A due settimane dallo sciopero del 22 dicembre indetto dai tre sindacati di categoria nulla si muove di concreto. Le dichiarazioni di disponibilità delle associazioni datoriali di queste ore lasciano il tempo che trovano. Ha cominciato Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti, ha proseguito Donatella Prampolini, Vice Presidente di Confcommercio e, infine, è arrivato il comunicato di Federdistribuzione (https://bit.ly/4a8lGCd). Tutti, purtroppo, fuori tempo massimo.
Quello che non si è fatto in quattro anni, diventerebbe improvvisamente fattibile in due settimane e solo dopo la dichiarazione di sciopero. Ovviamente nessuno ci crede. Da parte delle associazioni datoriali c’è la volontà, legittima, di “sgonfiare” il più possibile la partecipazione allo sciopero ed evitare di essere messi in un angolo dall’opinione pubblica con l’accusa di “insensibilità sociale”. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo pochi giorni dopo la firma del contratto dei bancari al di là della consistenza dell’aumento concordato con i sindacati, improponibile nel commercio, ha affermato: “bisogna dimostrare alle proprie persone che ci si prende cura di loro”. Parole che, tra l’altro, molte aziende della GDO e del commercio in generale condividono assolutamente.
In realtà, le associazioni e gli stessi sindacati hanno perso l’occasione di chiudere la partita quando, qualche mese fa erano maturate le condizioni per una conclusione equilibrata del contratto nazionale. L’IPCA non era ancora emersa nell’entità che poi si è evidenziata, il clima sociale nel Paese segnalava ancora una sottovalutazione generalizzata su contratti e sui rinnovi fermi da tempo, la discussione sul salario minimo non era ancora salita di tono e Landini non aveva deciso, insieme a Bombardieri, alcun braccio di ferro con il Governo. Federdistribuzione, probabilmente dopo aver preteso a lungo una “distintività” del suo CCNL, che resta tuttora una semplice copia di quello Confcommercio, sembrava accontentarsi di qualche ritocco (verso il basso) della figura dei responsabili di punto vendita e poco più, in cambio di una moderazione sulle richieste salariali.
Confcommercio, sbagliando completamente i tempi, ha pensando di poter ribadire, fuori tempo massimo, innovazioni che altro non erano che provare a riprendersi con la mano destra ciò che a fatica veniva concesso con la sinistra. Forse ha pesato la competizione con Federdistribuzione. Sicuramente è stata sottovalutato il contesto che andava maturando. Lì sono stati ribadite le richieste su alcuni istituti contrattuali che, per la confederazione di Piazza Belli, si sarebbero dovuti modificare. Provocatorie per la Filcams CGIL ma altrettanto indigeste per la Uiltucs UIL e la Fisascat CISL.
Senza interlocutori sindacali disponibili alla mediazione, Confcommercio e Federdistribuzione, insieme agli altri protagonisti, non hanno avuto la sensibilità di comprendere per tempo il cambiamento di clima sociale che andava affermandosi nel Paese. I segnali di disaffezione dei giovani per la qualità del lavoro offerto, l’aumento delle dimissioni e l’inflazione che, crescendo, non colpiva solo i consumatori ma anche i lavoratori del comparto. Le polemiche sul lavoro povero che oltre alla logistica, lambisce pericolosamente i confini del comparto portando, all’ordine del giorno, sia i famosi contratti “pirata” ma anche una pericolosa contaminazione da parte del sindacalismo di base propugnato dai COBAS che tende ad inserirsi nelle contraddizioni che, un negoziato nato male e proseguito ancora peggio, determina…
Non è stato considerato che, ad esempio, sul versante sindacale nessuna delle tre organizzazioni vanta una leadership forte e riconosciuta dalle altre due sigle. Cosa che in passato aveva consentito svolte ai negoziati nei momenti difficili. Così, sul versante datoriale, il clima permanente di competitività tra le diverse associazioni e la volontà di esercitare una leadership, indigesta agli altri, da parte di Confcommercio, hanno fatto il resto.
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