I social per migliorare le nostre città di Francesco De Lorenzis

È il dieci luglio, a Tor Bella Monaca l’afa si fa sentire e non poco, quando un gruppo di adolescenti si raduna davanti a un secchio dell’immondizia a riprendere i topi che sgambettano e nel mentre fanno la conta dei roditori qualcuno tra di loro in stretto slang romanesco dice “Ao, questo lo mettemo su Facebook, taggame”.
Quei ragazzi reporter erano ignari del grande servizio che stavano realizzando per il loro quartiere!
Quel video il giorno dopo diventa virale e “costringe” il neo Sindaco Raggi a recarsi direttamente nel quartiere per prendere coscienza della realtà e, forse, risolvere il problema.
È da questo significativo episodio, anche abbastanza squallido e desolante, che bisognerebbe ripartire per avviare quell’immensa operazione di riqualificazione che deve coinvolgere tutte le Città italiane.
Da un nuovo modo d’intendere i social e il loro utilizzo.
Da un moderno rapporto tra amministrazione pubblica e cittadino che sfrutti al meglio questi strumenti del web e le enormi potenzialità che ci offrono.
Perché va bene pubblicare il selfie con gli amici sulla spiaggia, così come meritano di essere immortalati e regalati alla rete i momenti più importanti della nostra vita, ma ancora più importante è contribuire con il nostro senso civico al mantenimento del decoro delle nostre Città.
Questo tipo di visione è già abbastanza sviluppata in altre zone d’Europa: a Jun, nel Sud della Spagna, per esempio oggi Twitter è il mezzo per prendere appuntamento con il medico o per presentare una denuncia, è il filo conduttore che tiene collegato José Antonio Rodriguez Salas., sindaco della cittadina, con i suoi funzionari e questi con i cittadini.
Un modello di comunicazione orizzontale che favorisce l’effettivo controllo sull’erogazione dei servizi e la partecipazione oltre che un considerevole risparmio per le casse del Comune.
È anche vero che alla segnalazione deve seguire un rapido e tempestivo intervento, altrimenti il “giochino” non funziona e l’amministrazione pubblica continua ad essere percepita come inefficiente e incapace di risolvere i problemi quotidiani dei propri cittadini.

Da mezzo… a luogo di Luigia Vendola

L’accesso alle informazioni e alla formazione, la condivisione delle attività e delle conoscenze, il monitoraggio delle proprie azioni e le reazioni on time dei propri clienti sono state stravolte dall’utilizzo pervasivo del digitale. L’uso dei canali digitali ha cambiato il pubblico e il privato delle persone, ha modificato i modi di relazionarsi, di lavorare, di reperire le informazioni e di formarsi.

Non ci si può sottrarre a quella che i media chiamano la Digital Transformation, ovvero a tutti quei cambiamenti che veicolati dall’evoluzione tecnologica che hanno modificato e continuano a modificare le dinamiche sociali.
La Digital Trasformation ha portato con se nuove dinamiche sociali e nuove competenze talmente importanti e delle quali non si può più fare a meno che nella Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006 , relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente troviamo tra le competenze chiave quelle digitali.

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Vorremmo che non fosse una tromba a svegliarci! di Francesco De Lorenzis

Siamo andati a dormire abbastanza sereni e ci siamo svegliati in un incubo!
Il Regno Unito è fuori dall’Europa.
La tanto temuta Brexit si è realizzata e gli effetti economici che ne conseguiranno ancora nessuno sembra essere in grado di prevederli con precisione. Le borse intanto sono crollate!
La prima conseguenza tangibile c’è: mentre il leader Farage e l’ex Sindaco di Londra Johnson esultano per l’esito del referendum, il principale sconfitto, il premier Cameron, si è dimesso.
Dalle prime analisi dei voti sembra che a scegliere di uscire dall’Europa siano stati gli inglesi che sono più avanti con l’età! Quelli che ancora prendono il tè alle cinque per intenderci…
Sono stati proprio gli ultrasessantenni a determinare la vittoria del #Leave, coloro che meno di altri sembrano aver subito quelle che sono le “ingiustizie” delle politiche di austerity per cui si è contraddistinta l’Unione Europea.
Perché se è vero come è vero che le politiche europee, su quasi tutte le materie, negli ultimi anni non si sono contraddistinte per lungimiranza e volontà di guardare al futuro, è pur vero che coloro che ne hanno subito gli effetti più pesanti sono i giovani, quelli che nonostante tutto continuano a credere nel grande progetto degli “Stati Uniti d’Europa”
E speriamo che il prossimo 9 novembre non sia uno squillo di tromba (Trump-et) a risvegliarci bruscamente perché allora davvero il futuro sarà pieno d’incertezze per tutti.

