Contratto Terziario, DMO e cooperative. Lotta dura, senza premura…

“Lotta dura, senza premura” è stato lo slogan che più di altri ha accompagnato la vicenda contrattuale del commercio. Almeno fino ad ora. I sindacati di categoria, con la fissazione della data dello sciopero, rompono gli indugi e alzano il tiro nella speranza di rimettere in moto il negoziato. La data è fissata: venerdì 22 dicembre. Un venerdì a tre giorni dal Natale. Data non casuale. Per le insegne, meglio quel venerdì che il sabato successivo. Periodo di acquisti e di forte frequentazione  dei punti vendita e quindi anche di maggiore interesse mediatico per l’iniziativa.  La vera ragione della scelta.  Una cosa però va sottolineata. Dal dibattito che è emerso nell’assemblea,  Il lungo percorso di confronto contrattuale sembra essere passato invano. Le differenze, anziché ridursi come sempre avviene, si sono addirittura accentuate, cristallizzando le posizioni.

L’ultima firma risale al 2015. Otto anni nei quali i rispettivi gruppi dirigenti sono cambiati senza essere sostituiti da leadership autorevoli in grado di proporre sintesi e chiudere la partita. La scadenza del 2019 per Confcommercio è stata disattesa e depotenziata da un paio di firme in dumping (Federdistribuzione e Confesercenti)  sul salario, concordato con i tre sindacati. Un vulnus che ha creato un contesto di sospetti reciproci e di competizione   tra le associazioni datoriali le cui conseguenze sono tra le numerose cause del lungo stallo. Un esempio di come una sottovalutazione  grave compiuta essenzialmente dalle leadership delle organizzazioni sindacali di allora, si è trascinata nel tempo presentando il conto al rinnovo successivo. Cosa assolutamente prevedibile. 

La composizione dei partecipanti  all’assemblea unitaria dei tre sindacati di categoria (https://bit.ly/40PtvbO) per la prima volta non ha riguardato solo  l’area del CCNL del Terziario, della DMO e della cooperazione. Ha coinvolto anche il turismo e la ristorazione in tutte le sue declinazioni. È un tentativo, assolutamente legittimo,  del sindacato di categoria di presentarsi  al Paese come rappresentante di un bacino di almeno cinque milioni di lavoratori ancora sprovvisti di rinnovo contrattuale. E questa  è una novità assoluta. Tre sindacati di fronte a una decina di controparti. Ciascuna alla ricerca di una sua distintività.

Che cosa è uscito dall’assemblea?

Ovviamente la dichiarazione di sciopero, essendo  una prova di forza unitaria che prevede una mobilitazione di piazza, annulla le diverse sensibilità sui possibili punti di caduta possibili, pur presenti, tra i tre sindacati. Fabrizio Russo segretario generale della Filcams CGIL punta ad una mobilitazione di lunga durata. Da poco eletto, “convinto sostenitore” di Landini e del nuovo profilo di lotta della CGIL non è alla ricerca di facili mediazioni.  “Il loro tempo è finito. Adesso comincia il nostro. La nostra controparte non ha il senso del limite” ha dichiarato e ha promesso una  campagna di mobilitazione che arrivi addirittura a colpire l’immagine delle aziende del comparto. “Ci aspettano mesi difficili” ha concluso. Paolo Andreani, segretario generale della Uiltucs, anch’egli di recente  nomina, se l’è presa con chi chiede ulteriore flessibilità. Ha definito “una polpetta avvelenata”  lo scambio proposto da Confcommercio teso a ridurre l’impatto dell’aumento attraverso uno scambio con altre parti del CCNL. Ha respinto con sdegno  l’offerta di anticipo sui futuri aumenti contrattuali proposto  dalle cooperative  per la sua esiguità ma non è stato altrettanto insensibile alle  proposte economiche ventilate da  Federdistribuzione. 

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Contratto commercio e DMO. Come trovarsi con il salario minimo pur dichiarando di non volerlo….

È chiaro che aziende e lavoratori, del commercio, del terziario e della DMO vorrebbero arrivare ad una conclusione positiva del rinnovo del loro contratto di lavoro. La situazione delle retribuzioni nel comparto è assolutamente prioritaria. L’ultima firma vera è del 2015 per un CCNL che avrebbe dovuto scadere nel 2019 e che invece è tuttora aperto. Tre milioni di persone che si sommano a tutte le altre categorie che nel Paese sono sprovviste di rinnovo.  I segnali sono evidenti.

