Grande Distribuzione, politiche attive, ricollocamento degli esuberi. Il caso Conad/Auchan

Le politiche attive funzionano solo se domanda e offerta si incontrano. Bayer e Confindustria di Bergamo hanno collaborato per individuare le soluzioni possibili. Confindustria Brescia è avviata sullo stesso percorso: offrire posti di lavoro per attenuare gli effetti della vicenda  Timken. l’associazionismo imprenditoriale in questi casi può fare molto per creare condizioni favorevoli al reimpiego sul territorio e senza ulteriori interventi legislativi. Non è un caso che nelle due realtà citate il contesto delle relazioni industriali può contare anche su un sindacato confederale che fa del pragmatismo un suo tratto caratteristico.

La vicenda Conad/Auchan quando si diraderanno i fumi delle  polemiche capziose evidenzierà che, anche nella Grande Distribuzione, la prima grande operazione di ricollocamento del personale causata dal disimpegno di Auchan si va chiudendo con un risultato ben oltre le aspettative iniziali. E questo grazie soprattutto alla determinazione di Conad e di quella parte del sindacato che ha tenuto ferma la volontà di tutelare al massimo possibile i lavoratori pur in condizioni difficilissime. Sbandare verso posizioni demagogiche avrebbe messo in pericolo molti più posti di lavoro e, forse, l’intera operazione.

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Cercare, mantenere e ritrovare un lavoro è un lavoro…

Oggi si perde il lavoro per molte ragioni. Principalmente per ristrutturazioni, riorganizzazioni o chiusure di attività dovute a crisi, acquisizioni, scelte imprenditoriali o manageriali sbagliate. Purtroppo la ragione è del tutto secondaria.

Quando nel 1989 Auchan entra in Italia chi avrebbe potuto pensare che trent’anni dopo se ne sarebbe andata così? Oggi è facile dirlo. È la somma degli errori che ha accompagnato la sua permanenza. Ma sono stati errori non percepiti con sufficiente lucidità all’interno. Allora, e per molti anni,  entrare in Auchan, condividerne i progetti, investire le proprie competenze e capacità era una sfida assolutamente da accettare.

Una delle novità del nostro tempo è che la vita delle aziende è spesso più breve di quella dei lavoratori che vi iniziano il loro percorso professionale. Si entra e si esce, a tutti i livelli, spesso senza essere preparati a farlo. Oggi si scrive molto sulla difficoltà all’entrata.

La sensibilità dei media è concentrata su un tema che rischia però  di essere fuorviante: il lavoro ci sarebbe anche ma i titoli o le competenze richieste non sono allineati  con quelli richiesti dalle imprese. Quindi si crea un mismatch. Forse non molti  sanno che è un termine che deriva dal basket e che sta ad indicare quando un atleta che attacca si trova fronteggiato da un avversario in condizioni di inferiorità. Leggi tutto “Cercare, mantenere e ritrovare un lavoro è un lavoro…”

Il valore del lavoro senza valore…

Un dibattito come sempre molto interessante quello proposto da Dario Di Vico nel percorso sull’identità del lavoro.  L’ultimo, in modo particolare, con relatori di prim’ordine come Tiziano Treu, Andrea Malacrida e Vincenzo Colla sul lavoro cosiddetto povero, senza valore il suo inevitabile collegamento con la povertà, individuale e familiare, la difficoltà ad uscire da quello stato, le proposte di difficile attuazione sia in Italia che in Europa.

La stessa espansione dei lavori di consegna, delle piattaforme logistiche, del lavoro di cura e delle cooperative spurie ne disegnano nuovi confini. Qualche milione di persone coinvolte. La discussione si è inevitabilmente incentrata su come intervenire questa situazione.

E, soprattutto, se quello stato può e deve essere considerato transitorio o definisce un ghetto sociale dal quale è praticamente impossibile uscire. Dario Di Vico ha provato a proporre alla discussione l’allargamento della riflessione ad altri settori, soprattutto dei servizi. Questo perché il lavoro povero, il suo confine con il lavoro nero, la sua possibile espansione sono visti come un rischio evidente per la stessa tenuta del tessuto sociale.

