La mosse di Amazon nella distribuzione. Il 2025 si aprirà con l’Italia?

Amazon in Italia fa sul serio. Dal 2010 ha investito oltre 20 miliardi di euro, di cui più di 4 miliardi solo nel 2023. Entro la fine del 2024 arriverà a circa 19.000 dipendenti a tempo indeterminato, distribuiti nelle oltre 60 strutture in tutta Italia che includono sedi logistiche, uffici corporate, data center e il servizio clienti. Mille in più rispetto a quanto annunciato lo scorso anno, confermandosi come uno dei principali creatori di posti di lavoro del Paese. E senza parlare dellindotto creato nella logistica, nelle costruzioni, oltre ad altre attività di servizi.

Quest’anno in Messico, nel food,  è nata una collaborazione che conferma e rilancia una possibile strategia globale  tra la startup di consegna a domicilio sto e Amazon.com. “Jüsto sarà la proposta di prodotti e generi alimentari di Amazon in Messico. “È una delle poche volte in cui Amazon ha lasciato tutta l’esperienza del cliente a terzi, quindi siamo molto entusiasti”. ha detto Ricardo Weder, che ha fondato Jüsto nel 2019. In Germania Amazon ha annunciato un nuovo investimento di oltre 10 miliardi di euro e 4.000 nuovi posti di lavoro entro il 2026. A quella data Amazon dovrebbe impiegare almeno 40.000 persone. Questo stanziamento segue altri investimenti significativi, confermando che il Paese tedesco è al centro della strategia europea del colosso americano.

Sul food i clienti Amazon Prime nellarea di Berlino sono in grado di acquistare da Knuspr direttamente su Amazon, godendo dell’intera gamma di 15k prodotti, consegnati a casa loro entro 3 ore. Dietro c’è Rohlik, che opera con il marchio Knuspr.de in Germania, che  ha dichiarato di avere in programma di operare in più di una dozzina di città tedesche nei prossimi anni dopo aver già lanciato a Monaco, Francoforte e, più recentemente, Berlino.

Non a caso, pochi giorni fa Amazon ha annunciato che chiuderà Fresh affidando i suoi clienti che vogliono fare la spesa alimentare proprio  a Knuspr (e ad un altro partner). A mio parere stiamo assistendo a un riposizionamento complessivo di Amazon nel food. Il vicepresidente di Amazon Grocery International, Ganesh Rao, ha affermato: “Siamo entusiasti di offrire le consegne di generi alimentari Knuspr ai nostri membri Prime in Germania. Knuspr offre un vasto assortimento focalizzato a livello regionale e consegne rapide e flessibili e questa partnership rafforza il nostro impegno nel riunire prezzi bassi, vasta selezione e opzioni di consegna rapida che i clienti Amazon conoscono e amano”. 

La partnership si basa sulla solida crescita in Europa del gruppo Rohlik, società madre di Knuspr.  Con oltre un milione di ordini mensili, Rohlik è sulla buona strada per superare 1 miliardo di euro (1.07 miliardi di dollari) di fatturato entro la fine del 2024.  Il fondatore e CEO di RohlikGroup, Tomas Cupr, ha affermato: “Questa partnership offre ai membri Prime l’accesso al nostro vasto e unico assortimento, risparmiando tempo e garantendo al contempo praticità e qualità.  Mentre Knuspr.de continuerà a servire direttamente i clienti, questa collaborazione mira ad espandere la portata di Rohlik e a rafforzare la sua posizione nel mercato tedesco”. Aggiungo che ad agosto di quest’anno, Amazon ha inaugurato un nuovo hub di micromobilità a Berlino, segnando un’importante espansione del suo servizio di consegna di merci tramite biciclette elettriche.  Leggi tutto “La mosse di Amazon nella distribuzione. Il 2025 si aprirà con l’Italia?”

Despar Nord punta alla sostenibilità e alla valorizzazione delle comunità locali.

