Se al disagio sociale si risponde in modo insufficiente…

Fino al referendum sembrava tutto chiaro. Da un parte chi voleva cambiare il Paese, dall’altra tutti gli altri. In mezzo, ma comunque schierato con il NO, chi pensava comunque giusto cambiarlo ma non così come veniva proposto da Renzi e dal PD.

Nessuno poteva però immaginarsi cosa sarebbe successo il 4 dicembre. Né in un campo, né nell’altro. Né tantomeno i media o gli intellettuali schierati che continuano tuttora a non vedere i problemi di una parte del Paese tutti presi a fornire della realtà una lettura esclusivamente politicista cioè cristallizzata nelle logiche e nei riti della politica.

Tre incognite di cui nessuno aveva previsto le dimensioni. L’affluenza, il voto giovanile, le rabbia sorda delle periferie urbane e rurali. Tutte e tre queste incognite si sono riversate, pur con motivazioni differenti sul NO.

Non necessariamente sulla riforma proposta che pochi hanno preso in considerazione al momento della scelta. Un NO forte e chiaro che ha tante componenti e, non tutte, coerenti fra di loro.

L’affluenza, che rappresenta l’elemento unificante, indiscutibile della protesta e dell’esternazione del disagio sociale delle altre due incognite, il voto giovanile e la situazione di grave difficoltà che si vive nelle periferie urbane e rurali del Paese sono, a mio parere, gli elementi da cui partire. Altrimenti continueremo a cercare soluzioni semplici a problemi difficili.

L’ottanta per cento di NO sotto i 34 anni evidenziano una spaccatura generazionale fatta di mancanza di lavoro e di reddito ma anche di mancanza di comunicazione intergenerazionale.

Una spaccatura che nessuno riuscirà  ad interpretare in chiave politica. Molti di questi giovani, pur saliti transitoriamente sul taxi dei 5 stelle, hanno capito benissimo che nessuno è in grado di fornire loro risposte sufficienti in tempi ragionevoli e utilizzabili concretamente.

Ma non protestano più in piazza come le generazioni precedenti. Si lamentano sui social prigionieri di un mondo che non riesce né a farsi sentire dal resto della società né ancora a costituire un blocco sociale forte in grado di ribaltare la situazione a proprio favore.

Lo stesso mercato del lavoro è stato costruito per mettere a disposizione modeste e parziali risposte, in termini qualitativi e quantitativi in una situazione di crisi e di mancanza di prospettive. Risposte frustranti, lontane dalle aspettative e dagli studi effettuati dai ragazzi stessi, che spesso contribuiscono a minare in profondità l’autostima di chi non è messo in condizione neanche di proporsi per un lavoro.

Restano solo i social dove condividere questa impotenza prendendosela contro nemici immaginari continuamente proposti da cattivi maestri. Ma se non finalizzata è gestita questa rabbia inconcludente sarà costretta a cercare sbocchi come un fiume carsico e a produrre inevitabili quanto gravi lacerazioni del tessuto sociale. Da qui si capisce perché il Jobs Act, ad esempio, non ha creato nessun entusiasmo nei diretti interessati. Anzi.

Così come la tensione che sta montando nelle periferie contro gli immigrati, i vicini di casa, nelle famiglie e tra le famiglie.

Disagio grave che ormai non è più gestito da nessuno. A parte gli schiamazzi dei populisti nostrani che rischiano di bruciarsi le mani loro stessi se continuano ad esacerbare gli animi senza offrire soluzioni. Di fronte a questa situazione la politica, purtroppo, parla d’altro. Di coalizioni, voto anticipato, consultazioni. I giornali imperterriti accompagnano questo teatrino che scava solchi profondi tra le elites e le persone normali.

Di Vico ci racconta spesso con grande lucidità delle modificazioni che attraversano il mondo del lavoro. Le tre classi proposte nei suoi articoli secondo la definizione del sociologo Antonio Schizzerotto (L’operaio cognitivo, l’operaio fordista, il nuovo proletariato della logistica ma anche dei servizi alla persona, facchini e badanti, soprattutto stranieri) non si congiungono però a sufficienza con il retroterra sociale e il contesto economico nel quale queste figure si muovono e interagiscono o si scontrano tra di loro. Né con il resto del sottoproletariato urbano o rurale che vive alla giornata in un contesto di lavoro nero, malavitoso o, addirittura, in semi schiavitù.

Questa miscela tra mondo giovanile, lavori sottopagati o marginali, lavoro nero, disagi abitativi e di relazione, modelli di convivenza si sta radicalizzando e, questi aspetti non trovano più nella comunità, nella parrocchia, nel sindacato, nella scuola o nella famiglia ammortizzatori sufficienti e credibili.

E questo mondo, sempre più emarginato, si trova di fronte solo qualcosa di inarrivabile, impalpabile, inutilizzabile, dotato di una comunicazione astrusa e tutta da addetti ai lavori. Una comunicazione che parla solo di più zero virgola del PIL, di “ce lo chiede l’Europa” che resta matrigna e lontana, di Borsa, di posti di lavoro che riguardano solo gli altri, di vitalizi, di sprechi, di attività economiche che chiudono e di immigrazione incontrollata.

E tutto questo ha preso via via sempre di più le sembianze di una persona, il Presidente del Consiglio, ritenuto unico e massimo responsabile, verso cui la politica (con la p minuscola) ha indirizzato tutti gli strali possibili per non condividerne le responsabilità che non sono assumibili se non dall’intera comunità nazionale e rifiutandosi di fare un’opposizione seria e costruttiva.

E lui, anziché comprendere questo disagio e questa avversione crescente e questa sua impossibilità a gestire da solo questi passaggi ha continuato imperterrito la sua strada in solitaria e la sua narrazione del Paese che vorrebbe e non quello che è e da cui non si può prescindere.

Adesso, però, sia chiaro, sono guai per tutti.

Per una sinistra salottiera e senza idee che ha lasciato a suo tempo le periferie per conquistare il centro ma che, in questo modo, non sa più capire le periferie e i problemi che vi insistono, per una destra populista che pullula di piromani ma non sembra avere capacità di una proposta politica equilibrata e per movimenti che presidiano la rete ma non hanno la più pallida idea di cosa sia un quartiere popolare dove convivono etnie, abitudini, rabbie differenti. E, da questo punto di vista l’esempio di Roma capitale è paradigmatico.

Una cosa a mio parere risulta molto chiara.

Che lo si voglia o no, è solo partendo da ciò che ha spinto una parte minoritaria seppur importante dell’elettorato, a chiedere un cambiamento vero che si può ricostruire una comunicazione concreta, un rapporto, una proposta con quella parte che, con altrettanta buona fede, si è trincerata con lo schieramento opposto. Quindi occorre ripartire dalle profonde ragioni di cambiamento vero di chi ha votato SI.

