Ma nella GDO, servono ancora i Direttori Risorse Umane?

È di qualche giorno fa il comunicato interno di Esselunga che chiude il rapporto con la  Direttrice Risorse Umane, in azienda da circa sei mesi. È la  seconda in poco tempo. Quello precedente era durato poco di più. La posizione è, di fatto, coperta ad interim dall’AD. La domanda (retorica) quindi nasce spontanea. È una figura inutile quella del DHR nella GDO, lì come altrove, o come si dice in questi casi, a Huston (Pioltello) continua ad esserci un problema? Esselunga è una delle più performanti realtà della GDO nazionale. E lo è, visti i premi e i riconoscimenti che continua a raccogliere praticamente ovunque e nonostante  il turn over di sede, gli avvicendamenti nell’organigramma, le difficoltà logistiche con i conseguenti problemi esplosi nel 2024 con i sindacati di base in Toscana, a Biandrate e a Pioltello. È un caso a sé?  È l’eccezione che conferma la regola  o segnala un problema più generale destinato ad emergere sempre più nella Grande Distribuzione?

Esselunga nel mio “Top Five Billion Club” (le cinque realtà più importanti della GDO) insieme a LIDL è quella con il perimetro aziendale  più definito. Pur disturbata da qualche concorrente locale e da quelli che qualcuno si  ostina a chiamare discount resta la lepre da inseguire. Inutile girarci intorno è ancora la prima della classe. Non è così nelle Risorse umane. Perso Luca Lattuada, ottimo professionista, memoria storica e punto di riferimento per l’intera categoria,   a quel livello nella GDO ne restano quattro: Paola Accornero in Carrefour, Sebastiano Sacillotto in Lidl, Angelo Pigatto in Despar e Piero Pisoni in Penny. Nessuno, credo, disponibile a muoversi. Ovviamente ce ne sono anche altri in crescita di ruolo ma preferisco sottolineare quelli che rappresentano la solidità di un DHR che ha voce in capitolo nei rispettivi  comitati di direzione. O comunque molto ascoltati dai CEO. Non solo bravi professionisti. Stiamo parlando di Esselunga. L’autorevolezza è il primo problema.

C’è un vecchio libro francese per chi vuole andare controcorrente con un titolo che non lascia dubbi: “Tous DRH”. La prima edizione è del 2001. Scritto  da Jean-Marie Peretti, professore di Gestione delle Risorse Umane all’ESSEC e all’Università della Corsica. È una sorta di manuale rivolto a manager e dirigenti di linea. Lo scopo è fornire conoscenze teoriche e pratiche e competenze che consentano, a chi gestisce persone nelle organizzazioni e indipendentemente dal loro ruolo aziendale di assumere le sembianze di un provetto “direttore delle risorse umane” dei propri dipendenti (senza esserlo). In fondo cosa ci vuole? (devono averlo pensato anche in Esselunga …).

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Grande Distribuzione e futuro del lavoro. Il progetto FINIPER

Finalmente un’altra ottima iniziativa del Gruppo Finiper che affronta il tema del rapporto tra scuola e lavoro, tra giovani e mestieri della tradizione in un settore che rischia di trovarsi molto preso in affanno nella ricerca di personale sia direttivo che nelle sue professionalità fondamentali. In altri settori del commercio tradizionale, la formazione di base ai mestieri, è coperto dalle associazioni di categoria (Confcommercio e Confesercenti) o da enti regionali. Alcuni molto qualificati. Soprattutto dopo il tramonto delle scuole civiche di macelleria e altro, o legate ad un ruolo locale degli istituti tecnici legati  all’industria alimentare. Restano gli istituti alberghieri E poco più.

Le scuole di Confcommercio che conosco molto bene svolgono un ruolo fondamentale per le attività del commercio tradizionale e non solo. Mi meraviglio che Federdistribuzione, Conad e Coop (con Confcommercio) non abbiano mai pensato di mettersi insieme almeno sulle attività formative limitandosi a giocare ciascuno nel proprio campo da gioco anche laddove soffrono di problemi comuni difficilmente risolvibili ciascuno a casa propria. Eppure laddove serve fare massa critica (welfare sanitario e previdenziale) qualche sforzo comune è stato fatto. Confimprese stessa che sta provando un progetto simile a quello di LIDL ma fatica (credo) per la difficoltà a far condividere progetti che prevedono impegni economici condivisi alle imprese associate.

Bene ha fatto quindi LIDL, benissimo Finiper. Sarà un caso ma sono entrambe fuori dalle associazioni di categoria. E questo dovrebbe far riflettere chi lavora per ricomporre le fratture presenti. Il Gruppo Finiper è, tra  l’altro, in movimento su diversi versanti (innovazione grande superfici, rilancio Viaggiator Goloso e UNES, accordo con Cortilia, acquisizione Giannasi, ecc.). “Iper La grande i” (22 punti vendita in 4 regioni, nato nel 1974 ad opera dell’imprenditore Marco Brunelli) una delle più importanti realtà nel panorama nazionale della Grande Distribuzione Organizzata e parte del Gruppo Finiper Canova, presenta Mestieri in Crescita. Il progetto ha già visto l’avvio dei corsi di macelleria e pasticceria, partiti rispettivamente a giugno e ottobre 2024. A novembre, prenderà il via la 2° edizione del corso di macelleria e nei prossimi mesi l’offerta formativa si amplierà ulteriormente con l’apertura di nuovi percorsi dedicati ad altri reparti dei freschi tradizionali.