A Castelfranco Veneto è stato inaugurato un nuovo punto vendita Interspar da parte di Despar Nord.  È una esperienza interessante che tenta di  rispondere in modo diverso alle logica del “non luogo” che  Marc Augé identifica oltre che negli aeroporti e nelle stazioni anche anche nei supermercati e nei centri commerciali. Situazioni  a cui si accede e si è riconosciuti solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, o carta di credito che sia.

Despar rilancia su alcuni elementi distintivi: valorizzazione dei prodotti locali, lavoro nel territorio, sostenibilità e integrazione nella comunità grazie alla strategia di insegna messa in campo. Despar nord vanta oltre 550 punti vendita Despar, Eurospar e Interspar in Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Emilia Romagna e Lombardia. Un punto vendita innovativo e sostenibile che si estende su 2.500 mq e impiega 96 collaboratori. Il nuovo store di Despar Nord cerca di offrire al cliente un’esperienza di acquisto facile e accessibile, all’insegna della qualità e della convenienza.

Sulla valorizzazione dei  prodotti locali, è la linea  “Sapori del Territorio”, che recupera e propone i produttori locali e i loro prodotti tipici. Tra le realtà locali coinvolte ci sono il Birrificio Barch, il Panificio Pandolfo, Treviso Tiramisù, Caseificio Lia, il Salumificio Casa Cason, la Tenuta Amadio e molti altri produttori veneti, veri artigiani del cibo. Sul fronte occupazionale le occasioni di lavoro creato localmente superano l’80% degli addetti. Un segno ulteriore di integrazione importante per la comunità.

Un altro esempio recente è il lavoro che Despar ha fatto in occasione della Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti (SERR) chiusa recentemente dove ha promosso una serie di incontri in collaborazione con LAST MINUTE MARKET – IMPRESA SOCIALE S.R.L. e oltre 170 onlus locali per rafforzare la rete di recupero delle eccedenze alimentari.  Un impegno concreto che nel 2023 ha permesso a Despar di trasformare ben 563 tonnellate di prodotti invenduti in quasi 1,2 milioni di pasti per chi ne ha più bisogno. La riduzione dello spreco alimentare ha due effetti significativi: aiutare gli ultimi e contribuire a un futuro più sostenibile.

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MD apre un temporary shop nel cuore di Milano.

Per poche decine di metri il temporary shop di MD non è nel salotto di Milano. È comunque all’interno di un perimetro esclusivo. Neanche Esselunga è mai riuscita ad entrarci. È una presenza paradigmatica di ciò che oggi è il rapporto tra i cosiddetti discount e la grande distribuzione tradizionale. Non li hanno vista arrivare, si potrebbe dire. MD si è fisicamente incuneato tra la libreria Hoepli e il bar Ravizza. Anzi occupa una parte dello stesso bar. È un segnale, l’ultimo in ordine di tempo,  che non c’è più alcuna sudditanza psicologica.

Altri segnali l’hanno preceduto. Lidl che rompe sul CCNL stanca dei tira e molla di Federdistribuzione mentre afferma  la sua leadership smentendo la retorica della multinazionale che non capisce il nostro Paese e, infine  Eurospin che, secondo Mario Gasbarrino è “il supermercato della nuova classe media italiana”. Segnali evidenti che è un errore da matita blu considerare quel mondo figlio di un dio minore. Tra l’altro anche l’apertura del temporary è stata caratterizzata dalla solita confusione dell’ultimo minuto che precede le classiche aperture delle superfici più grandi. Non si sono fatti mancare nulla. Nemmeno la confusione.   Altro segnale di un’evoluzione del modello.

MD, da parte sua, aveva già stabilito un record già al suo apparire nel 1994. Il suo dominus Patrizio Podini è stato il primo imprenditore del nord che è riuscito a costruire una bella impresa partendo dal sud. Nessun altro prima e dopo di lui. Oggi quella terra è nota per un altro fuoriclasse: Jannik Sinner nato anche lui da quelle parti, sessantadue anni dopo. Ma tant’è.

