Interessante confronto, attraverso una interrogazione, tra un parlamentare italiano e il Commissario Europeo sulle delocalizzazioni

Ogni volta che un’impresa multinazionale o meno decide di delocalizzare le produzioni in altri Paesi (soprattutto nell’Est Europa) i politici nostrani invocano l’intervento dell’Europa. Lo fanno sollecitando Marianne Thyssen Commissario europeo per l’occupazione, gli affari sociali e l’inclusione ad intervenire (ad esempio nei recenti casi Embraco e Bekaert).

Ma questi solleciti e richieste di intervento cosa producono concretamente? Hanno un seguito utile o si esauriscono in una interrogazione senza conseguenze particolari?

Pochi mesi fa, il 15 marzo di quest’anno, la parlamentare europea della Lega Mara Bizzotto ha presentato una interrogazione parlamentare alla commissione europea sul tema delle delocalizzazioni verso l’Europa dell’Est.

E’ interessante leggere sia l’interrogazione che la risposta della commissaria Marianne Thyssen per comprendere le differenti traiettorie di pensiero e quindi le possibili implicazioni politiche.

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Multinazionali, delocalizzazioni e interessi del nostro Paese.

Dopo Embraco tocca purtroppo alla Bekaert. Quasi 30.000 dipendenti e presente in 130 Paesi l’azienda ha confermato l’intenzione di chiudere il sito di Figline e Incisa Valdarno (Firenze)  dove si producono rinforzi in acciaio per pneumatici. Questo  comporta il licenziamento di 318 dipendenti più l’indotto.

Nell’incontro coi sindacati che si è tenuto al Mise, la delegazione della società ha spiegato che “le perdite degli ultimi anni sono strutturali e irreversibili e hanno portato alla decisione di cessare tutte le attività”.

Bekaert è presente a Slatina in Romania dal 2004 che è uno dei principali centri logistici e industriali della Romania centro e motore dello sviluppo dell’economia della regione. Pirelli era presente, sempre a Slatina, dal 2006 con un’unità di produzione di alta gamma. L’unità produttiva di Slatina fin da allora (secondo  gli articoli prodotti in Romania in quegli anni) era stata programmata per diventare la più grande fabbrica al mondo di Pirelli entro il 2017 dopo l’espansione della capacità produttiva a seguito di forti investimento a partire dal 2012.

Nel 2014 Bekaert acquista da Pirelli tutti i siti dedicati alla produzione di “steel cord” allora di proprietà dell’azienda italiana  all’80% essendo il restante di proprietà della Continental tedesca. Gli stabilimenti interessati coinvolgevano allora oltre all’Italia e alla Romania, la Turchia, la Cina e il Brasile. Bekaert con un’operazione da 225 milioni di euro diventava così fornitore e partner delle più importanti realtà del settore.

Con Pirelli, in quella circostanza, viene stipulato un accordo, scaduto il 31 dicembre scorso, in cui l’azienda italiana rimane cliente del filo di acciaio prodotto nello stabilimento toscano. L’accordo viene poi rinnovato per altri tre anni, ma solo sul piano commerciale. Molto probabilmente il sovra costo era stato accettato, previsto e concordato solo per i tre anni successivi e ritenuto, già allora,  incomprimibile.

Di questo l’azienda sembra che non abbia mai fatto cenno con i sindacati e questa è certamente una grave scorrettezza. Anzi ha continuato a muoversi come se non ci fosse alcun problema. Almeno così pare.

Comprensibile quindi  la reazione dei sindacati locali e di categoria, decisamente forte  quella del ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro, Luigi Di Maio, che, dopo l’incontro con i rappresentanti dell’azienda, ha affermato di non aver “mai visto un’azienda così arrogante” minacciando però improbabili  ritorsioni.

