I lavoratori ex Almaviva tra passato e futuro.

Che il caso Almaviva si concluda positivamente dovrebbe essere obiettivo e interesse di tutti. Resta sul tavolo un equivoco di fondo percepibile dalle interviste sul campo e da non alimentare assolutamente.

L’idea cioè che possa trovarsi, per tutti, un lavoro analogo al precedente in termini di sicurezza, durata e tipologia. Sicurezza, durata e tipologia peraltro già venuti meno a causa del licenziamento.

Ribadire, come fa qualcuno sul territorio, che il mercato del lavoro locale non sarà in grado di assorbire le persone con contratti stabili non solo è inutile ma rischia di essere controproducente. Non aiuta la soluzione ma, addirittura, la complica perché spinge i lavoratori a rifiutare qualsiasi proposta.

Lo status del lavoratore ex Almaviva è quello di un disoccupato che rischia di perdere la NASPI tra pochi mesi quindi la sua possibilità di scelta è tra un lavoro accettabile o disoccupazione certa.

E l’accettabilità di un lavoro deve essere definita non in astratto (come spesso fanno gli accordi sindacali) ma in relazione al mercato del lavoro su cui si intende operare uno scouting efficace. Se esistono oggettive difficoltà di inserimento o si amplia il territorio di ricerca o si percorrono le soluzioni possibili.

Non si risponde alle difficoltà facendo intendere, tra le righe, che la NASPI, in determinati contesti, dovrebbe durare oltre il lecito. Aggiungo che non c’è cosa peggiore che “marcare” questi lavoratori, agli occhi delle imprese del territorio scelto, come reticenti all’impiego perché questo li renderebbe veramente non collocabili. Chiunque abbia vissuto il caso UNIDAL o il caso Alfa Romeo a Milano può immaginare a cosa mi riferisco.

Parlare di “calvario dei colloqui” o di precarietà delle soluzioni proposte come ha fatto il titolista di “Repubblica” è un errore. Illude i protagonisti di essere comunque in credito ma raffredda e allontana chi potrebbe offrire soluzioni.

Chi ha necessità di assumere si muove con cautela. Soprattutto di fronte a candidati che sono, volenti o nolenti, sotto i riflettori. Le possibili soluzioni si individuano, una per una e  a “fari spenti”. Se l’obiettivo di tutti è il lavoro, le parti stipulanti l’accordo di gestione degli esuberi devono impegnarsi per evitare strumentalizzazioni ma anche interpretazioni troppo rigide che rischiano di favorire indecisioni, rinvii di scelte, confronti inutili con colleghi magari più spendibili in un colloquio di lavoro.

Tutti atteggiamenti legittimi ma inutili in un mercato difficile. L’esperienza maturata fino ad oggi, i colloqui effettuati, i possibili ritardi accumulati dovrebbero essere oggetto di un “tagliando” dell’accordo che ridefinisca i termini della questione sgomberando il campo da una serie di equivoci e rigidità che, se non rimossi, non aiuteranno a risolvere definitivamente il problema. L’incontro tra domanda e offerta deve essere trasparente, coerente con il mercato e concreto.

Considerare i lavoratori ex Almaviva una categoria a sé stante e non singoli lavoratori da reimpiegare, generalizzare alcune condizioni familiari difficili o forzare guidizi sulle tipologie di impieghi proposti fino ad oggi, fa un cattivo servizio, non solo a quei lavoratori ma all’insieme di un progetto che presuppone un cambiamento culturale.

Certo non si può chiedere ad un’impresa che deve assumere di derogare dalle proprie impostazioni però si potrebbero predisporre strumenti (incentivi, distacchi, reversibilità) a suo vantaggio.

Così come, sul versante dei singoli lavoratori, trovando il modo di valorizzarne le decisioni in termini di apprendimento di nuove attività e di consolidamento del CV. Nel caso di apertura a scelte “imprenditoriali” dei singoli supportando questa disponibilità nella fase di start up con esperti del business individuato. Credo che, su questo, le associazioni dei dirigenti di azienda con le loro reti professionali potrebbero dare una mano concreta.

Ad oggi, i lavoratori ex Almaviva, hanno dato una importante risposta positiva di disponibilità che segnala una volontà di rimettersi in gioco. Non è un segnale da poco.

Certo, i problemi cominciano ora. Ma questo era noto a tutti i firmatari dell’accordo. L’importante è che nessuno si sfili alle prime scontate difficoltà o cavalchi tensioni e preoccupazioni per ritornare, più o meno inconsapevolmente, al punto di partenza.

Se vogliamo che si affermi una cultura diversa non ce lo possiamo permettere.

Giovani e pensioni. Un ossimoro da affrontare.

In fondo ha ragione l’ex ministro Elsa Fornero: i giovani non votano. D’altra parte non sembrano interessati ad alzare nemmeno la voce, come categoria in sé, sui loro ipotetici interessi futuri.

La loro condizione è argomento di dibattito tra statistici, esperti della materia, politici alla ricerca di consenso per la prossima campagna elettorale. C’è più attenzione intorno alle pensioni, passate e presenti che alla loro condizione effettiva. Il Presidente dell’INPS ha provato a sollecitarli agitando la busta arancione, i sindacati, da tempo, con i fondi integrativi contrattuali di previdenza. I risultati sono stati modesti. Lo stesso vale per la sanità integrativa. I giovani sembrano rassegnati al presente.

Personalmente non credo si debba provare meraviglia. Il punto è che, non avendoli in campo, le altre generazioni vincono sempre e comunque a tavolino. Chi ne discute è, generalmente, anch’esso di un’altra generazione e dispone, quasi sempre, di redditi medio alti.