Intervista a Serena Buzzi di CFMT Formazione

Serena Buzzi, 33 anni da pochi giorni e da cinque in Cfmt. Nel 2015 ti è stato chiesto di rinnovare un percorso consolidato, importante e apprezzato dai nostri dirigenti quale era l’Accademia delle capacità manageriali. Il progetto prevedeva di rivedere i moduli formativi (tematiche, titoli, materiali, stile e approccio), la parte grafica e la comunicazione. Una sfida difficile ed impegnativa perché rinnovare una proposta che, tutto sommato, continua a funzionare non è mai facile.

Vediamo come è andata.

Serena, come si chiama e a chi è rivolto il nuovo percorso?

L’abbiamo intitolato Gymnasium manageriale, ed è rivolto a Dirigenti con un’esperienza professionale elevata che vogliono crescere in managerialità e leadership potenziando le capacità strategiche del ruolo ricoperto: gestione dei team, prendere decisioni, pensiero prospettico, orientamento ai risultati, creatività, networking, e gestione dei conflitti. Dal prossimo anno inseriremo un ulteriore modulo sull’errore come fonte di innovazione e crescita.

Come è organizzata la partecipazione al percorso?

Il progetto consta di 7 moduli formativi (1 giornata ciascuno), fruibili singolarmente, ovvero i Dirigenti sono liberi di partecipare a uno o più moduli, potendo recuperare le giornate mancanti in occasione di edizioni successive.

Quali strumenti vengono messi a disposizione dei partecipanti?

Prima di iniziare il percorso al Dirigente viene fornito un agile e sintetico strumento fruibile via web: la Bussola di orientamento, ovvero un questionario di auto verifica sulle competenze manageriali. In questo modo il Dirigente può comprendere come aderire alla proposta formativa per ottenere il massimo valore aggiunto possibile.

A circa un mese da ogni giornata d’aula, e quindi dopo aver acquisito tecniche e strumenti pratici con cui lavorare fin da subito, per chi ne farà richiesta, sarà possibile fissare un incontro di coaching individuale con il docente di ciascun modulo (effettuabile anche tramite Skype) nel quale verificare i progressi ottenuti e concordare una strategia di consolidamento. Infine, a chiusura del percorso, i partecipanti al 90% delle attività proposte, avranno la possibilità di compilare un nuovo questionario comportamentale (assessment a distanza)in grado di fornire un confronto con il profilo emerso originariamente dalla bussola, di fatto una verifica oggettiva del livello di miglioramento raggiunto.

Qual è il bilancio dopo due anni di cambiamento?

Abbiamo attivato 6 edizioni dell’intero percorso, di cui 4 a Milano e 2 a Roma, per un totale di 42 giornate d’aula, più di 100 coaching individuali, coinvolgendo 134 dirigenti partecipanti. Due edizioni sono attualmente in corso e si concluderanno entro l’anno.

Come è stato il riscontro dei partecipanti?

