Le difficoltà dei passaggi generazionali nelle aziende (anche) della GDO

Il tema del passaggio generazionale nelle aziende, non solo in quelle delle GDO  riguarda, nel nostro Paese, tre imprese su quattro.  Nei prossimi 20 anni, passeranno di mano, tra generazioni, circa  90 mila miliardi. Un trasferimento di ricchezza che comprenderà non solo patrimoni liquidi ma anche immobili e, soprattutto, partecipazioni in società familiari di diversa struttura e dimensione. Secondo una ricerca del Family Firm Institute nei prossimi 5 anni il ricambio generazionale riguarderà 1 azienda familiare su 5.  Duemilioni di imprese italiane nei prossimi 10 anni. Stiamo quindi parlando di un tema decisamente importante.

Per l’Italia rappresentano un asset strategico decisivo perché siamo il Paese con la più alta concentrazione di imprese familiari a livello europeo. I dati di Aidaf, l’associazione italiana familiy business, ci mostrano anche che le imprese familiari sono tra le più resilienti alla crisi. L’Osservatorio Aub (AIDAF, UniCredit, Bocconi) sostenuto anche da Borsa Italiana, Camera di Commercio di Milano MonzaBrianza Lodi, e Fondazione Angelini)    ha analizzato i dati economici di oltre 11.000 imprese familiari; i dati ne segnalano lo stato di buona salute. Dopo la pandemia sono cresciute in fatturato, redditività e in solidità.  Il tema non evidenzia soltanto un problema economico, di eredità che riguarda solo chi ne è coinvolto, ma anche storico, relazionale, culturale e quindi di legame con i territori di origine.

Imprese presenti in ogni settore, che sono state capaci di crescere grazie ad abilità distintive, flessibilità decisionale, cultura del lavoro, coinvolgimento dei collaboratori, leadership dell’imprenditore, con performance di crescita assolutamente straordinarie. Se analizziamo la personalità degli imprenditori della GDO di successo partiti dalla seconda metà del novecento in quasi tutti troviamo una leadership naturale molto forte, una capacità di osservare e focalizzarsi sui   dettagli, una rapidità decisionale, una predisposizione al rischio, una capacità comunicativa e di coinvolgimento, interna e esterna, un’etica calvinista del lavoro. Ovviamente caratteristiche presenti con pesi diversi nei soggetti presi ad esempio, a seconda del contesto economico e sociale di riferimento. Crescere e lavorare in Lombardia, in Campania o in Sicilia, non è la stessa cosa.

Caratteristiche individuali che non sono facilmente trasmissibili in un passaggio generazionale né spesso funzionali nell’educazione dei figli destinati a subentrare nel business. Delle imprese familiari coinvolte ogni anno in un passaggio generazionale, mediamente solo il 30% circa di esse sopravvive con la seconda generazione, solo il 12% con la terza, ed un esiguo 3% continua ad operare oltre la quarta generazione. Il 66% delle aziende familiari italiane ha un management composto da componenti della famiglia, contro poco più del 30% della media degli altri paesi europei. I top manager sono pochi e difficilmente godono dell’autonomia necessaria.

Purtroppo la verità è che manca una scuola per imprenditori, nel mentre ci sono scuole d’impresa. L’imprenditore spesso costruisce la sua organizzazione a propria immagine, non concependo che sta realizzando una struttura che deve andare oltre la sua vita e il suo carattere. Difficile quindi imparare a delegare in situazioni di questo tipo. I figli, se presenti in azienda, poi, creano talvolta più problemi che soluzioni.  La coesistenza non è facile. Esistono, ovviamente, anche realtà virtuose  dove il coinvolgimento e i passaggi avvengono nei modi e nei tempi giusti. Però non è così in molti casi. In GDO ne abbiamo di esempi illustri. C’è il caso dove è l’anziano proprietario che non sa decidersi quando e come farsi da parte. Talmente innamorato della sua creatura che non la vuole lasciare gestire a nessun altro. Massimo Recalcati, in un suo articolo, cita Nietzsche quando parla dell’arte di saper tramontare, e di saperlo fare al momento giusto, senza indugio, senza recriminazioni o malinconia.

Nella GDO poi, come dice il proverbio, “l’occhio del  padrone ingrassa il cavallo”.. L’attenzione ai dettagli, l’ascolto del cliente, il rapporto con i fornitori sono parte del mestiere. A differenza delle proprietà, queste  caratteristiche, non si ereditano. O ci sono o non si sono. E, se non ci sono, occorre pensare, per tempo, ad una struttura manageriale funzionale che affianchi gli eredi.

C’è quindi un’arte del congedo che non tutti conoscono e sanno praticare. C’è una naturale tentazione a restare sempre sotto le luci della ribalta, a rimandare il momento del passaggio delle consegne. Spesso, dall’esterno, si giudicano fior di imprenditori sulla loro incapacità di passare la mano. In molti casi è così. In altri casi i figli non sono all’altezza dei padri. Alcuni padri hanno il coraggio di lasciarli in panchina altri cincischiano sperando di trovare una soluzione manageriale esterna per affiancarli ed evitare guai. Vendere l’azienda è una delle soluzioni possibili. Molto difficile di questi tempi.

Resto convinto che, Bernardo Caprotti, quando ha messo fuori dall’azienda il primo figlio, ha deciso che la “sua” azienda non avrebbe retto un’altro tentativo di  successione. Per questo, credo, ha  provato, in quegli anni,  a cederla. Non riuscendoci, si è raccomandato, innanzitutto  con la moglie che, nella transizione, i bottoni veri nella stanza fossero tenuti dal manager di cui si fidava, e che era andato tempo prima a riprenderselo in Cina, da Metro.  Esselunga, a suo giudizio,  non era in grado di reggere cambi di marcia troppo bruschi. Il poco tempo concesso allo stesso Sami Kahale lo dimostra. L’azienda, oggi pur non brillando, regge la navigazione perché i fondamentali sono a posto e la concorrenza resta a debita distanza. E questo,  pur perdendo qualche colpo dovuto a decisioni non particolarmente ponderate, a ingenuità gestionali che l’anziano leader non avrebbe mai commesso. Un’azienda si può ereditare. Competenze, visione del business  e autorevolezza, no. Si costruiscono nel tempo. 

Patrizio Podini, al contrario, sta provando a muoversi per tempo. L’azienda è in crescita, e, pur lontana da Eurospin e Lidl, può dire la sua. Anziché insistere per cederla, operazione oggi non facile, ha favorito la costruzione di una squadra di giovani manager in grado di accompagnare figlia e nipoti nel  passaggio generazionale, coordinati da un direttore commerciale di lungo corso e dal suo vigile sguardo. Altri, al sud, hanno dovuto fare di necessità virtù dovendo subentrare, per forza, da giovani creandosi per proprio conto, errori compresi, capacità, motivazione e competenze sul campo, dando il via, ai passaggi generazionali più riusciti. Due su tutti, Giovanni Arena e Giangiacomo Ibba. Altri, infine, in Trentino o in Lombardia,  ma non solo, stanno trasformandosi in rentier. Investono sugli spazi frutto di investimenti datati   o affittano  attività evitando così di proseguire nel lavoro dei genitori per il quale capiscono di non essere portati. Infine ci sono quelli che non capiscono i propri limiti, non mollano la presa,  e insistono. Ed è così che, quelle piccole ma toste realtà rischiano di  arrivare, pur senza volerlo,  al capolinea. 

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