Amazon. Una ripartenza di scuola Tesco (per ora) nel retail USA

Ad Andy Jassy, CEO di Amazon, sono bastati pochi mesi dalla sua nomina  per capire che la presenza nel retail fisico doveva essere ripensata dalle fondamenta. Il mercato  USA è saturo di marchi affermati ed è a basso margine. Questo significa che qualsiasi nuovo player deve essere particolarmente attrattivo se vuole imporsi e soprattutto stabilire una relazione duratura  con i clienti. Amazon ha acquisito Whole Foods Market nel 2017 per 13,7 miliardi di dollari. Un’operazione fondamentale  grazie alla caratterizzazione sul mercato dell’insegna acquisita. Ha così potuto beneficiare di un trasferimento di competenze dal settore retail ma, nel 2022, Whole Foods deteneva meno del 2% della quota di mercato alimentare, con i suoi circa 530 negozi rispetto alle migliaia di Walmart secondo i dati della Chain Store Guide.

Con il successivo lancio dei suoi negozi Fresh, Amazon ha così cercato, senza riuscirci, di attrarre clienti già frequentatori di grandi catene di alimentari come Kroger o Walmart senza però trovare un posizionamento per questi negozi che soddisfasse  veramente il consumatore ma che avesse senso anche dal punto di vista economico e quindi della redditività. “Ci stiamo lavorando sodo e vediamo alcuni segnali incoraggianti”, ha detto Jassy durante una recente intervista confermando che la società non aprirà nuovi negozi Fresh fino a quando non verrà individuata la soluzione ottimale per poi eventualmente estenderla.

“Il retail tradizionale è davvero l’ultima frontiera per Amazon in termini di crescita non sfruttata”, ha dichiarato Jordan Berke, CEO di Tomorrow Retail Consulting. “È il più importante comparto in cui Amazon  fatica a competere”. “Quando Amazon è entrata in questo business, l’ipotesi era che potessero usare la tecnologia per compensare l’ingresso tardivo per la mancanza di una grande rete fisica”, ha detto Karan Girotra professore alla Cornell Tech. “La speranza era che la tecnologia avrebbe dato loro un vantaggio, ma in realtà non è successo”.  I dati sul traffico analizzati da Bloomberg Intelligence mostrano che i clienti acquistano presso i concorrenti vicini molto più frequentemente di quanto non facciano nei punti vendita  Amazon Fresh.

L’obiettivo di Amazon è sempre quello di costruire un’esperienza di acquisto  best-in-class, diventando la prima scelta per selezione, valore e convenienza. Per accelerarne il raggiungimento, Jassy ha ingaggiato uno dei top manager migliori sul mercato nel retail internazionale per esperienza e percorso professionale, Tony Hoggett, strappandolo nel 2022 a Tesco. Una mossa decisiva per Amazon nella convinzione che il retail potesse essere riprogettato dalle fondamenta solo trovando il giusto mix tra la tecnologia, dove Amazon gioca il suo vantaggio competitivo, redditività, costi, centralità del servizio e orientamenti del consumatore dove la strada per l’azienda di Seattle resta ancora tutta in salita.

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Grande Distribuzione. Le retribuzioni non sono tutte uguali…

Mentre Governo e opposizione si confrontano a distanza sulla necessità o meno di introdurre il salario minimo legale, il costo del lavoro resta una delle principali voci di attenzione delle insegne della GDO e del comparto del commercio in generale. Il mancato rinnovo del CCNL scaduto nel 2019  è anche figlio di questo problema. Indipendentemente dalla direzione che si vorrà prendere esistono problematiche complesse nel comparto che imporrebbero una valutazione a tutto campo sui contratti nazionali, sulla loro effettiva copertura,  sulla loro attualità, sulla rappresentatività di chi li rinnova e sul loro costo. Sia riferito al cosiddetto “minimo tabellare” che è, di fatto un salario minimo ante litteram, applicato a milioni di lavoratori, che a tutto il resto, trascinamenti compresi.

Le insegne (almeno le più serie) non vogliono certo penalizzare i propri lavoratori. Nello stesso tempo non vogliono trovarsi caricate di eccessivi costi diretti e indiretti. Senza contropartite in grado di bilanciarne gli effetti e i trascinamenti il rinnovo, pur dovuto, rappresenterebbe  un sollievo per i singoli lavoratori in tempo di inflazione ma anche un costo complessivo  che si somma a tutta una serie di limiti oggettivi che impediscono recuperi a causa di un testo che ha fatto abbondantemente il suo tempo e che occorrerebbe riscrivere ex novo. Purtroppo questa mancanza di consapevolezza dell’inadeguatezza dello strumento, i suoi costi indiretti o  “nascosti”  che trascina senza alcun vantaggio per entrambe le parti, contribuiscono a creare una  situazione complessa  che andrebbe affrontata con tutt’altra visione.

