Il Potere del vuoto…

Non trovo una espressione migliore di quella utilizzata a suo tempo da Pierre Carniti per fotografare la situazione attuale: “Il vuoto di potere non esiste. Esiste il potere del vuoto”.

In una corsa scomposta verso il baratro, sempre meno metaforico, mentre tutta la politica litiga sul niente (vedi vitalizi dei parlamentari), la vicenda dei voucher esce dai confini della logica e assume contorni sempre più grotteschi.

Il segretario dei metalmeccanici della FIOM (categoria dove l’utilizzo dei voucher è inesistente) viene ricevuto sull’argomento dal Presidente del Consiglio Gentiloni e il Ministro del lavoro Poletti, improvvisamente assurto nel ruolo di rappresentante ombra degli scissionisti del PD, scavalca a sinistra ben sei proposte sull’argomento giacenti in Parlamento proponendo di limitare i voucher alle famiglie riportando così l’orologio del tempo a prima della Biagi.

Francesco Riccardi ottimo giornalista e osservatore attento dei temi sul lavoro, lucidamente, ha definito il nostro, “il Paese del tutto o niente”. Come dargli torto?

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i dati delle ispezioni del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail. Parlano da soli. Evidenziano il problema vero del nostro Paese. Quando il tasso di irregolarità arriva al 63% su quasi duecentomila aziende ispezionate occorrerebbe fermarsi e ragionare.

Sono aziende che fanno concorrenza a quelle che rispettano le regole, aggirano norme e contratti a danno dei loro collaboratori e non pagano, in tutto o in parte, tasse e contributi. In Parlamento non giace alcuna proposta di intervento su questo tema, il Ministro del Lavoro incassa, senza alcun merito particolare, l’impegno degli ispettori che sul territorio compiono un lavoro difficile, a volte pericoloso, poco riconosciuto ma, soprattutto, che non riesce a fare un salto di qualità per la incredibile sottovalutazione del tema da parte della politica.

Sui voucher, no. Meglio buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ad un recente convegno in Veneto organizzato dalla CGIL, Federalberghi ha cercato di spiegare che la stabilità dell’occupazione della regione nel comparto è lì a dimostrare che i voucher non hanno scalfito nulla. Anzi hanno contributo a far emergere pagamenti in nero e altre forme di lavoro sommerso.

La stessa Confindustria, essendo poco coinvolta, ha comunque “sommessamente” sottolineato l’utilità dello strumento, il suo contributo nell’emersione di parte del lavoro nero e l’obiettivo, condiviso, di eliminare le distorsioni emerse.

Confcommercio, con ben maggiore convinzione sottolinea che: “Oltre al riconoscimento economico, l’utilizzo dei voucher assicura anche il pagamento di contributi previdenziali e la copertura assicurativa Inail costituendo, di fatto, l’unico strumento per pagare in modo regolare prestazioni saltuarie e occasionali. Inoltre, di fronte ad un’eventuale limitazione significativa del campo di applicazione di questo strumento non ci sarebbe alcuna alternativa, né si potrebbero coprire queste attività saltuarie con rapporti di lavoro tradizionali. Secondo i dati Inps la stragrande maggioranza delle persone pagate con voucher sono lavoratori titolari anche di altra occupazione, percettori di ammortizzatori sociali, studenti o pensionati e che il compenso medio annuo è di circa 600 euro. E’ quindi evidente che le attività pagate con voucher non sarebbero sostituite da diversi rapporti di lavoro e quindi intervenire nuovamente sullo strumento comporterebbe solo la perdita di occasioni di lavoro retribuite in modo regolare”.

Tutto inutile? Sembrerebbe di sì. La “scoppolata” del referendum del 4 dicembre non ha “stordito” solo il partito di maggioranza che sostiene il Governo. Ha colpito un po’ tutta la politica.

Solo Maurizio Sacconi sembra mantenere i piedi per terra dichiarando: “Il Comitato ristretto sui voucher in seno alla commissione Lavoro della Camera ha concluso i suoi lavori con una aberrante soluzione incredibilmente condivisa non solo dalla sinistra ma anche da Forza Italia. Limitare l’uso dei voucher alle famiglie e alle imprese con un solo dipendente significa non conoscere il mercato del lavoro e le concrete situazioni occupazionali che meritano uno strumento semplice per emergere”.

Oggi il Segretario Generale della Uil dichiara a buon diritto: “Dobbiamo modificare la Fornero. La riforma delle pensioni più iniqua”. I grillini sentendosi appoggiati da un’opinione pubblica sempre più perplessa, si apprestano, come sostenuto dal buon Di Maio, all’Armageddon sui vitalizi, e alla battaglia sul reddito di cittadinanza. L’attento Francesco Seghezzi osserva: “È il classico esempio in cui per disinnescare un rischio politico non si guarda in faccia alla realtà”.

Certo, la realtà, il futuro, come ricostruire una prospettiva concreta sul tema del lavoro. l’impressione è che non sembrino interessare nessuno. Intanto i problemi incalzano.

Il Presidente della Commissione Europea Juncker ha presentato ieri il libro bianco sull’Europa e su come cambierà nel prossimo decennio (dall’impatto delle nuove tecnologie sulla società e l’occupazione ai dubbi sulla globalizzazione, le preoccupazioni per la sicurezza e l’ascesa del populismo).

Il Libro bianco delinea cinque scenari, ognuno dei quali fornisce uno spaccato di quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025. Forse dovremmo confrontarci su quegli scenari piuttosto che inseguire il novecento.

Il canto del cigno del 900…

Difficile prevedere come finiranno le due vertenze aperte in questi giorni. E, comunque si concluderanno, rappresentano l’inevitabile tramonto di una cultura che appartiene al secolo che abbiamo alle spalle. Un tramonto, però, troppo lungo che non possiamo più permettercelo.