Parto dal cuore dello  scambio, molto importante, tra azienda e partecipante al corso: l’assunzione diretta con l’azienda sin dal primo giorno di formazione per offrire l’opportunità concreta di entrare nel mondo del lavoro e ricevere da subito una retribuzione (il programma garantisce un percorso concreto e retribuito a tutti i partecipanti, con l’assunzione diretta in azienda (Tempo Determinato) sin dal primo giorno e la possibilità di un consolidamento della posizione lavorativa al termine del progetto formativo (Tempo Indeterminato). In tempi di superficialità dei contratti nazionali applicati, di part time obbligatorio e di lavoro povero, è un’iniziativa da sottolineare a prescindere. Il mondo del lavoro (anche povero) nell’era della crisi demografica dovrà gestire flussi migratori lavorando anche con i Paesi di provenienza,  gestire il rapporto tra scuola e lavoro, imparare a fare i conti con una forte mobilità del lavoro e gestire una maggiore anzianità lavorativa, fornire risposte economiche innovative ed adeguate e trovare anche soluzioni abitative soprattutto in luoghi dove il costo degli affitti e della vita rischia di essere fuori portata per molti. Spero la GDO lo capisca per tempo e si muova sollecitando riflessioni collettive più che risposte tattiche nelle singole aziende. Leggi tutto “Grande Distribuzione e futuro del lavoro. Il progetto FINIPER”

Il turn over (elevato) in GDO come indice di insoddisfazione…

Come giustamente ricorda Francesco Seghezzi: “In Italia c’è una crisi dell’offerta di lavoro, che peggiorerà nei prossimi anni a causa delle trasformazioni demografiche. Ma allo stesso tempo è il secondo paese in Europa per numero di persone che potrebbero lavorare e non lo fanno perché disoccupati o inattivi. In particolare abbiamo la quota più alta di inattivi che si dichiarano “disponibili a lavorare ma che non cercano attivamente lavoro”. Una categoria particolare, che potrebbe sembrare paradossale, ma che dice molto del nostro mercato del lavoro, tra lavoro nero, frammentazione, scoraggiamento” .

Se poi passiamo dal mercato del lavoro alle aziende, c’è un indicatore che spiega, più di molti altri, il clima  ben al di là dei dei premi ufficiali che difficilmente scavano nelle viscere di un’impresa e delle indagini interne spesso costruite sui desideri dei top manager. È il turn over dei dipendenti. Lasciare un’azienda spesso è sintomo di una sconfitta reciproca. Per il collaboratore che cerca altrove ciò che non è riuscito a trovare dopo aver investito tempo e impegno ma anche per l’azienda perché perdere risorse umane  sulle quali si è investito, non solo i cosiddetti “talenti”, ha un costo enorme per le imprese. 

Trattenere e coinvolgere I propri collaboratori e i lavoratori in genere è quindi sempre più importante. Soprattutto in tempi di difficoltà nel reperimento di  risorse.  L’Italia, pur in cambiamento, è oggi il Paese in testa alla classifica per il tempo medio più lungo trascorso presso lo stesso datore di lavoro con 12,2 anni. Difficile però che questo dato si confermi con l’avvento delle  nuove generazioni. Seguono Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Regno Unito) secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). La media del turn over cresce dall’8,2% del 2021 al 13,3% del 2022.  Colpisce il dato recente del 35% il turnover di Esselunga, ma riguarda soprattutto dipendenti giovani maschi con meno di 30 anni.

Poche insegne forniscono i dati. Nella distribuzione moderna italiana è sempre più difficile attrarre risorse per i modelli organizzativi proposti e l’impegno temporale richiesto. Si rischia che, i più giovani, considerino questo lavoro di passaggio  verso altre realtà. Un dato su cui riflettere. In Europa Tesco tre anni fa era vicino al 30% di turn over. Ora  è appena al di sotto della media del settore, intorno al 35%. Carrefour a livello mondo dichiara il 25%. Il tasso di turn over del lavoro a livello complessivo, in Germania, oscilla tra il 25 e il 30% Nel Gruppo Rewe dal 19 al 25% (2022). Mercadona in Spagna fa eccezione: si attesterebbe intorno al 2%. Un altro dato su cui riflettere.