Se qualcuno pensa che la soluzione sia nell’approfondire le contrapposizioni non ha capito nulla.

Il referendum un cosa ce l’ha insegnata. Ci sarà chi lavorerà in questa direzione per acuire le contraddizioni sociali. I COBAS ci stanno già provando. Così come l’estrema destra.

I riformisti di entrambi gli schieramenti devono capire che quel NO non è solo un esercizio democratico assolutamente legittimo ma contiene anche veleno sociale, lacerazione, quindi pericoli per la stessa democrazia.

Per questo occorre ttrarne le conseguenze necessarie. E questo impegno non può essere lasciato solo alle forze politiche. Nessuno si deve permettere di scherzare con il fuoco se ha a cuore il futuro del Paese.

Oltre il referendum. Non perdere la speranza e non rinunciare alle buone battaglie

Nella vita a volte la strada è tracciata ma l’orizzonte resta oscuro:
occorre avanzare con speranza passo dopo passo.

Enzo Bianchi

 

Marco Bentivogli lo ha detto bene prima del referendum. “Sono molto convinto delle ragioni della Riforma perché questo Stato è organizzato con regole che sono contro la solidarietà e la sua efficienza. E a chiunque vincerà continuerò a chiedere di cambiare.

Sono tra coloro che se prevarrà il No, insisterò per le riforme, con qualsiasi Governo. E che se vincerà il Si le cose siano ben fatte in coerenza con gli obiettivi propagandati. Ma soprattutto insisteremo per andare avanti. Questo è un paese in cui le cose sono fatte appositamente per chi non ha bisogno di regole e dello Stato.”

Il punto centrale per chi è impegnato nel mondo del lavoro e dell’impresa sta tutto qui. Ci sono riforme in mezzo al guado, scadenze in arrivo, contratti da gestire.

Nessuno, in chi fa politica seriamente e tanto più nelle organizzazioni di rappresentanza, può permettersi di giocare al “tanto peggio, tanto meglio”, di covare vendette o rancori postumi né di rassegnarsi ai tempi delle convenienze politiche di questo o di quel partito o movimento.

Fortunatamente abbiamo un Presidente della Repubblica che ha sempre esercitato un ruolo di arbitro e di garante e che oggi può vantare una autorevolezza che né il compatto fronte che ha perso il referendum né il variegato fronte che ha vinto può vantare. Il Paese ha bisogno di un Governo.

Non credo sia una buona cosa andare al voto prima della scadenza naturale del 2018 a meno che non si voglia continuare una campagna elettorale ancora più dura ed estenuante di quella appena terminata che accentui ulteriormente la divisione tra i 13.432.208 italiani che hanno votato SI e i 19.419.507 che hanno votato NO.

In un mio recente intervento sul blog scrivevo: “il mio SI non si esaurisce il 4 dicembre dove è naturalmente scontato. Voglio pensare che il patrimonio di consenso che prenderà forma quel giorno al di là del risultato numerico verrà raccolto con convinzione per continuare a tenere accesa la volontà di cambiamento del Paese indispensabile a prescindere dall’attuale Presidente del Consiglio.

Ecco io non credo legittima la reazione di chi dice che adesso tutto deve restare com’è quasi fosse una punizione divina per il popolo che, al contrario si è ormai espresso in termini così perentori. Occorre che si ritorni pazientemente a ricostruire un tessuto tra i riformisti presenti in entrambi gli schieramenti con lo scopo di utilizzare tutto il 2017 e fino alle elezioni naturali del 2018 per fare ciò che serve al Paese.

Van der Bellen ha vinto in Austria alzando lo sguardo e rilanciando la speranza degli Stati Uniti di Europa non inseguendo i populisti sul loro terreno. Le donne e i giovani austriaci gli hanno creduto e gli hanno dato la forza necessaria per consentirgli di riunificare un Paese nel quale, sia chiaro, la destra non è paragonabile alla nostra.

Io spero e credo che chi si è riconosciuto nel cambiamento oggi deve saper guardare lontano  e rilanciare la speranza di un Europa diversa, superando i rancori, lo spirito di rivalsa e i tatticismi ormai inutili visto che “Annibale è alle porte”.

Continuo a pensare che c’è un enorme spazio di ripresa e di iniziativa che non va disperso. Lo sintetizzo così: Voti ottenuti nel 2014 alle Europee dal fronte per il SI (Pd-Area Popolare): 12.405.581. Oggi è 13.432.208 e con un pezzo di Pd schierato per il No. C’è ancora molto da fare.

Personalmente resto ottimista sulle prospettive. Come lo ero prima del referendum. Continuo a pensare che un vero “Patto per il Paese” sarebbe il vero snodo.

Tre, quattro priorità importanti da condividere su cui forze sociali e Politica possano iniziare a ricostruire un senso di comunità nazionale.

Verranno ancora i giorni nei quali avrà senso confrontarsi tra idee diverse, dove forse una globalizzazione finalmente intelligente e un’idea diversa di Europa dovranno affrontare con maggiore convinzione e determinazione populismi ed egoismi che si radicano laddove la Politica si ritira e cede il passo alla demagogia, ma non è questo quel giorno.

Oggi occorre far tesoro di questi risultati e ricostruire quella necessaria fiducia collettiva che ci consenta di immaginare e di continuare a credere nel nostro futuro.

E questa fiducia si ricostruisce su valori condivisi, senso della comunità e facendo perno sugli interessi generali del nostro Paese.

Contratto metalmeccanici. Un negoziato vero.

Non me ne vogliano i molti amici che ho anche nel sindacato (e che vorrei mantenere) ma questa è forse rimasta una delle poche categorie che negozia sul serio e di questo gliene va dato atto.

Almeno oggi, giorno della firma del CCNL. Pur avendo inventato loro stessi la “legge del pendolo” hanno saputo metterla da parte al momento giusto e con una certa classe. Lo dico soprattutto pensando a Federmeccanica.

Da entrambi i lati del tavolo sono sempre stati seduti ottimi negoziatori e altrettante buone ragioni. Per questo un rinnovo di contratto dei metalmeccanici insegna sempre qualche cosa. Si apprezza in sé, come un buon vino.

Non è più sufficiente per cambiare verso al contesto sociale del Paese, né per mettere in difficoltà un Governo. Neanche può  fare scuola in altri settori ormai troppi gelosi della loro autonomia.

Però è ancora in grado di segnare i confini di una comunità specifica, ricca di stimoli e di idee, di indicarne un destino comune, di produrre un tratto caratteristico che accumuna sia i sindacalisti che gli imprenditori.

