Inquadramento contrattuale. Sarebbe ora di metterci mano. (1)

Mettere mano all’inquadramento contrattuale, definito negli anni 70 del secolo scorso, non sarà cosa semplice. Il rischio che si renda la materia, aleatoria e discutibile, è molto alto pur convenendo tutti che si tratta ormai di un modello datato sicuramente da cambiare.

E da questo punto di vista le aziende preferirebbero non correre rischi inutili. Due aspetti importanti vanno considerati. Il primo relativo ai limiti già oggi presenti e che cercherò di trattare in questa prima parte. Il secondo relativo al futuro, ormai sempre più prossimo quando, grazie alla tecnologia e alle nuove leve lavorative, luoghi e tempo di lavoro, perderanno sempre più di significato. Argomento che cercherò di trattare in un secondo momento.

L’art. 2095 del Codice Civile, definisce “categorie legali” le quattro tipologie di lavoratori subordinati (dirigenti, quadri, impiegati e operai) mentre i diversi contratti hanno assegnato nel tempo, livelli, declaratorie, mansioni e qualifiche.

Di conseguenza l’appartenenza di un lavoratore ad una categoria, livello o qualifica, stabiliti nella contrattazione collettiva, determina, in buona parte, lo status aziendale e il trattamento economico-normativo applicato.

I contratti nazionali, nel tempo, hanno cercato di aggiungere senso e contenuto alle quattro tipologie previste dalla legge definendo, intorno ad esse, mansionari, automatismi, scale parametrali, ecc. A volte anche livelli aggiuntivi.

Nelle intenzioni sindacali questi sforzi hanno sempre puntato a creare le condizioni per una possibile crescita professionale continua dei lavoratori privilegiando, ovviamente, l’aspetto collettivo. Quindi la mansione in sé, semmai collegata all’anzianità, mai la qualità della prestazione e/o il suo mantenimento o la sua manutenzione nel tempo.

Per le imprese, che hanno sempre teso ad investire selettivamente sulle risorse umane, l’obiettivo è sempre stato quello di avere certezze sui costi e la corrispondenza tra declaratoria e lavoro effettivamente svolto. Ovviamente con l’intento di valorizzare la qualità della mansione, le capacità e le competenze personali richieste in rapporto agli obiettivi aziendali. Quindi privilegiando esssenzialmente l’aspetto individuale.

Gli esperti di organizzazione in azienda, nel tempo, hanno dovuto necessariamente declinare nuove terminologie, range retributivi, pesature di posizioni e ruoli specifici per cercare di gestire, contemporaneamente al necessario rispetto dei sacri testi negoziati con il sindacato, il mercato di riferimento, i linguaggi nuovi e gli inquadramenti aziendali riconoscibili e confrontabili nelle diverse realtà e in differenti Paesi, adatti a gestire la motivazione, il merito, il mercato e sviluppare il talento, che poco si conciliavano e si conciliano con la cultura tayloristica imperante nei dettati contrattuali o nell’aridità lessicale del codice civile.

E, per questo, l’utilizzo, a volte a proposito, ma spesso anche a sproposito, della lingua inglese ha dato un contributo significativo per aggirare numerosi ostacoli. Ovviamente la tradizionale cultura contrattuale di stampo fordista ha lasciato irrisolti due problemi. Innanzitutto la rigidità del sistema. Indipendentemente dal contesto economico e temporale in cui il lavoratore opera, è stata sempre prevista solo la possibilità di crescere o, al massimo, di non decrescere economicamente e professionalmente.

In altre parole il minimo tabellare, contrattualmente definito, salvaguarda il reddito raggiunto dal singolo lavoratore al di là del contenuto della mansione effettivamente svolta in un dato momento e del tutto indipendente dalla qualità della prestazione.

Questa impostazione che ha indubbiamente garantito il lavoratore fino a pochi anni fa, oggi, in caso di crisi aziendale o anche semplicemente a seguito dell’allungamento della vita lavorativa, rischia di ritorcersi contro il lavoratore stesso. O almeno di renderlo più debole ed esposto alla concorrenza dei lavoratori più giovani in azienda sul piano dei costi ma anche per la scarsa impiegabilità sul mercato del lavoro.

Collegato a questo diventa fondamentale il tema della formazione continua e della necessità che questa sia funzionale al mantenimento e all’arricchimento della professionalità del singolo, in azienda, ma anche in rapporto al mercato del lavoro con cui il lavoratore si dovrà, sempre più, misurare. Il secondo problema è dato dalla relazione tra inquadramento e costo del lavoro complessivo.

L’azienda oltre a dover gestire un carico fiscale e contributivo eccessivo spesso sconta un disallineamento tra inquadramento contrattuale e mansione effettivamente svolta dal singolo lavoratore. Disallineamento non facile da risolvere. Le stesse recenti innovazioni del Jobs act sul tema del demansionamento non hanno risolto il problema e quindi, sul punto, non è cambiato sostanzialmente nulla. Anzi. L’idea stessa che si possa abbassare l’inquadramento formale del lavoratore ma non la sua retribuzione la dice lunga sull’approccio utilizzato.

Le imprese in passato hanno mascherato questa esigenza di “svecchiamento” complessivo legato ai costi con procedure di mobilità ad hoc e interventi “spintanei” almeno fino a quando questo è stato possibile, spesso concordandole con i sindacati. La carenza di risorse pubbliche e la modifica dei requisiti pensionistici hanno riaperto il problema nella sua dimensione reale di cui, i cosiddetti “esodati”, hanno costituito solo la punta dell’iceberg. Troppo vecchi per restare in azienda, troppo giovani per andare in pensione.

Le proposte di intervento a sostegno del reddito degli over 50 e gli scivoli per i lavoratori a pochi anni dalla pensione segnalano la persistente urgenza del problema e la necessità di trovare risposte differenti. Quindi di riprendere il tema del demansionamento effettivo.

La possibilità di formarsi e di riposizionarsi professionalmente nella impresa e sul mercato è un passaggio ineludibile ma questo impone di affrontare con urgenza il tema delle politiche attive e della qualità della formazione a completamento del Jobs act. Esiste indubbiamente un problema di approccio culturale che coinvolge le imprese e che riguarda la necessità di ritornare a considerare importante e ineluttabile l’impiegabilità degli “over” ma esistono anche problemi legati ai costi, alla flessibilità e alla rigidità dell’inquadramento contrattuale che non possono essere scaricati esclusivamente sulla singola azienda e quindi, di converso, sul singolo lavoratore.

Rivisitare i vincoli di legge e l’inquadramento con l’obiettivo di separare ciò che è destinato a tutelare una sorta di reddito minimo da ciò che può modificarsi (in su o in giù) in campo professionale nel tempo e ciò che deve essere messo in rapporto ai risultati aziendali significa spingere in direzione di un maggior coinvolgimento dei lavoratori sulla loro maggiore responsabilizzazione nel lavoro, sull’andamento economico e, contemporaneamente, far crescere nelle persone una maggiore consapevolezza della necessità di continuare a formarsi.

Per questo la rivisitazione dell’inquadramento professionale è necessaria. Lo è ancora di più se la consideriamo una leva determinante del cambiamento culturale dei lavoratori e delle imprese.

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