L’ultima, in ordine di tempo, è la proposta che sta prendendo piede di concedere, da parte delle aziende, un anticipo unilaterale sui futuri aumenti contrattuali (AFAC). Servirebbe a neutralizzare lo sciopero e, posta a vicino al Natale, dove tutti dovrebbero diventare più buoni, assumerebbe pure un significato particolare. Decisione possibile che però costituirebbe  la delegittimazione finale  di un tavolo negoziale che non è mai decollato per manifesta insufficienza di chi ne ha la responsabilità politica e non riesce ad esercitarla.

Con questa mossa il più grande contratto nazionale del Paese imboccherebbe con decisione  la strada che porta, di fatto,  ad una forma “innovativa” di salario minimo seppure unilaterale. Infatti come potrebbe essere definito un contratto nazionale che non viene rinnovato da 4 anni e che viene sostituito da erogazioni salariali extra negoziato? Si arriverebbe così all’ammissione di ciò che molti vanno sostenendo da tempo. I contratti nazionali così come sono stati costruiti nel novecento con il loro carico di norme, diritti, doveri, profili professionali, minimi contrattuali e con tutto ciò che da essi deriva, a cominciare dall’importante welfare previdenziale e sanitario, non vengono messi in discussione dall’adozione dal basso di altre normative auto prodotte localmente più snelle come i cosiddetti “contratti pirata” ma vengono messi in soffitta degli stessi stipulanti per manifesta incapacità di rinnovarne i contenuti.

Il passaggio, di fatto al salario minimo, non è necessario che avvenga per forza attraverso una legge o come risultato di un confronto tra le parti sociali ma può avvenire per semplice esaurimento di un ciclo storico o per incapacità di rilanciare lo strumento, nei suoi contenuti, condannandolo all’obsolescenza. In fondo molte aziende, soprattutto medio piccole, che sono la maggioranza,  vorrebbero proprio questo. Stabilire alcune regole del gioco universali sui diritti e sui doveri, riferimenti laschi al l’inquadramento professionale, un minimo economico di riferimento della categoria che lasci spazio a forme di corresponsabilizzazione sul reale andamento aziendale, che premi il merito individuale e che metta definitivamente in soffitta i costi del welfare contrattuale. Lasciando spazio e maggiore libertà di azione nelle singole realtà e il decollo, anche sul lavoro, di una competitività tra insegne che, in tempi di difficile reperimento delle risorse umane necessarie, potrebbe dimostrarsi decisivo.

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Contratto terziario, Commercio e Distribuzione moderna. Un passo avanti, due indietro

La situazione legata al rinnovo del Ccnl Tds, Dmo e Coop rischia di ingarbugliarsi sempre di più. Ed è evidente che la responsabilità politica è tutta in capo ai negoziatori. Oggi poi, la dichiarazione di sciopero generale di CGIL e UIL, è destinata a peggiorare il quadro di riferimento nel quale la lunga trattativa finalizzata al rinnovo dei Ccnl si inserisce. Dall’altro lato  pesa la divaricazione evidente sulle ipotesi di chiusura tra le diverse controparti datoriali (Confcommercio, Confesercenti, Federdistribuzione, Ancc-Coop, Confcooperative-Consumo e Utenza e Agci-Agrital). Ma procediamo con ordine.

Sul versante sindacale, sarebbe quanto meno singolare che Landini e Bombardieri, mentre dichiarano che le ragioni dello sciopero al centro della mobilitazione generale  promossa da Cgil e Uil sono finalizzate ad “alzare i salari, estendere i diritti e per contrastare una legge di bilancio che non ferma il drammatico impoverimento di lavoratrici, lavoratori” lascino che i loro due sindacati di categoria si dichiarino disponibili a concessioni in pejus sull’aumento salariale previsto dall’IPCA (previsto il 6,6% per il 2023). Così come sul fronte datoriale dove, Federdistribuzione e Distribuzione Cooperativa, puntavano, per chiudere, ad un semplice sconto sull’IPCA mentre Confcommercio forse per “vendicarsi” di vecchie diatribe associative, ha rilanciato  alla ricerca di uno scambio oggi  impossibile.