C’è però un aspetto che rischia di restare in ombra in queste discussioni. Ed è il valore sociale del lavoro senza valore. Leggi tutto “Il valore del lavoro senza valore…”

Navigator sarà lei…

Il nome certo non aiuta: navigator. Poi c’è lo scontro politico che ne sottolinea utilità/inutilità,  pregi e difetti. Il dibattito su cosa è o cosa dovrebbe essere concretamente, passa in secondo piano. Però le selezioni sono aperte e gli equivoci restano molti e pesanti.

Dario di Vico (http://bit.ly/2EZb8ZG) si interroga sui rischi del reddito di cittadinanza e, ovviamente, sul ruolo e sulla tenuta nel tempo di una figura professionale che rischia di restare fine a sé stessa. Michele Tiraboschi (http://bit.ly/2F01iH4), prendendosi diverse critiche, ha deciso di forzare comunque  la mano e di cercare di proporne un’interpretazione autentica da esperto del mercato del lavoro.

La risposta al suo MOOC gratuito ha inoltre sbarrato la strada ai tanti progettisti farlocchi che a pagamento stavano già partendo  con le famose “usine a gaz” termine usato spesso dai francesi per indicare cose incomprensibili o inutili. Il 4 marzo è partito il percorso online con l’obiettivo di  creare operatori specializzati per riportare sul mercato del lavoro centinaia di migliaia di persone inattive e ricollocare chi non ha competenze facilmente spendibili.

Personalmente credo sia giusto farsi carico del problema. La mia esperienza  diretta è un po’ datata ma credo che la metodologia seguita allora nei confronti di 1500 lavoratori della Galbani che abbiamo ricollocato direttamente dall’azienda attraverso la creazione dei  COR (centri operativi di ricollocamento) mi consenta di dare qualche suggerimento derivato dall’esperienza. Leggi tutto “Navigator sarà lei…”

Reddito di cittadinanza e lavoro invisibile. Una miscela esplosiva.

La vicenda che ha coinvolto il padre del Ministro Di Maio avrebbe dovuto aprire un dibattito vero sul tema del lavoro nero in Italia e nel Sud in particolare. Purtroppo è rimasto confinato alla lotta politica in corso tra maggioranza e opposizione. E quindi si è trasformata in un’inutile contrapposizione sui rispettivi padri.

Non si è colto un tema che, al contrario, è centrale se si vuole parlare di lavoro, fisco, previdenza e dumping tra imprese grandi e piccole. Girarsi dall’altra parte serve a poco. Così come negare l’evidenza. In molti casi per una piccola impresa o per una famiglia l’alternativa non è se assumere una persona in nero o in regola. L’alternativa è tra assumere in nero o non assumere. Purtroppo.

Una badante per una famiglia di ceto medio basso spesso è una necessità irrinunciabile ma anche un problema. Basterebbe farsi raccontare dagli uffici vertenze del sindacato come finiscono i rapporti di lavoro costruiti sulla stretta di mano o sul passa parola.

Il reddito di cittadinanza, è meglio saperlo,  aggraverà questa situazione. Così come la cassa integrazione straordinaria aveva creato negli anni 80 un mercato parallelo di lattonieri, carrozzieri, meccanici, imbianchini, piastrellisti, ecc. dediti ad un lavoro nero utile ad integrare il loro reddito e a far risparmiare chi vi si rivolgeva. Leggi tutto “Reddito di cittadinanza e lavoro invisibile. Una miscela esplosiva.”