MD, pur avendo qualche punto vendita in città, (ri)entra a Milano dalla porta principale seppure con un temporary shop. La stessa Conad ha preferito non ingaggiare un braccio di ferro con Esselunga quando ne avrebbe avuto l’opportunità. I Podini lo fanno con una insegna,  che  i milanesi non conoscono. Per questo non è solo un negozio, è una sfida. MD, in città, se non fosse per la pubblicità televisiva, sarebbe sconosciuta ai più, con questa mossa, però provoca, si distingue  e  alza il tiro. Lo aveva già fatto con la pubblicità interpretata da Herbert Ballerina (“Ma è tale e quale!”) fatta ritirare dalla diffida di  Centromarca ma anche con “Almeno provalo!” che l’ha seguita. 

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Due top manager della GDO internazionale a confronto. Chi ha vinto e chi ha perso..

Quando posso cerco di proporre  cosa c’è dietro le decisioni, i successi o gli  insuccessi delle aziende. Ovviamente è il mio opinabile punto di vista. A me piace parlare di  persone. Colleghi, top manager nazionali e internazionali che propongono progetti, realizzano obiettivi e contribuiscono, con il loro lavoro, a determinare i risultati. E le difficoltà che incontrano. Quando Tony Hoggett ha lasciato Tesco e l’anno successivo, Rami Baitiéh, Carrefour France ho scommesso sul successo di entrambi. I risultati e i rispettivi curricula parlavano per loro. Il primo arrivava a capo dei negozi fisici di Amazon nel food con il compito di ridisegnarne ruolo e prospettive. Il secondo lasciava Carrefour per rilanciare Morrisons in grande affanno in Inghilterra. Tony Hoggett non ce l’ha fatta. Ha gettato la spugna dopo tre anni. Rami Baitiéh ha, per ora, vinto la sua sfida. Ma procediamo con ordine.

Hoggett era convinto che il problema dell’azienda di Seattle nel food fosse proprio crescere nei negozi fisici.  Lo pensavano in molti. Compreso il sottoscritto. L’acquisizione di Whole Foods avvenuta nel 2017 era vista come il primo passo a cui ne sarebbero seguiti altri. Con la scelta di Hoggett Amazon sembrava segnalare la sua intenzione di voler competere con i più forti retailer sul loro terreno. Non solo sul fronte della tecnologia o dell’e-commerce. L’altra gamba sarebbe stata la “piccola” Amazon Fresh da rilanciare. Si discuterà a lungo su chi ha sbagliato. Se è stato Hoggett che ha creduto  possibile “trascinare”  il gigante di Seattle ad imboccare una  strategia di espansione tradizionale nel retail fisico, visto il contesto competitivo, soprattutto negli USA o Amazon a rendersi conto che quella strategia, pur interessante, non fosse compatibile con la propria visione e natura.

Amazon, non è mai sembrata intenzionata ad impegnarsi in una gara complessa a colpi di acquisizioni per competere negli USA e non solo con Walmart, Aldi e compagnia, sul loro terreno. E temo che, pur dopo aver accarezzato l’idea e averlo ingaggiato, non ha mai creduto fino in fondo alla strategia propugnata da Hoggett. Nelle multinazionali succede. Resta l’obiettivo di voler di cambiare radicalmente il modo di fare la spesa. È il percorso che cambia. Amazon resta ancorata all’online e alla tecnologia con l’obiettivo di soddisfare il cliente. Difficile cambiare natura.

Per questo l’oggetto dello scontro non poteva essere che Whole Foods e la sua funzione complementare nell’eco sistema. Ancora oggi il 95% dei suoi clienti è costretto, se vuole  acquistare prodotti CPG, ad andare altrove. Da qui, credo,  la mediazione, nata poco prima dell’addio dell’ex Tesco, che probabilmente voleva quei prodotti sui lineari e una maggiore integrazione con Amazon Fresh  e Jason Buechel che non li voleva. Per chi avesse dubbi basta andare sul sito di Whole Foods dove si legge: “orgogliosi di ciò che vendiamo e ancora di più di ciò che non vendiamo”. La mediazione tra le differenti visioni fu di portare i prodotti Whole Foods nei negozi Amazon Fresh (ma non il contrario), testare  punti vendita più piccoli in alcune realtà e costruire un  micro centro di evasione ordini collegato a una sede di Whole Foods nel sobborgo di Filadelfia di Plymouth Meeting, in Pennsylvania operativo a fine 2025 destinato ad aggiungere costi anziché razionalizzarli. Di fatto un test di grande interesse tecnologico e logistico in grado di esaltare le peculiarità dell’azienda di Seattle. Leggi tutto “Due top manager della GDO internazionale a confronto. Chi ha vinto e chi ha perso..”