Alitalia e tassisti rappresentano, che lo si voglia riconoscere o meno, due facce della stessa medaglia. Lo stesso potere di interdizione e, sostanzialmente, lo stesso target di cittadini/consumatori coinvolti. I primi invocano la nazionalizzazione, i secondi la difesa ad oltranza contro un futuro che non li prevede. Almeno così come molti loro intenderebbero affrontarlo.

Individualmente hanno buone ragioni. Le stesse del negoziante che chiude per l’arrivo nel quartiere di un supermercato che apre h24, del lavoratore che perde il lavoro perché la sua azienda delocalizza, del piccolo artigiano mobiliere brianzolo con l’arrivo di IKEA.

Loro sono diversi solo perché hanno ancora un enorme potere di interdizione. Ma il destino è comunque segnato. Entrambi, almeno così appare, non cercano, almeno per il momento, nessuna mediazione.

Ad oggi, sei giorni di blocco del servizio da parte dei tassisti. Sull’altro versante una reazione durissima su tutte le proposte aziendali. Il tono, in entrambe le vertenze, nasconde ovviamente preoccupazione e paura. Come nel 900 ci si affida e si spera che un terzo soggetto (il Governo) ci metta del suo per riportare indietro le lancette del tempo.

Nel caso dell’Alitalia ci sono evidentemente responsabilità da distribuire. Quindi non riguardano solo i lavoratori e i loro rappresentanti. Questa però è solo una magra consolazione. Personalmente mi ricorda la vertenza Unidal (Motta e Alemagna) sul finire degli anni 70 dove, dopo la presentazione di un piano che prevedeva quasi tremila licenziamenti respinto al mittente con lotte durissime, si concluse con oltre quattromila licenziamenti e la fine di entrambe le aziende.

Alitalia oggi è ad un passo dal fallimento. Non ha più nulla della compagnia di bandiera del secolo scorso né potrà ritornare ad esserlo. Può però essere oggetto di un profondo ridisegno del perimetro di attività e di una ridefinizione del numero degli addetti, del loro utilizzo e del costo complessivo del lavoro. Il confronto non può essere spostato su altro. Né sulle recriminazioni.

E va fatto in tempi sufficientemente rapidi affinché la ragionevole certezza di un suo possibile rilancio convincano azionisti e Governo a sostenerla con tutto ciò che è in loro potere decidere. Non esiste un piano B. Così come per i tassisti. Occorrerebbe mettere a loro disposizione e alle loro rappresentanze qualcuno che li aiuti ad evolvere con progetti, idee e modalità di lavoro nuove. Spingerli a prendere atto che non è nel muro contro muro che risiede il loro futuro.

Personalmente spero che il Governo non si limiti a rimuovere il vulnus che ha causato la protesta ma che, al contrario, apra un percorso di confronto aiutando almeno i tassisti più sensibili a riflettere su opzioni possibili, su come attivarle nel tempo e su come favorirle, su come, infine, attenuare le conseguenze del cambiamento necessario.

È vero che l’Anpal è solo all’inizio ma questo potrebbe essere un importante compito da affidargli. Come si costruiscono progetti imprenditoriali piccoli o grandi non è altra cosa rispetto a come si trova un lavoro dipendente dopo averlo perso.

Occorre abbassare il livello di paura nei confronti del futuro. Occorre aiutare le persone ad affrontarlo. Altrimenti non resta che la resistenza a oltranza.

Anche se, purtroppo, questo rappresenta il canto del cigno di abitudini e convinzioni che non si rassegnano a cedere il passo a modelli di risoluzione dei conflitti più concreti ed efficaci.

Eppur si muove…

La decisione della FIOM CGIL di lanciare una indagine a 360 gradi in FCA è, di per sé, un importante segnale di riposizionamento positivo che non va sottovalutato.

Dopo la firma unitaria del CCNL era comunque necessario affrontare il rapporto con la principale azienda del settore e, sul tema, con le altre organizzazioni sindacali.

Dichiarare apertamente come nel loro comunicato ufficiale che: “La nostra è un’inchiesta senza “paracadute”. Il tema non è dimostrare quello che noi già pensiamo ma capire come le azioni dell’azienda hanno cambiato le cose e se e quanto tutto quello che abbiamo cercato di fare come Fiom in questi anni, grazie allo straordinario lavoro dei delegati, è vivo tra i lavoratori. Bisogni e desideri in stabilimenti cambiati dalla crisi, dal contratto e dalla nuova organizzazione del lavoro.

È ovvio che questo prevede la nostra disponibilità ad accettare tutti i risultati che emergeranno e, in base a questi, riorientare le scelte di carattere sindacale.”

Da qui emerge tutta la concretezza della nuova direzione di marcia della FIOM impressa da Landini che segue il rinnovo del CCNL. Non solo in FCA. L’indagine dimostrerà ciò che non può non dimostrare: il cambiamento in atto negli stabilimenti non solo dal punto di vista tecnologico e organizzativo ma anche sociale.

La FIOM aveva scommesso sul declino e il declino non c’è stato. La ripresa del lavoro negli stabilimenti non ha risolto di per sé il problema della fatica o del salario ma ha creato delle condizioni nuove di appartenenza, condivisione e impegno tra i lavoratori che non erano né proponibili né percepibili nella fase declinante.

Soprattutto da quella parte dei militanti e dei delegati che, non comprendendo il cambio di fase, insistevano nel riproporre un modello che faceva perno sul contratto nazionale e sulla contrattazione aziendale in vigore, costruita negli anni precedenti la grande crisi.