Bekaert non ha ricevuto alcun contributo dal Governo italiano. Semmai ne avrà ricevuti Pirelli nel 2006 da quello rumeno. E basterebbe un semplice viaggio a Slatina per comprendere che il problema non è la semplice differenza sul costo del lavoro ma tutto quello che rende appetibile un investimento in un Paese a fare la differenza. Investimenti che allora nessuno, a cominciare dalla Pirelli, ha pensato di proporre  in Italia.

Cercare di spaventare le multinazionali minacciando sanzioni rischia solo di tenerle alla larga dal nostro Paese mentre affrontare i vincoli che rendono il nostro sistema poco attraente per gli investitori potrebbe essere la mossa vincente.

Credo che il Ministro Di Maio dovrebbe concentrarsi su questo più che limitarsi ad una presa di posizione forte sul piano emotivo ma scarsamente produttiva sul piano politico e sociale. E la nuova legge non cambierà la sostanza del problema. Nel caso in questione così come per Embraco il tema non può che essere l’impegno alla reindustrializzazione del sito e le risorse che l’azienda deve mettere a disposizione per contribuire ad una soluzione del problema.

Forse, pur complessa sul piano pratico, potrebbe aiutare la richiesta fatta da Regione Toscana, istituzioni e sindacati alla Pirelli, tesa all’introduzione di un elemento di garanzia per mantenere il sito produttivo almeno fino al termine dell’attuale accordo commerciale. Altri due anni che consentirebbero una gestione più soft delle conseguenze occupazionali anche perché, il richiamo alla Commissione europea per fare chiarezza su eventuali violazioni delle direttive comunitarie da parte della Bekaert, pur doveroso, difficilmente evidenzierà  così come nel caso Embraco, elementi oggettivi contestabili.

Quindi la vicenda Bekaert pone ancora una volta quattro questioni ineludibili sul tavolo. Innanzitutto il tema delle infrastrutture e del contesto fiscale, legislativo e di costo che possono rendere più o meno attraente investire in un Paese come il nostro. In secondo luogo come, incentivi e penalizzazioni, possano trovare un equilibrio realistico.

In terzo luogo come inquadrare anche sul piano sindacale e politico vicende di questo tipo  almeno nell’area Europea. Infine diventa fondamentale la capacità di attrezzarsi con strumenti efficaci  per  gestire le ricadute sull’occupazione, sui siti dismessi e sui contraccolpi sul contesto socio economico di riferimento.

Avendo riunito i due ministeri interessati credo che Luigi di Maio abbia la possibilità di inquadrare rischi e opportunità di vicende che possono produrre legittimamente reazioni emotive ma che devono  trovare risposte convincenti sul piano economico e sociale evitando  iniziative che, seppure con le migliori intenzioni, rischiano solo di  produrre penalizzazioni per il nostro Paese.  

La “meglio gioventù” europea…

“Nemo propheta acceptus est in patria sua” verrebbe da dire pensando a Luigi di Maio. La scena completamente occupata da Matteo Salvini che un giorno minaccia l’Europa sul tema dei migranti, un altro evoca il ritorno del contante, un altro ancora lo sconto sui debiti Equitalia. Un mattatore a tutto campo di “lotta e di governo”.

Di Maio proponendosi per il MISE e per il Lavoro ha, a mio parere, investito sui tempi lunghi scegliendo un tema caro alla sua generazione: il lavoro. Tema difficile da affrontare. Soprattutto in un Paese dove chi ha voluto cambiarlo davvero o è stato ucciso o gira con la scorta. Purtroppo ancora oggi. 

Da un lato si trova a dover affrontare le pesanti crisi aziendali in corso che aspettano soluzioni e che rendono inutile la retorica semplicistica e sbrigativa della recente campagna elettorale, dall’altro, la traduzione concreta  del reddito di cittadinanza sul quale si misurerà la credibilità dell’intero Movimento.