Lo sciopero generale proclamato, essendo uno sciopero politico, radicalizzerà ancora di più le posizioni. Non credo proprio che Filcams Cgil e Uiltucs UIL, due tra le categorie con il maggior numero di iscritti alle rispettive confederazioni,  saranno disponibili a particolari concessioni sull’aumento salariale. Ed è  sufficiente leggere i loro comunicati per capirlo. E questo rischia di spingere,  l’intero contesto, in una situazione di tensione sociale che sarebbe assolutamente da evitare  sia per dove è collocato lo sciopero, sia per l’evidente tensione sui temi del lavoro povero che attraversa l’intera categoria.  Lo sciopero è infatti previsto per il 22 dicembre.

 Secondo il sindacato, Federdistribuzione e le associazioni delle cooperative  hanno “dichiarato apertamente di non poter accordare aumenti retributivi in linea con l’indice IPCA al netto dei beni energetici importati (cioè secondo le previsioni degli accordi interconfederali sugli assetti contrattuali vincolanti per la maggior parte delle nostre controparti). Federdistribuzione, come già nel 2019,  puntava ad uno sconto sulle richieste salariali per chiudere la partita.

Donatella Prampolini vicepresidente Confcommercio con delega al lavoro e alla bilateralità ha rilanciato come fossimo all’inizio del percorso negoziale: “Per mantenere il livello di innovazione e di flessibilità che ha sempre caratterizzato il nostro contratto, abbiamo richiesto la revisione di alcune parti normative ormai desuete – dalla classificazione alle modalità di gestione dell’orario di lavoro in un’ ottica di produttività – nonché aggiornamenti in tema di stagionalità”.

Tradotto in soldoni visto che siamo tra commercianti. Federdistribuzione vuole uno sconto sulla richiesta (effettivamente costosa) dell’IPCA integrale chiesta dal sindacato mentre Confcommercio anziché lo sconto propone un “cambio merce” con altri istituti contrattuali.

Ovviamente i margini per trovare un accordo salariale di questi tempi, pur risicati, ci sarebbero. Nel  resto d’Europa i rinnovi sono rimasti sotto l’IPCA italiana come ci ha recentemente spiegato Andrea Garnero su La Voce: “ Un indicatore sperimentale previsionale della crescita dei salari negoziati per Austria, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Spagna, elaborato dalla Banca centrale europea in collaborazione con le banche centrali nazionali dell’area dell’euro, mostra che i contratti collettivi stipulati nel corso del 2022 hanno generalmente previsto un aumento del 4,7 per cento per il 2023, rispetto al 4,4 per cento del 2022. Al di fuori dell’area dell’euro, in Danimarca, a febbraio è stato raggiunto un accordo nell’industria che prevede un aumento del 3,5 per cento nel 2023 e del 3,4 per cento nel 2024. In Norvegia, dopo quattro giorni di sciopero, è stato raggiunto un accordo per un aumento del 5,2 per cento per i settori che fissano il riferimento generale (industria esportatrice e manifatturiera). In Svezia, i sindacati dell’industria e i datori di lavoro hanno concordato nuovi contratti collettivi per due anni, che prevedono aumenti salariali del 4,1 per cento nel primo anno e del 3,3 per cento nel secondo”. Percentuali, come si può vedere,  abbastanza lontane dal 6,6 per cento previsto da noi.

Il termine “innovazione” in questo contesto, assume significati opposti a seconda di chi lo agita. Per i sindacati oltre alla proposta di aumento salariale in linea con l’IPCA avrebbe dovuto significare un rinnovamento del sistema di inquadramento professionale e un rafforzamento del diritto di ogni dipendente alla formazione continua; l’implementazione di tutele per le donne vittime di violenza e per la genitorialità e l’ampliamento della platea dei soggetti beneficiari dell’assistenza sanitaria integrativa e della previdenza complementare di settore. L’introduzione di norme ad hoc sul fenomeno delle affiliazioni commerciali, del franchising e delle attività esternalizzate, la riduzione della flessibilità e al contenimento dei contratti a termine e l’aumento delle ore dei  contratti part-time e ai minimi contrattuali. Alcune di queste richieste sono assolutamente ragionevoli e già presenti in altri contratti e pure in molte realtà della GDO. Altre aggiungono costi o vincoli organizzativi difficili da prendere in considerazione dalle imprese, di questi tempi. Credo lo sappiano bene anche i sindacalisti più ragionevoli.

Restano in campo due intransigenze. Una di parte sindacale, che ho cercato di spiegare, sull’intangibilità dell’IPCA, in questo particolare contesto economico, una altrettanto irragionevole da parte di Confcommercio. Per questo nel mio ultimo intervento al riguardo (https://bit.ly/473xjIu) ho espresso le mie perplessità sul silenzio del Presidente Sangalli. L’ho trovato debole anche nella sua successiva difesa d’ufficio  sulle ragioni dello stallo del negoziato.