Questa rigidità delle insegne nei confronti del regolatore nazionale non significa, però, che le imprese non abbiano una attenta gestione del proprio personale e loro precise politiche retributive. O che tutte si comportino allo stesso modo. Ovviamente non c’è solo l’aspetto economico ma se un giorno, anziché di bilanci, promozioni  o vendite al m2,  si decidesse di pubblicare la classifica delle retribuzioni nella GDO le due imprese top sugli aspetti salariali legati ai dipendenti inquadrati  nei contratti nazionali scaduti vedrebbero ai primi due posti gli eterni avversari  Coop ed Esselunga.

La prima è  la più rispettosa in assoluto dei contenuti  del contratto nazionale e della contrattazione aziendale. La seconda, meno disponibile sul versante dei rapporti con il sindacato ma con retribuzioni altrettanto significative. In aggiunta vanta le migliori retribuzioni per  quadri e dirigenti rispetto al sistema Coop. Esselunga ha poi una sua politica retributiva discrezionale, nettamente migliorativa del CCNL rivolta alle sue figure chiave.

Un gradino sotto ci sono le multinazionali francesi e tedesche con le seconde in crescita. Competitive con Esselunga su dirigenti e quadri e dotate di proprie politiche retributive specifiche ma con la contrattazione aziendale bloccata da anni (nel caso di Carrefour) o di tono minore alle prime due (Lidl). La seconda fascia è occupata dalle insegne che applicano esclusivamente il CCNL firmato da Federdistribuzione o da Confcommercio ma non hanno costi aggiuntivi derivati dalla contrattazione di secondo livello. Semplicemente perché non c’è o l’hanno abolita. Anche loro hanno una politica retributiva aziendale finalizzata alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane. Qui troviamo buona parte delle insegne più note. Più generose verso l’alto della loro gerarchia. Meno  verso il basso dell’inquadramento.

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Patto anti inflazione. Siamo al penultimatum dell’industria alimentare

Com’era prevedibile il cerino è ritornato in mano al Governo. Il patto trimestrale anti inflazione  va in stand by. Ma il governo sembra comunque deciso ad andare avanti. La ripresa autunnale si presenta quindi sempre più complicata per il Paese. Il ministro Urso ha deciso di allargare il tavolo convocando oggi in videoconferenza le associazioni della grande distribuzione e del commercio tradizionale — Federdistribuzione, Ancc Coop, Ancd Conad, Confcommercio, Confesercenti, CNA, Assofarm e Unifardisda — puntando alla sottoscrizione comunque di  un impegno comune entro il 10 settembre  sul trimestre anti-inflazione per «offrire prezzi calmierati su una selezione di articoli rientranti nel carrello della spesa e di prima necessità, nel rispetto della libertà di impresa e delle singole strategie di mercato».

Giustamente il Presidente di Federdistribuzione Carlo Buttarelli tiene il punto: «Sono mesi che chiediamo all’industria di mostrare senso di responsabilità verso le famiglie, abbassando, dove possibile, i propri listini di vendita», ma «l’industria di trasformazione, sollevando argomentazioni pretestuose e strumentali, si dichiara indisponibile: la distribuzione moderna conferma invece la volontà di continuare la collaborazione con il governo». Ottima decisione. Adesso bisogna lavorare per riportare tutti al tavolo. 

Centromarca e Associazione Ibc (Industrie Beni di Consumo) che insieme rappresentano le più grandi aziende italiane del settore hanno ribadito, da parte loro (per ora), il “Non debemus, non possumus, non volumus”  al ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Le ragioni sono contenute in una nota. “La marginalità delle aziende si è deteriorata a causa del forte aumento del tasso di sconto. Il quadro complessivo non consente previsioni realistiche sulla dinamica dei conti economici e sulle linee delle politiche commerciali dei prossimi mesi. Un’azione di controllo dei prezzi, a prescindere da queste variabili e dalle differenti condizioni delle singole aziende, rischia di pregiudicare la tenuta del tessuto produttivo (soprattutto delle Pmi) e la continuità dei fondamentali investimenti a presidio di qualità, sicurezza, sviluppo, occupazione e sostenibilità”.

