere considerati. Se questo è vero, occorrerebbe riflettere sulla necessità di costruire un sistema a vasi comunicanti che garantisca alle imprese una certezza dei costi nel quadriennio di riferimento con la disponibilità a intervenire per modificare gli squilibri provocati nelle imprese dalla contrattazione passata o da situazioni di crisi momentanee. Pensare però che questo possa avvenire con automatismi gestiti unilateralmente dalle aziende e non all’interno di deroghe e confronti tra le parti è una ingenuità e quindi un errore. Il CCNL nel quadriennio costerà lo stesso importo per tutte le imprese sia quelle che applicano il contratto del terziario di Confcommercio sia per coloro che dovessero applicarne un altro. Non ci saranno sconti o scorciatoie per nessuno anche perché i rischi di dumping tra imprese sono evidenti a tutti. Quindi non è su questo che si dovrebbe giocare la partita. Così come nessuno può pensare di rientrare nei fondi contrattuali gestiti da Confcommercio e dalle organizzazioni sindacali dopo esserne usciti accusando ingiustamente chi è restato e sbattendo la porta senza individuare modalità comuni, interessi in gioco, convenienze e percorsi credibili per tutti. Una matassa intricata, dunque. Inestricabile se sul tavolo permangono rancori, sospetti e atteggiamenti poco costruttivi anche perché nessuno può vantare diritti esclusivi di rappresentanza che non esistono e che la presenza di quattro contratti nazionali dedicati vanificherebbe di per sé… Inoltre è ormai chiaro che fare un contratto nazionale non è come fare un contratto aziendale, un po’ più grande. È un altro film. Forse qualcuno comincia a rendersene conto adesso. Le aziende della GDO, che si riconoscono in Federdistribuzione, ne hanno condizionati molti di quelli sottoscritti da Confcommercio negli anni e le esigenze vere delle imprese sono sempre stati tenute in grande conto. Come nell’ultima tornata. Quindi sarebbe molto più utile ricominciare da qui guardando avanti. E solo da qui partire per valutare se è come il confronto può essere effettivamente concluso in un comparto, tra l’altro senza esclusiva, o all’interno di una riflessione nuova, più ampia e condivisa in rapporto a ciò che sta evolvendo sul piano generale. Le organizzazioni datoriali hanno un ruolo solo se sanno interpretare le istanze delle imprese nel contesto dato. Per questo devono sapersi posizionare sempre un passo avanti per evitare che prevalgano atteggiamenti tattici o non dotandosi, di fatto, di una strategia a lungo termine. Il campionato è lungo però bisogna comprendere a fondo le regole del gioco, gli interessi in campo e gli obiettivi di ciascuno. I sindacati, datoriali o dei lavoratori, servono se affrontano e se riescono a risolvere i problemi dei propri associati di oggi ma anche di domani. Qui come altrove. Anche perché, come ricorda J.F.K. “non puoi costruire nulla con chi dice ciò che è mio è mio e ciò che è tuo è negoziabile”….