Sinceramente pretendere oggi di definire  “innovative” richieste di superamento o modifica  di istituti contrattuali quali la 14° mensilità‌, i permessi retribuiti e gli scatti di anzianità,‌ se poteva avere un senso negoziale qualche mese fa, oggi,  con due sindacati su tre  sul piede di guerra,  suona come una banale provocazione per poter rinviare ancora una possibile conclusione. Il paradosso è che l’associazionismo imprenditoriale sul fronte GDO non può “innovare” il testo contrattuale perché non riesce a tradurre a livello nazionale ciò che di meglio viene già fatto in molte insegne. Unico elemento che consentirebbe uno “scambio” su altri temi “digeribile” dal sindacato. Mentre Confcommercio ormai fatica a presidiare una rappresentatività su settori alla ricerca di una loro identità a cui fornisce, di fatto, “solo” un salario minimo ante litteram e un welfare contrattuale. Sul resto non ha più alcuna leadership né capacità di innovazione riconosciuta sui temi del lavoro. Il risultato  è quindi l’immobilismo più totale sul piano dei contenuti.

Ribadisco che una chiusura prima di Natale sarebbe auspicabile, proprio per evitare che la vicenda di un contratto scaduto da 4 anni e che riguarda circa 3 milioni gli addetti coinvolti nella vertenza, degeneri con ben altre conseguenze. Quindi la domanda da porsi è: “ a chi conviene questa totale deresponsabilizzazione e paralisi del tavolo negoziale”?

Rinnovo CCNL Terziario e Distribuzione. Due debolezze che si elidono a vicenda

Alle riflessioni già fatte sullo stallo nel rinnovo del CCNL del terziario e della DMO (https://bit.ly/3tKwkhU) aggiungo altri elementi di approfondimento perché l’impasse attuale è anche figlia della stessa composizione delle delegazioni al tavolo negoziale. C’è un’evidente crisi di autorevolezza di entrambe le leadership nei confronti delle rispettive  controparti. Nessuno riesce a convincere  l’altro delle  proprie  buone ragioni poste da tempo al confronto.

Sul fronte datoriale lo stallo è evidente (il silenzio ad esempio del Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli dopo quattro anni di tira e molla  è assordante). Confcommercio è ferma al palo come mai avvenuto in passato. Affidare la possibile mediazione finale alla Vice Presidente Donatella Prampolini, che ha la stessa flessibilità di una barra di tungsteno, chiarisce più di mille parole lo stato dell’arte.  La stessa Federdistribuzione non sembra essere in grado di  consolidare  una logica di governo del comparto garantita  solo dal CCNL. Cerca una specificità che li possa distinguere dalla fotocopia sostanziale del loro testo con quello di Confcommercio concordato  a suo tempo, ben sapendo che le aziende associate si muovono autonomamente  interpretandone i contenuti ciascuna a casa propria. È c’è pure chi applica tutt’altro. Troppo marcate le differenze e le esigenze tra singole insegne e formati distributivi.

Sul fronte  sindacale, i cambiamenti avvenuti ai vertici dei sindacati di categoria dall’ultimo CCNL, scaduto nel 2019, non hanno ancora prodotto  figure autorevoli  in grado di avanzare sintesi accettabili. Ruolo fondamentale nei delicati passaggi che precedono la conclusione di un contratto nazionale. L’impressione è che ognuno guardi solo in casa  propria, e mantenga una certa diffidenza, sulle possibili proposte di mediazione. Cosa peraltro sempre avvenuta. Aggiungo che, il ricorso alla piazza per imprimere una svolta al negoziato (https://bit.ly/3S9NcJ0), pur legittimo, rischia di inserirsi nelle dinamiche e nella competitività  tra sindacati confederali che stanno montando su altri piani e di rendere ancora più difficile un possibile compromesso.

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Grande Distribuzione tra Rinnovo del CCNL che non c’è, contratti pirata e Cobas nella logistica

È difficile spiegare a chi non vuole o non può capire che il rinnovo del contratto nazionale è interesse comune. Spingere il sindacato confederale di categoria a scendere in piazza per sbloccare il negoziato è un errore che si sarebbe dovuto evitare (https://bit.ly/3S9NcJ0). L’inflazione non colpisce solo i consumatori. Il rimpallo delle responsabilità tra Federdistribuzione, Confcommercio  e i sindacati di categoria sta diventando insostenibile. Occorre una dose maggiore di sensibilità sociale per chiudere una partita aperta ormai da troppo tempo.