Quindi, coda di paglia a parte, le proposte sono, quasi sempre, parziali o blablatiche. Per i giovani, a sentire loro, i temi principali sembrano essere sostanzialmente due: il reddito e il lavoro. Sul reddito c’è poca fantasia (di inclusione o di cittadinanza) visto però, sempre superficialmente, come semplice scorciatoia soprattutto in carenza di lavoro. Il lavoro invece inteso soprattutto come qualità (tipologia, interesse concreto, clima), non solo come opportunità. Altrimenti non si spiegherebbero le offerte comunque inevase o coperte da lavoratori provenienti da altri Paesi.

Per molti (non per tutti, ovviamente) c’è un rapporto malinteso con la fatica, l’impegno, la capacità di investire su sé stessi pensando al futuro. È la gallina domani che sembra interessare meno. E l’uovo oggi rischia di non esserci comunque perché anche le aziende preferiscono investire sull’usato sicuro piuttosto che costruirsi in casa il futuro.

Ma è così anche per il lavoro autonomo. Alcuni esempi. Un giovane che oggi si iscrive a veterinaria sa, in partenza, che finirà disoccupato o, al massimo, potrà guadagnare mille euro fino a quarant’anni e oltre. Altro che pensione. In Italia ci sono 14 facoltà di veterinaria. In Germania 3. Nessuno spiega ai nostri giovani che forse, se studiassero il tedesco come i loro coetanei, rumeni o polacchi, qualche sbocco professionale potrebbero averlo. Non certo in Italia. Però anche nell’Ordine dei veterinari si discute della sostenibilità del sistema previdenziale più che del futuro della professione in Europa.

Le scuole di alta cucina, liuteria, ecc. sono frequentate da molti stranieri e da pochi italiani. Alcune di queste sono molto costose. Parlando con i genitori di ragazzi asiatici, la risposta che mi sono sentito dire sul perché di quella scelta mi ha fatto riflettere. “Anziché comprargli l’auto, investiamo sul loro futuro. L’auto se voranno, se la compreranno loro.” In azienda è lo stesso. Lavorando in multinazionali di diversi Paesi ho incontrato ragazzi di tutto il mondo. In tutti i test possibili i giovani italiani risultavano sempre ultimi. Il loro rapporto con il lavoro era ed è falsato dai messaggi e dalle aspettative della famiglia e della scuola. Sono  più fragili.

Però verso i trent’anni (dopo 4/5 anni di lavoro) ritornavano testa a testa con i coetanei quando finalmente si rendevano conto che erano inseriti in un percorso lungo e faticoso e che gli esiti non erano affatto scontati o determinati dal loro titolo di studio di partenza. Nella GDO i giovani promettenti, laureati o meno, possono fare brillanti carriere commerciali. Ho visto troppi ragazzi bravissimi a scuola, perdersi in azienda. Il talento, checché se ne dica, non esiste. Almeno così come lo intendiamo noi.

Esistono le attitudini che vanno allenate. Giorno per giorno. Dobbiamo smetterla di piangerci addosso e di spingere, così, i giovani alla rassegnazione. Così come chiedere, sul versante delle imprese, solo sgravi contributivi o fiscali per i giovani quasi fossero una categoria protetta o da proteggere dalla concorrenza di altre generazioni.

Gli sgravi è giusto che ci siano per tutti. Il cuneo fiscale è insopportabile. E non solo per i giovani. Punto. Pretendiamo, invece, che le imprese dimostrino cosa sono in grado di fare concretamente per i giovani. Non cosa chiedono al Governo per fare.

Nel terziario di mercato decine di migliaia di giovani vengono formati per trovare lavoro. Il lavoro che c’è. Non quello immaginato. Tempo determinato, part time orizzontali e verticali, stagionale, week end, servizi alla persona, ecc. lavori che fanno CV e preparano alla vita e che consentono di capire comparti che offrono ancora prospettive. Anche di carriera.

Così come dobbiamo smetterla di raccontare ai giovani che non avranno una pensione adeguata. Aiutiamo le parti sociali a consolidare gli strumenti contrattuali di previdenza integrativa che affrontino e contribuiscano a contenere il problema. Costruiamo un nuovo rapporto con la scuola e con il mondo delle imprese, di alternanza e di stage (corretti). Raccontiamo i casi migliori, estendiamoli attraverso sperimentazioni mirate. Non cominciamo sempre da capo su tutto. La ruota è già stata inventata. Ci sono esempi virtuosi, condividiamoli.

L’ANPAL può fare molto se saprà diventare un elemento di stimolo di una cultura nuova, concedendo poco a silos autoreferenziali (presenti nel mondo della scuola e dell’impresa) e più a condivisione di percorsi e di gioco di squadra. E infine facciamo un esame di coscienza generazionale. Non serve raccontare ai giovani che devono continuare ad aspirare al mondo di chi li ha preceduti. Né, al contrario, che sono fatti loro se ciò non si dimostra possibile.

Cosa vuole mettere sul tavolo la nostra generazione in termini di risorse, equità intergenerazionale, condivisione di esperienze? Se nessuno di noi è disposto a rinunciare a qualcosa di concreto almeno non prediamoci in giro sostenendo che si può essere per il sistema retributivo per chi lo ha, annacquare  i termini dell’aspettativa di vita e contemporaneamente proporre sgravi per i giovani.

Machiavelli diceva che “non si può essere di sollievo al Principe ed innocui al popolo”. Bisogna scegliere. Nel dibattito sui giovani e sulle pensioni presenti e future credo che l’opportunismo abbia preso il sopravvento. Forse sarebbe meglio alzare decisamente lo sguardo.

Il terziario e i suoi contratti tra passato e futuro

Tutte le survey promosse presso gli imprenditori e le imprese del terziario di mercato rilevano che il servizio più importante riconosciuto a Confcommercio è la sottoscrizione del contratto nazionale e la sua gestione.

