Le imprese e le organizzazioni di rappresentanza alla prova del futuro

Quando Antoine Riboud pronunciò a Marsiglia davanti ad una platea di imprenditori il suo discorso dal titolo “Crescita economica e qualità della vita” fece scandalo ( http://Bit.ly/2HaBE1v   ).

Il sessantotto francese era ormai alle spalle. Gli imprenditori stavano riprendendo il controllo della situazione e i rapporti di forza si erano già ribaltati.

In quegli anni il PDG di Danone propone la partecipazione agli utili in termini di una o due mensilità aggiuntive per anno. In una bottiglieria di Reims del Gruppo, concordò con il sindacato la riduzione a 34 ore dell’orario di lavoro e, contemporaneamente, tutti i dipendenti francesi del Gruppo ricevettero due azioni a testa.

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Braccialetti, lingua inglese e musei. Questa è l’Italia che deve cambiare.

Se avessero chiesto un test per misurare l’avversione all’innovazione (vera) della classe politica italiana (e non solo) pochi avrebbero pensato ai braccialetti di Amazon.

Eppure ha funzionato. In poche ore si è capito che piuttosto che predisporsi al cambiamento cercando di comprenderlo e, ovviamente di guidarlo, l’unica reazione messa in campo è il rifiuto. Accompagnato dalla solita dose di retorica e di demagogia. Dall’estrema destra alla estrema sinistra.

L’inventore del braccialetto, l’ingegnere americano Jonathan Cohn, 30 anni, da sei in Amazon, ha risposto con uno sberleffo analogo a quello degli anarchici della fine dell’800 (una risata vi seppellirà) citando un passaggio di una nota canzone dei Queen: “…fulmini e saette molto, molto spaventoso…”.

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Bentivogli e Calenda lanciano una start up in Politica?

Il coro di approvazione seguito alla pubblicazione del documento Marco Bentivogli e Carlo Calenda ne è la testimonianza più esplicita.

In Politica, d’altra parte, non esistono vuoti. Se si creano qualcuno li riempie immediatamente. La realtà era chiara da tempo. Forse, le imminenti elezioni, l’hanno resa solo più evidente.

Le divisioni del novecento stanno lasciando spazio a nuove contrapposizioni. Le ricette, tradizionalmente di destra o di sinistra, perdono di significato mentre si affermano nuove divisioni.

Le contraddizioni, pur sempre presenti nella società contemporanea, trovano risposte fuori dai recinti tradizionali a cui la Politica ci aveva abituato.

La sinistra, ovunque nel mondo in crisi di identità, perde consensi perché non riesce a sintonizzarsi con i cambiamenti in atto e quindi rischia di limitarsi a riproporre un improbabile quanto impossibile ritorno al passato.

La destra tende, al contrario, a cavalcare le paure generate dal cambiamento. Nel breve, non c’è storia. Vince chi rassicura. E forse chi promette di più.

Nel medio periodo, al contrario, vincerà chi saprà affrontare e risolvere i problemi. Carlo Calenda e Marco Bentivogli hanno capito benissimo che la partita si gioca sui tempi medi.

“Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario” ci ricorda George Orwell nella fattoria degli animali. Ed è da qui che chi vuole fare “politica 4.0” dovrà  ripartire.

Ecco perché non siamo di fronte ad un nuovo (ennesimo) Partito o movimento in fase nascente e destinato a numeri da prefisso telefonico alle prossime elezioni. È il punto di osservazione che cambia.

Sono i problemi e le loro possibili soluzioni che creano le convergenze necessarie e i luoghi dove queste convergenze si possono realizzare.

Carlo Calenda e Marco Bentivogli vengono entrambi da mondi dove la demagogia e la retorica costano care. Il Paese (e non solo) ha, invece, assoluto bisogno di luoghi dove si possano costruire soluzioni pur nella distinzione di missione, ruoli istituzionali o sociali.

Stanno disegnando, consapevolmente, un’evoluzione del modello concertativo dove al centro sta la soluzione concreta del problema sul tappeto e non, come in passato, la paralisi decisionale.

Può essere accumunata con un certo grado di forzatura  ad una classica start up pur nel campo tradizionale e scarsamente innovativo della Politica perché si pone comunque l’obiettivo di superare lo stallo e quindi di risolvere un problema prima affrontato diversamente.

