Le forze sociali preferiscono marciare divise. Strategia o destino?

Dario di Vico si è posto alcuni giorni fa una domanda, a mio parere centrale ma che rischia di restare, purtroppo, senza risposta. “Il piano vaccini con molte incognite, una crisi di governo strisciante, un Recovery Plan poco incisivo. Cosa aspettano le forze sociali (tutte assieme) a far sentire la loro voce (in chiave “construens”)?

Da lettore attento cerco di capire.

Cosa impedisce alle forze sociali di trovare un punto di incontro che le rilancerebbe sia sul piano dell’immagine, oggi appannata, che su quello della centralità nel contribuire alla costruzione di un futuro possibile per il Paese?

Una facile scorciatoia sta nel concludere che ci  siano problemi di qualità dei gruppi dirigenti. Gli osservatori, spesso i più anziani, sono portati a pensare che il paragone con il passato sia impietoso nei confronti dei contemporanei. Personalmente non credo sia questo il punto. Se potessimo ingaggiare i migliori del passato li consegneremmo ad una pessima figura nel presente. Ogni stagione ha i suoi frutti. E le rispettive classi dirigenti sono frutti di stagioni precise. E poi del passato si tende a ricordare solo ciò che fa più comodo. Quindi occorre cercare altre motivazioni. Ma qual’ è lo stato dell’arte?

È fuori dubbio che l’elezione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria ha segnato una importante discontinuità per l’associazione. Nasce dal basso, interpreta un desiderio di protagonismo e di cambiamento diverso dal passato. Bonomi credo abbia capito che l’autorevolezza e la capacità di fare lobby nel nuovo secolo non si eredita né viene concessa per grazia ricevuta. Si conquista ogni giorno se si ha qualcosa da dire e da dare e si conferma  se incide sulla realtà producendo sintesi tra gli interessi di categoria e quelli del Paese.

L’accusa di “bartalismo” (è tutto sbagliato, è tutto da rifare) è ingenerosa e dimostra solo che il gattopardismo dilagante  banalizza la forma per contrastarne, di fatto, l’azione. Carlo Bonomi denuncia con fermezza  i ritardi, i limiti di una classe politica in affanno e il rischio che, in mancanza di interventi coerenti l’occasione di cambiare il Paese grazie alle risorse messe a disposizione dall’Europa, si trasformi in un disastro economico e sociale.

Quindi Confindustria potrebbe proporsi come elemento di guida e di raccordo della rappresentanza datoriale ma non è così semplice perché gli interessi in gioco rendono difficile qualsiasi sintesi.

L’altra grande organizzazione datoriale, Confcommercio, è impegnata in una inevitabile navigazione a vista. A differenza di Confindustria, sul piano associativo e della rappresentanza, dentro i confini del terziario di mercato c’è di tutto. Non solo commercio e turismo. Settori economici che la pandemia ha messo in ginocchio e altri che funzionano meglio e più di prima.

Travolta nella sua parte storica e costitutiva con molte imprese che hanno già compromesso  o che rischiano di compromettere il proprio futuro è in seria difficoltà ad andare oltre la logica dei ristori.

Regge un argine delicato che può cedere da un momento all’altro ed episodi come la dichiarazione di sciopero fiscale in Toscana (poi fortunatamente abortito) rappresentano un segnale di sbandamento da non sottovalutare.

Confcommercio, Confartigianato soprattutto dopo aver lasciato Rete imprese italia, ma anche le altre associazioni datoriali si trovano nella situazione di dover scegliere se accordarsi su pochi punti con il resto del fronte imprenditoriale e partecipare al traghettamento del Paese verso una nuova normalità diversa da ciò che li ha premiati organizzativamente in passato o rinchiudersi nei propri confini sperando che qualche ribaltone della politica li avvantaggi nell’interlocuzione e quindi nella determinazione del loro peso specifico nell’assegnazione delle risorse disponibili.

Lo spazio quindi tra l’agire nell’interesse comune e il restare fermi ciascuno dentro i propri recinti organizzativi in attesa che passi la nottata è il prezzo che ciascuna organizzazione datoriale è disposta o meno a pagare per giocare un ruolo da protagonista del futuro del Paese.

Il problema è che la durata, il costo e ciò che comporterà questa “nottata”, ad oggi, non è nelle disponibilità di nessuno. La difficoltà a trovare una sintesi sta tutta qui. È la stessa domanda, rovesciata, a cui furono chiamati a rispondere i sindacati confederali ai tempi della lotta all’inflazione: una assunzione di responsabilità che, allora,  seppe andare oltre il sentiment e il disorientamento della propria base di riferimento.

La stessa difficoltà c’è per i sindacati confederali. Il blocco dei licenziamenti, i rinnovi dei CCNL, l’interlocuzione privilegiata con il Governo ne hanno rivitalizzato un ruolo di interlocutore generale. Era inevitabile. Il tempo però sta per scadere e qualcuno è destinato a  restare con il cerino in mano. 

A mio parere per il sindacato un’intesa unitaria da proporre e condividere con le associazioni datoriali in grado di incalzare un Governo in evidente difficoltà sarebbe fondamentale. Assegnerebbe loro un ruolo propositivo e assicurerebbe una migliore tutela nella transizione soprattutto per  le fasce più deboli. Anche perché sfido chiunque a fare previsioni attendibili sul 2021.

Non sempre ciò che sarebbe meglio fare  però viene compreso in tempo utile. Da qui la domanda di Dario Di Vico. Fuori dai rispettivi recinti organizzativi e dai legittimi interessi di parte viene però alla mente John Kennedy al suo discorso di insediamento nel 1961: “Non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi; chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”. Oggi, questa, dovrebbe essere  la domanda centrale. Il resto dovrebbe venire dopo.

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