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Cultura manageriale e risorse. Il nodo gordiano della Grande Distribuzione italiana

Riparto dalla vicenda Decò Italia. Rifletto e cerco di andare più a fondo su ciò che ha proposto alla riflessione  Mario Gasbarrino su LinkedIn. Il mantra è “mettersi insieme, conviene”. Soli non si va da nessuna parte. È vero. Mi pongo però un’altra domanda. Ma c’è veramente qualcuno su piazza in grado di  andare “oltre” ciò che ha costruito nella sua vita o ha ereditato da chi c’era prima di lui? In sostanza, quello che temo, è che non manchino solo le risorse economiche per crescere  come ricorda Gasbarrino,  ma anche la cultura imprenditoriale e manageriale necessaria.

Per crescere, non bastano le risorse, ovviamente indispensabili, occorre avere sogni nel cassetto, visione, coraggio e, intorno a sé, una squadra. Chi vuole crescere e competere deve andare “oltre” proprio dove i concorrenti  non se la sentono. Parafrasando  Frida Kahalo, chi assume dei rischi, vede orizzonti dove altri vedono confini invalicabili. Spesso chi guarda lontano è “ossessionato” dai suoi obiettivi. E chi gli sta intorno, pur dovendo tenere il ritmo,  non sempre ne capisce l’approccio. Brunelli, Caprotti, Podini, Panizza, Pomarico, Bastianello, Ratti, e pochi altri ancora, ciascuno a modo suo, ha visto prima nei propri sogni dove sarebbe  voluto arrivare.

Grandissimi profili della GDO del novecento, tutti però con un limite. Ciascuno ha giocato nel suo campionato, nazionale o regionale che fosse. Nessuno le coppe europee. Nell’industria non è stato così. I migliori si sono contraddistinti ovunque. E questo è stato già il  segnale evidente di un limite culturale. Bravi si, ma nel cortile di casa. Bernardo Caprotti lo ha sottolineato in una lettera al Corriere l’11 settembre del 2013: “Diversamente da Armani e Luxottica che hanno «creato», noi abbiamo soltanto cercato di dare un po’ di eleganza, di efficienza, di carattere ad un mestiere assai umile“. Così è. È uno dei pochi settori che non si è mai immaginato in un campo da gioco molto più grande. Tutti bravi a stigmatizzare gli errori delle multinazionali (che pur ci sono stati) incapaci di giocare contro le nostre difese arcigne ma nessuno dei nostri in grado di giocare in trasferta. Questa purtroppo è la realtà.

Crescere, non è quindi un esclusivo problema di mancanza di risorse economiche. Mancano soprattutto imprenditori e manager in grado  di affrontare scenari futuri o M&A complesse. Magari fosse solo un problema di piccoli imprenditori! Le stesse centrali di acquisto, per quanto ben governate, restano un elemento di stabilizzazione a difesa del sistema esistente. Non certo promotori di rotture di equilibri consolidati.  C’è un evidente problema di management. Ottimo fino a certi livelli di fatturato, probabilmente inadatto ad andare oltre.
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Esselunga alle prese con il “potere della scrivania”…

Ciascuna azienda organizza il lavoro come crede. C’è però una sostanziale differenza tra chi immagina il futuro per il proprio business comprendendo il benessere dei  propri collaboratori e chi no. C’è chi resta nel solco tradizionale  prevedendo attività e servizi ricreativi vicini al posto di lavoro attraverso forme di welfare aziendale più o meno innovativo. E c’è chi prova  a ripensare il lavoro in termini di durata, luogo, contributo, coinvolgimento e qualità percepita e agìta dai collaboratori. Brunello Cucinelli direbbe: “questo è il tempo dell’armonia, oltre che della sostenibilità. Al centro ci deve essere sempre la persona”. Per comprenderne la differenza  bisognerebbe provare ad affrontare  il tema cambiando punto di osservazione.

Il futuro del lavoro fa leva  sulla responsabilità dei collaboratori, non sul loro controllo. Non sarà il luogo, il tempo perso per arrivarci, il presenzialismo oltre l’orario, l’autorità del capo attraverso il “potere della scrivania” a caratterizzare l’azienda (intesa come comunità operosa). È la sostanziale differenza tra ritenere le persone al lavoro, “collaboratori ” e non semplicemente “dipendenti”.  Ed è il rapporto instaurato, l’ascolto, il riconoscimento dell’impegno e la comunicazione scelta a fare la differenza. Lo smart working non è, ovviamente, tutto questo ma rappresenta un tassello di un  cambiamento più vasto, per certi versi inarrestabile. Peccato non averlo saputo cogliere. Così come aver accompagnato il suo ridimensionamento in Esselunga con una comunicazione d’altri tempi, inutilmente spigolosa, che l’impegno quotidiano dell’insieme dei collaboratori non meritava. 

