Il sistema della rappresentanza nel suo insieme è visibilmente in affanno. Sul fronte sindacale la Cgil sembra impegnata a rivitalizzare un’opposizione sociale di vecchio conio inseguendo i Cobas mentre Bombardieri sta riposizionando la “sua” UIL. La Cisl, da parte sua, propone il suo modello partecipativo con le controparti naturali, poco interessate a condividerlo. Strategie sindacali, sulla carta, tra loro difficilmente compatibili. La debolezza delle rispettive leadership, le difficoltà ma anche i rinnovi di alcuni CCNL, la condivisione paritaria dei sistemi della bilateralità che discendono proprio dai CCNL, porta però a ritenere improbabile un cambio imminente del quadro di riferimento e la conseguente rottura di un modello che ha resistito per decenni. Gli stessi scontri sul salario minimo o sui contenuti della legge sulla partecipazione sembrano coinvolgere più le forze politiche interessate a spingere alla rissa i tre sindacati confederali che altro.
Difficilmente questo Governo, e la maggioranza che lo compone, sosterrà fino in fondo le vere ragioni della CISL vista la contrarietà delle imprese. Ne le sosterrà, più di tanto, l’opposizione per l’eterogenea compagnia che la compone. Come si è visto da ciò che è uscito alla Camera, si è preferito individuare un testo che non scontenta nessuno e che consente laddove ci sia disponibilità, di consolidare il percorso partecipativo e, dove non c’è, di lasciare le cose come stanno. Continuo a non credere ad una rottura, con tutte le ricadute che comporterebbe perché non è interesse di nessuno dei tre sindacati. Intanto osservatori, militanti e tifosi delle forze in campo rischiano di parlarsi addosso alimentando le divisioni anziché offrire ipotesi di lavoro rispettando l’autonomia dei sindacati. Il punto è che queste discussioni appaiono sempre più distanti da imprese e lavoratori.
Nel mondo del lavoro è in corso una mutazione genetica che alimenta una polarizzazione. Da un lato precarietà, lavoro povero e basse retribuzioni per alcuni settori in forte crescita caratterizzati anche dalla presenza di immigrati di prima e seconda generazione, destinata ad accompagnare la discesa della popolazione residente con la conseguenza inevitabile che, tra ultimi e penultimi, qualsiasi ipotesi di solidarietà non prenderà corpo. Dall’altro lato siamo entrati in una rivoluzione del lavoro che necessiterebbe una forte presa di coscienza collettiva per coglierne il potenziale e gestirne le conseguenze. Relazioni industriali, contratti nazionali di lavoro e bilateralità dovrebbero fornire strumenti di riferimento condivisi. Qualcosa si muove a macchia di leopardo nelle categorie ma, sostanzialmente, si naviga a vista.
Quello che è certo è che stiamo passando da una fase dove i giovani cercavano un entrata nel mondo del lavoro che consentisse loro, nel tempo, la realizzazione di un progetto professionale e di vita ad un’altra dove i lavori cercano, non sempre trovandoli, lavoratori disposti a continui cambiamenti. Le aziende non sono più in grado di garantire nulla sul lungo periodo se non proporre patti e percorsi, a tempo, di reciproco interesse. Infine chi cade dalla “giostra” si trova solo, a gestire il suo problema. Troppo giovane per andare in pensione, spesso non preparato al cambiamento, o ritenuto inadatto a rientrare in attività alle condizioni economiche e normative precedenti. In questo clima di sostanziale solitudine delle persone i progetti collettivi che hanno caratterizzato le generazioni del boom economico e poco oltre non sono più facilmente riproponibili. Resistono gli apparati burocratici, i funzionari e i militanti che li sostengono.
