FCA Group. Est o ovest pari sono?

“Quando escono notizie del genere – osserva Giuliano Noci prorettore del polo territoriale cinese del Politecnico di Milano– è perché la chiusura dell’operazione è molto vicina o perché qualcuno ha interesse a sabotarla”.

Credo vada inquadrata dentro questa alternativa secca la notizia, apparsa sui giornali, che riguarda i cinesi di Great Wall Motor e i loro interesse per FCA. La Borsa l’ha assunta come buona e ha registrato un significativo balzo in avanti.

Marco Bentivogli ne ha subito individuato la reale pericolosità se propedeutica ad uno spezzatino degli stabilimenti o dei marchi italiani con possibili gravi riflessi sull’occupazione.

Sergio Marchionne ha annunciato la sua uscita da FCA per il 2019 quindi, per allora, l’azienda dovrà aver risolto il problema della sua collocazione nella competizione globale. Fino ad ora, però, FCA ha incassato più rifiuti che interesse. Le ragioni possono essere molte.

Mi soffermo su una, apparentemente secondaria: le caratteristiche del management. Forte, aggressivo e con una visione internazionale. Il CEO Marchionne lo ha costruito a sua immagine e somiglianza. È riuscito a sostituire una mentalità interna che faceva leva su di una presunta “superiorità sabauda” ormai condannata e in via di estinzione con una cultura della competizione a tutto campo tipica dei modelli manageriali anglosassoni.

Un management che crede in se stesso, che non si sente inferiore a nessuno, coeso e determinato. Un management preparato, scaltro e veloce nel “gioco di gambe” che potrebbe rappresentare un problema per chiunque volesse omogeneizzarlo in valori e culture differenti.

Un management costruito più per inglobare e integrare che per essere inglobato. Difficile da rimuovere senza correre il rischio di far ritornare di nuovo l’azienda italiana sull’orlo del burrone. L’operazione Chrysler, da questo punto di vista, si è dimostrata un successo da manuale. Così come, a mio personale parere, è la pubblicizzazione dell’offerta dell’azienda cinese con annesso scorporo di Alfa Romeo e Maserati.

Sul piano globale rappresenta la possibilità per i cinesi di ottenere le chiavi del mercato automobilistico americano nell’era Trump. O meglio ne segnala il rischio se altri interlocutori non si faranno avanti rapidamente.

Personalmente non so valutare, non avendo le competenze del prof. Giuliano Noci, l’impatto sulla filiera produttiva nazionale di questa come di altre scelte e quindi mi astengo da qualsiasi giudizio di merito.

Segnalo solo che il gioco si fa duro. I cinesi, in questo come in altri campi, sono in grado di far saltare il banco. Possiedono i mezzi necessari e una visione di comparto e di Paese molto più unitaria, interessata e integrata di qualsiasi altro continente. Soprattutto un approccio che tende a inglobare rispettando la professionalità e le culture altrui.

Adesso la parola passa ai player che conoscono la spregiudicatezza nel business di Sergio Marchionne e le ambizioni di Trump sulla centralità dell’industria americana. Personalmente credo che l’idea stessa di togliere dal tavolo Alfa Romeo e Maserati possa servire per rendere ancora più credibile l’intera operazione.

Per il sindacato e per l’intero nostro Paese inizia, però, una fase molto complessa. Per questo Bentivogli fa bene a far sentire forte la sua voce. Fino ad oggi l’interesse di FIAT e quello dell’Italia sono sempre stati fatti coincidere.

Sullo scacchiere globale questo potrà continuare solo se la Politica (quella con la P maiuscola) non si perderà in accuse e contro accuse inutili e fuori tempo massimo e giocherà un ruolo propositivo e innovativo. I futuri assetti di FCA non sono paragonabili per immagine, peso occupazionale e dimensione alle beghe con i francesi sulla cantieristica o sulla Telecom.

Seppure meno che in passato, una parte importante del Made in Italy e della recente crescita del nostro PIL passa ancora da lì.

Grande Distribuzione, consumi, lavoro e nuove sfide

L’invito a passare la festività del Ferragosto ovunque meno che in un centro commerciale testimonia una delle contraddizioni evidenti nelle quali si muove l’intero sindacato del terziario.

Una contraddizione che lo costringe a inutili reazioni pavloviane tipo quella di dichiarare una giornata di sciopero coincidente con la festività per consentire ai (sempre meno) lavoratori del settore che non vogliono lavorare quel giorno, di poterlo fare.

Nessun punto vendita è mai stato chiuso a seguito di queste singolari proteste e i carichi di lavoro (non essendo un lavoro vincolato) vengono inevitabilmente distribuiti sui colleghi che non aderiscono alla iniziativa. Quindi “zero problemi” per le aziende.

Nessuno però, tra i sindacati del settore, si è mai interrogato sul perché le persone riempiono i centri commerciali durante le festività, qual’è la loro provenienza sociale, l’eta prevalente o il loro reddito disponibile.

Oppure che la stragrande maggioranza dei frequentatori non compra assolutamente nulla o che i messaggi sindacali di opposizione al lavoro festivo vengono accolti o sottoscritti esclusivamente da chi non andrebbe mai in un centro commerciale in quei giorni.

L’ultimo manifesto unitario prodotto, rappresenta, da questo punto di vista, un capolavoro di ovvietà e di sottile umorismo nel suo claim: “Sei sicuro di voler passare il Ferragosto nella solita galleria commerciale?” Un esperto di marketing ci leggerebbe l’invito a cambiare galleria, sceglierne un’altra per permettere un adeguato riposo agli addetti più che valutare se sarebbe preferibile l”alternativa di Capalbio o Rimini…

L’assurdo è che anche Federdistribuzione rinuncia a leggere la realtà di cosa è oggi un centro commerciale limitandosi a rivendicarne l’apertura in nome delle liberalizzazioni ottenute. Così resta un dialogo tra sordi.

Vedere i centri commerciali come semplice luoghi di sfruttamento del lavoro o di consumo esasperato e non come luoghi di relazione, di incontro o di semplice passatempo ne pregiudica il futuro, ne rallenta l’evoluzione ad esempio, di un possibile vantaggio per i centri storici delle città.

Ne limita le potenzialità culturali e sociali che sono enormi. Soprattutto oggi che la crisi del settore e i segnali che giungono dagli Stati Uniti imporrebbero una capacità di riflessione e di visione che sappia andare oltre le beghe da cortile tipiche dei nostri dibattiti sul tema.