“I bilanci industriali – prosegue il comunicato – registrano riduzioni dei margini, a conferma del fatto che, consapevoli della debolezza del potere d’acquisto delle famiglie, i produttori di beni di largo consumo hanno fatto quanto era in loro potere per trasferire con gradualità a valle gli extracosti anche incamerando negli anni scorsi contrazioni significative dei profitti. Nell’alimentare i margini per unità di prodotto hanno registrato una riduzione del 41,6%. L’Osservatorio Congiunturale Centromarca – Ref Ricerche evidenzia che lo scorso anno il 43,5% dei manager delle aziende alimentari e non food ha riscontrato profitti in diminuzione e il 6,2% ha prodotto in perdita. Nel 2022 le tensioni al rialzo dei costi, già in atto nel 2021, si sono accentuate. Leggi tutto “Patto anti inflazione. Siamo al penultimatum dell’industria alimentare”

Grande Distribuzione. Nasce (forse) ALDI Deutschland…

Nelle prime 10 aziende familiari in Germania ben due appartengono alla grande distribuzione.  Con un fatturato di 250 miliardi di euro, Volkswagen rimane il numero uno indiscusso della classifica, seguita dal gruppo Schwartz ( Lidl, Kaufland) controllato da Dieter Schwarz, considerato uno dei più grandi imprenditori della Germania con 125 miliardi di euro di fatturato, la casa automobilistica BMW (famiglie Quandt/Klatten) con 111 miliardi euro e il discount Aldi Nord e Sud (famiglie Albrecht) con una stima di 103 miliardi di euro. Un altro simpatico paradosso dei discount: non solo la “spesa intelligente”. Anche un “business intelligente”,  visti i risultati.

Due gruppi importanti che a casa loro si contendono il  primato. Due famiglie che non si sono attardate nella gestione diretta e hanno affidato a manager capaci e competenti le loro aziende. In una delle due si ritorna a parlare di riunificazione. È un argomento che è stato spesso citato e oggi ritorna di attualità. Margret Hucko e Ursula Schwarzer su “Manager Magazin” scrivono che questa volta potrebbe essere la volta buona: è forse in arrivo “Aldi Deutschland”.  Resterebbero però da chiarire “numerose questioni legali e fiscali”. E soprattutto sul piano organizzativo va sottolineato che esistono diverse culture manageriali, differenze salariali intorno al 25% tra i dirigenti, sovrapposizioni e duplicazioni di strutture. È ovvio, però, che si configurerebbe come uno dei più grandi accordi  dell’anno, se non del decennio. Almeno  in Germania.

Aldi Süd e Aldi Nord esistono dal 1961 sotto nomi diversi, quando i fratelli Albrecht- Karl (Sud) e Theo (Nord) decisero di dividere tra di loro le 300 filiali in Germania. Oggi ci sono più di 4.000 filiali Aldi solo in Germania. La rete si estende nel Regno Unito (dal 1990) negli Stati Uniti (dal 1976) fino all’Australia (dal 2001) e in Cina (dal 2017). In Italia Aldi è presente da  cinque anni. Per ora Aldi  non commenta. Il risultato sarebbe un impero della vendita al dettaglio  con 11.000 negozi in quattro continenti e oltre 240.000 dipendenti. Attualmente, Aldi Süd possiede circa 6.520 negozi e Aldi Nord gestisce circa 5.110 negozi. Inoltre, ci sono oltre 540 negozi Trader Joe’s negli Stati Uniti, di proprietà di Aldi Nord. Il fatturato futuro possibile può essere solo stimato.

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Grande Distribuzione, commercio e terziario. Il negoziato c’è. Mancano i negoziatori (e i soldi..)

L’altro giorno stavo chiacchierando con un bravo responsabile di punto vendita di un’insegna milanese. L’argomento erano le difficoltà a motivare la squadra di questi tempi, i giovani che faticano ad accettare questo tipo di lavoro come mai in passato e la presenza di dimissioni più marcate rispetto a qualche tempo fa. Lamentava che il cosiddetto “cliente interno” non fosse affatto una priorità da gestire per nessuno. Al di là dei proclami delle singole insegne. Una sua battuta mi ha fatto però riflettere.  In tempi di inflazione, di rinnovi di contratto nazionale rinviati, di congruità o meno dei salari non c’è molta sobrietà nelle dichiarazioni  delle insegne stesse. Capisco l’esigenza di molti manager o piccoli imprenditori  di veder confermato il loro ottimo lavoro  sottolineando  i  risultati 2022 e le premesse 2023 come titolo di merito personale o delle loro squadre. In tempi di inflazione occorrerebbe non dimenticare mai  il contesto economico sociale nel quale quei risultati vengono raggiunti. “Clienti interni” e dinamiche  economiche e politiche del Paese compresi.

C’è  in atto un braccio di ferro con la filiera a monte sulle responsabilità degli aumenti dei prezzi, c’è un’interlocuzione con il Governo per ottenere qualche utile sostegno in tema di riduzione del cuneo fiscale, i consumatori sono perplessi e indecisi con chi prendersela  per gli  aumenti e  il comparto è sotto attacco per la sua evidente insensibilità sociale. In questo  contesto sottovalutare il proprio ruolo e le conseguenti responsabilità nei confronti  dei propri collaboratori non segnala lungimiranza.  Difficile tenere su due piani distinti i propri risultati e la tutela dei propri clienti da una parte con le conseguenze economiche che coinvolgono l’insieme dei propri collaboratori. 