E quindi le rispettive basi di riferimento. Sono fatti della stessa pasta sia quando cercano di innovare che quando resistono al cambiamento. E, proprio per questo e sempre più spesso, fuori da quella comunità, i messaggi perdono quella carica emotiva e specifica che in quel perimetro, al contrario, funzionano da collante e da molla propulsiva.

Ne sa qualcosa Landini quando è stato tentato dalla coalizione sociale da cui è fuggito consapevolmente prima che fosse troppo tardi o quando, un dirigente metalmeccanico, entrando in una qualsiasi delle diverse segreterie confederali, ne perde immediatamente colore e calore.

Sono fatti così. Devono stare tra di loro per dare il meglio. Quando Sergio Marchionne, replicando a Diego Della Valle lo ha accusato di spendere in ricerca e innovazione quanto lui spende per un parafango si è iscritto anch’egli in quel club esclusivo. Perché, sia chiaro, non sono così solo i sindacalisti.

Fino ad oggi solo Pierre Carniti nella Cisl è forse riuscito a sfuggire a questa logica. Ma stiamo parlando di una figura forse irripetibile per il sindacalismo italiano post sessantottino. In un sindacato provato da mille battaglie, indebolito nei luoghi di lavoro, in crisi di strategia dove altre categorie si fanno avanti con numeri, iscritti e intese di tutto rispetto, quello che avviene in questo perimetro, resta ancora molto importante.

Innanzitutto perché il negoziato, qui, è ancora un vero negoziato. Entrambe le parti lo sanno bene. Quindi la preparazione segue una impostazione di scuola classica. Si studiano contenuti, mosse, concessioni, tempi e contropartite.

Nessuno concede nulla gratis e nessuno fa inutili passi falsi. I punti di partenza di questo rinnovo erano chiari. Federmeccanica avrebbe giocato una partita difficilissima dopo la vicenda FCA nel rapporto con i propri associati e dentro una Confindustria in fase di cambiamento ma anche in crisi e, dall’altro lato il negoziato si sarebbe dovuto chiudere, per la prima volta, con tutto il sindacato di categoria. FIOM compresa.

Lo stesso doveva valere per il gruppo dirigente dei metalmeccanici. Questa lealtà e questa visione di fondo, tutt’altro che scontata altrove, qualifica lo spessore qualitativo dei rispettivi gruppi dirigenti di cui, non solo per questo motivo, non è difficile prevederne l’evoluzione futura. Indubbiamente merce sempre più rara da entrambe le parti…

Tornando nel merito Federmeccanica aveva tre obiettivi. Iniziare a smarcarsi dal fordismo culturale e sindacale di cui il contratto nazionale dei metalmeccanici rappresenta il “Summa Theologiae”, ridurne la centralità del CCNL come soggetto di governo salariale e consentire alle aziende associate di tenere sotto controllo le dinamiche retributive e di costo del lavoro anche utilizzando tutte le opzioni messe a disposizione dalle nuove forme di welfare.

La proposta di “rinnovamento contrattuale” muoveva da qui. Aprire al futuro valorizzando le persone spostando il baricentro del coinvolgimento dove ha più senso e puntando decisamente al welfare contrattuale. Le “pretese” iniziali avrebbero rappresentato l’optimum desiderabile ma se il risultato va in quella direzione è certamente positivo.

Chi nel sindacato come Marco Bentivogli puntava nella direzione del cambiamento vero può essere altrettanto soddisfatto se si realizza un maggiore spazio per la contrattazione decentrata, quindi un maggior ruolo del sindacato nei processi di cambiamento e di innovazione, un passo avanti unitario sul welfare contrattuale e un grande risultato sul diritto soggettivo alla formazione.

Solo così si prepara il futuro della categoria. Senza dimenticare il mantenimento del contratto nazionale come elemento centrale da cui ne potrà discendere l’impianto deregolatorio successivo.

Un accordo win win dove entrambe le parti hanno esercitato un ruolo positivo e concludente.

Un contratto nazionale che guarda al futuro, apre all’accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil e a quel famoso “Patto della fabbrica” cuore della corresponsabilità di cui vorrebbe essere promotore il Presidente Boccia e, nel quale, sembrerebbe voler riporre tante aspettative.

Staremo a vedere. Per oggi facciamo i complimenti ai negoziatori. Nei prossimi giorni avremo modo di leggere con maggiore cura i singoli testi.

Perché vincerà comunque il SI…

Mi sono stancato di sondaggi e commenti come credo tanti come me. La Brexit e le elezioni americane mi sono bastate.

La superficialità, salvo pochi casi, ormai domina sovrana. Purtroppo gli stessi soggetti che non hanno azzeccato alcuna analisi continuano imperterriti nonostante la pessima figura registrata.

Con una rapidità impressionante i media hanno scaricato i sondaggisti che, rassegnati e desiderosi di non essere messi definitivamente fuori gioco, hanno accettato la parte pur non essendo gli unici colpevoli…

Sul referendum istituzionale il gioco continua. I temi sono due e, guarda caso, nessuno sul merito del referendum stesso: la fine di Renzi come Presidente del Consiglio e la conseguente resa dei conti nel PD.

Il primo tema mi sembra scontato: se Renzi perde si dovrà fare da parte come Presidente del Consiglio. Lo ha detto e credo che lo faccia.

Il punto che forse molti sottovalutano è che, anche in questo caso, Renzi non perderà affatto sul piano politico. Avrà “solo” perso il referendum.

Proprio l’averlo personalizzato e aver spinto la compagine che lo ha avversato a personalizzarlo contro di lui lo porrà alla testa della percentuale che, pur nel caso di una sconfitta di misura, rappresenterà comunque un’area vera che esprime una volontà di cambiamento ben maggiore dell’elettorato del PD stesso.

E, siccome l’eterogeneità degli avversari non consentirà alcuna riforma, si potrà preparare alle elezioni del 2018 alla testa di un partito, il PD nel quale gode di un consenso ben maggiore di quello accreditato da chi tende ad enfatizzare posizioni assolutamente irrilevanti presenti al suo interno.

Quindi chi pensa di mandare in pensione anticipata un leader che registrerà comunque un successo personale ben superiore a quello del suo litigioso partito mentre gli avversari dovranno accontentarsi di un risultato ingestibile credo abbia fatto male i suoi conti. Così come chi, nel PD, pensa di rientrare in gioco in un partito pur litigioso oltre ogni immaginazione ma profondamente cambiato.

In un Paese in affanno e in difficoltà sociale ed economica con un destra in ricostruzione tra salviniani anti euro e governativi filo europei e i grillini in crisi di crescita, le elezioni del 2018 non si presenteranno così negative per chi sarà individuato come l’unico che ha tentato di personificare e portare avanti un cambiamento fortemente contrastato e, a quel punto, tutt’altro che compiuto.