A differenza degli altri sindacati di categoria la FIOM, non riuscendo a percepire un futuro dell’azienda, ha preferito scommettere sulla difesa di ciò che il passato aveva prodotto di positivo per i lavoratori pensando di poterlo difendere con l’iniziativa sindacale o con i ricorsi in magistratura. Ha sottovalutato la determinazione dell’azienda, l’assenza di alternative praticabili, la debolezza delle dinamiche confindustriali ma, soprattutto, il modificarsi dell’orientamento dei lavoratori che hanno scelto, insieme alle altre organizzazioni sindacali, di accettare una scommessa complessa con l’azienda piuttosto che una difesa ad oltranza di una realtà che non esisteva più se non nei ricordi collettivi di prima del massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali.

Questa indagine si svilupperà in un anno decisivo per il futuro di FCA è, se fatta bene, fornirà indicazioni importanti per il futuro stesso delle relazioni industriali. Quindi se ne potranno avvantaggiare anche le altre organizzazioni sindacali.

A Landini il compito di riportare un po’ di sana concretezza emiliana nelle relazioni sindacali della più importante azienda italiana. Agli altri la disponibilità e la pazienza di reggere qualche gomitata fuori misura.

Una ripresa di rapporti unitari in FCA resta comunque decisiva per il futuro di una parte importante del movimento sindacale italiano. Speriamo che questa indagine ne consenta un rilancio.

La nuova stagione dei metalmeccanici

La recente firma unitaria del CCNL dei metalmeccanici è un risultato positivo a prescindere. Segna la volontà di riprendere un cammino concreto che guarda ben più lontano del merito e dei risultati del negoziato.

La stessa gestione delle assemblee di ratifica, il clima presente e la volontà comune di tenere al palo, senza se e senza ma, quel 20% di oppositori di mestiere ne sono la conferma.

Le tre organizzazioni hanno scelto, insieme, di investire nella prossima contrattazione aziendale e quindi hanno costruito un contratto nazionale che ne rappresenta la cornice indispensabile. Una contrattazione aziendale, che, laddove ne esisteranno le condizioni, cercherà di “sfidare” le aziende sul terreno della produttività, del coinvolgimento e quindi della condivisione e, ultimo ma non meno importante, della formazione continua dei lavoratori.

Landini ha capito benissimo che un riposizionamento del gruppo dirigente della FIOM in chiave unitaria era necessario. Andare per salotti televisivi in tempi di grillismo imperante significa solo lavorare per il re di Prussia. Che lo si voglia o meno. Anche perché, dai territori, i cosiddetti accordi “difensivi”, si sono, nel tempo, moltiplicati e la FIOM non si è certo sottratta ad apporre la sua firma gestendone con responsabilità e preoccupazione tutte le conseguenze.

Resta aperto il vulnus principale. Il macigno sulla strada del riposizionamento definitivo: la vicenda FCA. È un passaggio delicato perché coinvolge anche l’approccio culturale di numerosi dirigenti sindacali, di molti delegati e iscritti, non solo di quell’azienda. Le loro storie personali, le loro scelte ma, soprattutto le conseguenze di quelle scelte.

D’altra parte i sindacati, non solo quelli del comparto metalmeccanico, se ripercorriamo le scelte nell’ultimo decennio, entrano ed escono dai contratti firmati o rifiutati nei rinnovi successivi senza mai fare fino in fondo i conti con gli eventuali errori commessi precedentemente. Né proponendo autocritiche.

La vicenda FCA è però diversa. L’azienda è cambiata profondamente e ha sempre giocato le sue carte provocando essa stessa i sindacati con l’obiettivo di modificare il perimetro, i contenuti e le modalità del confronto. Solo la lungimiranza delle altre organizzazioni sindacali di categoria e la loro disponibilità ad esporsi e ad assumersi forti rischi politici ha consentito di riprendere per i capelli situazioni ormai quasi compromesse.

Ma l’azienda non è mai stata intenzionata a concedere sconti neanche ai firmatari degli accordi. Il livello, le modalità e i contenuti del confronto sono cambiati disegnando uno scenario proprio di un nuovo modello di contrattazione aziendale. E quindi di relazioni industriali. FIM e UILM lo hanno capito benissimo.

E qui, a mio parere, sta il punto vero. Non è tanto un problema di come rientrare in gioco limitandosi a superare il passato. Oggi ci sono nuove regole del gioco e nuove modalità di confronto. E lo vedremo concretamente nella gestione del contratto nazionale.

Fare paragoni tra i contenuti economici del recente contratto dei metalmeccanici e quello in vigore in FCA non serve a nulla. Anzi. È un inutile esercizio di stile. L’unico vero paragone che ha senso proporre è nella filosofia di fondo tra i due modelli che è sostanzialmente identica.

Di più. Non ci sarebbe stato il rinnovo del contratto nazionale unitario in questi termini se non ci fosse stato lo strappo FCA. Realtà dove la priorità, oggi, dei sindacati che hanno accettato la sfida, credo sia quella di consolidare il lavoro nel Gruppo e il suo perimetro produttivo nel Paese. Occorrono nuovi occhi. Altrimenti non si rientra in gioco. E, soprattutto, non si esercita nessun ruolo propositivo.

Il lavoratore FCA di oggi si sente, al contrario, in partita. Si riconosce nella sua azienda, ne condivide gli obiettivi, è parte attiva del suo rilancio. E quindi si aspetta dal sindacato un comportamento coerente. Sentire, in una intervista televisiva, un delegato sindacale di uno stabilimento del sud chiamare l’AD di FCA “dottor” Marchionne è un segno dei tempi.

C’è rispetto dei ruoli, sobrietà nei comportamenti e nelle dichiarazioni, condivisione di obiettivi. Le nuove relazioni industriali si costruiscono in FCA e altrove, anche su queste tre caratteristiche semplici. Ma, come tutte le cose semplici, sono molto difficili da declinare….

