Capita a volte di confrontarmi con giornalisti, ex colleghi o head hunter, sul comparto e sulla qualità di chi oggi è in prima linea. C’è chi preferisce parlare di aziende e di risultati più che dei protagonisti del successo o degli affanni che annunciano cambiamenti di clima o di prospettiva. È la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. La mia provenienza professionale spesso mi porta ad interrogarmi anche sulle persone. Su come si muovono, sulla loro coerenza tra il dire e il fare. Su ciò che auspicano in casa d’altri e ciò che tollerano in casa propria. Sulla loro potenziale trasferibilità o meno in altre situazioni. Ci sono top manager che, ovunque li metti, sono preparati e quindi destinati a fare bene, altri no. Qualità del manager e contesto sono determinanti.
Un imprenditore è “costretto” ad operare in stagioni diverse. Un manager per bravo che sia, no. Personalmente non ho mai conosciuto manager buoni per tutte le stagioni. C’è chi è bravo a far crescere le aziende, e chi a riposizionarle quando il contesto cambia. E chi a chiuderle o cederle. Lavorare con uno o più imprenditori è diverso che lavorare in una multinazionale. Gestire in prima persona fatturati importanti o una realtà leader non è come gestire una realtà follower. Capita a tutti, prima o poi, di imbattersi con manager palesemente incompetenti. Se occupano posti di grande responsabilità sono fonte di preoccupazione per chi gli sta intorno. Spesso ci si domanda come possono essere arrivati in quella posizione. E spesso è frutto di ottime performance passate. Secondo lo psicologo canadese Laurence J. Peter i meccanismi di carriera su base meritocratica a volte producono un paradosso. Si cresce e si arriva ai vertici di un’organizzazione per doti e competenze maturati nel ruolo in cui si era collocati precedentemente. Quindi “in una organizzazione gerarchica, ogni collaboratore tende a fare carriera fino al proprio livello di incompetenza” raggiunto il quale non sempre è in grado di dimostrare di possedere le capacità necessarie nel nuovo contesto.
Due interessanti studi recenti analizzano questo fenomeno. Credo siamo tutti d’accordo che un buon manager è qualcuno che fa sì che il suo team produca costantemente più della somma delle sue parti. Tutte le indagini dimostrano che un buon manager ha circa il doppio dell’impatto sulle prestazioni del team rispetto ai pur buoni collaboratori di cui si circonda. Altrimenti non è un buon manager. Uno studio recente di Ben Weidmann e dei suoi coautori della Harvard Kennedy School indaga proprio questo. Sono stati esaminati i percorsi di carriera di migliaia di ottimi venditori in oltre 200 aziende americane per scoprire che le migliori performance di vendita aumentavano la probabilità che le persone venissero promosse più facilmente a posizioni di maggiore responsabilità, ma era anche associata a prestazioni, nella nuova posizione, ritenute peggiori dai loro nuovi subordinati. Lo studio segue un sondaggio del Chartered Management Institute in Gran Bretagna che ha rilevato che quattro persone su cinque che acquisiscono una posizione superiore non avevano ricevuto alcuna formazione formale per renderli adatti al nuovo ruolo. E molti manager accumulano responsabilità manageriali e problematiche non sempre correlati alla loro capacità di risolverli.
Secondo la ricerca Better Managed Britain di CMI, l’82% dei manager inglesi non ha ricevuto alcuna formazione formale in materia di gestione o leadership. E, come abbiamo visto negli ultimi anni, i risultati possono essere devastanti. L’ultima ricerca di CMI, condotta in collaborazione con YouGov, ha intervistato più di 4.500 persone in tutto il Regno Unito scoprendo che la metà dei dipendenti con manager da cui non si impara nulla prevede di andarsene nei 12 mesi successivi. La ricerca fa anche luce sul volume elevato di manager che stanno entrando nella posizione senza una formazione adeguata: otto su dieci. La maggior parte delle cattive performance aziendali sono dovuti a una mediocre capacità di gestione o di leadership insufficiente. La ricerca del CMI ha quindi innescato un importante dibattito sul fenomeno della cosiddetta gestione inefficace. Quanto è diffuso, l’impatto che ha sulle persone e sulle organizzazioni, il valore della formazione e dello sviluppo formali per mitigarne le conseguenze e il modo migliore per spingere i manager ad aggiornare la capacità di gestione e di leadership.
In effetti, una leadership efficace può fare un’enorme differenza in tutto, dal raggiungimento degli obiettivi aziendali, alla conservazione dei talenti, al mantenimento clima interno. Può rendere le persone più produttive, meglio organizzate e più coinvolte; orgogliose di indossare una “maglia”. In un contesto economico e sociale complesso e in rapida evoluzione, tali caratteristiche possono fare la differenza. Per David Deming, anche lui della Harvard Kennedy School questo è esattamente il punto. I compiti di gestione possono essere identificati, codificati e incorporati nei processi di selezione: questo è il modo migliore per scegliere i capi (leggi qui) .
Ma quali sono le caratteristiche necessarie?
Per gli oltre mille manager intervistati in collaborazione con YouGov alle competenze professionali specifiche, che sono indispensabili, vanno aggiunte cinque qualità che insieme definiscono un buon profilo manageriale. Innanzitutto la capacità di prendere decisioni giuste e imparziali, la capacità di delegare efficacemente, la capacità di sostenere e incoraggiare la crescita e lo sviluppo dei collaboratori, la comunicazione efficace e infine essere dotati di empatia e comprensione. Naturalmente il profilo manageriale non è solo un elenco di caratteristiche. Si tratta di persone che devono poi mettere in pratica quotidianamente quelle qualità. Quel profilo si conferma o meno nelle loro abilità, nella loro personalità, nelle azioni e in quello che fanno concretamente per aiutare a plasmare la vita professionale delle persone nei loro team.
Quindi per loro non parlano solo i risultati economici dell’azienda ma anche come vengono valutati e percepiti dai loro collaboratori. Un buon manager crea quindi una cultura in cui le persone si sentono autonome, responsabilizzate, impegnate nel compito, in grado di correre rischi, impegnate l’una con l’altra e nel team, spinte a collaborare. La positività tende a diffondersi. Così come la negatività. Manager incapaci o non formati a ricoprire il loro ruolo danneggiano la cultura organizzativa, la produttività, il benessere del personale e, di conseguenza, non fanno il bene dell’azienda.