Il panettone? Buono buono ma… caro caro

Il panettone, tipico dolce natalizio di Milano, ogni anni finisce sotto i riflettori per qualche motivo. C’è chi, ogni anno, si inventa, in estate,  l’idea di destagionalizzarlo.  Poi gli passa. Sulla riviera emiliana qualche tedesco lo mangia con il gelato in agosto e subito dopo vengono spesi fiumi di inchiostro sul business potenziale. A settembre l’idea rientra pronta a essersi rimessa in circolo l’anno successivo. Altrove non è così. In Perù il panettone si mangia durante le Fiestas Patrias peruanas, le festività dell’Indipendenza nazionale che ricorrono il 28 e il 29 luglio. E lì,  il 6% della popolazione, consuma il panettone in ogni periodo dell’anno per festeggiare diverse ricorrenze come i compleanni e altre occasioni.

Per i milanesi il panettone è una cosa seria. Vedere tutto questo chiasso inutile intorno ad un’abitudine che dura per noi un mese e mezzo circa  da un po’ fastidio. Il panettone  si compra a Natale e i resti si trascinano in un sacchetto nella dispensa fino a San Biagio,  il 3 febbraio, quando è tradizione mangiare un pezzetto di panettone benedetto avanzato da Natale, per tenere lontano i malanni e proteggersi dal mal di gola. Ovviamente ci rendiamo conto che il panettone ormai non riguarda solo noi milanesi.

Secondo l’Unione italiana Food, la produzione  è calata  da 33.628 tonnellate a 31.947 nell’arco di un anno mentre in termini di valore ha registrato una lieve crescita da 216,9 a 223,4 milioni di euro. L’export poi dei prodotti da ricorrenza rappresenta il 19% del totale. Ben  oltre il 90% degli acquisti passa attraverso la grande distribuzione. Il resto è coperto  dal comparto artigianale (pasticcerie e acquisti offline o online). Pur essendo un prodotto tipicamente milanese (o comunque espressione del Made in Italy) non siamo noi i maggiori produttori al mondo. A detenere il primato è il Brasile, con una produzione media annua di 200 milioni di pezzi. Il secondo posto nella classifica mondiale spetta al Perù, mentre all’Italia tocca la medaglia di bronzo, guadagnata con 50 milioni di pezzi l’anno.

Tra l’altro non è milanese e neppure italiano il pasticcere che ha vinto la “Coppa del mondo del panettone” 2024. È la  pasticceria Sucal di Barcellona che ha vinto il concorso per il miglior panettone del mondo, in una rassegna tenutasi a Milano, a Palazzo Castiglioni, dall’8 al 10 novembre. Cloudstreet Bakery, di Tonatiuh Cortés ha conquistato il primo posto davanti agli italiani Pasquale Pesce e Maurizio Sarioli. È la prima pasticceria straniera a vincere il riconoscimento. Questa edizione della Coppa del Mondo del Panettone 2024 è la quarta dall’istituzione del concorso. Un solo lombardo finalista.  Maurizio Sarioli della Forneria Il Pane di Brescia. Leggi tutto “Il panettone? Buono buono ma… caro caro”

Ma nella GDO, servono ancora i Direttori Risorse Umane?