È ovvio che non tutte le colpe sono delle associazioni e delle loro contraddizioni. Anche il sindacato ha le sue. Ma qui siamo di fronte ad un deficit di classe dirigente e della loro incapacità di affrontare e chiudere una vicenda ormai grottesca. Lo sforzo che è stato messo in piedi con il patto anti inflazione è lì a dimostrare che ci sono momenti dove è necessario assumersi le proprie responsabilità. Sul CCNL, scaduto nel 2019,  questa assunzione di responsabilità politica non c’è.

Parto da due fatti apparentemente lontani che segnalano la deriva sempre più evidente di un sistema sul quale occorrerebbe riflettere.  Prima che sia troppo tardi. Due facce, purtroppo,  della stessa medaglia. Il primo si è sviluppato  principalmente a sud. Il secondo nel centro nord. La contrattazione sostitutiva del CCNL (la famosa contrattazione “pirata”) sta prendendo piede producendo una degenerazione del sistema. Anche  nella GDO. Un indubbio vantaggio competitivo per chi si smarca dai CCNL. Una incapacità evidente di inquadrare questa scelta  nelle prospettive del comparto e delle conseguenze possibili se l’intero sistema, così facendo, tenderà a  sfaldarsi.

La contrattazione “pirata” crea dumping tra imprese e svuota il contratto nazionale di lavoro. Per ora la sua espansione è ridotta a qualche centinaio di realtà territoriali ma la corda prima o poi, è destinata a spezzarsi. Certo è difficile spiegare ad un piccolo imprenditore impegnato a difendere il proprio fatturato e i propri margini che i rischi di degenerazione del sistema ricadranno, in prospettiva, anche su di lui. Così come è altrettanto arduo convincere sindacati confederali e associazioni di impresa che più che vagheggiare la cancellazione della contrattazione “pirata” per legge occorrerebbe affrontarne le ragioni  che l’alimentano e le possibili strategie per superarla insieme. Leggi tutto “Grande Distribuzione tra Rinnovo del CCNL che non c’è, contratti pirata e Cobas nella logistica”

UNES. Quando una procedura di riduzione del personale non ben valutata fa più danni di ciò che vorrebbe risolvere….

Nell’incontro del 19 ottobre presso il Glam Hotel di Milano si è tenuto il secondo incontro con la direzione di UNES previsto dalla procedura di riduzione di personale presentata il 29 settembre. Secondo fonti sindacali l’azienda ha inizialmente ribadito il suo progetto: un cosiddetto “referente aziendale” inquadrato nel secondo livello del CCNL che avrebbe dovuto sostituire formalmente il “direttore” pur continuando a svolgere le medesime attività di primo livello. Quindi nessuna riduzione  di attività e funzioni. Solo di stipendio. Una richiesta  che, presentata così,  è stata rispedita al mittente.

E,  continuando a leggere  il comunicato sindacale:  “Le figure ritenute idonee a ricoprire tale ruolo sarebbero state individuate da un’agenzia di consulenza esterna attraverso prove scritte ed orali e tramite criteri del tutto discrezionali, mentre quelle non idonee sarebbero state automaticamente ritenute in esubero e dunque destinate all’uscita o ad un mortificante demansionamento, utile esclusivamente alla salvaguardia occupazionale”.

Il sindacato, com’era prevedibile,  non  ha potuto far altro che respingere questa impostazione. Creare figure professionali al di fuori del perimetro del CCNL in presenza in azienda  dei titolari del ruolo cercando di sotto  inquadrarle sarebbe stata una operazione  che non avrebbe retto a lungo in nessun tribunale. Anche da parte di chi, obtorto collo, l’avesse accettata e quindi subita, in alternativa al licenziamento. Il ripensamento dell’azienda, pressata dai sindacalisti presenti, ha però segnalato la persistente confusione del management sulla scelte organizzative in grado di contribuire, attraverso un contenimento dei costi,  ad un possibile rilancio dell’azienda.