I sindacati tra tattiche e strategie..

La chiusura unitaria del CCNL dei metalmeccanici ha segnalato un dato importante. Dove più acuta era la crisi di rapporto tra le diverse organizzazioni sindacali (e la rispettiva controparte) il lavoro di ricucitura messo in campo dai rispettivi protagonisti è stato più costruttivo e convincente che altrove.

Il fatto segnala indubbiamente una maturità e una visione che i lavoratori, soprattutto quelli più vicini alle rispettive organizzazioni sindacali, non hanno mancato di apprezzare.

Proporre, come chiave di lettura, una FIOM consenziente perché militarizzata e quindi dipendente dai voleri di Maurizio Landini come ha fatto Giuliano Cazzola mi sembra francamente esagerato anche perché tenere in una perenne tensione inconcludente una organizzazione sindacale e i suoi militanti può funzionare con un COBAS di modeste dimensioni non con una grande organizzazione che comunque fa parte della CGIL.

Il contratto dei metalmeccanici non è affatto sbilanciato a favore delle imprese. Contiene impegni, costi, soprattutto futuri, che vanno ben al di là di di quanto un’associazione di imprese ha mandato di sottoscrivere se non in una fase di riorientamento strategico delle relazioni sindacali, dei ruoli della contrattazione e del futuro dell’intero sistema.

C’è un equilibrio sostanziale che rappresenta una indubbia particolarità in un contesto dove le piattaforme sindacali, pur preparate con cura, si sono infrante contro muri datoriali sempre meno disponibili.

Gli impegni contenuti e la gestione dello stesso contratto ne marcheranno il cammino, lo collocheranno nella giusta dimensione e ne consentiranno una giusta valutazione solo alla fine del percorso concordato tra le parti.

Modalità di partecipazione dei lavoratori alla crescita e allo sviluppo delle loro imprese, ruolo della contrattazione aziendale, revisione dell’inquadramento, formazione dei lavoratori come diritto soggettivo, sicurezza sul lavoro, solo per citare alcuni temi rilevanti, costituiscono una base di confronto di notevole contenuto e spessore. Ed è su questo che si chiariranno i confini dentro il quale il cosiddetto “Patto di fabbrica” troverà o meno uno sblocco plausibile e concreto. Oppure resterà solo sulla carta. Ed è per questo che il percorso di confronto tra i massimi organismi di FIM, FIOM e UILM avviato oggi è molto importante.

Non va però sottovalutato, che tutto questo avviene in un contesto di relazioni tutte da ricostruire tra le diverse organizzazioni sindacali sia in categoria che a livello confederale.

Innanzitutto in categoria dove le tendenze egemoniche della FIOM, che si sono manifestare fortunatamente solo nel rinnovo del contratti minori o in periferia, non sembrano destinate a rientrare facilmente nonostante l’impegno di tutte le segreterie nazionali.

Così come in FCA dove, sempre la FIOM, non segnala alcuna volontà concreta di “redenzione” quasi come continuasse ad attendere la realizzazione della profezia negativa evocata con una certa ossessione in tutti questi anni che ha trasformato Maurizio Landini in una sorta di Voldemort della saga di Harry Potter che, temendo di essere sconfitto da un bambino nato da poco, tenta di ucciderlo, continuando ad attaccarlo fino a quando, almeno nella saga è lui ad essere sconfitto definitivamente.

Per non parlare della carta dei diritti proposta dalla CGIL che, pur rappresentando un interessante punto di osservazione di una possibile evoluzione del mondo del lavoro non ha nulla che la possa mettere in relazione con il disegno strategico concordato con Federmeccanica nel dettato contrattuale dei metalmeccanici appena firmato se non sui principi generali. O con quanto ipotizzano tutte le organizzazioni datoriali per rilanciare il lavoro e favorire la ripresa.

Infine il referendum con la sproporzione evidente tra i contenuti rimasti sul tappeto e le conseguenze politiche e sociali che potrebbe innescare. Conseguenze che solo un sindacato unito su proposte chiare potrebbe evitare. Ultimi ma non ultimi gli imminenti congressi sindacali con tutte le tensioni e i nervosismi tipici delle stagioni riservate alla riproduzione.

Segnali a volte difficili da decifrare o da interpretare per un osservatore esterno soprattutto perché le tattiche e i segnali trasmessi rischiano di prevalere sulle necessarie strategie da mettere in campo.

D’altra parte le difficoltà della Politica sono evidenti. Così come sono altrettanto evidenti le difficoltà di una sinistra sociale che fatica a rientrare in campo perché insiste su un’idea di lavoro sempre più difficile da realizzare quindi lontana dalle esigenze del Paese e dalle urgenze delle nuove generazioni. E, come già sottolineato, sempre più lontana dalle disponibilità delle imprese e delle loro organizzazioni di rappresentanza.

Il rischio è di abbandonare la strada della concretezza e della contrattazione tipiche del sindacato per rifugiarsi nella pura testimonianza.

Ed è su questo, sulla comprensione del contesto e delle risposte che solo il confronto tra sindacati e con le rispettive controparti può determinare, che la differenza tra espedienti tattici e visione strategica chiarirà il ruolo che i gruppi dirigenti dei sindacati, confederali e di categoria ma anche di tutti i corpi intermedi, vorranno giocare nei prossimi mesi e che ne segnalerà il possibile rilancio o il declino. I segnali, purtroppo, sono ancora abbastanza contraddittori.

Ristrutturazioni aziendali e responsabilità da condividere.

Se per quanto riguarda una qualsiasi attività produttiva è possibile ipotizzare una sua riconversione non è così per un punto vendita della GDO. Soprattutto se di grandi dimensioni.