C’è un problema di consumi (qualità e quantità), di rapporto tra luoghi fisici e virtuali, di rapporto tra diversi canali di vendita, di ridisegno delle città sapendo che la dislocazione della distribuzione commerciale (grande e piccola) è fondamentale per contribuire a tenere insieme le comunità. Fino ad oggi si è voluto vedere il problema solo dal versante degli operatori economici o del lavoro degli addetti. Oppure dal punto di vista ideologico. Mai cercando di comprendere il contesto, la sua evoluzione e le necessità di un ruolo per tutti gli attori coinvolti.

Oggi la crisi lo impone. Nella Grande Distribuzione ci sono aziende che si stanno aprendo al contesto nel quale sono inserite. Lo stanno facendo con sperimentazioni, nuove idee e proposte. Manca una riflessione comune senza la quale continueremo ad assistere a battaglie di retroguardia sulle chiusure o sulle liberalizzazioni necessarie.

Per me resta incomprensibile il ritardo culturale dei sindacati di categoria che si ostinano stancamente a proclamare agitazioni fuori tempo per soddisfare pochi seguaci e a concordare gettoni di presenza o assunzioni aggiuntive per il lavoro festivo.

Così come quello delle associazioni di categoria che dovrebbero prendere atto che la guerra tra di loro è, di fatto, finita.

Nessuno ha perso ma, sia chiaro, nessuno ha vinto. Gli effetti collaterali sul sistema e sugli addetti sono sul tavolo ed evidenti a tutti. Si tratta solo di decidere se affrontarli in un quadro evolutivo e intelligente o subirne le conseguenze.

Ma ci sarà anche lo sciopero 4.0?

Negli ultimi dieci anni gli scioperi che hanno fatto cambiare sul serio una decisione, nel settore privato, si contano (forse) sulle dita di una mano. C’è una certa riluttanza sia a minacciarli che ad indirli. Ma soprattutto a parteciparvici.

Diversi sono i casi come, ad esempio, quelli accaduti alla Reggiani Macchine di Grassobbio o all’Eutron di Pradalunga dove la reazione spontanea dei lavoratori si è manifestata di fronte ad un sopruso inaccettabile contro una collega che rientrava dalla maternità.

O alla Wittur di Colorno contro una decisione improvvida dell’azienda di licenziare un lavoratore gravemente malato. Diversi perché non c’è in gioco una richiesta di aumento salariale o di migliori condizioni di lavoro. C’è in gioco qualcosa di più che ha a che fare con il rispetto delle persone e la dignità stessa del lavoro. Quindi con un connotato fortemente difensivo.

È lo sciopero come rito collettivo, come manifestazione esplicita della presenza di un conflitto tra interessi economici differenti, come strumento di miglioramento della propria condizione, che ha perso di significato. Non c’è un contratto nazionale né aziendale che ha assegnato ai rapporti di forza il risultato ottenuto.

La stessa presenza di milioni di lavoratori senza contratto nazionale dimostra che, laddove i rapporti di forza sono invece stati determinanti, lo sono stati a favore delle aziende.

A questo scenario post conflittuale e post novecentesco le organizzazioni di rappresentanza hanno reagito in modo intelligente innanzitutto rispettandosi e riconoscendosi reciprocamente come portatori legittimi dei rispettivi interessi in campo. Il buon senso, l’accettazione dei rispettivi vincoli e la capacità di individuare sintesi condivisibili hanno via via sostituito nella visione del sindacato l’idea che una vertenza dura o un negoziato difficile dovessero avere anche lo scopo di formare una coscienza collettiva superiore.

Il fatto però che lo sciopero si sia trasformato in un’arma spuntata non significa che non esista la necessità di stabilire nuove regole del gioco. Innanzitutto per evitare la cosiddetta “legge del pendolo” trasferendo semplicemente al solo imprenditore il potere decisionale in materia di lavoro negando alla radice il diritto di tutela degli interessi che restano (su diversi aspetti) divergenti.

Quindi occorre individuare procedure di gestione del conflitto, nuovi luoghi di sintesi e mediazione, tempi e modalità di risposta certi. E occorrerebbe farlo rapidamente. Poi c’è un problema sul lungo termine.

Così come l’industria si è andata via via terziarizzando perché al centro del suo operato c’è sempre meno il prodotto e sempre più il cliente e la sua soddisfazione così per il sindacato il punto di arrivo non può essere quello di rinchiudersi nei reparti di fabbriche sempre più condizionate da vincoli provenienti dalle filiere produttive e distributive nelle quali sono inserite.

E su questo punto credo ritornerà di attualità, rielaborata, l’intuizione di Giorgio Benvenuto, e cioè il “Sindacato dei cittadini” che presentò nei primi mesi del 1986 e che non ebbe lo sviluppo e la fortuna che quell’intuizione avrebbe meritato.

Un sindacato moderno che comprende le esigenze dei lavoratori ma anche nel loro ruolo di consumatori quindi come cittadini. In grado cioè di condizionare con le scelte di acquisto (o di non acquisto) le imprese nella loro decisioni e atteggiamenti.

Non è un caso che, ad esempio negli Stati Uniti, le imprese sono molto attente alla percezione che i consumatori hanno dei loro comportamenti, della loro responsabilità sociale, del loro rapporto con l’ambiente e il contesto socio economico.

La stessa intuizione dell’economista Leonardo Becchetti, assunta anche nello statuto della FIM CISL di “voto con il portafoglio” va in questa direzione. Esprime, in modo concreto e netto la sovranità del consumatore il quale può decidere di usare il suo potere di acquisto e di risparmio per premiare o, punire, aziende responsabili o irresponsabili dal suo punto di vista.

È chiaro che questa è una strategia sulla quale oggi non c’è ancora né una convinzione profonda né una riflessione vera. Ma la strada è, a mio parere, questa. Far crescere una consapevolezza e una maturità nuova nei cittadini e quindi tra i lavoratori che individui nella qualità del rapporto di lavoro, in legittime tutele universali e uguali per tutti, nella condivisione di rischi e opportunità con le imprese la direzione di marcia.

Così come il lavoro 4.0 sarà completamente destrutturato e ricostruito rispetto ad oggi, la composizione dei differenti interessi in campo non può che subire la stessa metamorfosi con esiti imprevedibili, se non governata con intelligenza e lungimiranza.