La trasformazione del lavoro tra vecchie rigidità e nuove fragilità

“Se non sono disposto a pagarla quanto costa se trasportata da un fattorino pagato “il giusto” … me la vado a mangiare all’angolo .. o mi preparo due pomodori col basilico. Che ho pagato quanto serve a remunerare profitto e salari regolari. Semplice”. Fino a qui il tweet di Fabrizio Barca. Ovviamente senza pensare che, pomodori e basilico, vengono magari dall’agro nocerino-sarnese dove a raccoglierli c’è un immigrato di cui non interessa a nessuno la sua retribuzione. Il montatore dei mobili, il consegnatario della spesa a domicilio, il postino 4.0, lo studente che da ripetizioni, il minorenne che porta il caffé e via discorrendo non si percepiscono  come lavoratori.

E’ singolare come la trasformazione del lavoro venga colta da una parte della classe dirigente di cultura novecentesca con reazioni, tutto sommato, scontate. Da Annamaria  Furlan della CISL che non ha mai frequentato un outlet alla domenica e che giudica negativamente chi sceglie di fare shopping i giorni festivi a Fabrizio Barca che rimpiange il vecchio e sano fattorino che, però, da parte sua non ha mai pensato di utilizzare.

E’ ovviamente una cultura rispettabile ma minoritaria che fatica a misurarsi con i cambiamenti in corso e quindi cerca nel passato risposte comunque insufficienti. Manzoni ci ricorda, giustamente, che “non sempre ciò che viene dopo è progresso” ma i cambiamenti non si esorcizzano negandoli. O interpretandoli con categorie superate.

Per la nostra generazione il lavoro ha sempre avuto bisogno di un luogo, di un tempo e di una sua specifica remunerazione. Oggi il lavoro insegue il lavoratore, ne dilata il tempo rendendo labili i confini con il resto della vita privata e lo retribuisce in forme sempre meno riconducibili alle logiche fordiste. Leggi tutto “La trasformazione del lavoro tra vecchie rigidità e nuove fragilità”

Il mismatch nel lavoro. Ovvero come piangere sul latte versato…

I problemi ci sono e sarebbe sbagliato negarli. Tra l’altro, in rete, il dibattito sul mismatch tra domanda e offerta di lavoro è sempre al calor bianco.

Candidati che non trovano lavoro e selezionatori che lamentano la mancanza delle figure professionali ricercate si scontrano quotidianamente e, quasi sempre, finisce ad insulti contro i selezionatori.

I dati però sono inoppugnabili: molte aziende non riescono a trovare quello che stanno cercando. Il mondo del lavoro, oggi, pretende una velocità di inserimento e di adattamento e molto spesso non trova nella scuola una sintonia sufficiente. Tecnica o professionale che sia. E, sempre oggi, le imprese devono fare i conti con problemi sia qualitativi che quantitativi.

Dario Di Vico sul Corriere fa bene a raccontare gli effetti di questo mismatching (  http://bit.ly/2muI81B  ). Ma sono le cause che non vengono affrontate con sufficiente realismo.

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Alternanza scuola lavoro. Operaio sarà lei!!!

“Siamo studenti, non siamo operai” è uno slogan pessimo e quindi ha fatto bene Marco Bentivogli a prenderne le distanze immediatamente dopo la conclusione delle manifestazioni contro l’alternanza scuola lavoro.

Dario Di Vico oggi sul Corriere sostiene, a ragione, che negli anni 70 molti giovani vedevano al contrario, proprio negli operai, un punto di riferimento della loro voglia di cambiamento.

Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora e molti di quegli operai oggi hanno i loro nipoti che, partecipando e condividendo gli slogan di queste manifestazioni, ne rifiutano lo stile di vita, sentono lontano e ostile quel mondo che le generazioni precedenti hanno costruito, hanno un’idea del lavoro lontana anni luce dalla realtà.

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Se il mismatch tra offerta e domanda di lavoro cambia segno…

Gli anni della crisi e delle ristrutturazioni aziendali hanno portato con sé un mismatch tra offerta e domanda di lavoro di segno opposto a quello lamentato oggi. Bisogna essere obiettivi.