Seppure nelle stime preliminari, nel mese di giugno 2023, l’indice nazionale dei prezzi al consumo registra una variazione nulla su base mensile e un aumento del 6,4% su base annua, da +7,6% del mese precedente, la situazione è ben evidenziata dal recente lavoro del Centro Studi di Confindustria. Il costo dei generi  alimentari è salito dell’11,4% medio (26% nel quintile più basso) mentre quello dei ristoranti del 6,5% (dato Centro Studi Confindustria https://bit.ly/3NrI4fp). Si segnala una forte riduzione della spesa delle famiglie: -3,7% nel 2022 e -8,7% nel quarto trimestre del 2022 rispetto al primo del 2021. Una “zavorra” per i consumi totali, considerando che la spesa alimentare vale il 14% di quella complessiva, seconda solamente a quelle per l’abitazione (comprensiva di bollette).  Si può ipotizzare anche un effetto reddito, con le famiglie meno abbienti che hanno accumulato meno risparmi e ora subiscono una maggiore erosione del reddito reale, con un impatto soprattutto sui consumi alimentari.

La corda potrebbe spezzarsi presto e la percezione generale gioca tutta a sfavore del comparto.   Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria, lo ha appena dichiarato. “la manifattura ha visto il MOL diminuire del 5% dal 2019 ma i salari sono cresciuti del 5%. Il disequilibrio viene dal Commercio e dal comparto delle costruzioni.” Ovviamente quando si parla di Commercio in generale, la Grande Distribuzione è la prima a finire sul banco degli accusati visto che il piccolo commercio, la ristorazione e il turismo durante la pandemia hanno preso una serie di  “sberle” che, comunque andranno le cose, cambieranno i connotati di quei settori.

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La diffusione del Franchising. Da limite a opportunità per la Grande Distribuzione..

Personalmente credo che interrogarsi sull’espansione del franchising nel settore della GDO pur con le differenti formule adottate in tutta Europa significa cercare di  comprendere una parte delle traiettorie possibili. C’è troppa superficialità di giudizi per un comparto che cuba nel nostro Paese e nei differenti settori circa 1000 franchisor che a loro volta producono un totale di 54mila punti vendita in franchising tenendo conto che alcuni di questi possono essere pluri-franchising. Stiamo parlando di circa 25 mld di euro con  più di 200mila  addetti tra titolari di punti vendita e collaboratori.

Riflettere sul negozio del futuro, fisico o virtuale che sia, non risolve di per sé il tema della proprietà. Né della sua gestione. Che ci sia dietro un fondo di investimento, un singolo imprenditore visionario, una multinazionale, una cooperativa di imprenditori o un franchisor che gestisce uno o più punti vendita il discorso sostanzialmente non cambia. I modelli che si sono via via affermati dalla seconda metà del 900 in avanti in Europa sono tutt’altro che univoci.

In genere,  i commentatori  più tradizionali del comparto, quando parlano del franchising più che sul possibile potenziale futuro si fermano al problema dei vantaggi sui costi e sulla loro gestione. Una sorta di ripiego. La gestione di un punto vendita è però fondamentale per la tenuta del conto economico complessivo di un’insegna.  Recentemente in Belgio Delhaize  ha annunciato di voler  cedere tutti i suoi ultimi supermercati ancora di proprietà (128 pdv)  a imprenditori indipendenti. La maggior parte dei negozi  sono già in franchising. Operano con i marchi AD Delhaize, Proxy Delhaize e Shop & Go. Un totale di 636 negozi che utilizzano il nome Delhaize ma sono gestiti in franchising. L’azienda ha deciso di  continuare a investire a livello centrale in aree come la logistica, l’approvvigionamento e il marketing per fornire servizi ottimali alla sua rete di negozi.  Auchan a sua volta, ha deciso di fare un test in Francia cedendo agli affiliati 7 punti vendita in regioni diverse. Auchan, oggi ha solo 39 punti vendita gestiti da imprenditori indipendenti. Carrefour prosegue nel suo piano. Il franchising è il suo modello di sviluppo prevalente per i prossimi anni. Anche in Francia.

Sindacalisti e commentatori  spesso semplificano troppo concordando che solo il modello tradizionale, tipico della grande impresa del comparto del novecento, garantisca una unicità di gestione e un’immagine aziendale coesa. Gestione del personale compreso. È ovvio che sindacalisti e commentatori non frequentano da tempo i punti vendita delle insegne note e meno note per comprendere che non ci sono differenze significative  di gestione tra queste e i franchisee delle insegne più conosciute. Sopratutto laddove si utilizzano strutture terze (purtroppo anche cooperative spurie) per le attività legate alla logistica di supporto, ai servizi, alle emergenze e alla guardiania. Pratica diffusa quanto foriera, se non presidiata correttamente,  di possibili gravi conseguenze che si riflettono pesantemente sull’immagine aziendale. Leggi tutto “La diffusione del Franchising. Da limite a opportunità per la Grande Distribuzione..”