Sostituisce al classico sindacale: obiettivo-lotta-risultato, il più moderno: obiettivo-condivisione-risultato. E la condivisione non è data dalla riproposizione infinita del proprio punto di vista, che può restare differente da quello altrui, ma dalla convergenza sull’obiettivo finale che, pur non rappresentando necessariamente il proprio punto di partenza, garantisce ai propri rappresentati un notevole passo in avanti.

È la logica già presente negli accordi sindacali FCA e in altre realtà industriali. Ma è la medesima logica che guida Carlo Calenda nelle vertenze aziendali complesse. La novità sta nel “praticare l’obiettivo” non nell’interpretare un ruolo assegnato.

Tutto  questo probabilmente provocherà scompiglio sia nella Politica che nel Sindacato.

Nella Politica dove il coro plaudente sarà presto sostituito da letture più puntute sui personaggi in campo e sulle loro ambizioni.

Ma anche nel Sindacato dove il rischio di modeste gelosie e piccole invidie personali rischieranno di giocare contro una strategia che, al contrario, potrebbe giovare ad un rientro in campo propositivo di tutto il sindacalismo confederale.

Elezioni. Iniziativa politica e sociale

La campagna elettorale sta ormai entrando nel vivo. I diversi schieramenti avanzano le loro promesse. Ciò che appariva impossibile, vista la dimensione del nostro debito pubblico, viene proposto come fattibile e a portata di mano.

Colpiscono tre cose. Innanzitutto la fervida immaginazione pre elettorale dei partiti. La costante sembra essere quella di promettere di abolire ciò che è stato fatto dal Governo in carica e, contemporaneamente, proporre come elemento caratterizzante del proprio agire ciò che non è mai stato fatto.

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Politica e lavoro. Tu chiamale se vuoi elezioni…

C’è solo da scegliere. Si va dall’abolizione della Fornero e del Jobs Act, proposte rispettivamente dalla Lega di Salvini o da “Potere al popolo” all’istituzione del salario minimo da parte del PD. Da una decontribuzione completa per nuovi assunti alle pensioni minime a mille euro proposto da Forza Italia.

Dario Di Vico, nell’editoriale di oggi sul Corriere, (   http://bit.ly/2CVxY4f  ) invita la Politica a prendere sul serio il tema del lavoro. Sembra anche disposto a concedere il beneficio del dubbio alla buona fede di alcune proposte nonostante l’evidente strumentalità della maggior parte delle stesse.

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Giovani e tute blu

Giovani o meno giovani, nessuno pensa al lavoro come maledizione. Sia chi ce l’ha, sia chi lo cerca ma perfino chi se lo immagina, vista la sua giovane età, trova più facile indicare ciò che non vorrebbe trovarsi a fare in futuro.

La pessima performance dei ragazzi in tuta e catene che protestano contro l’alternanza indica esattamente questo. Il mondo degli adulti a questa rappresentazione ha reagito compatto, condannandola. È giusto. Il lavoro, qualsiasi lavoro, non può essere “offeso” o ridotto ad esempio negativo. Soprattutto un lavoro onesto, dignitoso e ancora carico di significato come quello dell’operaio.

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Le organizzazioni di rappresentanza e il rischio di miopia..

A settembre 2017 il CNEL ha certificato 868 contratti nazionali. Probabilmente anche Confindustria riuscirà ad avere il suo contratto del “terziario avanzato”. Sarà il numero 869. Prima o poi toccherà anche a Federdistribuzione. Così saranno 870. E altri verranno poi.

Siamo ormai “alla via così” in gergo marinaro. Tutti sono concordi nel ritenerli troppi. Ovviamente solo quelli degli altri. Ciascuno cerca di delimitare o incrementare il proprio recinto a spese altrui. Nessuno crea le premesse per andare oltre. È una politica francamente suicida.

E questo a scapito anche del sindacato confederale o delle sue categorie che, anziché reagire, abbozzano. Quello che è avvenuto nel perimetro del contratto del terziario lo dimostra in modo inequivocabile.

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Quadro politico e forze sociali. Un passo avanti e due indietro?