Il percorso, nel suo complesso, ha ottenuto un ottimo successo. Sia i report di feedback che le survey conclusive, ci dicono che per quanto riguarda la parte contenutistica, organizzativa e strutturale, le aspettative dei partecipanti sono state soddisfatte. In particolare sono stati molto apprezzati: la buona panoramica su aspetti “non tradizionali” del management, il metodo interattivo, la varietà delle modalità di docenza, e il coaching individuale. Inoltre molti dirigenti ci hanno poi riferito di aver utilizzato in contesto aziendale, con il proprio team, concetti e strumenti appresi in aula, confermando l’utilità e la concretezza della nostra formazione. Tutti i feedback raccolti sono sempre condivisi con tutta la Faculty: il lavoro di aggiornamento sui moduli tematici è continuo sia per ritarare eventuali incoerenze, sia per approfondire nuovi stimoli sorti in aula.

Da quali settori provengono i partecipanti e quanto costa partecipare a questo impegnativo percorso?

I partecipanti provengono dalle imprese del terziario di diverse dimensioni. I settori principali sono: tecnologia, servizi alle imprese, turismo, consulenza, logistica e grande distribuzione. I nostri partecipanti sono i Dirigenti a cui viene applicato il Contratto Nazionale del Terziario, firmato da Manageritalia e Confcommercio, che prevede il versamento a Cfmt di una quota annuale di 125 euro a carico del dirigente e una quota analoga a carico dell’azienda. Questo consente al Dirigente di partecipare a tutte le iniziative che ritiene utile per il suo percorso professionale, e alle aziende di costruire con noi percorsi su misura.

Come hai lavorato al progetto?
Il lavoro di riprogettazione è stato portato avanti a stretto contatto con la Faculty del progetto: i docenti sono tutti professionisti con cui collaboriamo da anni e con cui si è creato un rapporto di fiducia e stimolo reciproco. Per poter continuare a rispondere al meglio alle esigenze dei nostri partecipanti è molto importante mantenere aperto un dialogo critico e propositivo. Inoltre con le colleghe della Scuola di management abbiamo un confronto quotidiano, che ci permette di avere sempre una visione amplia e completa delle proposte formative attivate e del riscontro dei nostri partecipanti.
Per chi volesse saperne di più?
E’ possibile scaricare la brochure completa del percorso, e navigare sul nostro sito ( http://www.cfmt.it  ) per cominciare a conoscerci.

Ecologia integrale, non integralismo ecologico di Raffaele Morese

Non mi meraviglierei se Laudato si’ fosse proposta come libro di testo per la preparazione di qualche esame universitario. Né che battesse ogni record di traduzione nelle lingue parlate nel mondo (con relativo collocamento nella “top ten” delle librerie). E neppure che ci fossero tentativi di farlo diventare un manifesto di parte. Mi meraviglierei se l’enciclica raccogliesse soltanto consensi, se – anche nella Chiesa – la si coprisse con una montagna di cemento armato, come si fa con gli impianti nucleari incidentati, se fosse considerata soltanto un’opinione piuttosto che un magistero.

Laudato si’ si colloca come “pietra d’angolo” della visione planetaria della Chiesa, prendendo di petto le questioni che meritano priorità ed i soggetti che devono agire, nel presente, per renderela Terra, “la casa comune” più vivibile, più giusta, più umana. Ma soprattutto per preservarla dalla possibile catastrofe. Che non è soltanto ecologica ma anche sociale. Degrado ambientale e vita dei più poveri sono sempre visti come un tutt’uno, senza gerarchizzazione ma certamente compenetrazione. Proprio per questo, l’accento posto sull’ecologia integrale la preserva da ogni rischio di integralismo ecologico.

Ma nello stesso tempo, la questione del “tutto si tiene”, al punto che l’ecologia è coniugata in ambientale, economica e sociale (138 e seguenti), colloca i due corni del problema – l’ambiente e l’indigenza, il rifiuto consumistico e lo scarto umano – ad un livello di superiorità mai finora posto con tanta determinazione. Il fatto che in gioco sia il Creato (parola che con Creazione e Creature ricorre il maggior numero di volte nel testo, conteggio riportato dal settimanale Vita luglio 2015) e quindi non solo la natura ma anche l’uomo, sollecita Papa Francesco a lanciare l’allarme, a scuotere le coscienze, a proporre un pressante impegno per esercitare la responsabilità individuale e collettiva.