Il perimetro di chi lo applica è talmente ampio che è difficile quantificarlo con precisione assoluta. Comunque ben oltre i tre milioni dichiarati. A differenza degli altri contratti nazionali dove contenuti e norme trovano la loro origine nella contrattazione aziendale delle grandi imprese e quindi tendono a esportare vincoli e normative di difficile gestione, il contratto nazionale del terziario offre chiavi applicative differenti a seconda del comparto, del sotto-settore o dell’azienda stessa.

I tentativi, portati avanti nel tempo, dalle aziende della Grande Distribuzione di modellarlo a proprio uso e consumo sono sempre falliti, vuoi per la presenza di una contrattazione aziendale specifica di difficile esportazione, vuoi per la struttura sostanzialmente fordista (quindi più simile all’industria) dei suoi modelli organizzativi.

La convenienza nell’applicarlo risiedeva semplicemente nel restare nello stesso contratto delle PMI per tenere basso il costo complessivo già gravato dalla contrattazione aziendale delle singole imprese. Operazione riuscita fino alla crisi che ha colpito la Grande Distribuzione costringendola, prima a cercare di ridefinire la propria contrattazione aziendale, poi a cercare, inutilmente, di seguire Federdistribuzione per dotarsi di un contratto nazionale specifico a basso costo rischiando operazioni di dumping dagli esiti imprevedibili.

Intorno a questo contratto ne sono nati altri di modesta entità proposti sia da Confesercenti che da altre piccole associazioni di categoria. Oppure dallo stesso sistema cooperativo che, da anni, cerca però di rinunciarci, aggregandosi al contratto principale, senza successo per responsabilità sindacali.

Il recente accordo tra Confcommercio e CGIL, CISL e UIL mira proprio a costruire un perimetro riconosciuto, evitare dumping applicativi e verificare la rappresentatività reale di entrambe le parti in campo.

Il contratto nazionale del terziario (ex Commercio) è sempre stato ritenuto storicamente debole dalle organizzazioni sindacali (soprattutto di altri settori) perché poco innovativo su molti temi. Al contrario delle imprese che lo hanno ritenuto particolarmente efficace.

I media hanno sempre etichettato il lavoro del terziario come povero, quindi poco interessante sul piano della qualità della contrattazione e, nel tempo, a volte con buone ragioni, preso atto di un livello non particolarmente elevato dei sindacalisti del settore (e non solo..).

E questo ha coinvolto inevitabilmente i contenuti, tutti gli attori e l’intero sistema negoziale del terziario. Non è un caso che viene spesso sottaciuto il più importante impianto di welfare contrattuale, lo stesso sistema formativo e, perché no, la scelta partecipativa (tutta autoctona) insita nel sistema bilaterale.

La crisi del fordismo e della conseguente rappresentanza del mondo industriale sia sul versante sindacale che datoriale ha portato inevitabilmente in primo piano la necessità di riscrivere le loro regole del gioco. La sempre più evidente debolezza organizzativa e la inevitabile terziarizzazione del comparto ha ingolosito i vertici di Confindustria spingendoli a chiedere essi stessi, la sottoscrizione di un ulteriore contratto nel terziario innovativo. Operazione molto rischiosa per i sindacati.

Nel frattempo, Confcommercio con gli stessi Sindacati Confederali ha riscritto le regole del gioco proprio con l’obiettivo di recuperare i rischi di dumping, impedire la proliferazione dei contratti, misurare la rappresentatività reale dei negoziatori.

Fino a qualche anno fa il Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli ha sempre suggerito, citando Caio Giulio Cesare, che è meglio essere “primi in Gallia che secondi a Roma” evitando, con il suo consueto stile,  un confronto organizzativo con Confindustria nonostante i numeri lo consentissero ampiamente.

Oggi, per il lavoro fatto in questi anni, per aver costruito una Confederazione in grado di accogliere, non solo i mondi tradizionali del commercio e del turismo, ma anche i settori più innovativi del terziario, dei trasporti, della logistica, dei servizi alle imprese e alle persone e delle professioni, Confcommercio si può porre l’ambizione di “pesare” a Roma per quello che la sua salute organizzativa potrebbe consentire.

Dario Di Vico, con la solita arguzia, utilizza la metafora di “Cenerentola” (  http://Bit.ly/2fjsshQ   ) per rappresentare un comparto che stenta ad avere il peso che merita.

Forse ha ragione ma è giusto ricordare che la protagonista della bellissima fiaba popolare, sempre considerata la meno appariscente tra le sorelle, al momento giusto viene apprezzata per quello che è veramente e diventa principessa. Io, con l’analogia, preferisco spingermi oltre la mezzanotte della fiaba stessa.

La contraddizione è solo apparente….

Secondo Dario Di Vico ( http://bit.ly/2u9YNOu  ) esisterebbe una contraddizione nei comportamenti delle imprese italiane che da un lato manifestano, spesso pubblicamente, la volontà di investire sul proprio capitale umano attraverso il welfare aziendale e la formazione ma, dall’altro preferiscono continuare ad utilizzare tutta la flessibilità possibile sul fronte delle assunzioni. A mio parere è una contraddizione solo apparente.

Innanzitutto due problemi sullo sfondo. Usciamo da un periodo di grandi difficoltà e di ristrutturazioni dove le aziende hanno riallineato i loro organici a tempo indeterminato e il loro utilizzo.

I rapporti sono più chiari. Spesso più duri. Non esistono più (o quasi) le aziende “mamma”. Esistono aziende dove lo scambio è costituito da crescita professionale, formazione e welfare, in cambio di professionalità, coinvolgimento e adesione ai valori aziendali. Ovviamente per chi è dentro il perimetro.

Quindi maggior impegno e saturazione delle attività richieste, polivalenza delle mansioni e accorpamento di ruoli manageriali. L’organico è spesso tirato al limite e le possibili aree di ottimizzazione pur difficili da individuare sono sempre all’ordine del giorno.