Continuando così la prossima legislatura rischia di essere veramente quella del commissariamento del nostro Paese. Da un lato una Politica litigiosa e inconcludente che sembra voler affrontare la prossima contesa elettorale scontrandosi su contenuti tanto popolari quanto improponibili. Dall’altro i corpi intermedi che stanno procedendo in ordine sparso illudendosi, forse, di poter condizionare in modo tradizionale, la Politica.

Il lavoro, le pensioni, le tasse e il reddito dei cittadini diventano in questo modo centrali, seppur posti in modo contraddittorio e superficiale mentre ritornano sullo sfondo la necessità di rimettere in ordine i nostri conti e di ridurre conseguentemente il nostro debito pubblico.

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Se il mismatch tra offerta e domanda di lavoro cambia segno…

Gli anni della crisi e delle ristrutturazioni aziendali hanno portato con sé un mismatch tra offerta e domanda di lavoro di segno opposto a quello lamentato oggi. Bisogna essere obiettivi.

La scuola è stata abbandonata al suo destino, il rapporto tra giovani e imprese si è ridotto ad un problema di costo e, spesso, di mero sfruttamento, gli espulsi dal lavoro oggetto di dumping salariale.

Oggi sembra che qualcosa stia cambiando in profondità. Si è ritornato a parlare di centralità delle risorse umane nei contratti nazionali, di alternanza scuola lavoro, di formazione e di politiche attive.

Confindustria lancia l’allarme e chiede di estendere il più possibile i benefici per le assunzioni dei giovani, le imprese manifatturiere lamentano con sempre maggiore insistenza la difficoltà a reclutare laureati in materie scientifiche. Molti giornali si lanciano in campagne a sostegno delle cosiddette lauree utili.

Occorre rimettere in moto un meccanismo che si è inceppato. Evitando, però, inutili manicheismi. È vero, mancano molte figure professionali richieste dal mercato.

Nel commercio, nel turismo, nei servizi alle imprese, nei settori più innovativi. Mettiamo però in fila i problemi. Prendersela con la la qualità in sé di una laurea piuttosto che favorire la crescita di percorsi interdisciplinari è un errore in un Paese che rappresenta, in questo campo, il fanalino di coda in Europa.

Sui giovani in azienda non è sufficiente chiedere sgravi contributivi. Occorre prevedere opportunità di inserimento che valorizzino le attitudini e l’esperienza scolastica. Al cambiamento culturale necessario nelle imprese i giovani potrebbero dare molto se non venissero immediatamente risucchiati dalle logiche e dalle dinamiche tradizionali.

È la collaborazione tra culture e generazioni diverse che può arricchire il mondo dell’impresa e prepararlo alla sfida della competizione globale. Se il messaggio che verrà  fatto passare sarà che assumere giovani è solo conveniente, come pensiamo si comportino le imprese?

Così come occorre lavorare sul versante culturale e sociale per i senior che dovranno rimanere in azienda per lungo tempo e che l’attuale cultura nelle imprese considera sostanzialmente “vecchi” e non recuperabili, lo stesso lavoro andrà fatto sul versante dei giovani, sul loro potenziale contributo e sulla loro capacità di portare nell’impresa un originale valore aggiunto. Ma questo lavoro va condiviso  dagli imprenditori e dai manager. Non solo rappresentato sui giornali.

Negli anni della crisi, “giovane” è stato sinonimo di “tappabuchi” come “anziano” di “esubero potenziale”. Questo è il punto da cui partire. Il mismatch non si risolve invitando i giovani ad iscriversi a ingegneria o a matematica se non hanno quelle vocazioni!

Si risolve innanzitutto ridando valore all’impegno e allo studio, avvicinando i due mondi, rispettando il contributo che i più giovani possono portare in azienda e favorendo tutte le forme di tutoraggio, affiancamento e scambio di esperienze tra generazioni differenti.

Ne guadagnerà il mondo delle imprese e quindi anche il Paese.

Welfare aziendale e contrattuale di fronte a nuove opportunità.

Il welfare aziendale sta assumendo una nuova importante dimensione per le imprese e per i lavoratori. Gli accordi si moltiplicano e diventano pratica quotidiana.