La scuola è stata abbandonata al suo destino, il rapporto tra giovani e imprese si è ridotto ad un problema di costo e, spesso, di mero sfruttamento, gli espulsi dal lavoro oggetto di dumping salariale.

Oggi sembra che qualcosa stia cambiando in profondità. Si è ritornato a parlare di centralità delle risorse umane nei contratti nazionali, di alternanza scuola lavoro, di formazione e di politiche attive.

Confindustria lancia l’allarme e chiede di estendere il più possibile i benefici per le assunzioni dei giovani, le imprese manifatturiere lamentano con sempre maggiore insistenza la difficoltà a reclutare laureati in materie scientifiche. Molti giornali si lanciano in campagne a sostegno delle cosiddette lauree utili.

Occorre rimettere in moto un meccanismo che si è inceppato. Evitando, però, inutili manicheismi. È vero, mancano molte figure professionali richieste dal mercato.

Nel commercio, nel turismo, nei servizi alle imprese, nei settori più innovativi. Mettiamo però in fila i problemi. Prendersela con la la qualità in sé di una laurea piuttosto che favorire la crescita di percorsi interdisciplinari è un errore in un Paese che rappresenta, in questo campo, il fanalino di coda in Europa.

Sui giovani in azienda non è sufficiente chiedere sgravi contributivi. Occorre prevedere opportunità di inserimento che valorizzino le attitudini e l’esperienza scolastica. Al cambiamento culturale necessario nelle imprese i giovani potrebbero dare molto se non venissero immediatamente risucchiati dalle logiche e dalle dinamiche tradizionali.

È la collaborazione tra culture e generazioni diverse che può arricchire il mondo dell’impresa e prepararlo alla sfida della competizione globale. Se il messaggio che verrà  fatto passare sarà che assumere giovani è solo conveniente, come pensiamo si comportino le imprese?

Così come occorre lavorare sul versante culturale e sociale per i senior che dovranno rimanere in azienda per lungo tempo e che l’attuale cultura nelle imprese considera sostanzialmente “vecchi” e non recuperabili, lo stesso lavoro andrà fatto sul versante dei giovani, sul loro potenziale contributo e sulla loro capacità di portare nell’impresa un originale valore aggiunto. Ma questo lavoro va condiviso  dagli imprenditori e dai manager. Non solo rappresentato sui giornali.

Negli anni della crisi, “giovane” è stato sinonimo di “tappabuchi” come “anziano” di “esubero potenziale”. Questo è il punto da cui partire. Il mismatch non si risolve invitando i giovani ad iscriversi a ingegneria o a matematica se non hanno quelle vocazioni!

Si risolve innanzitutto ridando valore all’impegno e allo studio, avvicinando i due mondi, rispettando il contributo che i più giovani possono portare in azienda e favorendo tutte le forme di tutoraggio, affiancamento e scambio di esperienze tra generazioni differenti.

Ne guadagnerà il mondo delle imprese e quindi anche il Paese.

Politiche attive, risorse ed efficienza sono fondamentali ma non bastano

I telefilm polizieschi tedeschi ci presentano quotidianamente una Germania non troppo dissimile dall’Italia. Tra il commissario Voss e Montalbano è solo la latitudine a renderli diversi. Non l’arguzia e la rapidità con cui risolvono i casi più complicati.

Una recente serie su RAI 2 (Ultima traccia: Berlino) ha proposto un episodio (Ostaggi) dove si racconta il dramma di un disoccupato alla ricerca di un lavoro. Tema, anche in Germania, di grande attualità.

In un ufficio di collocamento pubblico (Arbeitsamt) tra proposte di inutili corsi di formazione studiati più per soddisfare i formatori e speranze deluse dei partecipanti, atteggiamenti burocratici e piccole miserie degli impiegati addetti, si sviluppa un storia assolutamente credibile. Potrebbe essere proposta ovunque.