Aggiungo che in molte imprese l’organico resta quantitativamente (non qualitativamente) ridondante. Ma con costi certi e poche soluzioni praticabili a portata di mano. In secondo luogo le nuove modalità di assunzioni a tutele crescenti, contenute nel Jobs Act, presentano ancora margini di ambiguità che spingono le aziende ad una forte cautela nell’utilizzarle.

E infine, per le aziende di oggi, i trentasei mesi previsti per un contratto a tempo determinato sono un periodo di valutazione congrua non tanto e non solo dell’individuo ma soprattutto del contesto economico e del proprio mercato di riferimento molto più determinanti che in passato.

Trentasei mesi, checché se ne pensi, sono un’era geologica per un’azienda, nella quale può cambiare tutto. Quindi, con qualsiasi modalità utilizzata, le assunzioni si fanno con il contagocce. Si sostituisce chi lascia solo se non se ne può fare a meno e solo dopo attente riflessioni organizzative. Difficilmente con un giovane alle prime armi.

Meglio “l’usato sicuro” soprattutto perché il mercato del lavoro offre ottimi professionisti spesso ad un costo decisamente inferiore rispetto al passato. Detto questo che forse chiarisce alcune delle ragioni di fondo che cercano di spiegare la cautela generale nel procedere ad assunzioni comunque etichettate ritorno sulla apparente contraddizione sollevata da Dario Di Vico perché è proprio questo contesto di difficoltà che spinge le aziende ad investire concretamente sul proprio capitale umano.

Il futuro di un’impresa non lo si costruisce oggi sulle modalità di assunzione ma sulle persone. E questo vale sia per quelle già presenti in azienda da ingaggiare con modalità e strumenti nuovi sia quelli che, pur contratti diversi e di differenti generazioni, vengono comunque coinvolte.

La differenza, oggi, sta tutta qui. Ingaggiare, mobilitare, coinvolgere, proporre opportunità di crescita professionale non più attraverso vincoli fittizi come in passato ma attraverso formazione qualificata e partecipazione ad attività e progetti.

Questo con l’obiettivo di mettere in condizione le persone di dimostrare la loro volontà di apprendere e di crescere nell’azienda stessa o altrove capitalizzando l’esperienza professionale effettuata per il proprio futuro.

Se per il Governo la Politica  e i Sindacati l’importante è assumere a tempo indeterminato più giovani possibile, sempre e comunque, non è così per le singole aziende. L’equazione tempo indeterminato uguale investimento sull’individuo non vale più.

E non è certo incentivando una modalità o disincentivandone un’altra che si ottiene un risultato duraturo. È il mercato del lavoro che deve funzionare diversamente. Quindi le poche risorse dovrebbero essere finalizzate a rendere il lavoratore in grado di affrontarlo e non di temerlo. Se ne gioverebbero sia lui che l’impresa che lo assume perché il “patto” sarebbe molto più efficace per entrambi. Impresa e individuo investono con lungimiranza se il contenuto dello scambio è chiaro.

Il punto è che fino a quando l’obiettivo dell’intero sistema sarà l’assunzione a tempo indeterminato in un’azienda e non l’acquisizione di capacità e competenze valide a 360 gradi sul mercato quell’assunzione sarà effimera qualunque sia la modalità prescelta.

Ma soprattutto non ci sarà alcuna convenienza reciproca ad investire né sulla persona, da parte dell’azienda, né sulla propria crescita professionale, in quell’azienda, da parte della persona.

Prendersela con il cronista non è mai buona cosa…

La modalità con cui si è voluto trasformare una assemblea in una forma di lotta è da condannare senza se e senza ma. Prendersela con chi l’ha stigmatizzata quasi a giustificare il “fallo di reazione” dovuto al comportamento della controparte è un errore.

Seguire i COBAS o cavalcarne le aspettative è sempre un segno di debolezza. E, nei trasporti, questa debolezza del sindacato confederale è palese. Non solo negli aeroporti.

Detto questo Di Vico fa bene oggi (  http://bit.ly/2wnLdUh ) ad alzare lo sguardo sulle responsabilità di una controparte che sfrutta questa debolezza per girare a proprio vantaggio una evidente situazione di responsabilità negoziale.

L’ho già scritto. Occorre andare oltre lo schema provocazione/reazione. Lo sciopero, comunque mascherato e soprattutto nei trasporti, è un autogol per il sistema Paese. Inutile girarci intorno.

Non servono modifiche, preavvisi, regolamentazioni. Aveva ragione Pierre Carniti. L’unico sciopero che non provoca disagi è quello che non si fa (e non si preannuncia…). Mancano nuove procedure di ricomposizione del conflitto con relative penali che, però, devono essere comminabili ad entrambi i contendenti.

Sia a chi non le rispetta, sia a chi non affronta i problemi o ne ritarda artificiosamente la soluzione. E comunque ci deve essere una commissione mista, una sorta di arbitro che, alla fine, si assume l’onere di chiudere le partite in modo definitivo.

Se si vogliono modernizzare le relazioni sindacali non basta far affidamento sui “talenti” o sulle buone idee presenti nel sindacato o tra i giuslavoristi più attenti. Occorrono regole nuove e vincolanti.

Altrimenti si ritorna nel 900. Ma solo negli strumenti e non nelle soluzioni idonee ad un Paese moderno.

Unità sindacale, ipotesi definitivamente consunta o sfida ancora possibile?

Il quotidiano l’Unità ha chiuso sostituito, on line, da un più tranquillizzante “Democratica”. Ostentarlo in fabbrica nella tasca sinistra della tuta come i comunisti facevano con il giornale fondato da Antonio Gramsci, oggi, farebbe sorridere.

Le stesse storiche feste di cui mantengono il nome arrancano pur tra ottimi gnocchi fritti e chiacchierate politiche ormai incalzate da quelle chiamate “del Lavoro” di MDP. Unità e Sinistra stanno diventando ormai ossìmori. In questo clima chiunque (ri)parli di unità sindacale rischia di passare per un ingenuo passatista.