È di qualche giorno fa il comunicato interno di Esselunga che chiude il rapporto con la  Direttrice Risorse Umane, in azienda da circa sei mesi. È la  seconda in poco tempo. Quello precedente era durato poco di più. La posizione è, di fatto, coperta ad interim dall’AD. La domanda (retorica) quindi nasce spontanea. È una figura inutile quella del DHR nella GDO, lì come altrove, o come si dice in questi casi, a Huston (Pioltello) continua ad esserci un problema? Esselunga è una delle più performanti realtà della GDO nazionale. E lo è, visti i premi e i riconoscimenti che continua a raccogliere praticamente ovunque e nonostante  il turn over di sede, gli avvicendamenti nell’organigramma, le difficoltà logistiche con i conseguenti problemi esplosi nel 2024 con i sindacati di base in Toscana, a Biandrate e a Pioltello. È un caso a sé?  È l’eccezione che conferma la regola  o segnala un problema più generale destinato ad emergere sempre più nella Grande Distribuzione?

Esselunga nel mio “Top Five Billion Club” (le cinque realtà più importanti della GDO) insieme a LIDL è quella con il perimetro aziendale  più definito. Pur disturbata da qualche concorrente locale e da quelli che qualcuno si  ostina a chiamare discount resta la lepre da inseguire. Inutile girarci intorno è ancora la prima della classe. Non è così nelle Risorse umane. Perso Luca Lattuada, ottimo professionista, memoria storica e punto di riferimento per l’intera categoria,   a quel livello nella GDO ne restano quattro: Paola Accornero in Carrefour, Sebastiano Sacillotto in Lidl, Angelo Pigatto in Despar e Piero Pisoni in Penny. Nessuno, credo, disponibile a muoversi. Ovviamente ce ne sono anche altri in crescita di ruolo ma preferisco sottolineare quelli che rappresentano la solidità di un DHR che ha voce in capitolo nei rispettivi  comitati di direzione. O comunque molto ascoltati dai CEO. Non solo bravi professionisti. Stiamo parlando di Esselunga. L’autorevolezza è il primo problema.

C’è un vecchio libro francese per chi vuole andare controcorrente con un titolo che non lascia dubbi: “Tous DRH”. La prima edizione è del 2001. Scritto  da Jean-Marie Peretti, professore di Gestione delle Risorse Umane all’ESSEC e all’Università della Corsica. È una sorta di manuale rivolto a manager e dirigenti di linea. Lo scopo è fornire conoscenze teoriche e pratiche e competenze che consentano, a chi gestisce persone nelle organizzazioni e indipendentemente dal loro ruolo aziendale di assumere le sembianze di un provetto “direttore delle risorse umane” dei propri dipendenti (senza esserlo). In fondo cosa ci vuole? (devono averlo pensato anche in Esselunga …).

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Sostenibilità, proteine vegetali e Grande Distribuzione. Chi tira la volata in Europa

Da tempo, in Europa si discute sulla necessità di diminuire l’utilizzo delle proteine animali per incrementare quelle  vegetali. Sicuramente, la guerra in Ucraina e i rischi legati alla sicurezza alimentare hanno contribuito a rafforzare l’idea di una strategia da coniugare agli obiettivi del Green Deal. La sostenibilità ambientale in agricoltura si fa quindi sempre  più importante per ridurre le emissioni di gas serra nel medio e nel lungo periodo. Una transizione di massa è però ancora lontana.

Secondo uno studio di Madre Brava, mentre ciascuno dei 15 maggiori supermercati europei ha fissato degli obiettivi per ridurre le emissioni derivanti dalle vendite di prodotti alimentari, solo cinque si sono impegnati ad aumentare le vendite di proteine vegetali. Nella GDO sono Lidl e Ahold Delhaize in gara per diventare i primi rivenditori al mondo ad allineare le vendite di proteine agli obiettivi climatici. Albert Heijn, una sussidiaria di Ahold Delhaize, ha deciso di portare  al 60% di tutte le vendite di proteine vegetali entro il 2030, come parte di un impegno più ampio da parte dei rivenditori olandesi. Uno degli elementi a vantaggio di Lidl e Ahold Delhaize è il fatto che hanno sede in paesi da tempo  “in prima linea nella transizione proteica a livello globale”, afferma Nico Muzi Managing Director a Madre Brava.