Grande distribuzione. Mancano gli addetti, il rinnovo del CCNL non c’è ancora e manca una visione comune del futuro.

Un tempo bastava osservare la quantità di CV che i giovani clienti (o i loro genitori)  lasciavano sul banco della regia del supermercato. O il passaparola tra gli specialisti. Poi si è passati all’interinale. Ragazzi che lasciavano presto la scuola, donne interessate a guadagnare qualcosa con un part time, esuberi delle diverse  ristrutturazioni di altre insegne o dell’industria foraggiavano il turn over o le aperture delle diverse aziende. Trovare personale non è mai stato un problema nella GDO. Tant’è che è aumentato sia il part time involontario che i tempi determinato. Quell’epoca si è però chiusa.

Aggiungo che in  Italia c’è sempre stata una certa ritrosia nella GDO nazionale verso lavoratori provenienti da altri Paesi pur essendo la norma altrove. Più per ignoranza, superficialità e scarso interesse delle insegne che per razzismo, da noi, la presenza di lavoratori stranieri nel punto vendita  è sempre stata vista anche da molti clienti con una certa diffidenza. ALDI, al contrario, dichiara con orgoglio la presenza nel gruppo  di 47 nazionalità differenti.  Così vale per LIDL o Carrefour. La forte ripresa economica  post lockdown ha poi dirottato ulteriori risorse in altri comparti facendo emergere le peculiarità e i limiti di quei  settori, ristorazione e commercio innanzitutto, ma anche quello della GDO, che pur avendo retribuzioni in linea con altri comparti, presenta modelli organizzativi non più particolarmente attraenti per  giovani e meno giovani rispetto a qualche anno fa.

C’è chi cerca di gestire comunque il problema. Ad esempio Tosano nel triveneto aggiunge al CCNL vitto e alloggio per chi vive ad oltre 55 chilometri. 19 ipermercati, tutti in  gestione diretta, 4000 dipendenti. Una realtà di punta del Gruppo Vegè. Le difficoltà a trovare personale sono abbastanza diffuse sul territorio. Altri rimodulano l’orario o vengono incontro alle mutate esigenze delle persone. Qualcosa si muove. L’aspetto economico è solo uno dei problemi. Forse nemmeno il principale. C’è un problema di scarsa attrattività del modello di  prestazione richiesta,  un altro legato alla costruzione delle professionalità specifiche. Un altro ancora legato alla gestione delle risorse umane nei punti vendita. Tanto celebrate durante il lockdown per la loro abnegazione.  Su di loro, oggi, è però calato il silenzio.

Occorrerebbe guardare oltre al proprio naso e ragionare in termini di settore. Costruire con le regioni e i ministeri opportunità di lavoro rivolte anche  ad altri Paesi, strutturare, attraverso i fondi interprofessionali percorsi formativi specifici, garantire inserimenti dopo pur adeguati periodi di prova. In altre parole, passare dal lamento contro i giovani e il contesto cinico e baro ad una politica comune che contribuisca a neutralizzare il problema. Leggi tutto “Grande distribuzione. Mancano gli addetti, il rinnovo del CCNL non c’è ancora e manca una visione comune del futuro.”

L’ultimo miglio. Un business da reinventare.

C’è un dibattito  in corso  in tutta Europa sui cosiddetti unicorni che popolano l’ultimo miglio. Alcuni chiudono, altri vengono acquisiti da concorrenti. Altri ancora si concentrano su alcuni mercati. Le aziende della GDO, oltre che con i loro negozi di vicinato, cercano sempre di più di coprire in proprio quel tratto di strada per garantire un servizio ai loro clienti. Nel frattempo i ministri del Lavoro Ue hanno raggiunto l’accordo sulle nuove regole a tutela dei rider e dei lavoratori delle piattaforme. Lo ha annunciato la presidenza di turno svedese del Consiglio Ue. Tra i punti principali della posizione comune dei Ventisette vi è l’inquadramento, secondo determinati criteri, dei lavoratori della gig economy come dipendenti, e non più come autonomi.  Una sorta di (difficile) quadratura del cerchio. Ne vedremo gli sviluppi.

Personalmente trovo questa attività  assolutamente utile.  Poter ordinare da casa prodotti o servizi, al di là di ciò che abbiamo dovuto affrontare con il lockdown è un passo in avanti. Va normata meglio, tutelati gli addetti e inserita in un contesto economico che garantisca una redditività.  Ma resta un servizio come qualsiasi altro. È però un lotta contro il tempo. C’è un modello di business da reinventare. Non basta puntare ad incrementare il numero dei clienti come nella fase precedente sperando in un loro consolidamento successivo. I conti devono tornare. E il servizio in sé, per ora, non è  in equilibrio economico.