Se il fatturato non è adeguato il negozio, piccolo o grande che sia, va chiuso. Più tardi lo si fa, peggio è sia per la redditività complessiva dell’azienda ma anche per i lavoratori.

La reazione del sindacato, in questi casi, è generalmente pavloviana. Sanno tutti benissimo che non ci sono alternative e che la procedura non andrà oltre i 75 giorni ma nessuno se la sente di proporre altro, oltre a qualche ora di sciopero che, nella maggioranza dei casi, non serviranno a nulla.

Le parti sociali nel nostro Paese sono in grado di gestire qualsiasi situazione meno la più grave: il licenziamento. Se stiamo all’ultima vicenda in ordine di tempo e che coinvolge una grande multinazionale francese il comunicato della Filcams CGIL recita: “Le argomentazioni dell’impresa hanno portato ad evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il costo del lavoro e la redditività dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati”.

Motivazioni chiarissime. Ma per evitare un giudizio di merito il comunicato conclude con: “Le informazioni declinate dall’impresa sono risultate generiche e improvvisate”.

Si preferisce quindi addossare le colpe all’azienda, pronunciando frasi di rito, proclamando lo stato di agitazione e lasciar passare il tempo. L’azienda, dal canto suo, sa che questo è il prezzo da pagare. Un dialogo tra sordi.

Così come i trasferimenti di sede o di attività. Le aziende devono essere sempre attente ai costi. Ottimizzano strutture, semplificano gli organigrammi, concentrano attività.

Giampiero Castano, coordinatore dell’unità del ministero dello Sviluppo economico per la gestione delle vertenze delle imprese in crisi, ed ex sindacalista, insinua che queste operazioni possono nascondere la volontà di ridurre il personale. Non è così.

Due unità produttive sottoutilizzate o sovradimensionate sono entrambe a rischio. Concentrare le attività in una sola consente di gestire meglio i servizi comuni, gli affitti dei siti e determinare migliori sinergie. Molte sedi direzionali saranno a rischio nei prossimi anni. Così come molti siti produttivi.

L’insegnamento da trarre in queste vicende è se esistono o meno alternative di gestione e quindi se le parti sociali anziché agire o reagire passivamente, pur nel rispetto di leggi e contratti, sono in grado di assumere iniziative, individuare strumenti specifici, studiare formule di accompagnamento perché come sostiene Fabio Savelli, a commento di un ottimo articolo di Rita Querzé sul Corriere di oggi, “il proprio lavoro lo si salva solo spostandosi”. Su questo, fortunatamente, non partiamo da zero. In alcune categorie si stanno sperimentando opzioni interessanti. Però non ancora unitariamente.

È chiaro che per i singoli colpiti da un licenziamento la strategia del “il posto di lavoro non si tocca…” oggi non funziona più. Al massimo funziona nella prima parte della procedura. Poi scatta il “si salvi chi può”. Gli attuali ammortizzatori sono studiati per lasciare, di fatto, la persona sola con il suo problema.

Strumenti quali, il trasloco, la differenza sul costo di affitto, i distacchi temporanei, un interlocutore per le pratiche burocratiche, un supporto sui servizi sociali (scuola, sanità, relazioni, ecc.) e sulle modalità dell’inserimento lavorativo sarebbero molto più importanti se gestiti insieme dall’azienda e dai rappresentanti sindacali. Nelle aziende di cultura francese alcune di questi aspetti vengono gestiti attraverso il cosiddetto “plan social”.

Un insieme di strumenti che devono consentire al lavoratore licenziato di rimettersi in gioco. Ma con una assunzione di responsabilità anche dell’azienda che lo licenzia.

Nelle riflessioni sulle politiche attive il tema sulle concentrazioni di attività, sui trasferimenti intergruppo, i distacchi presso terzi, le nuove opportunità interne e la formazione aziendale necessaria e, non ultimo, tutti gli strumenti alternativi al licenziamento dovrebbero trovare la possibilità di approfondimento indispensabile.

Oggi il lavoro si perde e si trova dove c’è. Dare per scontato che quando lo si perde in un’azienda, lo si può trovare solo fuori e da soli non è così scontato. Almeno occorrerebbe crederci, superare i pregiudizi ideologici e provare ad individuare soluzioni percorribili.

Voucher e FCA viaggiano insieme.

Pedretti, segretario generale dello SPI CGIL, è una persona equilibrata. Nell’intervista al Corriere dimostra quella pacatezza e quella lungimiranza che solo chi ha cominciato a lavorare a 15 anni ed ha attraversato tutte le principali vicende sociali del nostro Paese può avere.

Conosce la CGIL e la FIOM come le sue tasche. Distribuiva l’Unità nelle fabbriche quando il solo fatto di leggerla poteva portare al licenziamento. Non come oggi dove nessuno la legge più e i suoi giornalisti vengono licenziati. È cambiato il mondo e lui lo sa bene.

Nella vicenda dei voucher si è mosso con coerenza. Sa benissimo che dovrà alimentare con i suoi, gazebo e manifestazioni a favore dell’abrogazione dei voucher, e continuare ad utilizzarli per pagare i pensionati che aprono e tengono vive le sedi del sindacato.

Come sa benissimo che, alla fine di questa vicenda, esisteranno ancora strumenti analoghi. L’ha detto lui e lo ha ribadito con altre parole Susanna Camusso: per la CGIL, i voucher non devono sostituire lavoro altrimenti regolamentabile. Segnali comunque di disponibilità, se li si vogliono cogliere all’interno di un negoziato serio.