Sia i congressi di categoria che quello confederale della CISL non hanno lasciato spazio al tema. Eppure la firma unitaria degli accordi interconfederali e dei recenti contratti di lavoro nel comparto industriale aveva fatto pensare (a chi crede ancora rilanciabile questa ipotesi) ad un cambio di strategia sul tema dopo le stagioni delle divisioni. Non è stato così.

I tre sindacati confederali, almeno fino ad ora, hanno deciso nei fatti, di continuare a “marciare divisi” per eventualmente “colpire uniti” su singole questioni. La carta dei diritti, i referendum proposti e l’eccessivo significato dato allo scontro sui voucher e sulle successive proposte del Governo per risolvere il problema avevano chiarito che la CGIL non si sarebbe fermata in attesa di un ripensamento di CISL e UIL. Ripensamento ovviamente lontano dalle intenzioni dei gruppi dirigenti degli altri sindacati.

La conferenza di organizzazione della CGIL confermerà probabilmente questa strategia. L’avvicendamento in FIOM con Re David e lo spostamento di Maurizio Landini in CGIL fanno presagire una linea di assoluta continuità, almeno nel breve. Inoltre le divisioni, interne alla sinistra politica, sono destinate ad accentuare e non ad attenuare le divaricazioni tra i sindacati.

Il rischio vero è che la debolezza di ciò che si muove alla sinistra del PD spinga la CGIL a immaginarsi come elemento di possibile coagulo. Una sorta di cinghia di trasmissione al contrario in stile vecchio Labour inglese dove è il sindacato il soggetto politico portando così a compimento l’idea dalla quale era partito lo stesso Landini, però in termini più vasti, di “coalizione sociale”.

I fatti però ci dicono che, dal referendum sulla scala mobile del giugno del 1985 ad oggi nessuno dei tre sindacati confederale ha beneficiato, sul piano organizzativo, delle divisioni. Anzi.

Negli anni caratterizzati dalla deriva identitaria il sindacato confederale ha perso iscritti, peso e autorevolezza. Soprattutto tra gli attivi e tra i giovani. Nelle aziende, pur con significative differenze settoriali, il declino è continuato inesorabile.

In contro tendenza a questa deriva una parte della Politica sembra voler ritornare sui suoi passi. Dal PD si cominciano a sentire piccoli ma importanti segnali di autocritica sul rapporto con le organizzazioni di rappresentanza. Segnali analoghi di interesse alla collaborazione vengono dal Presidente Gentiloni e dal Ministro Calenda solo per citare i più importanti. Anche i più scettici hanno capito che i corpi intermedi svolgono una funzione decisiva nella società italiana. E restano un antidoto potente alla deriva populista.

Chi ha capito, però, nelle federazioni di categoria, che il Lavoro sta cambiando in profondità e che una difesa delle proprie idee e della propria strategia passa attraverso la capacità di individuare nuovi interlocutori, stabilire alleanze inedite, uscire dal proprio isolamento sembra non avere interesse a giocare le sue carte in questa fase. In nessuno dei tre sindacati.

Landini è un caso a parte perché doveva ricostruire una sua immagine interna alla CGIL fortemente sfuocata in questi anni. Per questo dovrà probabilmente disegnare e proporre scenari apocalittici sulle prospettive del sindacalismo confederale per rimettersi al centro della scena e ricompattare la CGIL intorno al suo nome.

In quella organizzazione (e non solo in quella) non perdonano facilmente egocentrismi, protagonismi esasperati e atteggiamenti ripetuti da “metalmeccanico”… La stessa votazione appena avvenuta nel parlamentino della CGIL sulla sua nomina segnala la presenza di malumori.

Tra i diversi temi su cui si gioca la partita c’è di mezzo anche il modello contrattuale di riferimento nel negoziato con Confindustria. Non è un caso che tutti i soggetti in campo si sono affrettati a dichiarare di non considerare come punto di riferimento valido per tutti la filosofia contenuta nel rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Anche gli stessi firmatari di quel contratto tengono un profilo basso. La logica spingerebbe verso l’esatto contrario.

Quel contratto, in cambio di una disponibilità unitaria su di una distribuzione innovativa del salario positivo anche per le imprese (oltreché per i lavoratori) potrebbe portare ad un rilancio del sindacato nei luoghi di lavoro e nei territori rimettendolo al centro di un rinnovamento in chiave anche collaborativa dagli esiti imprevedibili.

Il rischio è che nella fase di gestione, che deve ancora partire, il fronte delle imprese lavori per sterilizzarne parti significative. Per questo occorrerà attendere la conferenza di organizzazione della CGIL per capire se il primo sindacato italiano affronterà alcuni nodi in modo problematico pensando alla prospettiva o preferirà continuare in un lento ripiegamento su se stesso.

Susanna Camusso ha contribuito in modo decisivo a far uscire la CGIL dall’isolamento in cui era finita. Per farlo ha scelto di compattare l’intera organizzazione spostandone l’asse più a sinistra anche perché, con una CGIL rissosa al proprio interno, non sarebbe andata da nessuna parte.

Il suo compito sta per concludersi ed è nel momento del passaggio di testimone che si capirà se lascia al suo successore un compito difficile o uno impossibile.

Ed è a quel punto che CISL e UIL potranno o meno individuare proposte e strategie tese ad accompagnare, contrastare o concordare un percorso e una strategia credibile.

Per ora non possiamo non registrare l’assenza di qualsiasi riflessione significativa sul tema dell’unità e del futuro del sindacalismo confederale.

Luxottica e il totalismo aziendale

Fa bene Dario Di Vico a rilanciare il modello Luxottica. L’Italia del lavoro nero, dei contratti nazionali non firmati, dei licenziamenti via sms, dei furbetti del cartellino e degli scioperi del venerdì ha anche bisogno di campioni positivi.