Lo stesso cambio di tono di questi mesi segnala un disegno che guarda più in là del voto imminente. L’aggressività nei confronti dei “burocrati” dell’Unione non è casuale né finalizzata solo al 4 dicembre. In gioco c’è molto di più.

Soprattutto dopo le elezioni USA.

Questa è la ragione principale per cui il mio SI non si esaurisce il 4 dicembre dove è naturalmente scontato. Voglio pensare che il patrimonio di consenso che prenderà forma quel giorno al di là del risultato numerico verrà raccolto con convinzione per continuare a tenere accesa la volontà di cambiamento del Paese indispensabile a prescindere dall’attuale Presidente del Consiglio.

Di questo ce n’è indubbiamente un gran bisogno. E da questo punto di vista il referendum istituzionale è certamente un’occasione importante per mostrare fin dove possono arrivare i nuovi confini.

È vero c’è stata la Brexit, Trump ha vinto negli USA votato anche dagli operai e il disallineamento tra popoli e rispettive elites sembra approfondirsi.

Ma il referendum in Italia non c’entra praticamente nulla con tutto questo.

Gli altri Paesi hanno un debito pubblico sotto controllo, non hanno tre delle cinque mafie più importanti sul loro territorio  e non hanno un’evasione fiscale paragonabile alla nostra.

Cambiare non è solo un capriccio di pochi ma un’esigenza del Paese e dire che è possibile comunque farlo dicendo NO al referendum, pur incomprensibile, resta un diritto.

Pensare di farlo mettendo insieme una compagnia eterogenea che è la stessa che ha fatto poco o nulla fino ad ora è un’impresa impossibile.

Per questo il SI vincerà comunque. Che piaccia o meno agli esperti di casa nostra….

Merito individuale e sindacato, un ossimoro insuperabile?

In un recente convegno del Forum della Meritocrazia ha preso la parola Roberta Roncone, una dirigente della FIM CISL, il sindacato dei metalmeccanici.

Un intervento richiesto che dimostra la visione degli organizzatori che vedono nel Merito con la emme maiuscola una sfida necessariamente da allargare a tutti i soggetti che concorrono a determinare i risultati in azienda.

Dall’altro, una partecipazione senz’altro voluta da un sindacato, la FIM CISL che cerca di comprendere a fondo l’evoluzione dei modelli organizzativi, la professionalità quindi la formazione necessaria e il suo riconoscimento. E questo implica inevitabilmente un atteggiamento sindacale ben diverso dal passato nei confronti dell’impegno individuale e del merito.

Se torniamo un po’ indietro nell’impresa post bellica e prima della grande ondata migratoria dal sud, nelle aziende del nord si respirava un’aria fortemente paternalistica ma, tutto sommato, collaborativa. Il rapporto tra imprenditori, dirigenti e lavoratori era duro ma costruttivo. Dalla culla alla tomba l’azienda si occupava dei suoi dipendenti migliori in cambio della loro totale fedeltà. Il sindacato era ai margini.

Bisogna arrivare a dopo la metà degli anni 60 per vedere questo rapporto, comunque asimmetrico, entrare definitivamente in crisi. Soprattutto nella grande impresa.

Non è un caso che le prime grandi rivendicazioni operaie avvengono in aree periferiche e non come sarebbe stato prevedibile nel triangolo industriale. Dove l’etica del lavoro, l’impegno e la disponibilità erano maggiori.

Ma qualcosa si stava rompendo e le aziende stentavano a comprenderlo. Simbolico, ad esempio, è l’abbattimento della statua del conte Marzotto a Valdagno.

Il paternalismo e la vecchia disciplina quasi militare, che non permettevano una gestione collettiva fuori dai rari accordi nazionali, non erano più in grado di affrontare la nuova fase dove il fordismo cominciava a pretendere ritmi di lavoro sempre più elevati, spersonalizzanti che spingevano inevitabilmente i lavoratori verso le rivendicazioni egualitarie, di massa, proposte dalle organizzazioni sindacali.

Nelle aziende gli uffici del personale prima, le direzioni relazioni industriali poi, diventarono centrali. Affrontavano quotidianamente forti sollecitazioni dal basso e, di fatto, dettavano le regole del gioco a tutto il sistema rendendolo poco sensibile al merito, e al riconoscimento dell’impegno individuale.

Ci sono voluti almeno una decina di anni circa per assorbire e riportare in condizioni di normalità quelle contraddizioni che in parte, purtroppo, permangono ancora oggi. L’affacciarsi delle prime crisi di mercato ha poi fatto il resto.

Le imprese però hanno comunque cercato di mantenere un sufficiente grado di autonomia totalmente slegato dalle richieste sindacali soprattutto nelle piccole e medie aziende perché un rapporto di maggiore coinvolgimento e collaborazione tra imprenditore e lavoratori era connaturato sia alla dimensione che al modello organizzativo. Nelle grandi, al contrario, occorrerà attendere l’arrivo, più in là, dei modelli di gestione delle multinazionali.

Con politiche prima rivolte a dirigenti e quadri, poi a risorse chiave e giovani. Nell’impresa fordista (non solo industriale), però, hanno continuato ad essere esclusi gli operai che restarono e restano, di fatto, tuttora gestiti quasi esclusivamente dalla contrattazione nazionale o aziendale con tutti i vincoli conseguenti.

Da qui, ad esempio, la necessità del sindacato di spingere verso l’alto intere categorie di lavoratori a prescindere dal merito o dall’impegno individuale. E quindi L’inevitabile  costruzione di una cultura corrispondente.

Oggi il paternalismo di vecchio conio è relegato nelle imprese perdenti ma anche le richieste sindacali tradizionali non trovano ascolto.

Le politiche retributive, i sistemi di valutazione, lo sviluppo professionale e il welfare sono sempre più gestiti con un approccio moderno, condiviso e oggettivo.

Parole come, merito, trasparenza, impegno, contributo individuale e collettivo al successo dell’impresa, flessibilità, professionalità sono condivise anche dalla stragrande maggioranza dei lavoratori.

Il sindacato, o almeno parte di esso, si rende conto di essere fuori gioco. Le aziende, tra l’altro, sono sempre meno interessate a proporre atteggiamenti strumentali o non oggettivi.

Un rapporto di lavoro che non è più “dalla culla alla tomba” presuppone reciproci interessi da riconoscere. Si trasforma inevitabilmente in un rapporto adulto, dove le convenienze devono essere evidenti per entrambi i contraenti.