A parte la trama forzata per condensare, in venti minuti, una storia, l’epilogo drammatico tra sequestro degli addetti e morte del disoccupato stesso, il racconto mostra uno spaccato interessante perché propone una realtà ben diversa da quella suggerita, da chi vorrebbe presentare il sistema tedesco solo come un esempio di efficienza, organizzazione e di razionalità teutonica anche nel campo delle politiche attive.

Corsi di formazione inutilizzabili, atteggiamenti discutibili dei ricollocatori, scarso rispetto per le persone proprio nel momento più esposto sul piano psicologico, assurdi formalismi burocratici. Certo, si tratta solo di un telefilm. Però non è fantascienza.

Rappresenta la cruda realtà vista dal punto di osservazione di chi entra in quegli uffici per usufruire del servizio. Non di chi lo gestisce. 

Non è l’efficienza la sola caratteristica da ricercare o da imitare in queste strutture e per queste attività quanto l’efficacia. Il lavoratore, quando entra in una situazione di disagio perde ogni punto di riferimento e non bastano comunicazioni rassicuranti, impegni politici, risorse adeguate e impiegati efficienti. Occorrono persone che sappiano ascoltare e capire. E luoghi adatti a renderlo possibile.

Anche per questa impersonalità  l’assegno di ricollocazione pur decollato da poco, rischia un serio flop. Le ultime notizie di stampa dicono che il 90% di coloro che hanno i requisiti, e quindi hanno ricevuto una lettera, ha deciso di non proporsi.

Le due esperienze più importanti alle quali ho partecipato riguardano una operazione di ricollocamento in un’azienda industriale gestito con il sindacato di categoria (1400 persone coinvolte) e una gestita, sull’intero comparto del terziario di mercato dal sindacato dirigenti Manageritalia (circa 1200 dirigenti). In entrambi i casi la presenza attiva e propositiva del sindacato si è rivelata una scelta assolutamente fondamentale.

Nel primo caso l’impegno diretto dell’azienda che dichiarava gli esuberi, si è rivelata una scelta vincente. Nel secondo, trattandosi di dirigenti, condividere, con i colleghi di altre aziende, obiettivi e metodologie ha funzionato ben oltre le performance dell’outplacement classico.  Qui sta il punto vero. C’è sicuramente un problema di risorse pubbliche da mettere a disposizione e di organizzazione delle politiche attive ma resta da affrontare il livello di corresponsabilità nel percorso di soluzione delle aziende e del sindacato che spesso concordano il numero degli esuberi ma che poi si fermano lì. Non condividono neanche la fase iniziale del percorso di ricollocamento.  E proprio nel momento più delicato.

Una persona espulsa dal “suo” posto di lavoro, convinta di essere stata scaricata da tutti, non è in grado di reagire immediatamente. Pensa ad una nuova fregatura. Per questo l’azienda che dichiara esuberi dovrebbe assumersi delle responsabilità almeno nella gestione della prima fase di uscita dei propri collaboratori. Non solo sul piano economico.

Così come il sindacato che ha sottoscritto l’accordo. In un sistema efficace e moderno queste responsabilità andrebbero inizialmente gestite insieme. Istituzioni, azienda e sindacati.

Nella grande impresa, direttamente dalle parti firmatarie mentre nella piccola si potrebbe intervenire, almeno nelle fasi iniziali propedeutiche all’outplacement, anche attraverso un  supporto della bilateralità. Questo flop (forse) è salutare. Servirà  non solo all’ANPAL per prendere le misure di un problema nuovo.

In Germania come in Italia chi perde il lavoro deve essere aiutato immediatamente  a ritrovare una fiducia in sé stesso e una volontà di ricominciare che si manifesta solo se gestita condividendo collettivamente e a più voci il problema. Soprattutto guardando in faccia la persona.

Trasformare un sistema radicato di politiche passive dove l’individuo  è lasciato solo in balìa del suo problema ad una nuova impostazione non è semplice per nessuno. Va accompagnato e condiviso. Almeno in una prima fase.