Rilancio che non sembra essere, a detta dei sindacalisti,  presente nelle parole dei responsabili aziendali al tavolo. La causa della procedura stessa  sarebbe da ricercare  nell’espansione dei discount, nei concorrenti, nell’inflazione, nel destino cinico e baro, ecc. Insomma la colpa è da ricercare altrove. Non bisogna essere degli esperti per comprendere che tagli pesanti del personale non accompagnati da un’idea di futuro o almeno, da una parvenza  di rilancio non portano da nessuna parte. Scartata quindi la prima proposta, assolutamente impraticabile, la nuova prevederebbe il mantenimento dell’attuale figura del “Responsabile del punto vendita”, inquadrato come previsto dal CCNL. Gli esuberi (101 unità) il cui numero  resta invariato, verrebbero gestiti, sollecitando possibili scelte individuali, attraverso  3 opzioni: 

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UNES. Quando tra sede e punti vendita il dialogo si complica…

Una crisi aziendale non nasce improvvisamente. Diversi segnali l’annunciano e la precedono. I numeri non sono l’unico punto di osservazione. Innanzitutto i top manager che vanno e vengono. Poi il turn over. Chi ha una professionalità rivendibile sul mercato lascia l’azienda  appena se ne presenta l’occasione. A questo si aggiunge la difficoltà a reperire personale ad ogni livello. Infine le continue operazioni sull’organico  che si susseguono nel tentativo di comprimere i costi della struttura in attesa, si spera, di altre soluzioni. Ricordo l’ultima fase di Standa quando Mediocredito Lombardo (l’investment bank di Banca Intesa), che ne possedeva due terzi, non l’aveva ancora ceduta a  Rewe. In sede e nei 120 PDV, in quei  mesi di interregno sembrava di essere asserragliati ciascuno in una sorta Fort Alamo dove ci si difendeva  rimbalzando le rispettive responsabilità.

Nel  “caos calmo” che regna in azienda  in quelle condizioni, il responsabile del punto vendita è una delle figure più delicate. È determinante il suo spirito di servizio e la sua capacità di tenere la motivazione ad un livello accettabile, della  squadra di regia e dell’insieme dei collaboratori. “Prendersela” con i responsabili di punto vendita  è come spararsi ad un piede. Qui non si parla di qualche personaggio inadatto al ruolo che deve e può essere sostituito. Si propone di chiudere o trasformare radicalmente  il rapporto con l’intera categoria aziendale in servizio perché non ritenuta in linea con la nuova organizzazione ipotizzata che resta tutta da verificare.

So benissimo che in molte insegne della GDO quelle figure professionali sono state di fatto sostituite,  in termini di livello di inquadramento  e quindi di retribuzione, ormai da tempo. Ma un conto è ridiscutere una ipotetica nuova job description del ruolo in una fase di stabilità, per nuovi assunti o, come hanno fatto altre insegne ,  che mettono in posizione giovani inseriti in processi di crescita, un altro è “azzerare” i ruoli occupati  da persone fisiche e presenti  in azienda. Anche lasciando perdere leggi e contratti e future cause individuali a mio parere resta un autogol sul piano della motivazione, del clima interno  e della qualità del lavoro nei punti vendita.

Ovviamente la mia riflessione va oltre il caso UNES.

Questa figura professionale si trova spesso  tra l’incudine e il martello schiacciata da una gerarchia commerciale di sede che non ha quasi mai il coraggio di assumersi le proprie responsabilità sui risultati soprattutto quando gli errori di strategia si fanno sentire. Le  attività quotidiane del “direttore” in un’ insegna che attraversa una evidente crisi di risultati non sono facilmente descrivibili in una job description tradizionale. Se normalmente la funzione principale  è rappresentata dalla gestione economica di un negozio e la responsabilità della gestione dei lavoratori in situazione di forte tensione si trova a dover rispondere ai clienti che percepiscono immediatamente i segnali di peggioramento, spegnere gli incendi quotidiani, ammortizzare gli errori  della logistica, supervisionare e spesso sostituire il personale indipendentemente dal ruolo  con orari si lavoro che coinvolgono i responsabili molto di più di ciò che si pensa quando se ne discute a tavolino.  Per questo servono competenze sia di tipo organizzativo che di tipo relazionale. E soprattutto tanta disponibilità personale.  Leggi tutto “UNES. Quando tra sede e punti vendita il dialogo si complica…”

Unes. Il Viaggiatore è arrivato al capolinea?