Se non ci sono più garanzie sulla durata del rapporto di lavoro lo scambio deve prevedere altri valori o interessi.

Quindi la qualità e l’immagine dell’impresa, la possibilità di crescere non solo economicamente, di apprendere, del welfare proposto, di mantenere un proprio valore sul mercato costituiranno sempre di più un elemento importante di valutazione.

E un’azienda sempre più orientata al riconoscimento del merito individuale, dell’impegno, della collaborazione di tutte le sue componenti nella realizzazione dei propri obiettivi Inevitabilmente attrae e mantiene i propri talenti, costruisce un clima positivo, ingaggia e coinvolge di più i propri collaboratori.

Se il sindacato si ferma davanti ai cancelli e si limita a pretendere un ruolo a prescindere dalla propria volontà di contribuire ad una autentica corresponsabilità finirà inevitabilmente marginalizzato. La strada è ovviamente lunga perché la cultura di provenienza e le diffidenze delle imprese pesano come un macigno.

Ma le sfide da industry 4.0 ai nuovi mestieri prodotti dalla globalizzazione incombono e spingono verso scelte nette. Per questo hanno fatto bene il Forum della Meritocrazia e l’AIDP a favorire questo incontro. E ha fatto bene la FIM CISL a mettersi in gioco accettando la sfida.

La coda del cane..

Quando mi trovo incastrato in discussioni su come chiamare una nuova situazione, un nuovo concetto, un’attività mai fatta prima ricordo sempre quel vecchio proverbio che dice: ” puoi anche decidere di chiamare zampa la coda del cane ma comunque non puoi sostenere che il cane ha cinque zampe. In tema di nuovi lavori siamo un po’ qui.

Da una parte chi pensa che sia assolutamente necessario lasciar crescere un fenomeno indotto dalla tecnologia e dalla globalizzazione non preoccupandosi più di tanto di trovargli un nome appropriato e una classificazione conseguente.

Dall’altro chi si preoccupa di dover inserire immediatamente l’anomalia in una casella tradizionale o crearla ad hoc. Al netto della tecnologia, quindi già da molto tempo, i sistemi retributivi, di inquadramento contrattuale e di classificazione sono utilizzati dalle imprese esclusivamente per evitare contenziosi.

Le quattro definizioni del codice civile, pur essendo indispensabili ai fini giuslavoristici fanno sorridere nella vita reale delle organizzazioni. Come nel film “Quo Vado” era il posto fisso a identificare una categoria di lavoratori, in azienda, se si volesse fare altrettanta ironia, si utilizzerebbero termini come Dirigente, Quadro, impiegato e operaio.

Oppure le declaratorie contrattuali. Tutti questi termini nascono e muoiono nella lettera di assunzione che definisce i confini del rapporto di lavoro ai fini giuslavoristici. Poi c’è la vita vera.

Questa spaccatura netta tra definizione giuridica e contrattuale e realtà è stata importata dalla cultura delle multinazionali e si è imposta già a partire dagli anni 90. Non ha però influenzato il pubblico impiego né parte del lavoro autonomo tradizionale né quello che resta del fordismo ormai al tramonto.

In alcuni contratti si è tentato in qualche modo di rincorrere il problema ma i buoi erano ormai già usciti dalla stalla. I sistemi retributivi, premiali, di valutazione, la denominazione delle posizioni di lavoro e i conseguenti livelli di inquadramento, pur facendo riferimento ai contratti nazionali per i motivi di cui sopra, vivono ormai di luce propria e sono gestiti direttamente dall’impresa.

E quello che sta avvenendo all’interno delle aziende avviene anche nel lavoro autonomo, ordinistico e non ordinistico, stravolgendo contenuti, confini, compensi e opportunità. In questo contesto nascono nuovi mestieri o spunta periodicamente l’idea di rinominarli.

Così i fattorini o pony express diventano bikers, vendere le enciclopedie la domenica o distribuire i volantini dei supermercati, gig economy, affittare la propria stanza ad uno studente o a un turista, sharing economy.

Tutte cose che in misura modesta si sono sempre fatte. La nostra vecchia arte di arrangiarsi, rivisitata nella silicon valley, si è trasformata in jugaad innovation e viene insegnata da guru che riempiono aule di manager alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Solo che dietro a tutto questo non c’è la signora Maria di turno o il cassaintegrato che, in nero, arrotonda il suo magro reddito ma multinazionali in grado di influenzare il dibattito internazionale sul fisco, sul lavoro e sulla tecnologia.

E quindi, certi temi, vengono affrontati con cautela o con subordinazione. Sul fisco non si parla di grandi evasori che sfruttano le falle dei sistemi nazionali così come sul lavoro o sulle attività economiche non si parla di regole che devono valorizzare la sharing economy senza farla scadere in shadow economy sulla quale peraltro vantiamo, credo, il primato mondiale.

Mi ricordo quando sul finire del secolo scorso in alcuni supermercati della Coop comparvero pensionati di quell’azienda intenti a riempire sacchetti, alle casse, per sveltire il servizio ai clienti. Operazione meritoria. Purtroppo interdetta alle aziende concorrenti subito bersagliate dagli ispettori del lavoro. Quindi stesso mercato, stesse regole.

Che dire? È chiaro che non ha alcun senso attendere l’esito delle cause in Inghilterra su Uber o le decisioni della città di New York. Forse avrebbe più senso affrontare il tema senza farsi prendere la mano dalle mode o dalla paura del giudizio interessato di molti.

È un po’, mi si passi il paragone forzato, come la questione dell’olio di palma. Le imprese, o almeno una buona parte di esse, ha aderito ad un onda cercando di sfruttarla dal punto di vista del marketing fino a quando un’azienda importante che ritiene fondamentale l’uso  di quel prodotto non ha detto basta trasformando uno tsunami in una tempesta dentro un bicchiere d’acqua.

Qui siamo. Da un lato c’è il lavoro che cambia in una fase comunque di transizione epocale. Nei prossimi anni dovremo far coesistere modelli, culture, regole che comprendono sia il vecchio che il nuovo. È il destino delle nostre generazioni.

Noi siamo chiamati a fare quello che abbiamo sempre fatto in modo nuovo. Chi verrà dopo di noi, al contrario, dovrà fare cose nuove in modo nuovo. A noi spetta il compito di renderlo possibile senza lasciare scoperto nessuno. E soprattutto senza prendere in giro nessuno.

È il momento di rompere gli schemi…

Con la concertazione giunta al capolinea sembrava non ci fosse più niente da fare per i corpi intermedi. La disintermediazione (teorizzata e praticata) proponeva al Paese la possibilità di farne a meno e, nei comportamenti concreti il Governo sembrava deciso ad andare in quella direzione.