C’è poi l’imperativo climatico. “Dato che carne e latticini sono le maggiori fonti di emissioni nelle attività di un supermercato, gli obiettivi per riequilibrare le vendite di proteine sono una mossa fondamentale anche per raggiungere gli obiettivi climatici net zero”, spiega. Anche Aldi Nord, che opera nella Germania settentrionale, orientale e occidentale e in altri sette paesi dell’UE, proprietaria  di Trader Joe’s negli Stati Uniti, si è impegnata a raggiungere un obiettivo di transizione proteica 60/40 entro il 2030, ma solo nei Paesi Bassi. Altrove, Carrefour e Tesco hanno fissato degli obiettivi per aumentare le vendite di prodotti vegetali, ma senza mirare necessariamente a una riduzione dei prodotti animali.

Sotto questo aspetto è necessaria una certa cautela per evitare che le coltivazioni e gli allevamenti vengano delocalizzati fuori il mercato unico europeo, dove gli standard ambientali e di salute e sicurezza sono meno stringenti – altrimenti si rischia  comunque di vanificare comunque gli obiettivi green. In effetti, i Paesi Bassi sono in prima linea in questo movimento, con 11 supermercati locali che si sono impegnati a raggiungere un obiettivo 60/40 entro il 2030. Oltre ad Albert Heijn e Lidl, tra questi figurano anche Aldi Nord, Jumbo e Plus, tra gli altri. L’aumento della domanda di alimenti di origine vegetale ha portato anche a una riduzione degli acquisti di prodotti di origine animale: le vendite di carne sono diminuite del 16,4% nei supermercati olandesi dal 2020 al 2023. Leggi tutto “Sostenibilità, proteine vegetali e Grande Distribuzione. Chi tira la volata in Europa”

Alla fine dei giochi, vincerà il low cost?

Mentre da noi la discussione prevalente ruota intorno alla futura quota destinata ad essere occupata dai discount, della lenta avanza dell’online, dalla crescita degli specializzati  e dalla capacità di risposta della grande distribuzione tradizionale, altrove si stanno ponendo problemi più sistemici. Il punto è capire dove stiamo andando. Certo l’Italia ha le sue specificità soprattutto se parliamo di consumi alimentari però ci sono segnali inequivocabili che il futuro del commercio in generale e della grande distribuzione in particolare saranno caratterizzati in buona parte dal low cost inteso a 360° (lavoro, gestione punto vendita, back office, prezzi, ecc.).

Invecchiamento e difficoltà  della popolazione locale, immigrazioni da Paesi poveri, concorrenza delle piattaforme cinesi spingono i grandi player internazionali a serrare le fila e a ripensare al loro futuro. Questo non significa che non esisterà spazio per nicchie di popolazione, più o meno grandi, dove resterà una capacità di spesa importante ma è bastato il campanello dell’inflazione e delle tensioni geopolitiche per far comprendere che la “ricreazione è finita” e che nulla tornerà come prima. Ma è chiaro che, soprattutto il commercio tradizionale generalista, dovrà farci i conti.

Gli USA, sotto questi aspetti,  sono ritornati ad essere una delle grandi aree di sperimentazione.  Vuoi perché lì i modelli di consumismo sono arrivati all’estremo possibile, vuoi perché resta un Paese di grandi differenze territoriali e culturali, quindi di contraddizioni sociali evidenti. Senza sottovalutare che, anche  nell’altro grande contendente, la Cina, destinato sempre più ad essere il principale competitor mondiale, nascono idee, sperimentazioni, innovazioni  tecnologiche applicate al commercio, alle piattaforme (TikTok, Temu, Alibaba per citare le più note) e strategie di esportazione che  contribuiscono a cambiare gli scenari nel lungo periodo.

I 30 maggiori produttori cinesi di videogiochi rappresentano il 18% delle vendite globali del settore al di fuori della Cina. Le app di e-commerce collegate alla Cina hanno avuto un successo simile. Si ritiene che Shein, che vende vestiti economici, principalmente agli americani, abbia venduto capi di abbigliamento per un valore di decine di miliardi di dollari l’anno scorso. Temu, che ha sede a Boston ma è di proprietà del gigante cinese  Pdd Holding (che controlla anche Pinduoduo, piattaforma cinese per la vendita online di prodotti a basso prezzo, che ha raggiunto un utile netto circa 4 miliardi di euro e il fatturato è salito a quasi 12 miliardi di euro).