E Luxottica è un campione positivo. Il voto molto alto (8,6 su di una scala da 1 a 10) nell’indagine interna, i cui risultati sono stati resi pubblici in questi giorni, lo testimonia. E Leonardo del Vecchio fa bene ad esserne orgoglioso.

È un welfare particolare, diverso da tutti gli altri. Innanzitutto è sinonimo di Luxottica. È la prima cosa che viene in mente quando si pensa a quell’azienda. Prima ancora della sua produzione per la quale quell’impresa è conosciuta in tutto il mondo.

Ed è sinonimo di un territorio, il Veneto, che mantiene, nonostante tutto, un livello di coesione sociale, di etica del lavoro e del fare impresa che ha la sua forza nella comunità che ne consente l’insediamento e lo sviluppo.

Luxottica non poteva nascere, e diventare ciò che è oggi, se fosse nata altrove. Leonardo del Vecchio ribadisce spesso che più che l’aspetto meramente economico e strumentale è il legame emozionale con l’azienda e il senso di comunità che genera a fare la differenza.

Ecco, Luxottica è l’espressione più positiva e territoriale di quello che il prof. Zamagni definisce “Totalismo aziendale” la capacità cioè di un’azienda di includere una leadership forte, valori che hanno le loro radici nel territorio, un consenso pressoché totale e risposte concrete ai bisogni.

La preoccupazione di Zamagni è che questa coesione sociale e questa identificazione nel leader, se generalizzata e priva di contrappesi mette però in discussione il concetto stesso di democrazia. Che non può fermarsi davanti ai cancelli di un’impresa come se fossimo nel secolo scorso.

Nel caso di Luxottica il “totalismo aziendale” lo troviamo nella sua accezione positiva e condivisibile, nella sua rappresentazione territoriale e sociale, meno nel caso di molte multinazionali dove, lo stesso, si materializza attraverso uno scambio asimmetrico che chiede adesione valoriale e culturale a prescindere in cambio “solo” dell’orgoglio di appartenenza.

Zamagni ci spinge a riflettere sulla (da lui ritenuta) pericolosità di questi modelli. Soprattutto sulla esclusione di contrappesi veri. Siamo di fronte ad una delega in bianco, ben riposta nel caso di Leonardo del Vecchio, ma nelle sue mani esclusive.

I sindacati, in queste realtà, suggeriscono, propongono, associano anche iscritti ma in una logica, però, assolutamente disintermediata e subalterna. L’azienda parla al singolo lavoratore, lo ascolta, lo gestisce. Al sindacato non resta che fare il verso alla direzione risorse umane.

È un modello che sta crescendo anche altrove nel nostro Paese. L’azienda si apre al mercato, al consumatore, al contesto esterno ma costruisce un sistema di valori, risposte e comportamenti chiuso al proprio interno. Chi li condivide, cresce. Ne beneficia in diversi modi, chi non li condivide è meglio che lasci.

Il sindacato, preso ad inseguire i problemi nelle imprese che collassano o che vengono rivoltate da riorganizzazioni, crisi e ristrutturazioni, non dedica abbastanza tempo e riflessioni nelle realtà che sono ormai oltre le “colonne d’Ercole”. Spesso le giustifica acriticamente.

La filosofia e la natura concreta del “patto di fabbrica” proposta dal Presidente di Confindustria sta tutta qui. Quali contrappesi possono giustificare una adesione ad un modello che rischia di chiudersi in sé stesso?

Ai corpi intermedi spetta trovare risposte praticabili. Ovviamente ci sono dei bilanciamenti possibili. Un antidoto è il welfare contrattuale e la contrattazione aziendale o territoriale. Il modello sostanzialmente proposto dai metalmeccanici. Di difficile attuazione però in altri comparti.

Un secondo antidoto è l’individuazione di forme di partecipazione concreta. Diretta, in azienda, in forme o modelli da definire o attraverso forme di bilateralità efficaci in grado di rispondere ai bisogni dei lavoratori e delle imprese. Fuori dall’azienda stessa.

In terzo luogo assumendo il mercato del lavoro (e non solo la singola azienda) come il luogo dove l’apprendimento e la formazione continua possono trovare le risposte necessarie al percorsi professionali delle imprese persone anticipando e supportando le inevitabili transizioni. Ben oltre, ad esempio, la logica attuale dei fondi interprofessionali.

Su questi temi la riflessione nei corpi intermedi è ancora carente. Una cosa però è chiara. Se il sistema non evolve verso un modello effettivamente improntato alla (vera) corresponsabilità ci troveremo inevitabilmente di fronte ad un bivio.

Da un lato le aziende che, potendoselo permettere, sviluppano al proprio interno condizioni favorevoli e condivise direttamente con i lavoratori come Luxottica. Disintermediando il rapporto con le rispettive rappresentanze.

Dall’altro aziende che, in forza, del loro appeal di marchio o di mercato o semplicemente per l’asimmetria nei rapporti di forza forzeranno verso modelli che escludono qualsiasi coinvolgimento positivo.

In mezzo, dove ci sono la stragrande maggioranza delle nostre imprese, il nulla.

Lo sciopero? Meglio abolirlo…

Durante e dopo uno sciopero dei trasporti al massimo si apre un dibattito. Chiacchiere. I giuslavoristi dicono cosa si potrebbe fare, si intervistano i cittadini infuriati, si mostrano le file interminabili in attesa di mezzi sostitutivi.

Tutti concordano che quello sciopero sarebbe stato meglio non farlo. Ma che nulla e nessuno lo avrebbe potuto impedire se indetto nel rispetto della legge.

Soprattutto se il sindacato promotore, pur insignificante, sul piano organizzativo ha ottenuto adesioni significative.

Sono esattamente 27 anni che ci si occupa del problema. Prima di quella data ci si accontentava dell’autoregolamentazione. Che naturalmente non funzionava.