L’uomo è chiamato a “coltivare e custodire il Creato” (genesi 2,15). Se questo è il fine, non solo per i credenti, l’enciclica ci obbliga ad interrogarci su come evitare che succeda il contrario. Perché è incontrovertibile che sta succedendo l’indesiderato. E non a caso. La ricetta è lo sviluppo sostenibile? Ma si potrà mai agguantarlo senza porre dei limiti all’espansionismo tecnologico, alla concentrazione del possesso finanziario, alla crescita dei capitali impazienti? Non sarà, forse, una scorciatoia la velleità di una decrescita (felice o infelice, non importa) che – come il socialismo – se fatto in un solo Paese e non a scala planetaria, potrebbe produrre brutte copie di totalitarismi di triste memoria?

Lo sviluppo sostenibile e integrale è la terza via più ragionevole, dopo il fallimento delle economie pianificate e l’asfissia progressiva dell’economia di mercato. Esso ha bisogno di una strutturata visione non convenzionale del benessere, di una forte ridistribuzione del lavoro e della ricchezza tra i popoli e all’interno di ciascuno di essi, di un capitalismo che non ricerchi il massimo guadagno nel più breve tempo possibile, come pretende il rampantismo finanziario che razzola nel mondo, in modo da favorire investimenti possenti proprio nell’area dei “beni comuni” ben individuati dall’enciclica (23 e seguenti), come i volani della di una rottura di continuità con le logiche dominanti e che portano al disastro.

La politica è chiamata pressantemente a rendere conto della sua fragilità propositiva e della scarsa egemonia nei confronti della tecnologia e della finanza. L’enciclica non è diplomatica al riguardo. Ma non è tacciabile di antipolitica(196); anzi, le riconosce un grande ruolo di leadership (53) specie a livello internazionale. Purtroppo, viene da osservare che la politica esprime sempre di più un deficit di visione lunga, di cristallinità nella sua azione, di formazione di classe dirigente capace di governare il presente pensando al futuro. Così alimenta populismi e disaffezioni che a loro volta lasciano spazi enormi al consolidamento del paradigma tecno-economico.

Da ciò il giusto riconoscimento della necessità di “educare all’alleanza tra umanità e ambiente” (209 e seguenti). Non si può dare per scontato che ciò stia avvenendo diffusamente. Per questo, i mondi della scienza, dell’educazione e della comunicazione sono direttamente coinvolti dalla sollecitazione papale. Nell’enciclica si tirano giù, verso la realtà, questi mondi ed è sperabile che essi rispondano all’appello e non che, dall’alto dei loro saperi e poteri, si rinchiudano nell’antropocentrismo moderno, come se fosse la loro rassicurante coperta di Linus (115 e seguenti).

Ma il destinatario principale di questa enciclica è il povero, come rappresentante cardine di un’umanità intera a rischio di catastrofe. Un povero che non deve subire, che deve agire (232), che deve conoscere (182), deve lottare per un lavoro dignitoso (128), che non va abbandonato, come uno scarto qualsiasi. E così, da essi risale alla responsabilità di ciascuno di noi. A ragione. Abbiamo tutti compartecipato a costruire le condizioni per accrescere le ricchezze di questo mondo, per produrre di più e meglio, per allargare le opportunità di benessere, grazie all’inventiva, alla scienza e alla laboriosità delle persone. Ma abbiamo sostanzialmente fallito, almeno finora, nel ridistribuire equamente tanto sviluppo. E il fallimento si protrarrà pericolosamente fintanto che individualmente non prendiamo coscienza che occorre correggere profondamente i nostri stili di vita, le nostre priorità esistenziali, la nostra percezione dell’altro, specie se più debole.

La gratitudine verso lo “schiaffo” di Papa Francesco sarebbe poca cosa se non fosse accompagnata dalla consapevolezza che ciascuno di noi può dare il proprio contributo per avere “gioia e pace”.