Le opposizioni sono sul piede di guerra, determinate a non concedere sconti e, i media, occupati dal decisionismo di Salvini, sono impegnati a contestarne la sua fragilità personale e l’inadeguatezza della classe dirigente dell’intero movimento in rapporto alla Lega. Quindi  deve mantenere i nervi saldi, tenere a bada una base di militanti in subbuglio  e contemporaneamente continuare a rassicurare un elettorato potenziale che la mutazione in corso da “movimento a istituzione” non prevede alcuna subalternità alla Lega.

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Declinare crescendo?

E’ indubbio che uno degli effetti collaterali della globalizzazione e delle crisi di assestamento collegate sta travolgendo equilibri e sistemi politici nazionali. L’Europa del sud si è trasformata in un grande cantiere politico dove dalla Grecia alla Spagna passando per la Francia e l’Italia si generano pulsioni autonomiste e divisive, nuovi soggetti politici, trasformazioni in itinere di movimenti che nascono con propositi bellicosi di rottura e, in tempi relativamente rapidi, vengono studiati, blanditi e assorbiti  dall’establishment economico e finanziario internazionale.

L’interdipendenza economica rende difficile dare alle parole e ai programmi urlati nelle campagne elettorali un seguito praticabile. Quindi si producono inevitabilmente percorsi di cambiamento instabili e fragili che creano disequilibri e contraddizioni difficili da gestire. E così mentre Emmanuel Macron sta cercando di internazionalizzare il suo successo interno prima che si dimostri la sua fragilità e Alexis Tsipras di consolidare sul piano politico i primi risultati dei sacrifici a cui si è dovuto piegare, Pedro Sanchez dovrà misurarsi con le spinte autonomiste catalane e con la leadership in crescita di Albert Rivera che con Ciudadanos rappresenta, di fatto, il primo partito spagnolo.

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Il vicolo cieco in cui si è infilata la Grande Distribuzione Italiana

Purtroppo anche quest’anno il film si ripete. Il sindacato del commercio guadagna le prime pagine dei giornali con una dichiarazione di sciopero che non sortirà nessun particolare effetto pratico.

Come il 25 aprile anche il primo maggio i punti vendita della GDO saranno chiusi solo laddove i gestori riterranno di non aprire. Il confronto sul tema purtroppo non fa nessun passo in avanti. Confcommercio ha provato, senza successo,  ad individuare un punto di possibile accordo che mettesse insieme le diverse esigenze ma non c’è stato verso.

I contrari alle aperture si accontentano della testimonianza e di fare sentire la loro voce a corrente alternata. I favorevoli sanno che devono solo scavallare l’effetto mediatico che precede l’apertura contestata. Fino alla prossima scadenza.

Dopo tanti anni di lavoro nella GDO non ho perso l’abitudine di frequentare i punti vendita nei giorni festivi dove capita. In passato lo dedicavo a visitare la concorrenza per “carpirne” i segreti. Per il sottoscritto, che lavorava nelle Risorse Umane, ovviamente l’obiettivo era osservare l’organizzazione dei reparti, il clima tra i dipendenti e il servizio al cliente. Magari qualche potenziale candidato da assumere. Leggi tutto “Il vicolo cieco in cui si è infilata la Grande Distribuzione Italiana”

Intellettuali, corpi sociali e pensiero plurale

Difficile stabilirne il momento esatto o di chi furono le responsabilità della separazione. Ma la separazione ci fu in tutte le organizzazioni di rappresentanza.

Forse fu più evidente nei sindacati perché seguì la fine del percorso unitario e l’affermarsi delle rispettive derive identitarie. Fu meno evidente nelle organizzazioni datoriali. Ma avvenne anche lì.

Intellettuali e forze sociali si lasciarono così, ad un certo punto, senza rancore. Ha ragione Dario di Vico ( http://bit.ly/2GeCqh4 ) a ricordarci che quella separazione è costata cara. Sia alle organizzazioni di rappresentanza che agli intellettuali. Ma, di fatto, anche al Paese.