Bonus, etica, rischi di impresa e management

Il dibattito sollevato nella vicenda Tim/Cattaneo riporta in primo piano i limiti di una cultura che pretende di trovare risposte semplici a problemi complessi. Sostengono alcuni:”Cosa c’è di male di fronte ad una vicenda maturata nel rispetto della legge e della libertà di negoziazione tra le parti?”

Troppo o poco, sono, in questa logica, concetti astratti, fuorvianti financo indebiti. Nessuno ha minacciato nessuno quindi chi pensa di avere qualcosa da dire rischia di passare solo per moralista inconcludente.

Mario Sechi ha pubblicato una classifica interessante. Tanti soldi a molti top manager di lungo corso ma solo due di loro, Flavio Cattaneo (TIM) e Cesare Geronzi (Generali), in un tempo molto breve ed entrambi in settori non di loro competenza. Sarà un caso però anche questo dovrebbe far riflettere.

Parlare di risultati ottenuti è fuorviante. Questa idea che bisogna premiare un top manager ancora prima che entri in azienda (welcome bonus) e alla sua uscita (goodbye bonus…) oltre alle spettanze (seppur molto ben arrotondate) di legge e di contratto la trovo veramente ridicola.

Dicono però i sostenitori della tesi che, nel caso di Cattaneo, lo stesso avrebbe ottenuto risultati eccezionali in un tempo estremamente ridotto. Quindi è giusto premiarlo. Qui siamo, a mio parere, all’assurdo. Un top manager super pagato fa quello per cui è stato ingaggiato e questo suscita ammirazione.

Non ci si scandalizza mai del contrario. Così come non ci si scandalizza che un CDA di quel livello dimostri una così scarsa conoscenza dell’azienda da assegnare obiettivi raggiungibili in un tempo pressoché dimezzato rispetto al punto di partenza. Che strano Paese è il nostro…

Capisco la determinazione che spinge i top manager a tutelarsi dalla volubilità dei CDA ma qui siamo ben oltre ogni logica. Questa vicenda dimostra che un top manager di altissimo livello può pretendere tutele da far impallidire l’articolo 18, non garantire nulla in caso di fallimento con conseguenze sull’azienda stessa o di non raggiungimento degli obiettivi e siglare un patto di non concorrenza (pur non essendo un professionista di quel settore) che serve unicamente per impedirgli di utilizzare (alla faccia del comportamento) le informazioni acquisite, in una azienda concorrente.

E, tutto questo, non avrebbe nulla a che fare con l’etica? Ho conosciuto centinaia di dirigenti di medio e alto livello che hanno rappresentato e rappresentano la spina dorsale delle imprese italiane. Professionisti che si sono costruiti giorno per giorno la loro professionalità e hanno affrontato sfide complesse e che sottraggono tempo alla loro vita privata e agli affetti familiari ma che non hanno nulla a che fare con questa degenerazione del sistema.

Manager il cui obiettivo è fare bene, ingaggiare i propri collaboratori, condividerne le sfide quotidiane senza avere paracaduti nascosti o vie di uscita privilegiate. La stragrande maggioranza dei manager italiani non ha nulla a che vedere con queste eccezioni.

Ma, proprio perché sono tali, andrebbero inquadrate meglio. Leonardo Becchetti ci propone l’approccio di Etica sgr. Lo trovo condivisibile. A chi teme la fuga dei top manager nazionali verso lidi più tolleranti credo sia necessario sottolineare che, generalmente, a certi livelli si arriva anche in forza di impegnative carriere internazionali.

E che l’accettazione di situazioni rischiose per la propria carriera è nei fatti. Ed è comunque tutelabile senza alcuna esagerazione. Se osserviamo la lista proposta da Mario Sechi su LIST (da leggere!) possiamo osservare che molti tra i presenti appartengono ad una elite di fuori quota. Se volessimo quantificarla in termini assoluti non arriveremmo nemmeno all’1% della categoria.

I manager, quelli seri, sanno benissimo che il futuro prevederà sempre di più meccanismi di condivisione dei rischi di impresa. Altro che garanzie…

C’è, purtroppo, un residuo figlio di un tempo che sta volgendo al tramonto dove era solo l’imprenditore a doversi assumere i rischi. Non sarà più così. Ed è meglio che chi non lo ha ancora capito, se ne faccia una ragione.

Quando è troppo….

Flavio Cattaneo se ne va. Ha risanato la Tim quindi ha concluso la sua missione. Difficile pensare che a 54 anni resti disoccupato a lungo. I risultati parlano per lui.

Non ci sarebbe nulla di strano se la vicenda si concludesse con una stretta di mano, un comunicato congiunto e un congruo assegno che consenta al top manager di mantenere il proprio tenore di vita fino ad una nuova sfida professionale.

Per la quasi totalità dei manager italiani questo è l’epilogo previsto dallo stesso contratto nazionale. Ci sono però le eccezioni: alcuni super manager. Loro si autoescludono da questi schemi. A mio parere, esagerano e andrebbero contenuti ben più severamente. L’accettazione di un incarico da parte loro è quasi sempre preceduta dalle richieste di avvocati super specializzati che prevedono, nella stesura del contratto, tutte le opzioni possibili.

Quindi oltre allo stipendio possiamo trovare welcome bonus, i cosiddetti bonus di benvenuto che, nel caso di Cattaneo sembrerebbe ammontare a 2,5 milioni, benefit sostanziosi di vario genere legati allo status e ai risultati di ogni esercizio e infine tutte le clausole rescissorie con le relative contropartite. Tutto questo anche  per evitare qualsiasi contenzioso finale. Sopratutto consente quella “clausola di riservatezza” assolutamente necessaria quando si opera a certi livelli.

Molti, tra i sostenitori dello status quo, ritengono che questi accordi (tra privati) si raggiungono solo con il consenso di entrambe le parti e quindi, sono assolutamente legittimi e non rappresentano alcun problema. Gli oppositori, al contrario, pensano che certe cifre siano comunque fuori luogo anche quando sorrette da risultati eccezionali.