Checché se ne pensi se il problema resta come aggirare il dettato costituzionale temo sia solo tempo perso. Con le leggi attuali il diritto di aderire o promuovere uno sciopero resta un diritto individuale.

Se il sindacato che lo indice riesce, ad esempio, a paralizzare i trasporti di una città o addirittura di un Paese significa che riesce a convincere i lavoratori ben oltre il proprio perimetro organizzativo.

E se lo promuove nel rispetto della legge c’è poco da fare. Ha ragione Marco Bentivogli “certi scioperi sono il miglior attacco al diritto di sciopero”. È così.

Nel 2017 siamo ancora qui. A chi non piace lo sciopero (comunque) diventa motivo di attacco ai sindacati. A tutti i sindacati. I sindacalisti seri, quelli che ne conoscono l’importanza, le conseguenze e il costo per i lavoratori non sanno bene che dire.

Personalmente credo che lo sciopero abbia fatto il suo tempo. Soprattutto da quando se ne sono impadroniti categorie privilegiate o altre che operano in mercati protetti, pubblici o parapubblici.

Lo sciopero dei bikers di Foodora al contrario ha suscitato solidarietà. Quel giorno almeno. Per come è concepito oggi, per come è indetto e gestito, lo sciopero procura danni economici essenzialmente a chi vi partecipa.

La retorica sindacale non lo ammetterà mai ma è così. I sindacati confederali, anche per questo, li indicono con grande parsimonia. Fare un passo in una nuova direzione significa individuare nuove regole per la risoluzione dei conflitti.

Non basta voler abolire gli scioperi. Occorre trovare risposte alle ragioni che li generano. Innanzitutto affrontando il nodo del peso dei sindacati certificandone la reale rappresentatività.

In secondo luogo prima della proclamazione andrebbe indetto un referendum. In terzo luogo la nuova regolamentazione dovrebbe tenere conto della avvenuta proliferazione delle sigle ben maggiore di quelle che, negli anni 90 hanno ispirato la legislazione in vigore. Infine occorrerebbe individuare forme di arbitrato che consentano di non far marcire i problemi e quindi di fornire alibi o strumentalizzazioni alle formazioni minoritarie. Definendo bene anche le materie di pertinenza.

Certo fra qualche giorno e fino al prossimo sciopero tutto sarà dimenticato. Per molti esperti della materia è la migliore soluzione. Parlare d’altro. È un grave errore. Oggi i mezzi pubblici li usano proprio le persone più deboli.

Lasciare che pensino che un autista dell’ATAC sia un nemico e come lasciargli pensare che anche un immigrato lo sia. È molto pericoloso.

A lungo andare non ci guadagna nessuno. Neanche la democrazia di cui la nostra Costituzione con l’articolo 40 è uno dei baluardi più importanti.

Confindustria e sindacati, uno stallo prevedibile

L’accordo alla fine si farà. Non è questo il punto. Siamo ancora ai preliminari perché la materia è complessa e gli interessi in campo sono di difficile composizione.

Non è comunque un negoziato facile e Confindustria non può non continuare ad insistere per tentare di raggiungere un’intesa. Il Presidente Vincenzo Boccia ci ha messo la faccia fin da subito.

Il Patto di fabbrica è la riaffermazione di una primazia della Confederazione sul sistema delle relazioni industriali che non può (dal suo punto di vista) essere messo in discussione. Sono cambiati i tempi, sono cambiati i pesi specifici ma le relazioni sindacali italiane hanno storicamente sempre avuto in Confindustria il soggetto che dava le carte.

Oggi non è più così. Non lo è nelle loro federazioni di settore dove tutti si sono mossi in ordine sparso. Non lo è a livello confederale dove Confindustria ha sempre dettato le regole del gioco ma non ha mai avuto un contratto nazionale suo, non lo è più neanche a livello di leadership sull’intero sistema perché Confcommercio e le associazioni degli Artigiani che rappresentano insieme la stragrande maggioranza delle imprese del Paese si sono mosse autonomamente e hanno già raggiunto accordi significativi con le stesse controparti.

Il Sindacato non ha fretta e quindi spinge sui contenuti proprio laddove Confindustria è più debole. Questa asimmetria negoziale ribaltata è una sorta di legge del contrappasso. Da un lato una Confindustria indubbiamente meno forte sul fronte imprenditoriale cerca un’intesa con una controparte che ne annusa le difficoltà e quindi alza la posta.

Il patto di fabbrica resta un’arma a doppio taglio. Può assorbire il sindacato in una logica aziendalista o rilanciarne il ruolo negoziale proprio laddove è più debole. Quindi gli impegni, le parole utilizzate e lo scambio politico non può essere inconsistente o pericoloso per i confederali. Soprattutto dopo la firma di tutti i contratti nazionali.

D’altra parte il Presidente di Confindustria sa che non può mettere in difficoltà le sue imprese associate scaricando loro addosso un modello contrattuale, che rischia di aggiungere costi e vincoli che oggi non hanno. E di ridare ruolo al sindacato anche laddove non lo esercita da molto tempo soprattutto nelle imprese fuori dai radar della politica che sono la stragrande maggioranza.

Il suo resta un progetto ambizioso. Rilanciare una primazia in una fase dove l’industria, i suoi valori e la sua cultura sono declinanti per rimetterla al centro delle politiche del Paese, rimettere Confindustria in gioco dopo le difficoltà interne non ancora superate, mettere un freno all’espansione di Confcommercio e degli Artigiani sul terziario innovativo, e dare un segnale di governo forte all’intero sistema industriale e ai suoi settori.

Per il sindacato è una partita altrettanto importante. Le difficoltà di Confindustria e la sua determinazione a raggiungere comunque un’intesa spingono i confederali ad alzare decisamente la posta. Sul tavolo c’è l’esigenza, legittima, di pesare, una volta per tutte, anche gli interlocutori datoriali.