Tra l’altro l’azienda di Pioltello  era stata  una delle poche realtà della GDO che avevano implementato il lavoro agile per oltre 1200 dipendenti. Costretti dalla pandemia e dal lockdown l’insegna aveva fatto un salto (forse) involontario nel futuro. Sembrava avesse accettato l’idea che i collaboratori fossero  responsabili, in grado di gestire il lavoro da casa per 6 giorni al mese (12 giorni al mese per i genitori con figli). Alla lunga, la cultura manageriale prevalente, non ha però  retto la sfida. È come se, fosse riemersa, per limiti oggettivi, la mancanza di un approccio professionale nella gestione delle risorse umane, in grado di conciliare le  esigenze organizzative dell’azienda con quelle delle persone.  Un’azienda dai due volti. Quella che guarda avanti con ESSELAB e  il robot che prepara le insalate a Mind e quella che osserva i suoi collaboratori  con lo specchietto retrovisore. Dal 1 aprile e fino al 31 marzo 2025 quindi si cambia. La voglia di averli finalmente tutti indietro e tutti in fila è stata troppo forte. E, soprattutto,  vestiti come si deve. E l’ordine viene dall’alto.

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Relazioni sindacali. Ogni stagione può dare frutti diversi.

Sono segnali deboli che però annunciano un cambiamento di clima. Il punto di svolta è stato certamente  il contratto nazionale dei metalmeccanici a cui sono ne sono seguiti altri altrettanto inequivocabili.

La fase delle grandi ristrutturazioni che aveva messo la sordina alle politiche di sviluppo e di coinvolgimento del personale è alle spalle. Non che sia terminata perché, purtroppo, non è così ma perché l’intero sistema delle relazioni tra impresa e lavoro sta cambiando segno cercando di lasciare dietro di sé le logiche legate esclusivamente ai rapporti di forza, alle conseguenti difficoltà organizzative del sindacato e alle convenienze a breve delle imprese.

Il documento “Impegno” di Federmeccanica ne rappresenta l’esempio forse più completo così come i tentativi a livello confederale, sia sindacale che imprenditoriale, di dare al sistema qualche tratto più collaborativo  e innovativo.

Nel terziario, ad esempio,  vanno sottolineati il recente CCNL per i lavoratori dei Pubblici Esercizi, della Ristorazione (collettiva e commerciale) e di altri settori del Turismo sottoscritto da Fipe-Confcommercio, Angem, Associazioni Cooperative. siglato dopo oltre 4 anni e mezzo dalla scadenza, l’accordo aziendale all’outlet di Serravalle, quello recente di Amazon piuttosto che quello di Esselunga sulla rotazione delle domeniche così come l’intenzione di Deliveroo di proporre, a livello internazionale,  forme di assicurazione che rispondono alle esigenze dei propri bikers. Leggi tutto “Relazioni sindacali. Ogni stagione può dare frutti diversi.”

Puo esistere la fiducia in azienda?

È interessante la domanda che il professor Michele Tiraboschi ha posto a margine del dibattito scatenato dalla proposta delle associazioni dei medici di lasciare ai singoli lavoratori l’obbligo di autocertificazione dei primi tre giorni di malattia nella PA.

La stragrande maggioranza dei partecipanti alla survey si è dichiarata contraria. I medici, dal canto loro, preferiscono chiamarsi fuori anziché spingere il lavoratore a riflettere sull’effettiva necessità del ricorso alla malattia soprattutto in presenza di  una frequenza di richeste quantomeno sospette. 

La malattia breve è stata da sempre grande fonte di abusi nelle aziende pubbliche e private. In alcune realtà fuori controllo venivano chiamate ironicamente, dagli stessi lavoratori,  “ferie INPS” per sottolinearne la facilità di utilizzo. E sono stati motivo di grandi contenziosi con i medici e con gli uffici preposti ai controlli.

Nel terziario certi comportamenti tipici dei primi tre giorni di malattia hanno determinato la necessità di concordare un sanzionamento preciso nel contratto nazionale. 

Il tema della fiducia in azienda va quindi visto oltre l’utilizzo improprio di un diritto contrattuale o delle reazioni di diverso segno che provoca tra imprese e sindacati. Se non altro perché non si approderebbe a nulla. La domanda di Tiraboschi però va oltre i tre giorni di malattia.

Se il rapporto tra la gerarchia aziendale e il lavoratore resta quella del 900 fordista, con tutti i suoi controlli e le sue sanzioni, come è possibile parlare di smart working, lavoro ad obiettivi condivisi e prestazioni, anche a distanza, con risultati concreti e misurabili?

In questo senso è giusto chiedersi se può esistere la fiducia nella cultura aziendale. Se per fiducia intendiamo un generico affidamento che ha a che fare con l’esecuzione di un compito assegnato, di un progetto o di un obiettivo credo di sì. In genere è un affidamento sempre accompagnato da tempistiche, verifiche e controlli vari che consentono a chi deve gestire il rapporto di lavoro di avere sempre un riscontro sullo stato di avanzamento dell’impegno assegnato.

Un luogo di lavoro non determinato a priori può modificare la sostanza dell’affidamento? Credo di no. Non esistendo più, un indirizzo civico definibile del lavoro  questo determinerà inevitabili conseguenze in termini di orario (sostanzialmente auto-determinato), controlli (che diventano tecnologici e di risultato) e strumenti. L’affidamento non cambia sostanzialmente.