Il caso di Flavio Cattaneo va oltre il caso in sé ed è interessante per una serie di motivi. Innanzitutto, bisogna dirlo in premessa, non siamo in presenza di un bonus erogato comunque pur in presenza di performance negative. Anzi. I dati a disposizione dicono l’esatto contrario. È proprio questa razionalità positiva che, a mio parere, lo rende discutibile quindi ancora di più  “irrazionale”. Purtroppo, ed è vero, c’è chi lo ha preso comunque anche in presenza di performance gravemente negative ma quello, a mio parere, è più paragonabile ad un tipo di reato conosciuto:  il  “furto con destrezza”. 

In secondo luogo l’ingresso in Tim risale a soli sedici mesi fa e il piano da lui presentato fissava in almeno tre anni il tempo necessario per il turn around. Infine il record della cifra in sé rappresentato dal rapporto tra l’entità dell’importo e il tempo trascorso in azienda. Qualcuno ha fatto i conti traducendolo in circa 65 mila euro al giorno. Irraggiungibile.

Quindi una realtà come Tim è stata risanata nella metà del tempo concordata con l’azionista. E qui sta la mia prima perplessità. La qualità della valutazione di partenza.

In altri termini sarebbe interessante capire chi ha valutato così complessa e difficile la situazione di un’azienda di queste dimensioni da rendersi necessario un piano su di un arco di tempo, poi dimezzato. Su quali numeri si basava?

E, se i margini a disposizione erano così ampi, visti i risultati, Il corrispettivo concordato non è forse da ritenersi oggi, da entrambe le parti, eccessivamente generoso?

Il risanamento di un’azienda non è una corsa in pista dove conta arrivare prima. È una maratona. Occorre saper dosare le forze per arrivare in fondo. Conosco molte aziende che non accettano facilmente risultati che si discostano (anche positivamente) da previsioni concordate in sede di budget. E spesso i loro manager vengono giudicati negativamente dai rispettivi CDA.

Quindi, se le cose stanno come si legge sui quotidiani, Tim sembra che fosse in una situazione diversa (o almeno con maggiori opzioni a disposizione)  di come poteva apparire all’arrivo di Cattaneo. O che presentasse margini di manovra ben più ampi. Forse qualcuno dovrebbe risponderne perché oggi, a seguito di quelle valutazioni, l’azienda è chiamata ad un esborso straordinario. Infine l’entità economica della risoluzione del rapporto di cui scrivono i giornali.

Che sia corretta sul piano di ciò che era previsto negli accordi mi sembra fuori discussione. Quindi se fosse una disputa tra ragionieri saremmo a posto. Sommessamente aggiungo però che chi l’ha concordato, a nome e per conto dell’azienda,  mi sembra lo stesso soggetto, diciamo di manica piuttosto larga, che ha giudicato molto più grave la reale situazione economica dell’azienda al momento dell’arrivo del nuovo CEO. Tanto da rendere necessario un bonus stratosferico legato a risultati e tempi di realizzazione medio lunghi. 

Personalmente credo che, comunque la si voglia vedere, l’importo, se confermato, sia fuori da ogni logica. Tim è certamente un’azienda privata che (in teoria) può fare quello che vuole però il suo CDA non può pensare di non essere giudicato da un punto di vista etico per questo. Ma inevitabilmente anche lo stesso Cattaneo.

Certi importi non testimoniano la libertà dei manager e delle imprese ma solo la degenerazione di un sistema in disfacimento. Ai top manager, che occupano posizioni di rilievo nella nostra economia, non può essere consentito di fare contratti dove sono chiari (e spesso garantiti) i soli benefit lasciando le eventuali conseguenze negative, sempre possibili ai soli azionisti o ai dipendenti (manager e lavoratori). Troppo facile.

Così come chi pagherà in futuro  per eventuali conseguenze negative, su Tim stessa, derivate da scelte che nel breve possono apparire corrette ma nel lungo dimostreranno di esserlo molto meno. In molti contratti paracadute, in molti bonus dei top manager, si legge chiaramente il prevalere del tornaconto personale che a volte solo apparentemente coincide con l’interesse dell’azienda nel medio lungo periodo.

Questo è il punto. Nelle aziende ci sono centinaia di manager (dirigenti e quadri) che devono rispettare obiettivi, coinvolgere i propri collaboratori, essere agenti del cambiamento. Soprattutto credere che i loro top manager siamo preoccupati quanto loro dell’azienda di oggi e di domani. Non solo di se stessi. Ecco perché non ha senso dividersi in cinici realisti e moralisti.

Bisognerebbe, al contrario, dividersi tra chi si ferma davanti alla realtà solo per prenderne atto e chi guarda lontano.

Leonardo Becchetti fa bene a ricordarci che anche Ramsete, il grande Faraone egiziano pensava che Mosé fosse un noioso moralista. Abbiamo visto come è andata a finire..

Produttività. E se non fosse solo questo il problema?

Una cosa è certa. Quest’anno (fortunatamente) nessuno prevede un autunno caldo. È già un notevole passo avanti rispetto alle previsioni, che, ogni estate ci annunciano sommovimenti sociali al rientro dalle ferie.

Eppure, nel mondo del lavoro, la situazione permane molto seria. La ripresa c’è seppur in misura inferiore agli altri Paesi. I consumi e l’occupazione, però, restano al palo. Così come gli investimenti.

Dagli 80 euro fino ad arrivare ai quasi venti miliardi spesi per spingere le imprese ad assumere i risultati sono stati abbastanza deludenti.

Dario Di Vico rilancia (  http://2tXQPEL )con una certa dose di buone ragioni l’esigenza di rimettere al centro la questione della produttività e delle relazioni industriali. Le imprese investono con il contagocce, assumono con grande parsimonia e, ai contratti a tutele crescenti, preferiscono i più tranquillizzanti contratti a tempo determinato.

Quello che forse si sottovaluta è che molti imprenditori sono fortemente preoccupati del futuro e quindi non investono nella misura che sarebbe necessaria ad innescare un circolo virtuoso.

La Politica e spesso anche una parte del mondo della rappresentanza, ragiona come se gli imprenditori non leggessero i giornali e si accontentassero delle rassicurazioni, degli incentivi o dei richiami al patriottismo industriale.

L’imprenditore oggi è solo. Molto più di ieri. Al di là di un nucleo importante di multinazionali tascabili o di industrie performanti che fanno sicuramente immagine ma che non fanno PIL duraturo, la stragrande maggioranza delle nostre imprese è sub fornitrice di qualche cosa o di qualcuno che sta altrove e che ne determina continuità produttiva, margini e possibilità di creare lavoro.