La fase della pandemia ha illuso che la strada sarebbe stata solo  in discesa. Secondo McKinsey (https://mck.co/43MasAr) il mercato globale della consegna dell’ultimo miglio nel mondo  avrebbe dovuto raggiungere i 66 miliardi di dollari entro il 2026, dai 39.5 miliardi del 2020.  La mancanza di domanda per la consegna di generi alimentari in 30 minuti in Europa occidentale, l’aumento dei costi operativi e l’inflazione stanno rendendo difficile  la redditività costringendo startup come Getir a rivedere la loro strategia nei diversi Paesi per cercare di rilanciarsi. Da noi Gorillas e Sezamo hanno chiuso. I rispettivi Head Quarter hanno deciso di ritirarsi dai mercati ritenuti meno profittevoli o dove la ricerca della redditività sarebbe stata per lungo tempo più un miraggio che un obiettivo. 

La principale startup europea di quick commerce, Getir, sta considerando di chiudere tutti i suoi dark store in Francia oltre a quelli situati a Parigi dopo aver acquisito il rivale Gorillas nel dicembre 2022 per più di 1 miliardo di dollari. Il declino del quick commerce sta iniziando a sembrare veloce quasi quanto il suo successo iniziale. Sembra passato un secolo da quando Getir è stata lanciata, a metà del 2021, in Francia. Anche lì  aveva beneficiato di un contesto favorevole. I vari lockdown avevano reso la consegna rapida una risposta interessante. La startup turca era stata lanciata anche a Londra qualche mese prima.

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Grande Distribuzione e scarso peso politico. Bisogna guardare avanti…

Fino alla nascita del Governo di centro destra le diverse lobby, sempre molto attive, interagivano con la politica attraverso canali conosciuti e riconosciuti. La difesa dei legittimi interessi di parte era affidata a professionisti, o alla diverse associazioni di categoria, che veicolavano, a ciascun partito rappresentato in Parlamento o in altre situazioni,   le proprie determinazioni sulle differenti iniziative che la politica o le diverse istituzioni coinvolte  si apprestavano a mettere in campo. Era quindi la politica a dover trovare le mediazioni e le conseguenti sintesi necessarie.

L’equilibrio è di fatto saltato con il nuovo esecutivo. Innanzitutto perché alla base del successo elettorale dei partiti che compongono la sua maggioranza c’è l’impegno, più esplicito che in passato, di buona parte dell’associazionismo imprenditoriale dell’agricoltura, dell’industria e del commercio. Non prenderne atto è da ingenui. Affrontati  i due temi fondamentali sotto lo sguardo attento  del Presidente della Repubblica e attraverso un’assunzione di responsabilità diretta del Presidente del Consiglio sulle compatibilità economiche in rapporto con l’Europa e il nostro sostegno all’Ucraina nel quadro delle nostre alleanze militari il resto delle determinazioni, dall’agricoltura all’industria nazionale, dal commercio e dal turismo le scelte o le “non scelte” sono frutto di un lavoro di concerto con le rispettive associazioni di categoria.

Quindi le contraddizioni interne ai vari comparti o tra comparti, se non trovano una ricomposizione win win, vengono schiacciate da questi equilibri determinati dalla nuova situazione politica. La Grande Distribuzione, prima della nascita di questo Governo, contava sull’ascolto guadagnato dal mondo cooperativo e dal suo tradizionale rapporto con il centro sinistra che, a vario titolo, ha sempre partecipato direttamente o indirettamente al governo del Paese beneficiandone della sua attività di lobby oppure dei rapporti diretti che, a partire dai territori le diverse insegne si erano costruite con la politica, di destra o di sinistra che fosse, per far arrivare le proprie istanze. Il cambio di Governo e il riacutizzarsi dell’inflazione hanno spazzato via questi elementi di raccordo lasciando qualche  spazio ai rapporti diretti dove la convenienza reciproca ha giocato un ruolo determinante ma ha reso irrilevante   alle lobby principali il peso e le istanze della GDO.

Ovviamente le tradizionali divisioni interne del comparto  rendono difficile prenderne atto collettivamente e spesso si preferisce addebitarlo agli usi e alle consuetudini del settore: “È sempre stato così e non cambierà mai” è la risposta a chi lancia un allarme vero. Difficile quindi rimediare una linea comune tra “acerrimi” concorrenti che preferiscono comportarsi come i polli del Manzoni beccandosi tra di loro mentre vengono portati in polleria. La nuova situazione politica e la gestione del perdurare dell’inflazione potrebbero  però aprire uno scenario nel quale sarebbe necessario inserirsi. Per due ragioni. Innanzitutto perché i comparti a monte hanno interesse a spostare decisamente gli equilibri a loro favore. Per l’industria di marca e per l’agricoltura l’inflazione, se gestita con intelligenza, non è di per sé un male. Dopo lo spavento della pandemia e con una guerra all’orizzonte un po’ di fieno in cascina non guasta. Certo non sarà così per tutti. Ma tant’è. E poi è fondamentale esserci per un problema di potere. Se hai un asse forte con il Governo contribuisci ad individuare le soluzioni necessarie e dove spostare le risorse necessarie.  Sia nel primario che nell’industria. E, infine, un nemico facile da individuare serve a tutti. Lo vediamo già oggi in Spagna con le proposte strampalate di Podemos contro la GDO o nei discorsi sull’avidità  delle insegne in Gran Bretagna (la cosiddetta greedflation).