Anche perché il luogo di lavoro, fabbrica o ufficio, smetteranno di essere luoghi isolati ma diventeranno nodi del IoT. L’Internet di ogni cosa, in cui ognuno è un sensore che fornisce dati alla rete che collegherà persone, imprese, reti, enti pubblici, scuole. Temo che, al contrario di quello che si è portati a pensare, la tecnologia consentirà maggiori controlli sul lavoro, sulla produttività anche individuale, sia in presenza del collaboratore in un reparto o in un ufficio tradizionale che a migliaia di chilometri di distanza. Quindi il problema diventerà qual’è il livello legittimo di controllo potendo, potenzialmente, essere molto più opprimente e invasivo di oggi. E fatto magari da macchine e non necessariamente da persone.

Forse, per questo, è un errore confondere questo generico affidamento tipico di ogni organizzazione con un idea di fiducia vera e propria che resta altra cosa. Questa si, di difficile introduzione nella cultura aziendale. Al di là della legittima divergenza di interessi tra lavoratore e impresa altri problemi rendono difficile un rapporto totalmente trasparente.

Ad esempio un buyer della Grande Distribuzione può realizzare gli obiettivi assegnati in qualsiasi luogo con grande professionalità ma, per l’azienda, controllarne l’operato e la correttezza negoziale a 360 gradi resta fondamentale. E questo vale per molte attività dove il risultato è solo una variabile tra le tante.

Il limite nel dibattito di oggi è che rischiamo di concentrarci troppo sugli aspetti connessi alla maggiore libertà e fattibilità di esecuzione rispetto a ciò che sono le conoscenze attuali piuttosto che concentrarci sulle potenzialità trasformatrici della tecnologia in termini di qualità e sofisticazione, anche dei controlli stessi.

Personalmente credo che lo smart working renderà il lavoratore più produttivo e anche più responsabile. E anche l’azienda dovrà “rassegnarsi” ad una maggiore sensibilità. Questo contribuirà a creare un rapporto di lavoro più adulto, meno dipendente dalle paturnie dei capi ma, non per questo, meno controllato.

Lavoro agile e lavoro 4.0 in molte attività determineranno condivisione sugli obiettivi e maggiore autonomia consentendo forti aumenti di produttività individuale e collettiva non necessariamente collegata ad un miglioramento della qualità del lavoro. Sicuramente ad una maggiore complessità subordinata a continui aggiornamenti.

Stefano Venturi CEO di HP ci ricorda che “La prossima rivoluzione digitale avrà forme e dimensioni che fatichiamo ancora a concepire, ma di certo permeerà i nostri business e trasformerà il modo in cui lavoriamo e viviamo”.

Ha sicuramente ragione. Credo che su questo occorra concentrarsi per riuscire ad anticipare i fenomeni e a guidarli anche nell’interesse del mondo del lavoro e dell’impresa.

Grande distribuzione. Adesso cambia tutto…..

L’offerta cinese agli eredi di Esselunga probabilmente sarà respinta. Se vera, è comunque molto più alta del valore dell’azienda stessa. Difficile capire se è più importante la notizia dell’offerta cinese o il rifiuto di chi, in questo momento, vorrebbe provare a gestire un business nel quale, Esselunga, è ancora un punto di riferimento.

Se escludiamo la possibilità che venga formata una cordata italiana interessata all’acquisto e che, altri player del settore, siano disposti a competere con una offerta stratosferica dobbiamo prendere atto che la partita sui futuri assetti della Grande Distribuzione in Italia, ma anche in Europa, è ripresa con vigore.

Dall’altra parte dell’oceano Amazon risponde con una mossa a sorpresa. L’acquisto di Whole Foods per la modica cifra di 13,7 miliardi di dollari. Oggi Andrea Guerra Presidente Esecutivo di Eataly, sul Sole 24 Ore, rilancia il ruolo della sua azienda, sostenendo l’importante intuizione Farinettiana e cioè che nel lungo periodo paga di più il marchio delle promozioni. E che l’operazione Amazon ne sarebbe, in parte,  la dimostrazione plastica.

Ė vero. La vera novità, però,  alla base di questa importante acquisizione, da sottolineare, è che non esistono più confini settoriali insuperabili. Né rendite connesse al presidio, più o meno importante, di un solo settore.

Se la GDO ha fatto la sua fortuna negli ultimi 50 anni proprio perché intermediava in un luogo fisico determinato ciò che  l’industria food e non food proponeva, oggi quel luogo non è più esclusivo ma integrabile attraverso una logistica sofisticata che modella sulle esigenze del consumatore, attraverso la rete, produzione, stoccaggio, consegna e consumo. E, con Amazon, si predispone a farlo a livello planetario.