Le organizzazioni datoriali (soprattutto Confindustria) confinate ad un ruolo ancillare, CGIL,CISL e UIL “condannate” ad una inefficace quanto tardiva unità d’azione incapace di contrastare le iniziative della politica ma anche di contribuire, con proposte, alla loro formulazione pratica.

Gli ottanta euro hanno, per certi versi, rappresentato la sublimazione di quel tentativo di delegittimazione. Il suo punto massimo. Quando Renzi annuncia:”ho dato più io dei sindacati” lancia una sfida.

Così come quando si interroga sulla rappresentatività di Confindustria nelle aziende controllate anche dal Tesoro. È il momento dove l’appuntamento a Cernobbio dei forum Ambrosetti è un luogo da evitare perché frequentato dai “professionisti delle tartine” e la “sala verde” posta proprio sopra la sala del Consiglio dei Ministri, quasi ne fosse metaforicamente superiore in ordine di importanza, viene additata al pubblico ludibrio.

Quella fase, però, si schianta sugli zero virgola. Un Paese che non cresce non può ridursi al pallottoliere. Sul PIL, sulla qualità delle assunzioni, sui risultati (migliori del passato) ma ben lontani da ciò che servirebbe ad un Paese disorientato e preoccupato.

Un disorientamento non colmato da un’Europa sempre più matrigna e distante, incapace di leggere la stanchezza di interi popoli verso le loro elites nostrane ma anche verso gli altrui egoismi nazionali. Tutto questo ha segnato una svolta. Non anti renzista ma antirenziana come direbbe Oscar Farinetti.

C’è sempre un Paese che vuole cambiare, integrarsi in una Europa diversa, che vede nella globalizzazione una opportunità e non solo un pericolo, che crede in un futuro possibile.

Un Paese a cui magari piace meno, non piace più o non è mai piaciuto Renzi, la sua arroganza personale, il suo disegno politico o la sua narrazione della realtà che non corrisponde a quella vissuta concretamente ma ne comprende la necessità, l’urgenza delle sfide da condividere e, soprattutto, l’obiettivo di fare del nostro Paese un luogo diverso, attraente, normale e ricco di opportunità.

La mancanza di risultati sul terreno della crescita, le risse interne al PD, i magri risultati elettorali, l’avvicinarsi del referendum hanno spinto Renzi e il suo Governo a cercare interlocutori e sostenitori non tanto sul leader in sé quanto su scelte economiche e politiche che ricreassero condizioni di confronto, di condivisione e di collaborazione nell’interesse del Paese.

Da qui l’interlocuzione costruttiva con i corpi intermedi che hanno colto l’importanza e la necessità di rimettersi in gioco con proposte equilibrate, realizzabili e in grado di evitare forzature che lacererebbero ulteriormente il tessuto sociale del Paese.

La trattativa sulle pensioni e gli interventi condivisi a favore delle imprese e della crescita sono lì a dimostrarlo. Sono segnali importanti della volontà di intraprendere una diversa direzione di marcia. Adesso la palla è nel campo dei corpi intermedi. I segnali sono incoraggianti.

Confcommercio è da tempo su questa linea. Il neo presidente di Confindustria Boccia a Capri, all’assemblea dei giovani è stato altrettanto chiaro, la CISL e la UIL in modo esplicito, la CGIL a corrente alternata hanno tutti condiviso la necessità di cambiare a partire dall’accordo sulla contrattazione e dalla chiusura dei contratti aperti per arrivare ad un vero e proprio patto per il Paese. Il tempo non è molto.

Il Presidente dei giovani di Confindustria Marco Gay a Capri è stato lapidario: “ripresa nel 2017 o lacrime e sangue”. Non è una previsione pessimistica. È quello che ci aspetta. Per questo occorre una rinnovata assunzione di responsabilità collettiva.

Aprire la stagione della “corresponsabilità” significa impegnarsi per cambiare davvero il Paese. E farlo insieme è la condizione indispensabile. I segnali di una possibile disgregazione politica e sociale ci sono tutti e non solo in Italia. Occorre non sprecare questa volontà di convergenza..

Scapoli contro ammogliati…

La partita che si gioca oggi nelle piazze non influenza minimamente l’esito del campionato. L’estremismo inconcludente e parolaio trascina nei suoi cortei e mostra a tutti anche una parte degli ultimi. Quelli che, ogni giorno, ci sforziamo di non vedere.

Però chi li dirige non è uno di loro. Ultra garantiti del settore pubblico e parapubblico e vecchie glorie dell’estremismo sindacale d’antan guidano la protesta.

Obiettivi politici, totalizzanti, impossibili e onnicomprensivi, come sempre. Una grande confusione che nasconde l’assoluta mancanza di soluzioni possibili.

Per molti giovani bikers di Foodora il termine USB è più che altro associato ad una chiavetta da inserire nel PC mentre, per chi aderisce allo sciopero nazionale indetto proprio da questa sigla e dal variegato mondo del sindacalismo estremista ha ben altro significato.

Sono generazioni e mondi diversi. È però singolare la concomitanza dei due avvenimenti. Da una parte chi sta ottenendo “ben” 4 euro lordi a consegna. Dall’altra chi è riuscito a mettere insieme intoccabili del settore pubblico, marginali del lavoro dipendente, immigrati disperati inquadrati in cooperative di vario colore intrisi da una retorica buona per tutti. I primi, se va bene, avranno ottenuto di dare maggiore dignità alla cosiddetta gig economy con ben 7.20 netti all’ora, la possibilità di rivolgersi a riparatori di biciclette convenzionati e un’assicurazione se dovessero provocare danni a terzi per la fretta con cui saettano per la città. Nell’altro caso a detta degli stessi organizzatori lo sciopero è indetto con lo scopo di paralizzare il Paese.

C’è un po’ di tutto e di più nella protesta. “Per l’occupazione, il lavoro e lo stato sociale, contro le politiche economiche del governo Renzi dettate dalla UE; per la difesa e l’attuazione della Costituzione ed il NO al Referendum; per la scuola e la sanità pubbliche ed il diritto all’abitare; contro l’attuale sistema previdenziale e la controriforma Fornero, la riforma Madia, il jobs act, l’abolizione dell’art.18, la precarietà, l’attacco al Contratto nazionale; per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, per l’aumento di salari e pensioni, per il reddito, per la sicurezza sul lavoro e nei territori; contro le privatizzazioni, la deindustrializzazione, e per la nazionalizzazione di aziende in crisi e strategiche; contro la Bossi-Fini e il nesso permesso di soggiorno–contratto di lavoro; contro la guerra e le spese militari; per un fisco giusto senza condoni agli evasori; per la democrazia sui posti di lavoro ed una legge sulla rappresentanza che annulli l’accordo del 10 gennaio 2014.