L’associazionismo, datoriale e sindacale, dichiara una sostanziale tenuta delle adesioni, pur in assenza di certificazioni credibili. Di fatto ha però perso, in buona parte, la sua tradizionale capacità di farsi ascoltare dalla società nel suo complesso e quindi di iniziativa, oltre i propri confini organizzativi. Restano i contratti, nazionali e aziendali, laddove resistono. O dove la lungimiranza di chi gestisce quelle realtà (aziendali e sindacali) insiste per mantenerne vivo il valore e ciò che rappresentano in termini di coinvolgimento e consapevolezza. Nei corpi sociali, presi dai loro riti e dalle loro liturgie, c’è un profondo deficit di democrazia interna in un contesto esterno dove le risorse economiche rivendicabili sono poche e le priorità molte di più.
Oltre a questo c’è un evidente problema di qualità dei gruppi dirigenti perché i meccanismi di selezione fanno leva esclusiva sulla fedeltà e sull’omologazione. Sia sul fronte datoriale che su quello sindacale si palesa una insufficiente autorevolezza e una mancanza a di leadership riconosciuta fuori dal proprio perimetro di riferimento, elemento fondamentale, per ricomporre forza e ruolo sociale. L’associazionismo di impresa, da parte sua, è finito in un angolo. Non sembra in grado di reagire né in termini negoziali con il Governo e la Politica né in termini di iniziativa. La difficoltà a rimettere in moto il cosiddetto Partito del PIL, nasce da qui. Confcommercio conserva un primato poco invidiabile sull’intero mondo della rappresentanza datoriale mostrando l’impossibilità di rinnovare le proprie leadership (non solo al centro del suo Sistema) e così ripropone ciò che ha all’infinito.
Diventa persino ovvio convincersi che un uomo che va verso i novant’anni possa rappresentare la rivoluzione che attraversa il terziario italiano. Nel 2022 quando il Presidente dí Confcommercio si apprestava ad ottenere l’ennesima conferma alla Camera di Commercio di Milano avevo previsto che la disponibilità alle dimissioni a metà mandato era un semplice espediente per tacitare i gli “ingenui” negoziatori di Assolombarda che puntavano ad un cambiamento e scrivevo: “Sangalli in questo è unico. Lui procede per obiettivi. Adesso deve arrivare al 2025. Poi ci saranno le Olimpiadi invernali del 2026. E poi succederà sicuramente qualcosa d’altro che gli imporrà, di restare”. E così sta avvenendo. Lo stesso vale oggi in Confcommercio. Da qui tutte le ipotesi fatte circolare e tutti gli artifici messi in campo, a livello di norme e statuti per spostare il più in là possibile ogni ipotesi di successione all’attuale Presidente.
Le altre associazioni, pur con meccanismi elettorali meno ingessati, non vanno molto più in là. Azzardano cambi e avvicendamenti con maggiore regolarità confermando il rispetto delle loro regole ma, nella sostanza, non propongono leadership in grado di misurarsi e di incidere sul contesto per evidenti contrapposizioni interne. È ovvio che ci sia malumore tra gli imprenditori. Manca chi possa interpretarlo pur in presenza di un Governo ritenuto “amico” con i partiti che lo compongono votati in massa dagli imprenditori. Per assurdo, si salva Coldiretti, perché ha deliberatamente scelto di mimetizzarsi nel sistema muovendosi, nel rapporto con la politica, come Arturo Brachetti, il più grande quick change performer del mondo, interpretando contemporaneamente più parti in commedia, a seconda dell’interlocutore a cui si rivolge.
Eppure un loro apporto costruttivo sarebbe decisivo in questa fase. L’orizzonte economico e sociale, segnala incertezze evidenti visto che, escluso il mercato dell’auto, l’Italia è, di fatto, il quarto Paese esportatore in virtù di una specializzazione merceologica estremamente diversificata. Come si fa quindi a non accorgersi che sta mancando il ruolo e l’interlocuzione propositiva di un tassello fondamentale della nostra democrazia? Notarne la presenza più su ciò che li divide, per quanto riguarda i sindacati, o sulla scarsa incidenza negoziale per ciò che riguarda le priorità economiche dell’associazionismo datoriale ne sottolinea l’irrilevanza. E non siamo ancora arrivati ai referendum che, nei prossimi mesi, politicizzeranno lo scontro coinvolgendo l’intera rappresentanza sociale e distraendo il Paese dai problemi reali.