E da qui nascono due nuove esigenze che impattano pesantemente sul settore della grande distribuzione non solo italiana. La prima è che la forza del distributore tradizionale perde di importanza e quindi va ripensata, la seconda è che i centri commerciali devono essere anch’essi riprogettati alla radice trasformandosi in luoghi di svago ecdi intrattenimento dove c’è “anche” la vendita tradizionale ma alla cui redditività provvedono sempre più una pluralità di attività.

Amazon ci dice due cose. Il negozio tradizionale (piccolo o grande che sia) pur indispensabile va ripensato completamente in chiave digitale. L’integrazione on line e off line, su cui si sono stanno concentrate le riflessioni compatibiliste oggi più avanzate è già, di fatto, superata. Il centro della scena sarà presidiato dalle piattaforme digitali e di movimentazione delle merci.

La credibilità del marchio poi potrà  farà la differenza. Ci saranno marchi ombrello il cui compito sarà quello di dare una credibilità nuova sia al luogo fisico che virtuale attraverso portali che venderanno esperienze ed emozioni costituite da cibo, viaggi, intrattenimento, abbigliamento, ecc. riservate a target specifici gestiti attraverso i big data. In questo contesto, anche il lavoro si trasformerà radicalmente. Da un lato tutto ciò che è informazione, supporto e consulenza al consumo diventerà sempre più importante. Dall’altro si consolideranno un insieme di lavori a basso contenuto professionale (caricamenti, movimentazione, controllo, consegna, ecc.).

Così come cadranno i confini tra settori, inevitabilmente cadranno i confini tra attività impiegate nei centri commerciali. Quindi tra inquadramenti, livelli retributivi e professionalità impiegabili. E tra lavoro autonomo e dipendente.

Ovviamente in questo articolo il Sole 24 Andrea Guerra tira soprattutto acqua al suo mulino. Eataly ha bisogno di affermarsi nella sua intuizione anche per il futuro collocamento in Borsa. È però chiaro che siamo agli albori di una vera rivoluzione importante tanto quanto quella che è avvenuta in Francia alla fine dell’800 con la nascita di Bon Marché o in Italia con i fratelli Bocconi.

La GDO tradizionale non è preparata a questo ripensamento profondo né in Italia né in Europa. Salvo pochi lodevoli e artigianali tentativi (ad esempio, Carrefour, Unes, Eataly) che comunque segnalano una disponibilità positiva  a rimettersi in discussione la GDO europea è complessivamente ferma a formati e modelli del 900.

Certo gioca al mantenimento dello status quo una fase di transizione che si preannuncia lunga e, tutto sommato gestibile da un management abbastanza tradizionalista, soprattutto in Italia che però potrebbe garantire la sopravvivenza ai diversi operatori in campo spostando il traguardo un po’ più in là. Ma per quanto?

Una cosa però è certa. La sontuosa offerta cinese a Esselunga non sarà replicabile per lungo tempo. Oggi il suo format è probabilmente un modello esportabile, quindi appetibile. Ed è tuttora un’azienda di prim’ordine. In più gli imprenditori cinesi sono sempre costretti ad esagerare quando entrano in un mercato per dimostrarsi credibili.

Al di là però delle dichiarazioni di rito della proprietà di Esselunga di cui occorre prendere atto non vorrei essere nei panni di chi, a fronte di questa offerta, deve respingerla con forza mentre contemporaneamente deve concludere una difficile trattativa con tutti gli altri eredi in campo. Una decisone difficile che deve tenere conto di una cultura costruita sui successi di Bernardo Caprotti, di un management serio e impegnato a gestire questa fase e di tutti i ventitremila collaboratori coinvolti.

Come si può chiedere un aumento di stipendio?

Nel 2010 la casa editrice Einaudi ha pubblicato uno scritto di Georges Perec, definito, qualche anno prima, dalla critica francese «il racconto esilarante di una corsa ad ostacoli, di comici rimbalzi e appuntamenti mancati».

Il titolo: “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento” recentemente rilanciato da Fabio Savelli sulla Nuvola del Lavoro del Corriere. Con una ironia pungente Perec, scrittore molto interessante purtroppo scomparso giovanissimo, pone un tema rilevante.

Oggi, è ancora sufficiente “prendere il coraggio a due mani, alzarsi dalla scrivania e andare dal proprio capo con una richiesta di aumento retributivo” così come è stato per buona parte del 900?

Assolutamente no.

Il risultato sarebbe quasi sicuramente un garbato quanto netto rifiuto con tutto il seguito di rancori e frustrazioni inevitabili.

Nel mio lavoro di DIrettore Risorse Umane ho avuto la possibilità di esercitare entrambi i ruoli. ho richiesto riconoscimenti economici (non sempre con successo) e, per funzione aziendale, ho dovuto ascoltare le richieste di colleghi e collaboratori. Dalla mia esperienza ho tratto alcune riflessioni che vorrei condividere.

Le persone, anche se hanno raggiunto un certo livello di integrazione in azienda, faticano a parlare di sé, del proprio stipendio, delle proprie aspirazioni professionali o dei propri interessi. A volte si lamentano con i colleghi e attendono che, prima o poi, le Direzioni Risorse Umane o il proprio capo, si ricordino di loro.