Dove temo la CGIL sopravvaluti la fase politica e sociale attraversata dal nostro Paese è quando ritiene che questo referendum sta rimettendo al centro del dibattito il tema del lavoro. Purtroppo non è così. O meglio questo dovrebbe essere lo sforzo che i corpi sociali insieme dovrebbero fare anziché rinchiudersi nei rispettivi recinti.

Il tema centrale per chi vive i problemi e forse meno per chi ne discute, lo hanno capito benissimo i grillini, è il reddito delle persone. Anche di chi lavora. E questo indipendentemente da come questo reddito sia costruito. Lo ha capito benissimo anche Trump che, nonostante la ripresa del lavoro ottenuta sotto Obama, ha vinto le elezioni anche su questo.

Il referendum sui voucher così come sarebbe stato quello sull’art. 18 è permeato da una cultura sindacale profondamente nordista che vede il lavoro e le sue regole come erano state concepite nel 900. Ovviamente per chi quelle regole poteva dettarle o contribuire a scriverle.

È una cultura lontana dai problemi reali di chi il lavoro non lo trova, di chi lo trova solo in nero, di chi, pur trovandolo, deve restituire parte del suo guadagno al caporale di turno, da chi vive con la pensione di qualcun altro, di chi deve emigrare.

Sul reddito di cittadinanza condivido le tesi di Ricolfi sulla sua impossibile realizzazione però è indubbio che ha un potere semplificatorio e di attrazione di cui occorre tenere conto.

Il referendum e il dibattito che lo accompagnerà scoprirà inevitabilmente questo vaso di Pandora. E la CGIL non aprirà una nuova stagione all’insegna dei diritti da riconquistare. Abbasserà solo il ponte levatoio consentendo a chiunque di infilarsi con la propria demagogia.

Come si fa a non accorgersi che il disagio sociale ha già preso altre strade sul piano politico inseguendo altri pifferai e non lo si recupera più richiudendosi in parole e slogan che non scaldano più i cuori da tempo neanche dei militanti più stretti ma, al contrario, accettando la sfida del cambiamento?

Occorre stabilire alcune priorità, condividerle nel movimento sindacale ma individuare anche i luoghi del confronto e della proposta con le organizzazioni datoriali prima che sia troppo tardi. E la CGIL oggi ha un dovere in più rispetto allo stato di difficoltà strategica in cui versano altri sindacati. Oggi soli non si va da nessuna parte.

Per questo, ad esempio, non capisco il silenzio di Landini sulla vicenda FCA. FIM e UILM si sono pronunciate. Così come la solita sinistra dei salotti televisivi tutta soddisfatta delle accuse all’arcinemico Marchionne.

La FIOM non può stare in mezzo al guado. Il nostro PIL, giusto o sbagliato, è trascinato dalle vendite delle auto FCA, se c’è una possibilità di ripresa dobbiamo assolutamente consolidarla soprattutto in questo momento di incertezza.

Se di fronte alla prima prova di unità il sindacato dei metalmeccanici anziché reagire come i colleghi della IG metall in difesa dell’industria nazionale si smarca, non la vedo molto bene. Voucher e FCA sono due facce della stessa medaglia.

Ognuno evidentemente è libero di scegliere di andare nella direzione che crede. Ma un vero segnale di cambiamento passa da come il più importante sindacato italiano ricostruisce un tessuto unitario e propositivo e uno dei suoi più importanti sindacati di categoria reagisce di fronte alla delegittimazione della principale industria italiana.

Ed è su questo che si misura la qualità dei gruppi dirigenti. Non è tempo, questo, di né né.

La CGIL tra referendum, grillini e congresso..

Com’è nel suo stile sempre attento e puntuale, Dario Di Vico sul Corriere non si è lasciato sfuggire lo scontro, aperto da un incauto intervento dell’on. Di Maio sulla vicenda Almaviva, tra grillini e CGIL.

Uno scontro che era inevitabile accadesse. La vittoria del NO al referendum ha avuto due vincitori indiscussi e ne ha rilanciato le rispettive ambizioni. Sul versante politico, il M5S, e, sul versante sociale, la CGIL. Ma questa divisione (politico e sociale) rischia di non avere più senso in una fase di grande debolezza della politica tradizionale.

I confini sono, di fatto, saltati. Non è un caso che i grillini rilanciano la loro proposta di reddito di cittadinanza mentre la CGIL si appresta ad una difesa orgogliosa e militante dei contenuti alla base del prossimo referendum. Quindi i due terreni si sovrappongono con tutti i rischi del caso.

Per il movimento 5 stelle la disintermediazione è nel DNA. Non è, come per Renzi, un modo per snobbare i sindacati. Non sono semplicemente previsti nel loro modello culturale e sociale. La “rete” non li prevede. Quindi, prima o poi, lo scontro sarebbe stato comunque inevitabile.

La CGIL ha dalla sua una lunga esperienza di scontro sia con Cisl e Uil che, alla sua sinistra con le innumerevoli sigle che hanno occupato negli anni la micronesia dell’estremismo sindacale e sociale ma sa che non è sufficiente difendersi o agitare slogan. Un sindacato deve sottoscrivere accordi, saper mediare, portare risultati.

Sul referendum costituzionale il sindacato di Susanna Camusso si è mosso con estrema cautela evitando di sconfinare dal merito. E questo ha pagato. Inoltre ha ricucito con CISL e UIL e sottoscritto con grande convinzione importanti accordi con le organizzazioni datoriali. Sicuramente ha prodotto più risultati di chi l’ha preceduta. E questo senza dimenticare l’importante riposizionamento della FIOM.

Il referendum e tutto quello che ragionevolmente verrà messo in campo per evitarlo va, anch’esso, nella direzione di rafforzare il ruolo sociale ma anche politico della Cgil. Se così sarà tanti frettolosi censori della gestione di Susanna Camusso dovranno rivedere giudizi e analisi spesso ingenerose.