La risposta di Amazon, non si è fatta attendere.  È così, dopo “Amazon Saver” sui prodotti alimentari essenziali a basso costo, è arrivato “Haul”. Per ora in beta test negli USA. Per i boomer come il sottoscritto, “Haul” nel gergo social significa, più o meno, fare bottino (a prezzi stracciati) di vestiti o altro in rete. Il gigante di Seattle  gli ha dedicato una sezione di shopping della sua app e del suo sito con una selezione di proposte al prezzo inferiore a 20 dollari, “con la maggior parte inferiore a 10 dollari” e alcuni a partire addirittura da 1 dollaro. Gli sconti maturano man mano che gli ordini crescono. Mentre l’assortimento di questi articoli a basso prezzo abbraccia categorie, tra cui moda, casa, stile di vita, elettronica e altro, per questi ordini Amazon si è dovuta allontanare per forza dal suo modello di consegna rapida, indicando, per “prodotti con prezzi ultra bassi” da una a due settimane.

L’esperimento è ovviamente una risposta a Temu e ad altri mercati cinesi in rapida crescita. Amazon più che la concorrenza nei negozi fisici deve stare attenta ai nuovi arrivi in rete e quindi  decide di correre il rischio di vedersi  cannibalizzare le altre sue vendite, ritenendolo comunque preferibile alla perdita di quote per l’incalzare di questi concorrenti. Ricerche recenti mostrano che i consumatori statunitensi confermano  di fidarsi di più di Amazon rispetto a Temu, ma che stanno comunque facendo sempre più acquisti su Temu. Circa il 17,5% degli intervistati globali a un sondaggio della società di software di marketing Omnisend ha dichiarato di pensare che il sito cinese potrebbe addirittura superare Amazon come piattaforma di e-commerce leader. Leggi tutto “Alla fine dei giochi, vincerà il low cost?”

Chiude a Venezia il Fondaco dei Tedeschi

Il giorno dell’inaugurazione del Fondaco dei Tedeschi, nel 2016 a Venezia,  c’ero. Il palazzo il cui nome deriva dal rapporto che  le popolazioni di lingua tedesca avevano con Venezia è affacciato sul Canal Grande vicinissimo al Ponte di Rialto visibile dalla spettacolare terrazza. Mi aveva invitato Roberto Meneghesso un ex collega e amico dei tempi di Rewe Italia AD di DFS Italia che lo aveva costruito pezzo per pezzo, scegliendo persona per persona, partendo da un progetto sulla carta. Ci aveva messo l’anima. Il 29 settembre non stava più nella pelle quando annunciava con le chiavi in mano: “È un privilegio e una grande responsabilità essere qui” con al suo fianco l’architetto Alberto Torsello e l’ingegnere Federico Zaggia. Roberto è sempre stato così. Dove è stato ha sempre trasmesso entusiasmo e determinazione a tutte le squadre che gli sono state affidate. Stanchissimo per le problematiche incontrate nel totale rispetto dei luoghi che hanno preso il sopravvento sulla parte commerciale. Felice per averle superate. Certo di poter rappresentare un volano per l’economia cittadina. Era la persona giusta al posto giusto.

C’ero anche il giorno che ha lasciato. Fosse dipeso da lui non l’avrebbe mai fatto. I progetti del Gruppo prevedevano accelerazioni impossibili in quel contesto. Lì ho capito subito che il management del Gruppo francese Louis Vuitton Moët Hennessy (LVMH) del miliardario Bernard Arnault e di  DFS la loro società di gestione non avevano compreso la complessità della sfida che loro stessi avevano lanciato, i tempi necessari per il successo dell’iniziativa per dove era collocata, gli uomini necessari per realizzarli. E questo al di là delle vicissitudini di contesto che l’hanno accompagnato in tutti questi anni.