L’idea che quell’impresa che non ha alcuna voce in capitolo a quel livello della filiera possa prendersi integralmente i rischi in termini di forti investimenti aggiuntivi e creare di conseguenza occupazione, rischia di essere sempre più impraticabile.  Anche se, in molti casi, può essere una scelta controproducente.

A mio parere due temi restano centrali. Innanzitutto come rimuovere tutti i fattori che ostacolano la competitività delle nostre imprese di cui la produttività è solo uno degli aspetti. E forse neanche il principale se i consumi non dovessero riprendere. Quindi i nodi di contesto (infrastrutture, burocrazia, giustizia).

In secondo luogo il tema della condivisione dei rischi. L’imprenditore, oggi, non ce la fa ad accollarsi integralmente i rischi di investimenti massicci che, a differenza del passato, possono rivelarsi un boomerang da cui rischia di non rialzarsi più.

Su questo terreno qualcosa è stato fatto ma la condivisione dei rischi (e delle opportunità) sarà, che lo si voglia o meno, l’elemento centrale dei prossimi anni alla base di quelle che dovranno essere le nuove relazioni industriali.

Le imprese italiane, salvo rarissimi casi, non occupano posizioni di leadership nelle filiere. Quindi i loro margini sono, e lo saranno sempre più, imposti dai contratti di filiera che di conseguenza determineranno la possibilità o meno di sottoscrivere con i sindacati contratti nazionali o aziendali che siano. Il vero punto di approdo del cosiddetto “Patto della fabbrica” e delle nuove relazioni industriali, se si vuole guardare lontano, sta tutto qui.

Questo è il nodo centrale. Il sindacato confederale deve decidere, prima o poi, se essere della partita o snobbarla e rischiare di subirne le conseguenze. Sulla struttura della contrattazione, sui suoi contenuti e quindi sulla sua stessa ragion d’essere nei luoghi di lavoro.

L’idea di poter svolgere la propria azione redistributiva e normativa in modo tradizionale in un mondo globalizzato e in una situazione di oggettiva fragilità come la nostra, riuscendo a tutelare lavoro, welfare e salario come nel 900 è veramente velleitaria.

Nella prima fase della globalizzazione il capitale poteva semplicemente spostarsi ovunque, delocalizzare, utilizzare il lavoro dove era più conveniente. Il cambiamento indotto dalla trasformazione digitale spingerà le aziende a disegnare ed implementare nuovi modelli di business che consentiranno forti riduzioni di costi e la destrutturazione del lavoro così come l’abbiamo conosciuto e regolamentato nel 900.

Questo processo spingerà, tutti gli attori del sistema, a ridisegnarsi un ruolo attivo o passivo ma è indubbio che i livelli di collaborazione, in azienda, sono destinati ad aumentare. Con o senza il sindacato.

Alla presentazione dell’ottimo libro “Rivoluzione metalmeccanica” di Giuseppe Sabella sulla storia e sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici sia il Direttore Generale di Federmeccanica Stefano Franchi che Marco Bentivogli della FIM hanno condiviso con grande convinzione l’idea del “Rinnovamento” come elemento centrale del rinnovo del loro contratto.

E questo “Rinnovamento” è innanzitutto culturale. È un cambio di fase che è tanto più necessario e trasparente proprio laddove le macerie del vecchio modello sono più eviedenti. Gli altri contratti non hanno colto fino in fondo questa sfida (che non è solo per il sindacato). In quel settore la contrattazione aziendale assume un senso compiuto proprio perché spinge aziende e lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, a cogliere questa esigenza di condivisione dei rischi e delle opportunità.

Ma se a loro è affidato questo compito, ai livelli confederali di imprese e sindacati dovrebbe essere affidato un altro compito, ancora più importante. Contribuire a rimuovere le cause che impediscono al nostro Sistema di essere competitivo.

E su questo mi limito sommessamente a suggerire la necessità che ci sia una convergenza che sappia andare oltre le esigenze di bottega di questa o di quella organizzazione (sindacale o datoriale) e che, al contrario, consenta una convergenza che sappia mettere al di sopra di ogni cosa gli interessi del Paese.

Tu chiamalo, se vuoi, welfare dei consumi…

Difficile trovare chi passi una o più domeniche a osservare i frequentatori di un outlet o di un centro commerciale. Pero sarebbe particolarmente istruttivo  per comprendere le dinamiche sociali.

Così come sarebbe interessante imparare ad osservare i comportamenti dei frequentatori, spesso i più anziani, di un supermercato quando entrano in un punto vendita con un volantino spiegazzato in mano frutto di attente comparazioni su cui sono evidenziati le promozioni.

E come si dirigono con grande determinazione al lineare dove il prodotto è esposto per acquistarlo. E poi, lasciato il primo supermercato, raggiungano il concorrente meno distante dove trovano in promozione un altro prodotto. E così per ore. Il CENSIS lo chiama in modo un po’ borghese il “welfare dei consumi”.

Per le fasce più deboli è, da molto tempo, uno dei tanti modi per far quadrare i conti. Nei paesi dell’est, prima della caduta del muro, era normale partire alla mattina con la borsa vuota e girare alla ricerca di prodotti a buon mercato.

Succede, oggi, anche da noi. La GDO è quindi anche un grande ammortizzatore. Prodotti a buon mercato, luoghi di relazione e mete di relax domenicale. Molti, però, non lo vogliono vedere. Tutti i tentativi di innovazione del marketing nella Grande Distribuzione si sono arrestati davanti al “volantino” e alle tradizionali “raccolte a punti”. Ci sarà un motivo.

Certo ci sono innovazioni. Anche importanti ma il prezzo, la promozione, lo sconto sono ancora elementi importantissimi per molti. Osservare come un pensionato o una massaia capiscono, appena varcata la soglia del supermercato, se quel mese l’insegna punta a fare fatturato o a difendere i margini è fantastico.

Nel primo caso entra e compra nel secondo esce e va altrove. Intercetta tutti i trucchi che i manager commerciali dell’azienda mettono in atto per nascondere le loro politiche. Le stesse insegne vanno spesso in missione dai concorrenti per carpirne e anticiparne le mosse. In una importante catena milanese la vicinanza alle date di scadenza veniva talmente tenuta sotto controllo dai dipendenti stessi per accaparrarsi la merce che sono stati costretti a chiudere alla vendita interna.