Per i grillini, dopo la vittoria politica sul NO al referendum istituzionale, uno scontro sul referendum proposto dalla CGIL rappresenterebbe una manna inaspettata. Troppe incertezze alla guida di alcune amministrazioni cittadine, troppe fazioni e troppi proclami. Uno scontro vinto in partenza è quello che ci vuole.

Sapendo che, così come l’opinione pubblica si è già scordata dei promotori del referendum istituzionale, si scorderebbe altrettanto velocemente della CGIL come promotrice del nuovo appuntamento referendario. Per come è posto si trasformerà in un potente sfogatoio contro il sistema dove il merito sarà del tutto secondario.

Per questo la CGIL alza i toni. Chiamare i voucher “pizzini” e trasformarli nel male assoluto ha come unico scopo quello di alzare il prezzo della mediazione. La CGIL sa benissimo che la strada del negoziato con il Governo insieme a CISL e UIL è l’unica praticabile. Così come non sono un caso gli ormai quotidiani appelli alla ragionevolezza degli altri due sindacati.

Ora la parola passa alla Corte Costituzionale che valuterà se la materia dei quesiti referendari e materia che può essere sottoposta a referendum abrogativo. È chiaro che, in entrambi i casi, i grillini cercheranno di portare acqua al loro mulino.

È però la Cgil che deve scegliere. Nei metalmeccanici la FIOM ha scelto di guardare avanti insieme a FIM e UILM e a FEDERMECCANICA, lasciando per strada gli ex amici della estrema sinistra sociale. E i risultati tra i lavoratori hanno dimostrato che è stata una scelta giusta e condivisa.

Adesso tocca alla CGIL trovare le mediazioni, individuare gli interlocutori e, con essi, la strategia tradizionale o innovativa da proporre al prossimo congresso. Un impegno non da poco.

Lavoro, strumentalizzazioni e buona politica…

Tre notizie, quasi da prima pagina, che fanno discutere.

I voucher trasformati in problema prioritario e drammatico, la sentenza della Cassazione che ha ritenuto non necessario essere in presenza di una crisi aziendale, un calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento e, infine il caso Almaviva con le sue implicazioni sindacali e sociali.

Nel primo caso la preoccupazione per il probabile referendum richiesto dalla CGIL ha scatenato una campagna di disinformazione con al centro la numerosità dei voucher e una serie di abusi commessi in alcune situazioni.

Pochi riferimenti internazionali a situazioni analoghe, scarso interesse a comprendere le dinamiche e i fenomeni correlati, disinteresse quasi totale all’endemico fenomeno del lavoro nero o malavitoso in Italia. Ma, soprattutto, il tentativo di far credere che, l’eliminazione dei voucher sia in sé un elemento positivo e possa portare a forme di stabilizzazione del lavoro saltuario.

A chi serve questa pessima gestione della notizia? Non credo alla CGIL che rischia di vincere una battaglia sull’onda emotiva del post referendum ma di perdere, immediatamente dopo, la guerra.

Né, credo, all’opinione pubblica che rischia di essere inutilmente trascinata in una discussione sulla precarietà del lavoro su presupposti scorretti perdendo di vista il problema principale: il lavoro. Come si crea, come e dove lo si può trovare, come lo si mantiene, e cosa si deve fare se lo si perde. E questo non è solo un problema per addetti ai lavori.

La sentenza della Cassazione sul licenziamento è, da questo punto di vista, paradigmatica. I motivi che spingono un’azienda a ricorrere a licenziamenti individuali o collettivi sono quasi sempre riconducibili a motivazioni organizzative o gestionali.

Il fatto che, secondo alcuni, si dovrebbe attendere sempre e comunque una situazione economica di non ritorno per poter procedere, ha solo determinato la proliferazione di accordi sindacali fantasiosi e lacunosi, di “non accordi” con ampia facoltà a procedere unilateralmente da parte delle aziende, di licenziamenti “spintanei” tollerati e di incentivazioni individuali di ogni tipo.

Adesso, con un certo ritardo, la Cassazione certifica ciò che chiunque ha avuto a che fare con ristrutturazioni o riorganizzazioni sa da sempre e cioè che come sosteneva il Macchiavelli, “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al Popolo”.

A volte occorre prendere decisioni drastiche e in tempi certi. Altrimenti il problema diventa irrisolvibile. E non servono avverbi o aggettivi  per mascherare la realtà. Purtroppo.

Infine il caso Almaviva. Nessuno spiega che, una volta aperta una procedura di mobilità, una sua eventuale interruzione rischia di invalidare la procedura stessa.

Qualche anno fa mi trovai in una situazione analoga. Durante un difficile negoziato che coinvolgeva tutta una intera rete nazionale di vendita il sindacato confederale mi chiese di recuperare una filiale al sud che, chiusa l’anno precedente, stava terminando gli ammortizzatori sociali. In questo modo gli ultimi lavoratori rimasti avrebbero guadagnato un anno di ammortizzatori arrivando così alla pensione.

Faticai a convincere i vertici della multinazionale che non capivano perché fosse necessario riaprire un capitolo chiuso da tempo però concordammo con le OOSS che, per questi ultimi, non sarebbe stato ovviamente possibile prevedere alcun trasferimento al nord essendo in grado di agganciare la pensione.

Fatto l’accordo due lavoratori, tramite un avvocato suggerito dai COBAS, lo impugnarono sostenendo che, pur essendo vicino alla pensione sarebbero stati comunque disponibili al trasferimento in qualsiasi zona del Paese.

Nessuno però glielo aveva proposto proprio perché loro stessi avevano concordato, tramite i sindacati, un’altra soluzione.