Gli sgravi previsti e le opportunità consentite spingono le parti, a livello aziendale, a comprendere nuovi interessi e nuove idee attraverso i quali motivare i collaboratori, dare maggior valore alle risorse disponibili e migliorare così il clima aziendale.

Siamo solo all’inizio, credo, di un fenomeno che produrrà anche inevitabili effetti collaterali sulla cultura del lavoro del nostro Paese. Non solo perché rimette in discussione il concetto stesso di retribuzione totale (costruita nel passato sul salario e sul suo costante e inevitabile aumento) spingendo il lavoratore a considerarne il controvalore effettivo ma anche perché lo predispone a partecipare alla sua definizione complessiva, a cosa destinare al suo incremento e quindi a stabilire una relazione nuova tra impegno personale, produttività, clima aziendale, valorizzazione dell’impresa nella quale lavora. Ma anche un nuovo ruolo del sindacato e della contrattazione aziendale.

Tutto questo mette in moto una maggiore consapevolezza perché spinge a riflettere, a scegliere, a raggiungere gli obiettivi concordati perché, tra le altre cose, la contropartita è chiara, modificabile nel tempo e sempre più personalizzabile. Avvicina, in sostanza, impresa e lavoro e ne favorisce la collaborazione.

Cosa non riuscita, almeno fino ad oggi, al welfare contrattuale definito nella contrattazione nazionale. Innanzitutto perché è stato percepito come calato dall’alto in una fase storica diversa dove non tutto il sindacato lo ha affrontato e proposto con la stessa convinzione.

La preoccupazione che dietro il welfare contrattuale ci fosse l’accettazione di una sorta di smantellamento del welfare pubblico ha frenato soprattutto la CGIL e alcune sue categorie ma anche molte imprese hanno vissuto quelle intese come improprie, come un costo che, in qualche modo sottraesse risorse altrimenti meglio impiegabili.

Questa visione ha impedito una comunicazione positiva e comune, un coinvolgimento utile a migliorare il clima e a rafforzare un sistema di relazioni che non ha certo giovato all’affermazione stessa del welfare contrattuale.

E questo ha trasformato una brillante intuizione, oggi sempre più fondamentale, in una sorta di tassa aggiuntiva per le imprese e per i lavoratori che faticano, se non lo utilizzano concretamente, a considerarlo di grande interesse e valore.

Soprattutto non ha contribuito a cambiare nulla sul piano culturale e partecipativo delle imprese e del lavoro. Da qui, credo, occorra, oggi, ripartire. L’importanza del welfare contrattuale è decisiva sia nelle grandi aziende che nelle PMI. C’è un problema di masse critiche, di governance e di qualità dell’offerta.

Confcommercio e Confindustria, ad esempio, hanno tutto l’interesse a continuare a parlarsi proprio per le prospettive che possono essere messe a fattor comune, così come il sindacato confederale.

Con una governance moderna, una gestione trasparente e una comunicazione condivisa ed efficace il welfare contrattuale può fare un salto di qualità di cui ce ne è assolutamente bisogno. Sia per valorizzarlo nel confronto con il Governo in termini di servizio e di fiscalità, sia per consentire alle imprese e ai sindacati di valorizzarlo all’interno di un progetto comune nazionale e territoriale di rilancio della contrattazione.

Trovare un equilibrio nelle proposte di welfare (contrattuale e aziendale) che valorizzi meglio entrambe le fonti, renda meno facoltative quelle che influiscono sul futuro previdenziale o sanitario degli individui, le integri meglio lasciano al singolo la libertà di scelta attraverso meccanismi (tipo ticket restaurant) flessibili erogabili anche attraverso convenzioni meno aleatorie o parziali di quelle oggi in essere potrebbe rappresentare una nuova sfida per le parti sociali.

Soprattutto perché l’universalità degli strumenti messi a disposizione, la loro efficacia anche in presenza di discontinuità sul mercato del lavoro, deve essere garantita non tanto e non solo dalla applicazione di un contratto specifico o dall’appartenenza ad un’azienda illuminata ma da un sistema che ne favorisca la flessibilità di utilizzo e quindi dia certezze che solo le parti sociali possono garantire in un contesto evolutivo dei nuovi assetti contrattuali.