Le aziende, in genere, hanno una loro politica retributiva annuale nella quale occorre sapersi inserire positivamente e al momento giusto. Le aziende più strutturate propongono un incontro di valutazione e sviluppo almeno una volta all’anno ed è un momento importante, formale, da non sottovalutare.

Saper rappresentare le proprie esigenze, formative e professionali o chiedere un adeguamento retributivo fa parte del set di competenze necessarie nel mondo del lavoro di oggi. Per farlo occorre possedere buone capacità negoziali, intraprendenza, conoscenza del contesto, giusta ambizione, determinazione. Ma anche saper gestire una possibile sconfitta, reagire positivamente e rapidamente, trarne insegnamenti utili. Tutte capacità che si possono apprendere senza particolari problemi.

Per questo non è affatto un momento da banalizzare. Va preparato nei minimi particolari. Come se si dovesse incontrare, da candidato per una nuova posizione di lavoro, un head hunter professionista.

L’interlocutore aziendale che ci si troverà davanti, in genere, non è uno sprovveduto. Conosce le politiche retributive dell’azienda, l’organizzazione nel suo insieme, i tempi, le eventuali modalità di erogazione, la valutazione vera sul contributo e sul peso specifico del richiedente.

Per queste ragioni la richiesta di incontro deve essere innescata da una ragione professionale oggettiva. Almeno nelle intenzioni. Un attività seguita che dimostra una maggiore copertura del ruolo, un contributo importante al lavoro del team, un progetto andato a buon fine.

Scelto il motivo, l’incontro dovrà essere richiesto in modo formale. Non si può discutere di sé in coda ad una riunione o in presenza di altri! L’ordine del giorno dovrà essere preannunciato e motivato dall’esigenza di potersi confrontare con chi è preposto, per ruolo, a farlo. Meglio, se possibile, concordare anche il tempo a disposizione.

La prima parte del confronto dovrà essere dedicata alla presentazione di sé, delle proprie aspettative professionali, del proprio contributo ai progetti e ai risultati aziendali. In sostanza occorre dedicare una parte del tempo a sottolineare l’importanza del proprio investimento personale nell’azienda e dei risultati realizzati come conferma della propria crescita.

Questa fase non deve essere un monologo né contemplare rivendicazioni passate o lamentele inutili ma neppure richieste precise. Deve semplicemente sollecitare un dialogo e, possibilmente, una condivisione dell’interlocutore sui fatti.

Attenzione! Solo se questa fase sarà sviluppata correttamente e completamente si potrà passare alla fase successiva: quella delle richieste specifiche. Chiarita l’asimmetria nei comportamenti tra impegno personale e riconoscimento dello stesso occorre dimostrarsi aperti a soluzioni differenti, distribuite nel tempo, sia sul piano quantitativo che qualitativo lasciando all’interlocutore aziendale la possibilità di riflettere e, eventualmente, di controbattere con argomentazioni nel merito delle problematiche poste.

Questa è la fase dove la conoscenza del contesto, la capacità negoziale e la determinazione possono giocare un ruolo decisivo. Da entrambe le parti. A questo punto le carte saranno tutte sul tavolo.

L’interlocutore aziendale può decidere di avanzare una soluzione di compromesso, proporre di valutare la richiesta all’interno di future politiche retributive e di sviluppo o rispondere negativamente. Il richiedente avrà, innanzitutto, chiara la valutazione che l’azienda (o il proprio capo) ha di lui quindi la convenienza o meno ad investirci passione ed energia, in futuro. O cercare un altra sfida sul mercato.

Nello stesso tempo, l’azienda, forse per la prima volta, si sarà potuta fare un’idea diversa del collaboratore, del suo approccio da professionista e delle sue capacità. Qui sta il vero salto di qualità. Far percepire ai responsabili aziendali (capo o DHR) la presenza di un collaboratore professionale, attento ai propri interessi e disponibile a rimettersi in discussione. Ma anche esigente e, perché no, dotato di una giusta ambizione. Il mercato del lavoro richiede sempre più soggetti con queste caratteristiche.

Crescere in azienda significa anche saper giocare le proprie carte e sapersi far valere. Per questo un colloquio serio e argomentato, se preparato e gestito bene, sarà stato comunque positivo e utile. Soprattutto per consolidare e sviluppare la propria capacità di interagire con interlocutori interni o esterni all’azienda a tutela dei propri interessi economici e professionali.

Come crescere in azienda…

Quali sono i segnali da cogliere o da lanciare per non trovarsi obsoleti, in azienda,  in breve tempo?

Oggi molte aziende assumono con grande cautela risorse giovani da costruire in casa. Non tutte, ovviamente. Ma soffermarsi su quelle virtuose non serve a molto. Meglio esplorare i meccanismi di quelle che preferiscono (eventualmente) sostituire chi se ne va con professionalità equivalenti a costi inferiori.