Dietro questa sproporzione siderale tra le richieste e i risultati di cui dovranno accontentarsi i bikers torinesi e le rivendicazioni politiche dei cosiddetti sindacati di base c’è il nostro Paese.

Un Paese fragile, che rischia un declino vero mentre sembra sentirsi a proprio agio in una perenne assemblea di condominio sui media e nelle piazze dove a tutti è consentito di urlare la propria rabbia e il proprio dissenso ma a condizione che nulla venga risolto se non a danno del vicino. Su altri tavoli, ad esempio, i sindacati confederali dei metalmeccanici stanno cercando di rinnovare il loro contratto con passione e serietà, altri lo hanno già fatto e altri ancora seguiranno.

E le richieste sono innovative, compatibili e costruttive. Io credo che, ciascuno di noi, dovrebbe fare di più per scrollarci di dosso, questa parte del Paese inconcludente, parolaia, benaltrista e rancorosa. Proprio per voltare pagina, insieme. Anche perché, l’Italia insoddisfatta, non è tutta lì. Un’altra parte, ben più consistente vagola a destra o altrove nel nostro panorama politico.

A mio parere chi vuole un Italia diversa, positiva, accogliente, costruttiva e integrata in Europa è comunque la stragrande maggioranza del Paese. Possono stare a destra come a sinistra o in centro. Hanno scelto i sindacati confederali, le associazioni datoriali o mille altre realtà dove fare volontariato e impegnarsi per sé ma anche per gli altri.

Sono convinti che la solitudine e la mancanza di risposte credibili porti inevitabilmente chi non ha nulla da perdere in quelle piazze o ingrossi sentimenti di isolamento e quindi di rancore sociale. E li rende facili prede di strumentalizzazioni di ogni genere.

Chiedono solo di poter credere in una buona politica rinnovata e concreta che sappia indicare un percorso difficile ma credibile. Come i bikers di Torino che, in fondo, volevano solo risposte concrete, non dotte disquisizioni o convegni sulla natura del loro rapporto di lavoro. E l’azienda sembra averlo capito immediatamente. Adesso spetta ad altri consolidare e costruire un quadro di riferimento credibile per questi come altri nuovi mestieri.

Certo non tutti i bikers saranno soddisfatti. L’idea che si possa tentare un rilancio o ottenere di più sfruttando il momento propizio dell’unità e della protesta potrebbe anche prevalere. Ma il vero negoziatore sa che una forzatura nel momento di maggiore forza verrà pagata con gli interessi quando questa forza cambia segno.

E questo vale per tutti i negoziati. L’altra strada, quella praticata da molti dei marciatori odierni, è quella di fuggire dalla responsabilità di decidere e di scegliere dietro slogan del tipo: “diciamo basta, vogliamo tutto”. Ma un Paese non cambia dando poco a tutti o tanto a pochi ma dando il giusto a ciascuno.

E il giusto deve essere la Politica a determinarlo. Quindi, non ciascuno di noi chiuso nel suo particolare, ma tutti noi come parte della stessa comunità in cammino.

Il vaso di Foodora si è rotto. È ricostruibile?

La metafora usata da Di Vico sul Corriere, a proposito del segnale emerso dalla vicenda dei bikers torinesi, è stimolante e, a mio parere, merita un ulteriore approfondimento. Il vaso di Foodora (l’azienda coinvolta nella vicenda) sostiene DI Vico, si è rotto e, con lui, molto probabilmente, è stato evidenziato, ancora una volta, la crisi del rapporto tra lavoro e consumo.

Nel recente libro “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” di Giuseppe Berta l’autore affronta il tema in modo netto. “…Il messaggio che ci viene dalle imprese high-tech, quelle che adesso hanno più facilità nel raccogliere capitali e convogliare liquidità, è che tutto domani costerà un po’ di meno di oggi.

Costerà meno prendere un’auto che ci porti a destinazione rispetto al taxi che eravamo abituati ad usare. Ma anche affittare un alloggio privato per due giorni ci costerà meno di un albergo è così via. Peccato che questo mondo low cost che esibisce il volto accattivante della sharing economy, dove la condivisione è vantaggiosa e, apparentemente ispirata al principio di un’essenzialità nemica dello spreco, remuneri inevitabilmente di meno anche il lavoro, sicché le due figure, quelle del lavoratore e del consumatore, che Henry Ford aveva congiunto cento anni fa, vengono di nuovo separate, riducendo per molti la capacità di reddito e quindi di consumo…”

E ancora.. “..High tech e low cost stanno attaccando frontalmente il mondo economico e produttivo di ieri, fondato sull’ipotesi di una espansione praticamente illimitata dei beni di consumo…” È l’altro volto della globalizzazione, bellezza! direbbe qualcuno.

Di fatto, una polarizzazione sempre più marcata di redditi, consumi e lavoro. Quindi un forte ridimensionamento della quantità e qualità del welfare, della contrattazione collettiva e delle politiche sociali in genere. Una società darwiniana dove chi si adatta o chi è più forte sopravvive mentre tutti gli altri, indipendentemente dalla loro nazionalità o dal luogo dove vivono, sarebbero condannati all’emarginazione.

Il sociologo Renato Curcio, più noto per altre vicende ma non per questo meno attento a questi fenomeni, sono anni che insiste sulle contraddizioni tra lavoratore e consumatore. Le sue analisi, pur datate, sui centri commerciali e sulla Grande Distribuzione, presentano l’altra faccia del consumatore di fine secolo: bulimico, isterico, alla caccia continua di tutti gli sconti possibili, desideroso di acquistare tutti i giorni della settimana, domenica compresa e sprezzante verso il lavoratore.

E, inevitabilmente, del lavoratore di fine secolo: circondato nelle sue conquiste sindacali (pause, lavoro domenicale, turnazioni), impossibilitato a migliorarle e indisponibile a condividerle con i nuovi assunti, rancoroso con il sindacato, irritato dal cliente e succube dalle continue riorganizzazioni e ristrutturazioni. Infine i centri logistici.

Luoghi dove i confini tra lavoro autonomo e lavoro dipendente sfumano in lavoratori tutelati dal sindacato e cooperative di dubbia costituzione dove l’etnia e la dipendenza da veri e propri caporali domina la scena. E questi, si badi bene, sono luoghi dove convivono, con queste contraddizioni, multinazionali, grandi imprese, sindacati, imprenditori, centri di ricerca, università, ecc.

