Contratto metalmeccanici. Un negoziato vero.

Non me ne vogliano i molti amici che ho anche nel sindacato (e che vorrei mantenere) ma questa è forse rimasta una delle poche categorie che negozia sul serio e di questo gliene va dato atto.

Almeno oggi, giorno della firma del CCNL. Pur avendo inventato loro stessi la “legge del pendolo” hanno saputo metterla da parte al momento giusto e con una certa classe. Lo dico soprattutto pensando a Federmeccanica.

Da entrambi i lati del tavolo sono sempre stati seduti ottimi negoziatori e altrettante buone ragioni. Per questo un rinnovo di contratto dei metalmeccanici insegna sempre qualche cosa. Si apprezza in sé, come un buon vino.

Non è più sufficiente per cambiare verso al contesto sociale del Paese, né per mettere in difficoltà un Governo. Neanche può  fare scuola in altri settori ormai troppi gelosi della loro autonomia.

Però è ancora in grado di segnare i confini di una comunità specifica, ricca di stimoli e di idee, di indicarne un destino comune, di produrre un tratto caratteristico che accumuna sia i sindacalisti che gli imprenditori.

E quindi le rispettive basi di riferimento. Sono fatti della stessa pasta sia quando cercano di innovare che quando resistono al cambiamento. E, proprio per questo e sempre più spesso, fuori da quella comunità, i messaggi perdono quella carica emotiva e specifica che in quel perimetro, al contrario, funzionano da collante e da molla propulsiva.

Ne sa qualcosa Landini quando è stato tentato dalla coalizione sociale da cui è fuggito consapevolmente prima che fosse troppo tardi o quando, un dirigente metalmeccanico, entrando in una qualsiasi delle diverse segreterie confederali, ne perde immediatamente colore e calore.

Sono fatti così. Devono stare tra di loro per dare il meglio. Quando Sergio Marchionne, replicando a Diego Della Valle lo ha accusato di spendere in ricerca e innovazione quanto lui spende per un parafango si è iscritto anch’egli in quel club esclusivo. Perché, sia chiaro, non sono così solo i sindacalisti.

Fino ad oggi solo Pierre Carniti nella Cisl è forse riuscito a sfuggire a questa logica. Ma stiamo parlando di una figura forse irripetibile per il sindacalismo italiano post sessantottino. In un sindacato provato da mille battaglie, indebolito nei luoghi di lavoro, in crisi di strategia dove altre categorie si fanno avanti con numeri, iscritti e intese di tutto rispetto, quello che avviene in questo perimetro, resta ancora molto importante.

Innanzitutto perché il negoziato, qui, è ancora un vero negoziato. Entrambe le parti lo sanno bene. Quindi la preparazione segue una impostazione di scuola classica. Si studiano contenuti, mosse, concessioni, tempi e contropartite.

Nessuno concede nulla gratis e nessuno fa inutili passi falsi. I punti di partenza di questo rinnovo erano chiari. Federmeccanica avrebbe giocato una partita difficilissima dopo la vicenda FCA nel rapporto con i propri associati e dentro una Confindustria in fase di cambiamento ma anche in crisi e, dall’altro lato il negoziato si sarebbe dovuto chiudere, per la prima volta, con tutto il sindacato di categoria. FIOM compresa.

Lo stesso doveva valere per il gruppo dirigente dei metalmeccanici. Questa lealtà e questa visione di fondo, tutt’altro che scontata altrove, qualifica lo spessore qualitativo dei rispettivi gruppi dirigenti di cui, non solo per questo motivo, non è difficile prevederne l’evoluzione futura. Indubbiamente merce sempre più rara da entrambe le parti…

Tornando nel merito Federmeccanica aveva tre obiettivi. Iniziare a smarcarsi dal fordismo culturale e sindacale di cui il contratto nazionale dei metalmeccanici rappresenta il “Summa Theologiae”, ridurne la centralità del CCNL come soggetto di governo salariale e consentire alle aziende associate di tenere sotto controllo le dinamiche retributive e di costo del lavoro anche utilizzando tutte le opzioni messe a disposizione dalle nuove forme di welfare.

La proposta di “rinnovamento contrattuale” muoveva da qui. Aprire al futuro valorizzando le persone spostando il baricentro del coinvolgimento dove ha più senso e puntando decisamente al welfare contrattuale. Le “pretese” iniziali avrebbero rappresentato l’optimum desiderabile ma se il risultato va in quella direzione è certamente positivo.

Chi nel sindacato come Marco Bentivogli puntava nella direzione del cambiamento vero può essere altrettanto soddisfatto se si realizza un maggiore spazio per la contrattazione decentrata, quindi un maggior ruolo del sindacato nei processi di cambiamento e di innovazione, un passo avanti unitario sul welfare contrattuale e un grande risultato sul diritto soggettivo alla formazione.

Solo così si prepara il futuro della categoria. Senza dimenticare il mantenimento del contratto nazionale come elemento centrale da cui ne potrà discendere l’impianto deregolatorio successivo.

Un accordo win win dove entrambe le parti hanno esercitato un ruolo positivo e concludente.

Un contratto nazionale che guarda al futuro, apre all’accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil e a quel famoso “Patto della fabbrica” cuore della corresponsabilità di cui vorrebbe essere promotore il Presidente Boccia e, nel quale, sembrerebbe voler riporre tante aspettative.

Staremo a vedere. Per oggi facciamo i complimenti ai negoziatori. Nei prossimi giorni avremo modo di leggere con maggiore cura i singoli testi.

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