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Associazioni datoriali e imprese del terziario ad un passo dal possibile rinnovo del contratto nazionale

Ormai ci dovremmo essere. Ai primi di giugno ISTAT darà il dato di conguaglio IPCA 2022 (indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea). L’effetto di quel dato preoccupa le imprese che applicano il CCNL del terziario e della GDO per le conseguenze inevitabili sul costo del lavoro in un momento di forte tensione dovuto alla ripresa inflazionistica e alle conseguenze sui livelli di  consumo. Non traggano in inganno i fatturati gonfiati dall’inflazione. Un rinnovo di CCNL guarda necessariamente al futuro, ai prossimi 4 anni. E la storia è  ancora tutta da scrivere. La liturgia e la prassi delle relazioni sindacali non prevedono cambiamenti né adattamenti  al contesto. Al massimo ritardi applicativi. O come nel caso dei fornitori sconti e promozioni. Eppure la logica suggerirebbe una maggiore cautela sugli impegni economici da concordare in tempi di inflazione. I contratti, sindacali o meno, sono impegni economici le cui modalità di erogazione andrebbero modellati sul contesto. Non viceversa. Ma questo presuppone un salto di qualità che non è nelle corde dei giocatori in campo. Ciascuno cerca di difendere come può il proprio perimetro di riferimento.

L’incontro delle delegazioni al massimo livello prevista per i prossimi giorni ha questo scopo. Valutare la possibilità o meno di un affondo conclusivo. Sarebbe sbagliato non auspicare una conclusione. L‘Accelerazione  dovrebbe portare alla firma del contratto nazionale del terziario trascinando in un destino analogo gli altri tre contratti nazionali che ruotano intorno a quello firmato da Confcommercio applicato ad oltre 2 milioni ed 800 mila addetti. L’ultimo contratto nazionale firmato nel 2015 è scaduto  nel 2019. Il 12 dicembre 2022, le diverse associazioni datoriali (Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti, Coop) hanno sottoscritto un protocollo di settore con i sindacati di categoria Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs definendo una tantum di 350 euro e un acconto di 30 euro sui futuri aumenti contrattuali a partire da aprile 2023. Un piccolo passo in avanti. Molte aziende oggi spingono per chiudere la partita.

L’accordo è maturo e non sono utili a nessuno i giochi di ruolo  delle diverse associazioni per segnare i rispettivi campi da gioco. C’è un convitato di pietra al tavolo per ora ancora circoscritto: i cosiddetti “contratti pirata” che vengono spesso evocati dall’associazionismo di impresa e dai sindacati come nelle sedute spiritiche ma che, concretamente, nessuno sembra intenzionato ad affrontare sul serio.

Facciamo chiarezza.

Con il termine “contratti pirata” si intendono contratti collettivi sottoscritti da sindacati minoritari e associazioni imprenditoriali, a volte poco rappresentative, con l’obiettivo di costituire un’alternativa ai contratti collettivi nazionali siglati dalle organizzazioni più rappresentative. L’uso del termine “pirata” deriva dal fatto che tali contratti prevedono condizioni normative ed economiche inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati confederali (ad esempio retribuzioni minime inferiori; un minor numero di ferie o permessi, etc). Se volessimo essere pignoli anche i due contratti nazionali , firmati a suo tempo, da Confesercenti e Federdistribuzione con gli stessi sindacati confederali in dumping a quello di Confcommercio potrebbero essere definiti essi stessi una forma di contrattazione “pirata”  per attrarre associati. Ma tant’è. Arrivare a questo punto della vicenda non conviene a nessuno  sottilizzare. 

Tra gli indubbi svantaggi che l’applicazione di tali contratti in dumping sta portando è che si determina una proliferazione dei contratti collettivi. Pirata o meno. Visti dal versante dell’impresa, soprattutto quella piccola e media, “rappresentano la reazione adattiva di un sistema a basso valore aggiunto all’imposizione di continui oneri” come ha scritto recentemente  Mario Seminerio. Per uscirne non basterebbe certo prendersela con  i reprobi. Occorrerebbe, oltre ad un intervento deciso sul costo del lavoro e sulle normative, una legge che certifichi il peso degli aspiranti firmatari e quindi  chi debba essere titolare della contrattazione di categoria.