Quella vicenda, costruita in buona fede insieme alle organizzazioni confederali e con il consenso tra le parti, avrebbe purtroppo potuto finire molto peggio causando l’annullamento della procedura con costi e conseguenze gravissime.

Per questo posso capire l’atteggiamento di Almaviva e questo indipendentemente da altri argomenti di cui non ho elementi sufficienti per giudicare.

C’è stato un tempo dove era possibile trovare un’intesa. Quel tempo però si è esaurito nei tempi e nei modi previsti dalla procedura stessa. Le lettere di licenziamento ne sono solo la conseguenza inevitabile.

Tre vicende apparentemente differenti con un unico comune denominatore. Nella materia del lavoro contano solo gli elementi oggettivi. Le norme e ciò che è scritto nelle leggi e nei contratti. Il resto appartiene alle opinioni.

La “Politica” può creare le condizioni affinché le parti in campo abbiano a disposizione strumenti adatti, opzioni concrete e tempistiche certe nelle quali esercitare i rispettivi ruoli.

Oppure la politica stessa può strumentalizzare, sulla pelle dei lavoratori, prospettando soluzioni inesistenti come ha fatto l’on. Di Maio un minuto dopo la conclusione della vicenda.

Purtroppo il Paese avrebbe bisogno di buona politica e di buoni politici. E di buona informazione. Soprattutto nelle vicende sindacali.

Dirigenti, contratti e cultura della solidarietà

Purtroppo la figura retorica del manager solo al comando, egocentrico e poco interessato al destino altrui ha preso il sopravvento nelle convinzioni di gran parte dell’opinione pubblica.

Invidiato e odiato a seconda dei punti di osservazione si muove, in questa fase di cambiamento profondo, tra un autentico disorientamento sulle sue concrete prospettive di carriera e una trasformazione profonda del suo ruolo.

Può contare su diversi strumenti di supporto sia formativi che di welfare messi a punto, nel tempo, nei contratti nazionali costruiti dalle rispettive associazioni di categoria.

Ma c’è una cosa molto importante che, grazie soprattutto alle associazioni manageriali, risulta evidente a chi vuole capirne meglio, e da vicino, le caratteristiche umane e l’approccio culturale che possono essere messe in campo. E quali sono gli strumenti che le possono favorire.

E poterlo rintracciare concretamente in una categoria ritenuta chiusa, individualista e ripiegata su se stessa, spiega molte cose di quanto di buono e inespresso c’è ancora nelle nostre comunità.

Recentemente mi sono trovato ad una iniziativa benefica di Manageritalia in Piemonte a sostegno delle popolazioni terremotate. Innanzitutto mi ha colpito la grande partecipazione. Un mix di pensionati, dirigenti in attività e loro famiglie.

L’occasione era rappresentata da uno spettacolo musicale senza artisti particolarmente noti e senza molte pretese con alla fine una lotteria per incentivare le offerte economiche. La cosa importante era la grande partecipazione. Il sentirsi a casa propria. Un momento di incontro associativo dedicato ad un’iniziativa importante di solidarietà. Credo che se ne facciano molte e in ogni città ma non è questo il punto che volevo approfondire.

Dietro tutto questo non c’è solo un aspetto volontaristico. C’è un contratto nazionale. C’è cioè un percorso che, nel tempo, ha costruito un destino comune, un insieme di strumenti, cultura e punti di riferimento condivisi tra rappresentanti delle imprese e (in questo caso) i rappresentanti dei dirigenti che hanno deciso di favorire una visione collettiva, solidaristica, positiva di quello che al contrario avrebbe potuto essere solo retribuzione, diritti e doveri.

Chi ha pensato a suo tempo ad un welfare sanitario finalizzato a coinvolgere anche la famiglia del dirigente e lo stesso pensionato ha fatto una scelta che ha contribuito a costruire una cultura diversa. Certo occorre sempre accompagnare queste scelte con una grande attenzione ai costi per garantire la tenuta economica del sistema ma c’è un aspetto solidaristico che lo distingue e che solo un contratto nazionale poteva prevedere.

Così è per la previdenza integrativa. Pensarla nel secolo scorso quando la figura del dirigente aziendale poteva contare su un destino pensionistico roseo e garantito è stato un esempio di grande lungimiranza.

Così è per la formazione. Oggi si parla giustamente di diritto soggettivo per tutti i lavoratori. I dirigenti del terziario l’hanno costruita, attraverso il CFMT insieme a Confcommercio, dal 1974.

E gli stessi dirigenti non hanno protestato di fronte alla proposta di Manageritalia di aumentare per un anno la loro quota associativa finalizzandola al sostegno dei colleghi in fase di transizione occupazionale.

Il compito di qualsiasi organizzazione sindacale, sia che rappresenti il lavoro o le imprese è quello di essere sempre un passo avanti ai propri associati. Non un passo indietro. Ed è purtroppo quello che non riesce più a fare oggi la politica. Rifugiarsi “nel centro del fiume” non è mai una buona scelta.

E il “fieno in cascina” lo si mette da parte insieme proprio per superare le stagioni più difficili. Ecco perché vedere che una associazione di manager riesce a coinvolgere, condividere e costruire momenti di solidarietà fa ben sperare per il futuro del nostro Paese.

Ma questi momenti non nascono solo per l’intuito o la lungimiranza dei singoli. Hanno bisogno di luoghi di sperimentazione e di condivisione. E questi luoghi vanno consolidati, manutenuti e rinnovati affinché non siano ritenuti superati e vuoti contenitori di un passato che non ha più ragione di esistere.

Il senso di comunità e di solidarietà che ci caratterizzano come Paese rappresentano l’unico argine ai populismi e agli egoismi che si stanno diffondendo in tutto il mondo.

Difenderne i luoghi e gli ambiti è compito di ciascuno di noi.