Sono passati diversi anni da quel giorno e oggi leggo che il Fondaco dei Tedeschi, in gestione ad un gruppo francese con sede a Hong Kong, chiude. “Dopo un’attenta valutazione, il Gruppo Dfs ha deciso di chiudere le attività commerciali presso il Fondaco dei Tedeschi a Venezia e di non rinnovare il contratto di locazione, che scadrà a settembre 2025”, queste le parole del Gruppo Dfs nella nota emanata alla stampa che giustifica la difficile decisione imputando la colpa “alla situazione e alle prospettive economiche molto critiche che Dfs e il settore del travel retail stanno affrontando a livello globale e, in particolare, dai risultati negativi del negozio di Venezia”.

Il Comune ha comunicato “di non aver ricevuto alcun tipo di preavviso, altrimenti come amministrazione comunale ci saremmo adoperati per individuare, insieme a tutti i soggetti coinvolti, possibili percorsi alternativi e diversi da una così drastica soluzione. Stiamo parlando di lavoratori, di famiglie e non di numeri”. L’assessore regionale al lavoro, Valeria Mantovan, ha confermato: “Abbiamo ricevuto la comunicazione di apertura di una procedura di licenziamento collettivo”. Leggi tutto “Chiude a Venezia il Fondaco dei Tedeschi”

Il turn over (elevato) in GDO come indice di insoddisfazione…

Come giustamente ricorda Francesco Seghezzi: “In Italia c’è una crisi dell’offerta di lavoro, che peggiorerà nei prossimi anni a causa delle trasformazioni demografiche. Ma allo stesso tempo è il secondo paese in Europa per numero di persone che potrebbero lavorare e non lo fanno perché disoccupati o inattivi. In particolare abbiamo la quota più alta di inattivi che si dichiarano “disponibili a lavorare ma che non cercano attivamente lavoro”. Una categoria particolare, che potrebbe sembrare paradossale, ma che dice molto del nostro mercato del lavoro, tra lavoro nero, frammentazione, scoraggiamento” .

Se poi passiamo dal mercato del lavoro alle aziende, c’è un indicatore che spiega, più di molti altri, il clima  ben al di là dei dei premi ufficiali che difficilmente scavano nelle viscere di un’impresa e delle indagini interne spesso costruite sui desideri dei top manager. È il turn over dei dipendenti. Lasciare un’azienda spesso è sintomo di una sconfitta reciproca. Per il collaboratore che cerca altrove ciò che non è riuscito a trovare dopo aver investito tempo e impegno ma anche per l’azienda perché perdere risorse umane  sulle quali si è investito, non solo i cosiddetti “talenti”, ha un costo enorme per le imprese. 

Trattenere e coinvolgere I propri collaboratori e i lavoratori in genere è quindi sempre più importante. Soprattutto in tempi di difficoltà nel reperimento di  risorse.  L’Italia, pur in cambiamento, è oggi il Paese in testa alla classifica per il tempo medio più lungo trascorso presso lo stesso datore di lavoro con 12,2 anni. Difficile però che questo dato si confermi con l’avvento delle  nuove generazioni. Seguono Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Regno Unito) secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). La media del turn over cresce dall’8,2% del 2021 al 13,3% del 2022.  Colpisce il dato recente del 35% il turnover di Esselunga, ma riguarda soprattutto dipendenti giovani maschi con meno di 30 anni.

Poche insegne forniscono i dati. Nella distribuzione moderna italiana è sempre più difficile attrarre risorse per i modelli organizzativi proposti e l’impegno temporale richiesto. Si rischia che, i più giovani, considerino questo lavoro di passaggio  verso altre realtà. Un dato su cui riflettere. In Europa Tesco tre anni fa era vicino al 30% di turn over. Ora  è appena al di sotto della media del settore, intorno al 35%. Carrefour a livello mondo dichiara il 25%. Il tasso di turn over del lavoro a livello complessivo, in Germania, oscilla tra il 25 e il 30% Nel Gruppo Rewe dal 19 al 25% (2022). Mercadona in Spagna fa eccezione: si attesterebbe intorno al 2%. Un altro dato su cui riflettere.

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