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i Corpi intermedi al decollo della terza repubblica: in campo o in panchina?

Il copione sembra già scritto. Ciascuno per sé sperando che il contesto socioeconomico riporti a più miti consigli l’euforia dei vincitori delle elezioni politiche. C’è l’aumento dell’IVA che incombe in modo sinistro sulla ripresa, ci sono le riforme varate dai governi precedenti da mantenere per non compromettere i segnali positivi sull’occupazione.

C’è però un risultato elettorale che segnala, al di là degli stessi vincitori, un disagio profondo che attraversa la nostra società tra generazioni e territori. Un disagio che comunque lo si valuti cerca ancora, fortunatamente, uno sbocco parlamentare.

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Amazon vuol dire fiducia?

Mi ha fatto riflettere e stimolato l’accostamento di Giuseppe Caprotti, figlio del fondatore di Esselunga, il 19 marzo sul suo blog   (http://www.giuseppecaprotti.it) tra l’agire di Amazon e la Galbani della tentata vendita nel secolo scorso.

Quella che oggi si chiama “profilazione” tramite big data o, potenzialmente con i dati delle fidelity card tempo fa, in Italia, avveniva tra il piazzista dell’azienda lattiero casearia e il negoziante. Il consegnatario (il piazzista, appunto) conosceva le abitudini di acquisto dei clienti di quella zona costruito sulle richieste storiche dell’esercente.

Per questo motivo, con migliaia di camioncini che giravano l’Italia, l’azienda era così in grado di anticipare le decisioni di acquisto dei clienti consegnando la merce addirittura prima che il negoziante di turno pensasse di procedere al riordino e anticipando in questo modo la concorrenza.

Galbani sapeva sempre cosa volevano i consumatori quindi cosa ordinare agli stabilimenti di produzione e come far circolare i freschi attraverso una logistica efficace e trasporti efficienti. Avveniristico, per quegli anni fu anche la costruzione del centro logistico di Ospedaletto Lodigiano (guarda caso a due passi da Piacenza con 20 anni di anticipo su Amazon). Leggi tutto “Amazon vuol dire fiducia?”

La CGIL, il congresso e la sfida dell’innovazione

La CGIL che si avvicina al congresso, di questi tempi, è un fatto di per sé rilevante. Non solo e non tanto perché è la principale organizzazione sindacale italiana ma sopratutto perché la strategia e le decisioni che ne scaturiranno segneranno la volontà o meno di essere punto di riferimento e protagonista in una fase di grande disorientamento sociale.

Una cosa va detta subito. La CGIL non sembra voler essere più il “sindacato del gettone telefonico” tanto caro a Crozza. Susanna Camusso ne lascerà la guida con diversi meriti che probabilmente non le verranno riconosciuti. Mala tempora currunt. Però è così.

Innanzitutto ha lavorato per riportare la sua organizzazione al centro delle dinamiche sociali evitandone spaccature e derive estremistiche. Oggi i Cobas e la fantasiosa coalizione sociale sono indubbiamente più lontani.

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Accordo Confindustria Sindacati. Un risultato comunque importante.

Sarebbe interessante poter leggere i primi testi proposti sia da Confindustria che dai sindacati confederali. I testi dove entrambe le parti avevano espresso il proprio punto di partenza, le proprie filosofie e i propri obiettivi.

Quelli che definivano le vere aspirazioni e le vere traiettorie. Il testo finale, come sempre, tende ad accontentare tutti e quindi non spiega, fino in fondo, le legittime differenti strategie in campo.

Né spiega le difficoltà a tenere insieme Categorie sindacali, Federazioni imprenditoriali soprattutto quando Categorie e Federazioni hanno già ottenuto, in parte, quello che volevano nei loro contratti, gelosi della propria autonomia. Confindustria non ottiene molto ma contemporaneamente non concede molto.

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