Non sono solo i consumatori a tenere sotto controllo le promozioni. Anche i dipendenti cercano di inserirsi. Poi ci sono i furti. O come si preferisce chiamarle: “le differenze inventariali”. Protagonisti clienti e dipendenti stessi. Il numero è altissimo ma si preferisce non parlarne.

Esiste un mondo particolare che ruota intorno e dentro i punti di vendita. I centri commerciali sono, da un certo punto di vista, mete sempre ambite. D’estate per l’aria condizionata, d’inverno per guardare negozi. Nella stagione dei saldi per comprare cercando, a tutti i costi, l’affare.

Negli outlet si affiancano diverse tipologie. Italiani in gita festiva e stranieri portati con il pullman a cui non ha alcun senso spiegare che alcune date sarebbero off limits per i sindacati perché non ritorneranno più una seconda volta.

L’indagine del censis proposta da Di Vico sul corriere (  http://bit.ly/2uLvcYo ) ci racconta anche di una parte del Paese costretto alla sobrietà per necessità, in perenne movimento per scelta, attrezzato per evitare i prodotti civetta che cercano di distrarlo per portarlo fuori strada.

Mi viene da pensare ai tassisti prima dell’uso del navigatore. Conoscevano le vie di Milano con una precisione incredibile. Lo stesso vale per il consumatore costretto alla sobrietà dallo scarso reddito.

Si orienta tra migliaia di referenze, Sa dove acquistare il fresco e il freschissimo migliore, così come la carne e il pesce. Sa dove andare e come orientarsi nei differenti punti di vendita. Conosce tutti i punti deboli e le strategie delle diverse insegne. Ne segue le mosse. Spesso le anticipa.

È vero. Tradisce immediatamente l’insegna al primo segnale di modifica della politica commerciale. Domeniche, festività e h24 non sono fissazioni dei manager delle catene. Fanno parte ormai delle dinamiche dei comportamenti di acquisto.

E c’entra poco indagare su cosa succede nel resto del mondo. In giro per punti di vendita alla ricerca di occasioni si va quando si ha tempo. E se il reddito disponibile non è quello tedesco o quello francese la scelta è obbligata.

La Grande Distribuzione è in evidenti difficoltà. I costi crescono, i margini sono difficili da incrementare, i modelli organizzativi sono radicati, l’innovazione è complessa. Addirittura lo è più di quella possibile per un piccolo esercizio commerciale. Dai discount ai centri commerciali passando dai negozi di vicinato agli outlet e agli specializzati tutte le catene sono impegnate quotidianamente per rispondere ad un consumatore che, è vero come ha confermato il Censis, è tutto meno che fedele.

Però non conosco nessuna insegna che non investa in formazione, sviluppo e crescita del personale più di ogni realtà analoga in altri settori ben più quotati. E che direttamente o indirettamente non cerchi di rispondere a questa popolazione in perenne cammino con risposte concrete e politiche specifiche.

E questo nonostante la crisi dei consumi e la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi di vendita.

L’impresa e il lavoro 4.0 hanno ancora bisogno dell’inquadramento professionale? (2)

Fuori dalle aziende e dalla scuola c’è chi si sta addestrando, a sua insaputa, per il lavoro di domani. Sempre più ragazzini maneggiano tablet, smartphone e altri sofisticati aggeggi elettronici che li formano nell’utilizzo pratico delle nuove tecnologie, nell’accettarne interattività e vincoli e, soprattutto, li spingono a considerare il tempo messo a disposizione come una variabile assolutamente ininfluente.

Restare connessi è normale e scontato. Lo si fa per un obiettivo o uno scopo. Oppure per restare in attesa di obiettivi e scopi altrui. Spazio, tempo e distanza contano sempre meno. Conta la connessione. O c’è o non c’è.

L’azienda di domani, in parte, funzionerà anch’essa così. I più giovani non lo sanno ancora ma, più che digitali, stanno diventano compatibili. Tecnologia sofisticata e connessa che trasmette disposizioni, tempi di esecuzione, modalità applicative.

L’input, in questo contesto, può generarsi ovunque. Così come il controllo e le comunicazioni. Quindi, tre pilastri dei modelli contrattuali del 900, fordista e di quello attuale post fordista, verranno in parte (ovviamente non dappertutto) rimessi in discussione: il tempo, la distanza dalla gerarchia e dai colleghi, il posto di lavoro.

L’orario di lavoro, la sua retribuzione, il luogo dove la relazione con il capo e con i colleghi si manifestano, la distanza e le modalità da dove vengono impartiti criteri e disposizioni di lavoro potranno essere completamente stravolti.

L’azienda tenderà a chiudersi dentro un perimetro fisico e virtuale ben definito proponendo al suo interno valori, linguaggi, modalità di crescita, di comportamento e di coinvolgimento.

Pensare che, in questa situazione, possa restare inalterato o quasi il solo contenitore contrattuale mentre cambia il lavoro, le sue modalità e l’intero contesto relazionale spingerà inevitabilmente imprese e lavoratori a mettere in soffitta sia gli strumenti che i sostenitori degli stessi.

Innanzitutto perderà sempre più di significato la tipologia del lavoro. Tempo indeterminato, tempo determinato, professional, temporary, somministrato, ecc. sono termini destinati a trasformarsi in parole prive di significato concreto.

D’altra parte se viene meno il concetto di orario di lavoro tradizionale diventerà, al contrario, molto importante ciò che si realizza in quel tempo, la sua produttività e quindi il suo riconoscimento economico. Questo comporta che, oltre alla tipologia, anche il relativo inquadramento rischierà di perdere progressivamente di significato.

È il valore del lavoro richiesto ed effettuato, i suoi scostamenti da determinati standard (tutti da ridefinire) che costituiranno l’elemento centrale. Sopratutto se il luogo di lavoro non sarà identificabile in modo tradizionale. Ma anche colleghi e gerarchia potranno essere in più luoghi.

Già oggi buona parte della produzione, di ciò che costituiscono le diverse componenti del prodotto finale di un’azienda, vengono fatti fisicamente altrove. Decine di migliaia di aziende interagiscono tra di loro all’interno di filiere globali.

Fino ad ora, la globalizzazione ha consentito alle imprese di decentrare, delocalizzare e integrare il lavoro di cui avevano bisogno. Queste hanno “approfittato” del costo del lavoro altrui, non hanno ancora “stravolto” il lavoro in sé.