Il mercato oggi, purtroppo, consente di tutto. Non ci sono più riferimenti retributivi indiscutibili, né grandi difficoltà a reperire risorse adeguate. Quindi a parte poche figure ben individuate, il famoso detto “tutti sono sostituibili e nessuno è indispensabile” oggi vale ancora più di ieri.

Se a questo aggiungiamo che il contesto esterno rende difficile o rischioso il cambiamento per tutti ci si può rendere conto che i meccanismi interni di crescita in molte realtà sono inceppati o di difficile realizzazione.

Senza contare che le aziende non hanno più un percorso di crescita lineare del business e quindi ragionano sempre più spesso sul “qui e ora”. Questa situazione porta inevitabilmente a ingaggiare il collaboratore più sui risultati del mese, del trimestre o dell’anno che sul lungo periodo. E questo comporta minore motivazione, scarsa voglia di mettersi in gioco, difficoltà comunicazione che, alla lunga, può ritorcersi contro il collaboratore stesso.

Lamentarsi, però, serve a poco. Soprattutto se in gioco c’è il proprio futuro. A questo proposito ricordo sempre che, in azienda, esistono sempre tre punti di vista (legittimi) sullo stesso problema. Il proprio, quello del proprio interlocutore (il capo) e quello dell’azienda stessa che, se non dovesse coincidere con uno degli altri due, prevale comunque.

Per crescere, innanzitutto occorre pretenderlo. Non basta volerlo. Né aspettare di essere notati. Occorre assumere comportamenti coerenti. Tre caratteristiche indispensabili su tutto: ascolto, impegno, empatia. La crescita è un percorso a tappe dove l’avversario è, innanzitutto, dentro sé stessi.

Ciascuno ha a disposizione un campo da gioco (l’azienda) un allenatore (il capo), una squadra (i colleghi). Si può crescere senza necessariamente fare carriera. Crescere è, però, costruire le condizioni per poterla fare. In azienda o altrove.

Innanzitutto l’azienda. Capirne lo stato di salute, la dinamicità del top management, la propensione al rischio e all’innovazione, la capacità di rimettersi rapidamente in discussione e di sperimentare programmando. Se ha una politica di gestione delle risorse umane, se ha, o meno, un alto turn over, se ha in programma investimenti o ridimensionamenti. In poche parole conoscere l’azienda significa conoscere il contesto, i linguaggi di relazione e le regole del gioco necessarie.

In secondo luogo, il capo. Attenzione! Il capo non coincide necessariamente con l’impresa. È un suo “rappresentante pro tempore”. Non va mai commesso l’errore di identificarlo con l’azienda della quale può essere peggio o meglio. Ma non è questo che conta. Strumentale o opportunista, coach vero o inconsistente, interprete corretto o meno dei valori e della filosofia aziendale.

Capirlo è fondamentale. Un capo che gioca solo per sé è inutile alla propria crescita. Così come un capo che pensa solo a non scontentare chi ha sopra. Il capo, però,  va gestito. Non va lasciato tranquillo. Soprattutto se non sta facendo il capo. Occorre chiedere feed back (positivi e negativi) con una certa regolarità. Ascoltarlo ma pretendere coerenza nei comportamenti. Soprattutto capire quando non ha più niente da dire e da dare.

Infine i colleghi. La competizione non è con loro. Anzi. Essere propositivi, disponibili, coerenti, aiuta molto. Occorre ricordare sempre che “le persone che incontri quando sali, sono le stesse che incontri quando scendi”. Non serve assolutamente giocare sporco per crescere. I colleghi sono i primi biglietti da visita, danno informazioni su di noi a terzi, confermano  pregi e punti deboli. In futuro si  reincontreranno in altre aziende o in altri ruoli ma parleranno (bene o male) di noi come se ci avessero incontrato il giorno prima. Sono una componente importante del nostro sistema di relazione. Altro fondamentale elemento da costruire.

Alcuni di loro sono in carriera, altri sgomitano, altri temono la competizione. Corretti, ansiosi o incapaci vivono con noi per lunga parte della giornata. Non sono amici, ovviamente, ma costruire un rapporto di lavoro empatico e positivo è fondamentale per crescere. Si impara molto dai colleghi, dalla squadra e dalle dinamiche che ne scaturiscono.

Oggi si lavora, come, si dice sempre, per gli altri, con gli altri e attraverso gli altri. Non si lavora per sé. Quindi si può crescere solo a precise condizioni. Buon percorso scolastico di base, solide competenze professionali da acquisire seguendo progetti a difficoltà crescente in azienda, feed back costanti, ascolto, impegno, gioco di squadra.

A questo occorre aggiungere una approfondita conoscenza delle lingue (almeno l’inglese), una cultura digitale non superficiale, una formazione mirata e continua sulle soft skills determinanti per interagire positivamente nei contesti odierni. Ma, soprattutto, un buon capo più che una buona azienda. Altrimenti meglio guardarsi in giro perché si sta perdendo tempo prezioso….