Lavoro debole o contratto debole?

Nell’articolo del prof. Ichino “nuovi strumenti per sostenere chi è più debole” trovo spunti interessanti che mi spingono ad un approfondimento.

Sono assolutamente convinto che, al di là del tema della produttività e del suo calcolo, i nuovi modelli organizzativi incentivano la proattività e quindi è inevitabile che, tra due persone pur inquadrate nello stesso livello contrattuale, la resa sia profondamente diversa.

Da qui, il prof. Ichino ne fa discendere un giudizio di inadeguatezza del contratto nazionale e una sua preferenza verso altri modelli da costruire. Sempre però ipotizzando (e qui sta la mia prima perplessità) un sistema dove l’individuo, attraverso un percorso formativo può solo crescere professionalmente ed economicamente.

Questa impostazione (legittima) sottende l’attuale codice civile, lo stesso statuto dei lavoratori e i CCNL. Tutti prodotti del secolo scorso. La realtà che attende chi si affaccia nel mondo del lavoro è però un’altra. È fatta di discontinuità, mobilità, ripartenze, successi e fallimenti.

Quindi, sul versante personale (e qui sono d’accordo con lui) sono fondamentali strumenti utili a mantenere capacità e competenze spendibili sul mercato.

Sul versante aziendale l’inadeguatezza non è nel CCNL di riferimento in sé ma è nel combinato disposto dato dal codice civile, dallo statuto dei lavoratori e dal CCNL sotto l’aspetto dell’inquadramento professionale, delle declaratorie conseguenti e della struttura del salario.

Sostengo da tempo che la retribuzione dovrebbe essere costituita da tre parti. Minimo base, superminimo professionale e incentivo di partecipazione. Dove il primo è uguale per tutti e contrattato nazionalmente, il secondo, definite le forbici minime e massime a livello nazionale, potrebbe essere poi articolato a livello aziendale e, infine, l’incentivo di partecipazione sui risultati, le performance o quant’altro può essere utile a ingaggiare, coinvolgere e condividere tra impresa e lavoro, a livello aziendale.

Ovviamente solo la prima parte sarebbe scontata. Le altre due dovrebbero essere  strettamente correlate una, alla professionalità concretamente espressa (quindi non acquisita per sempre) e l’altra, ai rischi e alle opportunità che l’impresa vive nel suo contesto competitivo.

Il CCNL può definire tutte le materie di sua competenza e quelle decentrabili, il welfare contrattuale (sanità e previdenza),  la formazione come diritto soggettivo, diritti e doveri  e infine le deroghe necessarie affinché uno strumento come il contratto nazionale sia flessibile e adattabile ai mutamenti di contesto.

L’esempio recente del CCNL del terziario che, senza alcuna polemica o ritardo, ha posticipato la tranche di aumento prevista a novembre rappresenta una dimostrazione di ciò che sarebbe ulteriormente ipotizzabile.

Il lavoro cambia. Ad una commessa di un supermercato qualche decennio fa veniva chiesto di passare il più velocemente possibile i pezzi alle casse e su questo veniva valutata.

Oggi le si chiede anche di ascoltare il cliente, di aiutarlo nelle sue scelte, di essere pro attiva e disponibile anche la domenica. Ma non guadagna né può pensare di guadagnare di più. E, se si mette di traverso, non ha vita facile.

Può però mettersi in gioco per crescere in altri ambiti aziendali. Spesso è difficile spiegare a degli osservatori esterni cosa è il lavoro oggi. Quello visto da chi rischia di perderlo.

Non è solo fare o saper fare un mestiere. Né saperlo fare bene. È anche saperlo mantenere, potersi valutare, sviluppare relazioni utili per quando lo si perderà, magari avere consigli sui percorsi formativi necessari oggi e domani.

Le aziende non investono su numeri. Investono sulle persone sulle quali ha senso investire. Quindi non su tutti. Oggi non ci sono garanzie per nessuno (al di là della retorica sull’art. 18).

Impresa e collaboratore a qualsiasi livello, pur in posizione asimmetrica, hanno interesse ad uno scambio che dura fino a quando la convenienza è reciproca. Questa situazione sarà sempre più marcata nel contesto globale. Basti solo dire che oggi le persone vivono più delle aziende. Cosa impensabile fino a pochi anni fa.

È quindi necessario creare contesti collaborativi nuovi dentro e fuori dall’impresa. Altrimenti si farà strada un modello darwiniano dove pochi ce la fanno e gli altri si dovranno arrangiare. Il CCNL può essere uno di questi contesti.

Certo occorre un sindacato diverso e un’impresa diversa. Io lo credo possibile. Forse, il prof. ichino, meno.

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