Così come, più che l’adozione di un modello precostituito c’è l’esigenza di individuare una soluzione innovativa che sostenga lo sviluppo della contrattazione decentrata, che faccia chiarezza sulla filosofia di fondo del patto di fabbrica e che metta un freno sia alla numerosità dei contratti che ai rischi di dumping che ne derivano. Welfare e bilateralità possono ovviamente aiutare a definire il perimetro ma è su un punto preciso che la proposta verrà misurata.

Il patto di fabbrica presuppone un coinvolgimento dei lavoratori laddove il lavoro cambia e la produttività si crea e laddove i reciproci comportamenti sostengono o deprimono le sfide di business su cui sono impegnate le nostre imprese.

Se questo è chiaro non lo sono altrettanto le contropartite per il sindacato. Almeno fino ad oggi. Il rinvio a fine luglio serve per permettere ad entrambe le parti di completare una riflessione sulle esigenze altrui.

È una buona cosa. Vedremo se sarà sufficiente a chiudere la partita.

Per un vero patto di fabbrica.

L’idea è comunque da sottoscrivere. Impresa e lavoro collaborano a tutto campo con un obiettivo preciso: aumentare la produttività, affrontare l’innovazione e i cambiamenti necessari, crescere professionalmente e costruire un welfare moderno e inclusivo.

Il patto di fabbrica può produrre tutti questi effetti positivi e quindi fa bene il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ad insistere. Per il sindacato potrebbe rappresentare un passo decisivo e definitivo.

Passare, in azienda, da una logica negoziale tradizionale laddove le condizioni, la forza o la capacità del sindacato esterno lo consente ad una logica collaborativa a tutto campo.

C’è però un paradosso. Le aziende si dichiarano pronte e disponibili ma il sindacato ha molti dubbi sulla concreta fattibilità dell’operazione così come proposta. Il sindacato, da parte sua, si dichiara pronto e disponibile ma le aziende hanno molti dubbi sulla concreta fattibilità con questo sindacato.

La contrattazione aziendale di questi ultimi decenni è stata caratterizzata, per dirla con il professor Baglioni, da un modello “partecipativo concessivo”. Urgenze, contenuti, problematiche sono stati posti sostanzialmente dalle aziende.

Salvo in alcune vertenze importanti dove il sindacato ha schierato gli uomini migliori e si è assunto responsabilità pesanti. Non sempre condivise a livello unitario.

Riorganizzazioni, tagli, commesse da gestire, ecc. Il sindacato ha però, quasi sempre, giocato di rimessa. Non è un caso che, le imprese stesse hanno, negli anni, depotenziato i loro ruoli negoziali tradizionali.

Oggi gli addetti alle relazioni sindacali, anche di alto livello, in azienda contano molto poco a differenza che in passato. Quindi, nelle intenzioni e fino a prova contraria, il “patto di fabbrica” confermerebbe questa asimmetria di potere.

Due aspetti importanti potrebbero bilanciare il sistema. L’estensione della contrattazione territoriale laddove quella aziendale non è praticabile e l’introduzione di modelli relazionali di concreta corresponsabilità. O per dirla come la direbbe un sindacalista, di “Partecipazione”.

Non è un caso che su questi due punti, Confindustria non è molto disponibile. Difficile darle torto. Oggi la contrattazione aziendale non supera il 5/6% delle imprese con una tendenza a decrescere. Si va dal 2/3% del terziario al 25/28% dei metalmeccanici. Nelle PMI è praticamente inesistente.

Ampliarla, in assenza di relazioni sindacali diffuse e costruttive sia al centro che in periferia potrebbe essere addirittura controproducente. Inoltre il territorio è un punto di riferimento solo per i lavoratori coinvolti e solo per alcuni comparti. Infine, cosa da non sottovalutare, Confindustria non ha alcun disponibilità ad estenderla o peggio a renderla obbligatoria al di fuori di chi gli conferisce un mandato. Il rischio associativo è evidente.

Sul tema della partecipazione e del coinvolgimento dei sindacati le aziende sono, nella quasi totalità, nettamente contrarie. Qualche passo avanti si potrebbe fare indicando delle sperimentazioni reversibili, individuando come in alcuni comparti (vedi chimici e alimentaristi) settori specifici, materie prioritarie, formazione congiunta, condivisione di informazioni, sistemi premianti, ecc. che indichino una concreta direzione di marcia.

Però su questo punto occorre essere chiari. Non bastano generiche affermazioni di alcuni sindacalisti e neanche di tutto il sindacato confederale per aprire scenari nuovi. La cautela, non solo di Confindustria, è assolutamente comprensibile.

Il sindacato, però, se dovesse decidere di rinunciare a questa prospettiva, corre dei rischi. Le aziende non si fermeranno, questo è chiaro. In assenza del “patto di fabbrica” le stesse recenti conquiste contrattuali rischiano di essere depotenziate.

E questo non sarebbe utile a nessuno. In molte imprese si sta affermando una doppia cultura. Ciò che è necessario e obbligatorio negoziare con il sindacato o discendente dalle leggi vigenti si applica. Ciò che è utile per costruire un coinvolgimento e un ingaggio dei collaboratori si gestisce con ben altra convinzione.

La parte più accorta del sindacato ha capito benissimo che nelle aziende c’è in corso da tempo una sua lenta e progressiva emarginazione. È indubbio, però, che la firma convinta di Federmeccanica con FIM, FIOM e UILM va in ben altra direzione.

E questo è un dato positivo a favore di quanti vorrebbero giocare la partita fino in fondo. Altri restano convinti che, prima o poi, le contraddizioni riemergeranno. E lo schema di confronto cambierà notevolmente.

In questo modo, però, si limitano a segare il ramo sul quale si poggia l’intero sistema. Non mi sembra una strategia accorta.