Stiamo entrando in una fase in cui la digitalizzazione e la tecnologia potranno consentire di farlo comprendendo anche forme di un lavoro volontario e semi gratuito che, già oggi, non viene percepito come tale. Così come forme di lavoro povero accessorio o di supporto tipico della cosiddetta economia dei lavoretti.

D’altra parte non stiamo assistendo solo al declino del fordismo ma anche a quello di capitalismo industriale-finanziario, che ha dominato gli ultimi due secoli (che tuttora occupa ancora uno spazio consistente) e dall’affermarsi di una nuova oligarchia a livello planetario che quindici anni fa non esisteva caratterizzata da ingenti disponibilità finanziarie, una enorme velocità nelle transazioni e nelle trasformazioni logistiche, produttive, organizzative conseguenti.

Aziende come Google, Amazon, Alibaba, ecc.,ci mostrano una velocità di sviluppo e una capacità di assorbimento e di ridisegno di business tra loro molto diversi, sconosciuti fino a poco tempo fa ma spingono inevitabilmente anche tutte le altre a abbattere i confini settoriali,  integrare le attività, trasformare il lavoro necessario.

Da un lato le piattaforme logistiche e digitali imporranno una sempre più accentuata automazione di molti lavori. Dall’altro la cosiddetta “gig economy” si diffonderà sempre più acquisendo forme nuove, crescendo di peso così come crescerà la condivisione di prodotti, servizi, esperienze. Ma anche di lavori. Alcuni lavori resteranno sostanzialmente di stampo tradizionale. Altri si “frantumeranno” in più attività dove l’input del secondo sarà l’output del primo.

Gli individui si appoggeranno ad organizzazioni e/o piattaforme in grado di supportarli e di fare rete che renderanno necessario un welfare completamente diverso da quello di oggi perché dovrà rispondere a percorsi professionali inframezzati da interruzioni frequenti, mancanza di reddito e di contribuzione, anni sabbatici, periodi formativi, transizioni, allungamento della vita lavorativa ma con maggiori problemi di salute, ecc.

I contratti e quindi i riferimenti sociali e culturali che dovranno accompagnare questi passaggi, non perderanno di utilità ma diventeranno ancora più importanti proprio per evitare un decadimento progressivo delle regole alla base del rapporto di lavoro gestibili (forse) sul piano organizzativo ma ingestibili sul piano politico e sociale.

I sindacati, datoriali e dei lavoratori, potranno assumere, se lo sapranno comprendere per tempo, un ruolo fondamentale nel definire ambiti e contenuti richiesti, i nuovi luoghi del confronto, le necessarie tutele, nel saperle modificare o adattare con cadenze molto più ravvicinate di oggi, nel supportare i singoli dall’alternanza scuola lavoro fino alla pensione, nel saper costruire un welfare adeguato. Soprattutto una formazione continua di qualità.

Per tutto questo non ci sarà  un’ora “X”. Dovranno coesistere sistemi misti, inclusivi possibilmente condivisi in considerazione della lunghezza della transizione necessaria e della posta in gioco. Questo presuppone una maggiore focalizzazione del rapporto di lavoro sui risultati, sulla qualità e sulla quantità della redistribuzione della produttività tra impresa e lavoro, sul coinvolgimento, sull’attualizzazione delle tutele che sono ancora più necessarie. È sempre meno sul tradizionale inquadramento professionale e sulle liturgie ad esso collegate.

Così come sposta sempre più  l’attenzione del percorso di crescita del lavoratore, dall’azienda al mercato del lavoro. Con tutto quello che questo consegue in termini di diritto soggettivo alla formazione. E questa è l’unica strada percorribile dalle parti sociali alternativa all’affermarsi di forme di “totalismo” aziendale che, altrimenti si consolideranno inevitabilmente puntando a individualizzare i rapporti di lavoro all’interno di regole sempre più lasche determinate dalla debolezza del sindacato.

Non ci sarà quindi un prima e un dopo per il lavoro 4.0. Ci saranno scelte o non scelte che indicheranno o meno una direzione di marcia. E responsabilità da assumersi.

L’importante, però sarà, mentre si andrà a costruire il primo passaggio nel deployement dei contratti attuali, già oggi indispensabile, riflettere su ciò che avviene nelle realtà più tecnologiche e innovative sul piano organizzativo e relazionale. Perché comunque vada, è lì che andremo a finire.

Confindustria e la ricerca della pietra filosofale…

Enrico Marro, avanza, nel suo interessante articolo sul Corriere       ( http://Bit.ly/2r5gMBb ) dubbi e perplessità sulla possibilità che Confindustria sia in condizione di sottoscrivere un accordo importante con le tre confederazioni sindacali.

Personalmente sono convinto che, per la prima volta, le perplessità siano tutte nell’altro campo. E cioè che CGIL, CISL e UIL si trovino di fronte, loro, e non Confindustria, alla difficoltà di sottoscrivere un accordo sui massimi sistemi ma sostanzialmente privo di contenuti concreti e equilibrati.

Eppure la strada sembrava in discesa. Dall’assemblea dei giovani industriali di Capri in poi dove l’indubbio fascino prodotto dal “Patto di Fabbrica” all’interno della cornice della “corresponsabilità” sembrava da un lato dare continuità alla volontà nata con Squinzi di contribuire a favorire  un quadro unitario nel sindacato e quindi confermare, a Confindustria, la leadership in tema di lavoro, di primazia sulla rappresentanza e sui conseguenti modelli contrattuali.

A quelle affermazioni, però, non è seguito nulla di concreto. Anzi. I contratti del comparto industriale si sono rinnovati rapidamente pur senza una governance unitaria, le altre confederazioni datoriali hanno firmato i loro accordi quadro e, sulle diverse tematiche che hanno implicazioni giuslavoristiche (Contratti, Jobs Act, punti di crisi, industry 4.0, Voucher, ecc.), Confindustria, al contrario,  non è sembrata mai in partita.

Personalmente non credo che questa sostanziale assenza possa essere spiegata addebitandola alle pur importanti “distrazioni” che influiscono sull’associazione degli industriali a cominciare dai problemi del loro quotidiano.

È la crisi di un mondo che non è più in grado di proporsi come punto di riferimento per tutti sul piano della nuova cultura del lavoro, del rapporto con i sindacati e dei suoi inevitabili cambiamenti.