Quindi dove esiste oggettivamente la possibilità di studiare i fenomeni, guidarli, correggerli ed eventualmente censurarli. Concludo, sempre con Berta che però ci suggerisce di tenere in considerazione che la risposta non è a portata di mano e soprattutto non è semplicemente riscontrabile in un modello fortemente normato e inclusivo come il modello tedesco infatti: “(esso).. appare in effetti assai meno proiettato all’innovazione di quanto ami raffigurarsi.

È la concezione di una forma di capitalismo che, lungi dall’essere vitale, ha bisogno del soccorso dello Stato per reggersi, e del cemento costituito da un blocco di interessi che agisce come un freno, non solo potenziale, all’innovazione e alla mobilità sociale… e oggi è questa forma di capitalismo a rischiare l’obsolescenza..”

Qui sta il punto e, da qui, bisogna ripartire, insieme. Imprese, sindacati, politica e studiosi. Non basta parlare di digital divide, industry 4.0, sharing economy. Né di prendere atto che i millenials o chi verrà dopo, di questo poco che c’è, dovranno accontentarsi.

Né di mettere le generazioni contro, una all’altra, sperando che la soluzione sia sostanzialmente in una più equa divisione di ciò che abbiamo ereditato dal passato in termini di welfare, spesa pubblica e debito conseguente.

Un cambio di paradigma determina inevitabilmente reazioni a catena. L’impresa e il lavoro devono cambiare in profondità. Così come diritti, doveri e welfare. Manzoni diceva: ” Non tutto ciò che viene dopo è progresso”. Personalmente lo condivido. Credo però che sia ragionevole pensare che, tra lasciare che il “nuovo” avanzi come un fiume in piena portando con sé i costruttori degli argini precedenti e lavorare insieme per costruire i nuovi argini la scelta sia obbligata.

L’importante è sapere che il fordismo anche culturale, che ci trasciniamo dal secolo scorso, delle imprese, dello Stato, del sindacato e delle associazioni di rappresentanza non ci darà più buoni consigli. Né ci indicherà una strada, anzi.

Ma qui passa o meno la possibilità di partecipare alla ricostruzione del nuovo vaso.

Foodora: lo sciopero “non” sciopero nell’era del lavoro “non” lavoro…

La notizia ha fatto un certo scalpore. I bikers di Foodora a Torino si sono fermati, non hanno consegnato più i pasti e hanno invitato i clienti a non comprare in segno di solidarietà nei loro confronti.

Le reazioni sono state interessanti. Da un lato i “modernisti” corsi immediatamente a spaccare il capello in quattro per separare l’evoluzione di un’offerta commerciale dagli inevitabili effetti collaterali. Dall’altro i “tradizionalisti” impegnati a inserire la vicenda Foodora in un normale caso di sfruttamento e quindi da stigmatizzare per quello che è. In mezzo l’azienda e i ragazzi coinvolti che si sono trovati improvvisamente in un “gioco” più grande di loro.

Un gioco di cui è facile prevederne la fine. L’azienda, oggi è rigida e indisponibile al confronto. Ha provveduto a comunicare ai singoli alcuni interventi correttivi ma, non avendo alcuna conoscenza del contesto italiano, si avviterà in decisioni opinabili che ne caratterizzeranno l’immagine per lungo tempo.

E questo anche se, più avanti, le verrà suggerito di abbozzare, almeno per un po’ e trovare una soluzione. I bikers coinvolti, troveranno un accordo transattivo. Il rischio vero è che tutto tenderà a riassorbirsi in un nulla di fatto fino alla prossima puntata. In questa o in un’altra realtà della gig economy.

Per il momento, l’opinione pubblica giovanile e il ministro del lavoro Poletti hanno espresso la loro solidarietà ai bikers e si sono messi in moto gli ispettori del lavoro. Come nel caso di airbnb e di altri casi non dovrebbe essere sufficiente un simpatico nome inglese che significa “l’economia dei lavoretti” per eludere regole chiare e semplici. Dietro a tutto questo, non ci sono novelli Steve Jobs nostrani o spezzoni di classe media in cerca di facili guadagni più o meno regolari..

Ci sono multinazionali vere e proprie che muovono miliardi. Questa non è affatto sharing economy ma shadow economy. È il sommerso legalizzato di cui in Italia siamo maestri da sempre. È lavoro nero o, per dirla in inglese, black market…

Mi ricordo che a Ragusa qualche anno fa stavo procedendo con le selezioni per l’apertura di un centro commerciale. I ragazzi, diciottenni o poco più, che si presentavano al colloquio di assunzione mi domandavano se la retribuzione proposta fosse con o senza assicurazione.

All’inizio non capivo cosa fosse questa benedetta assicurazione poi mi hanno spiegato che era assolutamente normale chiedere, in fase di assunzione, se questa fosse con o senza i contributi INPS. Quello che mi colpì fu la normalità della richiesta e la rassegnazione convinta dei richiedenti. Non tanto l’enormità della domanda. Soprattutto quando mi accorsi che ero l’unico, sul posto, a stupirmi.

Accorgermi oggi che non è cambiato nulla o quasi che anziché utilizzare il dialetto, si usa l’inglese perché fa più figo, è inaccettabile. Ma non serve indignarsi. Servono regole. “Stesso mercato, stesse regole” mi sembra uno slogan condivisibile.

Vale per le attività delle finte “Bettine” di arbnb che gestiscono migliaia di appartamenti, deve valere anche per il riconoscimento del lavoro e delle attività economiche di qualsiasi genere. Certo non è pensabile l’applicazione tour court di contratti costruiti per ben altre situazioni ma occorre costruire qualcosa di serio.

Forse nel caso dei bikers saltuari occorrerebbe promuovere formule nuove, anche mutuandole da modelli cooperativi. Non credo corretto attendersi solo dalle organizzazioni sindacali soluzioni perseguibili. I sindacati possono intervenire se i lavoratori coinvolti danno loro un mandato a negoziare.

Nel caso di Foodora non c’è nulla di tutto questo. Anzi, non si può neppure parlare di sciopero. Al massimo di non lavoro di alcuni mentre altri continuano a rispondere senza alcun problema alle chiamate.

C’è un rapporto individuale, saltuario gestito a volte tramite sms che può coinvolgere questi o altri bikers per una o più consegne. L’INPS, il Ministero del lavoro tramite i suoi ispettorati devono accertare la natura dell’attività e la qualità del rapporto.

Esperienze analoghe sono presenti in Francia e in Germania e quindi non dovrebbe essere difficile mutuare elementi e indicazioni per costruire punti di riferimento utili. L’unica cosa che non si può fare è lasciare che le cose si aggiustino da sole.

Né nel caso di airbnb né nel caso di Foodora. Né in nessun altro caso. Lasciar fare non è indice di modernità. Semmai di incapacità ad affrontare ciò che è nuovo o si presenta in modo diverso dal passato.