Ma se fosse così, i 3 contratti firmati da Confesercenti, Federdistribuzione e Confcommercio, che coprono in parte  lo stesso perimetro, come verrebbero “pesati”?  E, aggiungo, Confcommercio, ad esempio,  sarebbe disponibile ad accettare la richiesta di trasparenza prevista sul numero dei suoi  associati nei singoli sottosettori  e delle sue entrate economiche? Soprattutto da quelle provenienti da sottosettori che non si riconoscono nella confederazione di Piazza Belli. Ad oggi nulla è chiaro. Quindi la cosiddetta contrattazione “ pirata”, senza alcun intervento, rischia di proseguire il suo cammino  come prima. Anzi. Tenderà ad ampliare il suo raggio di azione. Sopratutto quando le insegne  operanti  sullo stesso territorio e alle prese con costi crescenti si trovassero ad applicare contratti di lavoro con differenze di costo anche superiori al 15%….

Aggiungo una nota di colore. Per dimostrare di saper gestire  i “malpancisti”  presenti nelle delegazioni di alcune  associazioni datoriali al tavolo negoziale,  Confcommercio  ha  provato  la classica mossa del cavallo: scavalcare i contratti pirata intervenendo in pejus su diritti e tutele del CCNL in rinnovo, in cambio dell’aumento salariale. Un rilancio inutile che più che accontentare i duri del negoziato rischia di trasformarsi, oltre che in una provocazione nei confronti del sindacato, in  un endorsement formale alla bravura dei consulenti del lavoro che, nei territori, si ingegnano a rielaborare i contenuti del CCNL abbassandone le coperture.

Criticare i contratti pirata e mettersi contemporaneamente la benda all’occhio e l’uncino per fingere di  “spaventare” i sindacati non credo sia particolarmente  saggio a questo punto del negoziato. A meno che non si tratti della classica furbata finale per gestire i riottosi seduti al proprio fianco. Vedremo presto se si è trattato del classico ballon d’essai fine a sé stesso da parte di chi tira le fila del negoziato o di una scelta consapevole foriera di conseguenze negative sull’esito finale.

Pur non essendo questo un rinnovo che verrà ricordato dai posteri per i contenuti innovativi, visto il contesto,  i margini per chiudere ci potrebbero essere.  Innanzitutto il sindacato ha ottenuto un primo risultato: il negoziato procede parallelamente con tutte le associazioni coinvolte come fosse lo stesso tavolo. Non è un risultato da poco. È, di fatto, un  passo importante che certifica l’impossibilità di riproporre  fughe in avanti come è avvenuto in passato. Approfittando del recente decreto lavoro, le parti potrebbero lavorare, ad esempio, sulle causali del lavoro a termine e definendo modalità e tranche dell’aumento salariale da spalmare sulla durata del nuovo CCNL.

Così come per alcuni articoli del contratto stesso che si sono usurati nel tempo e sui quali diversi aggiustamenti sono possibili senza alterarne gli equilibri.  e poi ci sarebbero da introdurre sperimentazioni sulle nuove tendenze e professionalità del lavoro nel terziario. Senza dimenticare  i quadri aziendali che in questi anni hanno visto crescere la professionalità richiesta, l’impegno  e il contributo al risultato aziendale. Per il sindacato non si prospetta comunque una partita facile. La pressione salariale sta salendo dal basso  così come le tensioni tra i sindacati potrebbero introdurre variabili imprevedibili allo stesso negoziato. Lo stesso vale per le aziende della GDO che stanno esaurendo tutti gli strumenti messi in campo per tenere sotto controllo il costo del lavoro e che guardano con preoccupazione gli anni di vigenza del nuovo CCNL.

È una partita molto delicata ma che è interesse comune chiudere presto. Non solo nel commercio e nel terziario. Quasi 7 milioni di persone su un totale di 12,8 milioni nel nostro Paese sono senza contratto nazionale rinnovato. Tre milioni gli addetti e le addette di turismo, commercio e ristorazione. Il contratto della vigilanza, è scaduto da sette anni. 591contratti nazionali scaduti al 31 dicembre del 2022. Mentre il costo della vita è in costante aumento, gli stipendi degli italiani non solo non seguono l’incremento dell’inflazione ma addirittura sono scesi nel tempo complice la stagnazione di PIL e della produttività. E questa situazione, se non governata, non promette nulla di buono. A questo punto del percorso non c’è alternativa all’accordo. Alla GDO verrebbe addebitata la responsabilità, oltre a quella strumentale del “caro carrello” pure quella di “irresponsabilità sociale”. Un disastro sul piano dell’immagine pubblica. C’è un vecchio proverbio ebraico che recita: “l’unico ostacolo al compromesso è un po’ di buona volontà”. Questo è il momento di dimostrarla.