Contratto Federdistribuzione: una reazione scontata anche se sbagliata…
Leggendo, nei giorni scorsi, l’articolo di Cristina Casadei sul Sole 24 ore, devo dire che non mi sono sorpreso. Federdistribuzione e le Organizzazioni Sindacali di categoria non sono riuscite a individuare un percorso utile che li possa condurre alla firma del CCNL. Difficoltà più o meno analoghe sono sul tavolo della Distribuzione Cooperativa e di Confesercenti. Differenze di posizioni legittime quanto scontate. C’è chi li gestisce con maggior stile e sotto traccia e chi, no. La reazione “piccata” del vertice di Federdistribuzione era altrettanto prevedibile. Quando si deve rendere conto ad aziende, imprenditori e lavoratori che aspettano da mesi la firma del proprio contratto nazionale non ci si può limitare ad una semplice autocritica come, peraltro, sarebbe stato auspicabile. Occorre sempre qualcuno a cui dare la colpa. Siano essi i sindacati, o altre organizzazioni datoriali che hanno da tempo siglato il proprio contratto nazionale applicato, tra l’altro da molte aziende della GDO. Anche la decisione di corrispondere la prima tranche di quindici euro lordi era, tutto sommato, scontata. Prima o poi, si sapeva che i direttori risorse umane lo avrebbero consigliato ai propri Amministratori Delegati. Farlo in silenzio o in ordine sparso avrebbe rischiato di sconfessare i negoziatori e segnalato l’inevitabile presenza di falchi e colombe. È ovvio che ci sono aziende più sensibili perché in difficoltà e altre più portate a guardare il bicchiere mezzo pieno. Purtroppo questa situazione esporrà le aziende alle inevitabili reazioni legali e sindacali che caratterizzano questi irrigidimenti. Pur con ritardo l’aumento proposto corrisponde, di fatto, alla prima tranche prevista dal CCNL del terziario firmato, oltre un anno fa, da Confcommercio. Federdistribuzione poteva proporre di anticiparne quattordici o venti euro ma questo avrebbe comportato uscire definitivamente dal campo da gioco che, lo si voglia o no, resta comunque il perimetro del contratto nazionale del terziario di Confcommercio. È vero. Le aziende lamentano un problema di costo complessivo che non va sottovalutato. E non solo dai sindacati. Personalmente resto convinto, però, che non serva un altro contratto nazionale. Alla fine sarebbero quattro in un comparto di poco più di quattrocentomila addetti che fanno sostanzialmente lo stesso lavoro. Forse sarebbe meglio per tutti puntare ad un contratto unico prevedendo deroghe (come già peraltro previste dal CCNL di Confcommercio) e specificità garantite ai diversi comparti merceologici e quindi alle aziende stesse. Federdistribuzione ha un importante ruolo da svolgere nella difesa delle aziende della GDO. Lo faccia con la professionalità e la serietà che la contraddistinguono e che le sono riconosciute dalle aziende che vi aderiscono e non solo. Il punto vero però è che non si riesce a fare un contratto nazionale di lavoro specifico perché non ha più senso farlo. Non per colpa di qualcuno. Come non ha senso, a mio parere, nell’altro comparto, distributivo, continuare ad insistere con un contratto nazionale della distribuzione cooperativa. In futuro, sempre a mio parere, non dovremmo avere più di quattro contratti nazionali nel Paese (industria, terziario, agricoltura e artigianato). Non ha senso gestire il welfare contrattuale disperdendolo in mille rivoli, così come diritti, doveri, minimi contrattuali e declaratorie generali che sono sostanzialmente uguali per tutti nello stesso settore. E da un modello di questo tipo prevedere deroghe o specificità di comparto, territorio o azienda. E, se così fosse, come pensa di inserirsi Federdistribuzione in un confronto politico sindacale più ampio? Da sola? Il modello contrattuale su cui sembrerebbe insistere Federdistribuzione è decisamente datato e superato. Per questo rischia di non concretizzarsi. E questo al di là delle dietrologie di maniera. Comunque vada otterrebbe, al massimo, una vittoria di Pirro. Un contratto da mettere in archivio come un vecchio arnese del passato…. Meglio sarebbe che la partita del lavoro e del suo costo venisse gestita in un’ottica nuova, meno scontata e più in linea con le innovazioni che presto arriveranno sul terreno della contrattazione nazionale e dei suoi livelli. Magari rimettendo al centro i problemi veri delle imprese con i percorsi possibili. Capisco la volontà “autarchica” espressa da alcuni autorevoli esponenti della Federazione ma occorre che qualcuno capisca la necessità di guardare avanti impegnandosi a percorrere strade nuove nell’interesse delle aziende rappresentate, superando rancori e inutili verbosità che non rendono certo onore a chi li alimenta.