La storia di Unes è la storia di una piccola catena che nella sua crescita ha sempre cercato di essere un punto di novità e di riferimento per l’intera GDO. Nata nel 1967, viene acquisita da Marco Brunelli nel 2002 ed entra in un gruppo dalle grandi ambizioni. Finiper, aveva da poco rinunciato all’acquisizione di Standa passata al gruppo tedesco Rewe. Un dinamismo e una voglia di crescere di uno dei personaggi più importanti della GDO italiana che ho già raccontato (https://bit.ly/3rWswcn).

Il contesto competitivo, l’avanzata dei discount nei suoi territori principali di attività, l’avvicendamento manageriale, la stessa età avanzata del loro pur lucidissimo leader, hanno fatto emergere una pesante difficoltà che sta costringendo l’azienda a ripiegare e ad affrontare il tema dei costi, non come normale e oculata politica gestionale, ma come ultima chance, temo,  prima di decisioni più drastiche.

Lo scrivo con profondo rispetto perché gli ultimi anni di Standa, che ho vissuto da protagonista, hanno seguito un’identica traiettoria. Da politiche commerciali sempre più deboli, alla fuga delle migliori risorse umane e manageriali. Dall’azzeramento della contrattazione aziendale, a tutti quegli interventi di demansionamento e di riduzione di personale a getto continuo, tipici di situazioni dì avvitamento organizzativo e manageriale che, purtroppo, non precedono alcun improbabile rilancio. L’esperienza in ristrutturazioni aziendali mi ha fatto identificare una sorta di  “indice di ribaltamento”, raggiunto il quale, ogni intervento diventa accanimento terapeutico. Ovunque ci si trovi.

Indipendentemente dall’insegna è chiaro che quando si abbandona una identità costruita negli anni e non si propone nulla di nuovo,  i consumatori vanno altrove. È successo, come cliente,  anche a me. Unes era la mia insegna di riferimento a Milano. Come Poli in Val di Sole. Dopo gli anni vissuti a Corbetta e il mio trasferimento a Milano, il punto vendita di Buccinasco  era l’alternativa da me scelta per trovare la qualità dei prodotti proposti dal “Viaggiator Goloso”. Un interessante suggerimento di acquisto nella banalità dell’offerta sui lineari. Leggi tutto “Unes. Il Viaggiatore è arrivato al capolinea?”

Il futuro è del discount? No. È di chi saprà mettere al centro i veri bisogni del cliente…

Sono convinto che se il Gruppo Rewe nel 1994 avesse lasciato fare a Bernardo Caprotti avremmo avuto in Italia, un ibrido brianzolo-tedesco con vent’anni di anticipo, in grado di tracciare una traiettoria innovativa anche nel discount. E di competere alla pari rispetto a ciò che oggi sono Lidl e Aldi. O altre insegne discount nazionali. Lidl era arrivata solo due anni prima (1992) ad Arzignano in provincia di Vicenza. Aldi, in quel tempo,  pensava agli USA. Eurospin aveva aperto l’anno prima (1993) e MD si apprestava a lanciare la sua attività proprio nel sud. I tedeschi di Rewe attraverso il loro discount Penny  avevano le idee chiare: entrare in Italia coinvolgendo il migliore su piazza: Esselunga.

Probabilmente Bernardo Caprotti stesso aveva intuito la potenzialità del business o comunque la necessità di non limitarsi ad un ruolo di semplice spettatore. Altrimenti non li avrebbe nemmeno ricevuti. Per i tedeschi Bernardo Caprotti era un mito. La sua presenza nel progetto Penny Market avrebbe garantito il successo sul mercato italiano.  In seguito hanno anche provato a comprare la stessa Esselunga da tanto che ne apprezzavano il lavoro svolto. Il CEO di Rewe era Hans Reischl un figlio di contadini di Passau nella Bassa Baviera che aveva conseguito la maturità  in un  liceo serale di Colonia e poi studiato economia all’Università di quella città. Reischl, in trent’anni, ha  trasformato il gruppo cooperativo in un moderno gruppo commerciale.  Una sorta di Francesco Pugliese della Renania Settentrionale-Vestfalia. Messo fuori dal Gruppo tedesco a 6 mesi dalla pensione con accuse poi finite in niente. L’ho incontrato una volta sola durante le fasi preliminari di acquisizione di  Standa. Un uomo sicuramente in grado di intendersi con Bernardo Caprotti. Purtroppo la joint venture costruita al 50% non poteva funzionare a lungo. Troppo gelosi i manager tedeschi sulla gestione commerciale del discount e troppo indipendente ed egocentrico Bernardo Caprotti che conosceva bene il nostro mercato,  per accettare un ruolo subalterno. Durò però 5 anni. Nel 1999 Rewe si riprese l’intera azienda.