Non lo è per la piccola e media impresa industriale dove il sindacato fatica a incidere, non lo è per gli altri settori economici sempre più autosufficienti, e rischia di non esserlo più neppure per la grande impresa manifatturiera che cerca di affrontare le sfide della globalizzazione cercando dentro di sé una coesione che prescinde dai modelli classici della rappresentanza.

In questa situazione molto complessa, alcune categorie industriali (metalmeccanici e chimici, ad esempio) hanno trovato convergenze interessanti in controtendenza. E le stanno sperimentando insieme alle rispettive associazioni datoriali.

La CGIL, da parte sua, sta cercando nuove risposte proponendo di concentrare diritti e tutele più sulla singola persona che sul luogo di lavoro, convinta, in questo modo, di contrastare l’emergere di una precarietà 4.0 che rischia, se non governata, di costituire la cifra vera di una parte del nuovo mondo del lavoro.

Esempi questi che dimostrano che un modello classico e governato come in passato è ormai andato in crisi. Spingere come fa Confindustria solo per una diversa “perimetrazione” della sua giurisdizione contrattuale allargando artificialmente al terziario innovativo la sua dimensione rappresentativa è un errore. Per le imprese ma anche per il sindacato.

Aggiungere contratti a contratti sullo stesso perimetro serve solo a chi li firma. Meno alle imprese e ai lavoratori. Ed è, in fondo, un segno di grande debolezza. Diverso sarebbe proporre un percorso innovativo, nelle singole categorie, che possa portare ad un significativo passo in avanti sulla condivisione delle problematiche in azienda. Quindi sul terreno vero del coinvolgimento e della partecipazione sull’inquadramento, sul welfare e sugli obiettivi di business.

Un contratto dei servizi innovativi di marca confindustriale non interesserebbe necessariamente tutte le aziende che operano già nel terziario e che applicano altri contratti nazionali ma rischia di introdurre una potenziale spaccatura laddove i due settori saranno costretti a convivere, magari nella stessa azienda indebolendo, di fatto, il ruolo delle parti e rallentando inevitabilmente il processo di decentramento contrattuale.

Nel terziario innovativo gestito da Confcommercio la contrattazione aziendale è praticamente inesistente. L’attuale modello prevede un’applicazione esclusiva dei minimi tabellari e una sostanziale libertà di movimento delle aziende stesse. Inoltre ogni tentativo di “invasione di campo” potrebbe provocare inevitabili forme di dumping con effetti tutt’altro che facili da governare.

Con la recente lettera ai sindacati il Presidente Boccia ha riaperto il tavolo. Nella recente assemblea confindustriale, però, non ha speso neanche una parola sull’argomento. Nei prossimi giorni vedremo se il silenzio era propedeutico ad una svolta vera o segnalava un impasse insuperabile. Personalmente mi auguro che si arrivi ad un accordo perché una Confindustria in panchina non fa bene al Paese. L’importante è che sia un accordo che possa essere considerato un vero punto di riferimento per l’evoluzione del sistema.

Milano e la sindrome dell’Expo…

Dario Di Vico (estremamente acuto e mai banale come sempre) stimola una interessante riflessione sulle qualità della città di Torino. (http://bit.ly/2rc9Qow). D’altra parte il salone del libro appena concluso è lì a dimostrarle.

Torino è una città che sta cercando di riproporsi e di cambiare pelle. Sempre più terziaria, ben amministrata, lontana dagli scandali. Reagisce composta se sfidata sul suo modello, sui suoi valori, sulla sua capacità di immaginare il futuro.

E cerca di farlo coinvolgendo anche i suoi cittadini. In modo trasversale ma senza snaturarsi. Quando ha deciso di cambiare non si è rivolta all’usato sicuro rappresentato dal pur ottimo Piero Fassino né ha inseguito gli agitatori di paura. Ha saputo costruire, pur nel filone della nuova offerta politica, un suo candidato adatto al tipo di cambiamento scelto.

È come avesse trovato una sua modalità di approccio per essere globale nel suo proporsi ma anche locale, attenta ad evitare fughe in avanti. Le elites di Torino si riconoscono tra di loro, collaborano, pensano, convergono sobriamente su progetti e proposte, sanno, innanzitutto, di essere di quella città.

Milano, no. Il grande risultato dell’Expo sembra averle dato alla testa. Pretendiamo di essere l’ombelico del mondo senza però riuscire a costruire una identità vera, profonda, condivisa.

Le elites restano distratte e divise, trascinate nei progetti. Non promotrici. Human Technopole, ricordiamocelo sempre, non nasce a Milano. Le istituzioni culturali continuano a non dialogare tra loro così come le elites economiche. Assolombarda è in crisi, la Fiera, pure.

Resta Banca Intesa, la Camera di Commercio, l’azione importante delle associazioni del volontariato. Continua però a mancare un’anima. Un disegno vero.

Sembra che l’Expo abbia prodotto un effetto collaterale, una sorta di diritto divino a sentirsi primi e unici a prescindere e a fagocitare tutto ciò che è possibile generando un senso di antipatia e non ad essere riconosciuti come un vero punto di riferimento,  portatori di una sfida da condividere. Milano rischia la megalomania.

Un ex sindaco, Pisapia, vuole (addirittura) rifondare la sinistra. L’attuale sindaco, in carica da meno di un anno, indicato (spero non da se stesso) come futuro Presidente del Consiglio.

Sull’Agenzia del farmaco sembra che nessuno si accorga che Francia e Germania si stanno già accordando su Strasburgo così come sulle Olimpiadi del 2028 dove il messaggio sembra essere più finalizzato allo scontro politico in corso con i pentastellati che a un disegno di alto profilo.

Il grido di battaglia sembra essere:”Milan e pœu pú”. Milano che, quindi, basta a se stessa. Tutto il contrario di ciò che ci vorrebbe. Una città che, proprio mentre si sta trasformando, deve ritornare ad essere accogliente per i suoi cittadini ma anche per chi arriva, al centro come in periferia, che sa costruire ponti con altre culture e con altri mondi ma offre con generosità, a chi ha intorno, occasioni e strumenti per crescere insieme.

Che non fagocita ma promuove. Per questo, da milanese, non posso che essere contento dalla lezione di stile che ci viene da Torino e dal salone del libro.

È un segnale che ci indica una diversa direzione di marcia su cui riflettere. Speriamo sia colto da tutti.