Nell’interessante relazione di Matteo Renzi al Lingotto il tema del lavoro non ha avuto il rilievo e la visione che, a mio parere, dovrebbe avere per un Partito come il PD.
Catastrofisti di professione e innovatori acritici hanno sempre condizionato, ciascuno a modo loro, il dibattito su questo tema lasciando il campo libero a chi prometteva che, il semplice intervento sul versante delle regole, avrebbe rimesso in moto un circolo virtuoso in grado di creare lavoro e mettere di conseguenza in soffitta vecchie teorie e rigidità conseguenti.
Nel nostro Paese, più che altrove, occorre aggiungere che la fragilità propositiva e di iniziativa delle parti sociali, unitariamente intese, ha contribuito ad impedire l’apertura di un confronto costruttivo a tutto campo sul futuro dell’impresa e del lavoro, della scuola, sul reddito disponibile, sulla quali/quantità del lavoro e sulla sua distribuzione.
L’unica cosa su cui (purtroppo) si sono tutti trovati d’accordo, pur muovendo da posizioni ed esigenze differenti, è stata la negazione di ciò che alcuni sociologi, economisti e giuslavoristi (Marco Biagi in particolare) avevano cercato di porre all’attenzione del mondo politico soprattutto di sinistra: il cambio di paradigma in atto e la necessaria revisione di tutta una impostazione sempre più inefficace.
E così, politica, aziende e sindacati si sono continuati a muovere su binari paralleli interpretando autonomamente le reciproche esigenze incontrandosi solo per gestire le conseguenze di quelle che erano ritenute “solo” crisi di singole, seppur importanti, realtà aziendali e degli strumenti per affrontarle. Oppure limitandosi a rimuovere semplici aspetti regolatori scambiando il dito con la luna.
L’assurdo è che, mentre crescevano nella società paure e disagi profondi soprattutto tra le nuove generazioni e in chi, espulso dal lavoro, non riusciva a rientrarci, il dibattito è diventato lontano, quasi surreale. Tutto rinchiuso tra gli addetti ai lavori o confinato mediaticamente su di un pallottoliere attraverso il quale, ogni giorno, venivano contati e rappresentati i successi o gli insuccessi della politiche occupazionali nel disinteresse generale.
Il referendum del 4 dicembre ha suonato la sveglia per tutti. Soprattutto per chi ha creduto possibile un cambiamento profondo del Paese prescindendo dal consenso necessario. O limitandosi ad interpretarlo. Senza consenso si possono fare prelievi forzati sui conti correnti, aumentare le tasse o modificare d’autorità il sistema previdenziale ma non si può cambiare il Paese. Né gettare le basi per poterlo fare. Questa è la vera lezione del 4 dicembre. Almeno secondo me.
Per questo un partito come il PD non può limitarsi a ribadire l’impegno verso l’art. 1 della nostra Costituzione. O limitarsi a rilanciare la filosofia del Jobs Act contro (tra l’altro) ad una buona parte del proprio elettorato. Dovrebbe sapere andare oltre.
Ben ha fatto il candidato segretario a rimettere al centro la scuola e l’alternanza scuola lavoro ma sul lavoro la posizione resta debole. Astratta.
Non si parla di nuove forme di collaborazione tra capitale e lavoro, di condivisione dei rischi e delle opportunità nelle imprese e nelle filiere economiche e produttive, di partecipazione dei lavoratori, di merito, di nuovo welfare, di diritti e di doveri. E non solo per i lavoratori. Anche per le imprese.
In un anno nel nostro Paese vengono spediti (inutilmente) oltre 140 milioni di CV. Come rispondere a fenomeni ed esigenze nuove di queste dimensioni? Solo a Bordeaux sono almeno 700 i bikers consegnatari. La CGT sta cercando di organizzarli. Quanti dovranno essere qui da noi prima che qualcuno affronti il problema in modo organico? Così come le nuove forme di lavoro autonomo indotte o create dalla rete. È sufficiente esaltarne le potenzialità senza farsi carico delle conseguenze? Altri, in altri Paesi, stanno cercano di gestire queste situazioni.
E quale dovrà essere il rapporto con le istanze del sindacato o con l’insieme delle rappresentanze sociali, anche datoriali? Soprattutto di quelle rappresentanze che cercano di interpretare l’innovazione e il cambiamento. Passare dall’io al noi è importante solo se il “noi” crea un ponte con il resto della società e dei soggetti che già vi operano con una discreta sintonia con le persone e i territori e con cui si devono condividere problemi e soluzioni all’interno di un operazione di verità e di trasparenza.
Non basta accorgersi di essersi ritrovati improvvisamente lontani dalle periferie o dalla concretezza dei problemi delle persone come hanno fatto alcuni esponenti rimasti o usciti da poco dal Partito Democratico. La visione nasce da questa consapevolezza. Altrimenti restano solo parole.