Secondo Giovanni Arena, AD dell’omonimo Gruppo, “Discount è una parola da dimenticare”. A Largo Consumo, in un’intervista di qualche tempo fa ha giustamente dichiarato che i discount sono semplicemente supermercati convenienti, ognuno con una sua diversa strategia.  Il nostro modello – ha proseguito Arena – è sviluppare la marca privata: abbiamo modificato il nostro Dna di supermercato premium, quello di Decò, in supermercato di convenienza partendo dal design del punto di vendita, che deve comunicare subito ai consumatori gli aspetti fondamentali come essenzialità, prezzi chiari e bassi, e profondità di assortimento nel fresco e freschissimo, che sono i nostri punti di forza”. Con il marchio SuperConveniente, il Gruppo offre invece prodotti selezionati che fanno concorrenza ai discount. Fondato a Valguarnera Caropepe (EN) nel 1976 dai fratelli Gioachino e Cristofero Arena, oggi con una rete di oltre 180 punti vendita ad insegna Supermercati Decò, Maxistore Decò, Superstore Decò, Iperstore Decò, Gourmet Decò, Local Decò, SuperConveniente, IperConveniente e NonSoloCash ed oltre 2.500 collaboratori, è leader assoluto nel territorio siciliano. E copre tutti i formati perché tarati sul cliente.

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Sindacati, Associazioni Imprenditoriali e Governo. Quale autunno ci aspetta?

Mentre i partiti di opposizione incalzano il governo con la loro proposta di introduzione del  salario minimo Rita Querzé sul Corriere  pone un tema ineludibile. (https://bit.ly/3KGo88c): “Se non vorranno buttare la palla in tribuna le parti sociali dovranno inevitabilmente affrontare il problema delle retribuzioni mettendoci del proprio”. Se è vero com’è vero che i contratti coprono il 97% dei lavoratori del settore privato (14,5 milioni i lavoratori dipendenti esclusi agricoli e domestici) è lì che andrebbe concentrata l’iniziativa delle parti sociali.  Nel dettaglio, dall’elaborazione della Fondazione Di Vittorio dei dati Cnel-Inps relativa a 894 Ccnl, risulta che: 207 Ccnl firmati da Cgil, Cisl, Uil coprono 13.366.176 lavoratori dipendenti del settore privato; 687 Ccnl firmati dalle altre organizzazioni sindacali interessano 474.755 lavoratori. A questi dati bisogna aggiungere 689.355 lavoratori dipendenti per i quali il datore di lavoro non ha indicato chiaramente il Ccnl applicato. Quindi i contratti siglati dalle tre Confederazioni tutelano la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti del settore privato.

“Sono due in particolare le leve nel cruscotto di sindacati e associazioni delle imprese: la definizione della rappresentanza (chi può contrattare che cosa) e la struttura della contrattazione” conclude Rita Querzé. Se il problema dei salari non fosse centrale per l’inflazione che si scarica sui redditi delle famiglie ma anche sui costi  a carico delle imprese, le parti sociali, temo, svicolerebbero ancora una volta dalle loro responsabilità limitandosi a chiedere al Governo un intervento con proposte  di difficile attuazione visto il contesto. Oggi però, è chiaro a tutti, che “buttare la palla in tribuna” non è più possibile.

D’altra parte l’ultima mossa (affidare al CNEL l’onere di individuare un percorso) segnala tutta la difficoltà del Governo di centro destra che intravede  il rischio, anche per l’iniziativa dell’opposizione sul salario minimo, di tensioni sociali difficili da mantenere sotto un livello di guardia accettabile. L’obiettivo, mentre passa la palla al CNEL, è quindi cercare di tenersi fuori. Almeno fino a quando sarà possibile. Sul tema, tra l’altro, il centro destra non ha molto da dire. Non ha tra le proprie file né le competenze né un’autonomia di pensiero sul lavoro dipendente in grado di proporre un patto autorevole sul modello Ciampi  e di riuscire a convincere le parti sociali a sottoscriverlo. Per ora sembra essersi accodato alle rappresentanze datoriali che, da parte loro,  non hanno una linea comune se non l’intenzione, questa si condivisa con i sindacati,  di scaricare i costi di qualsiasi intervento sulla collettività. Defiscalizzare gli aumenti salariali e intervenire sul cuneo fiscale questo significano.

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