Occorre definire un nuovo perimetro per il lavoro.

Secondo McKinsey l’economia dei lavoretti impiega già oggi il 30% della persone in età lavorativa  in Europa e negli States. Da noi  la discussione si è concentrata sui bikers ma decine di altre attività, dai montatori di mobili alle consegne a domicilio, dagli aspiranti tassisti uberizzati ai gestori di appartamenti e così via stanno modificando strutturalmente le tradizionali  tipologie del rapporto di lavoro sia autonomo che dipendente. 

Ma anche lo stesso concetto di imprenditore è destinato ad entrare in crisi perché  agire nelle filiere internazionali, competere con i nuovi giganti economici prodotti dalla rete, cambia in profondità anche le caratteristiche di chi fa impresa, di come decide di farsi carico dei rischi, di come si muove in un mercato aperto e globale. E di come tenderà a considerare il lavoro di cui ha bisogno per la sua impresa.

C’è voluta una sentenza come quella recente di Torino per costringere tutti ad aprire una riflessione. Sta emergendo qualcosa con cui bisogna misurarsi con una certa urgenza. L’idea di lavoro con cui siamo cresciuti ha sempre avuto precise caratteristiche. Al di là delle tipologie o delle classificazioni in essere, il lavoro, per essere riconosciuto come tale ha sempre avuto un luogo e un tempo dedicato.

Per effettuarlo era ed è ancora necessaria una formazione abilitante  ottenuta nel percorso scolastico e in parte attraverso un addestramento continuo e specifico, infine ha sempre avuto un tempo, più o meno determinato,   per poterlo effettuare. Tutto questo lo ha reso riconoscibile a chiunque. Il confine tra lavoro e altro è sempre stato chiaro. Soprattutto a chi doveva determinarne le regole, i corrispettivi e le tutele collegate.

Quell’idea, però, si basa tuttora  sul fatto che sia necessario “recarsi” al lavoro, “apprendere” un lavoro, impiegare tempo per raggiungerlo, per eseguirlo e, infine, per ritornare a casa. In quella logica si è giudicati e controllati da una struttura gerarchica formata da persone. Si ha diritto ad un posto fisico e a  una retribuzione in base alle ore prestate e all’inquadramento raggiunto. Ci si può  organizzare con i colleghi per ottenere migliori condizioni economiche o normative. Il mestiere, il comparto economico, le competenze, addirittura la singola mansione possono fare  la differenza.

Un mondo noto con i suoi riti, le sue liturgie, le sue regole, le sue convenzioni e i suoi ritmi. E un contesto socio economico costruito su quelle logiche che consente di contrarre prestiti, accendere mutui, accedere alla assistenza sanitaria, alla previdenza, ecc.

Tutto questo mondo sta subendo una profonda modificazione di cui si colgono alcuni segnali evidenti. Innanzitutto il luogo di lavoro, ad esempio, attraverso lo smart working perde di significato. Diverse ricerche affermano la probabilità  che entro 5/10 anni almeno il 50% delle persone potrebbe lavorare da remoto. Il lavoro quindi abbandona il luogo preposto e insegue il lavoratore ovunque sia, attraverso la tecnologia.

Siamo connessi h24  quindi possiamo rispondere alle mail, finire una presentazione, concludere un progetto senza bisogno di recarci in un posto fisico. Presto molte altre cose potranno essere compiute a distanza. Il confine tra lavoro e tempo libero viene meno. Aumenta il rischio burnout perché il lavoratore non riesce più a stabilire ciò che deve essere considerato lavoro da ciò che non lo è. E’ sempre connesso. E questo dipende dal fatto che l’azienda, colleghi o i collaboratori si aspettano che lui sia sempre disponibile.

Rispondere alla telefonata, mandare un messaggio o inviare un ordine, eseguire un semplice comando è lavoro ma nello stesso tempo non viene considerato tale. E se, anziché rispondere ad una mail, qualcuno va  a consegnare in bici una pizza o un pasto da un ristorante ad una abitazione, come clienti del ristorante tendiamo a non ritenerli  camerieri in bici ma moderni strumenti di un nostro bisogno. Al massimo utilizzatori intelligenti di tempo libero altrimenti sprecato.

Non è un lavoro. È, appunto, un lavoretto.

È il lavoro che si manifesta  sotto altre spoglie. Tra l’altro  non lo apprendiamo più in un luogo fisico dedicato. Ma fin dall’infanzia quando verso i tre anni regaliamo ai nostri figli il primo aggeggio elettronico. Anche questa è una grande rivoluzione perché abitua fin da subito a quelli che saranno i futuri strumenti di lavoro, alla tecnologia, alla sua evoluzione e ai cambiamenti necessari, indotti dalle novità del mercato.

Quindi l’addestramento al loro utilizzo, la formazione, il coinvolgimento delle persone, il rapporto tra di loro, il riconoscimento economico e le tutele necessarie se non inserite in una visione nuova rischiano di essere costruiti esclusivamente sui rapporti di forza in essere e sulle lacune normative indotte dalla vecchia cultura del lavoro. La causa di Torino è emblematica. È il tentativo ingenuo di mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio sperando di incepparlo.

Certo non sarà tutto così, né tutto lineare. I tentativi di adattare il vecchio al nuovo saranno all’ordine del giorno. Falliranno tutti. E creeranno vuoti di rappresentanza evidente.

Personalmente insisterei  su tre filoni di approfondimento.

Sul lavoro dipendente in senso lato e di nuova generazione seguirei il percorso indicato da Federmeccanica nel documento “Impegno”. E’ una sfida importante per le imprese ma anche per il sindacato. Presuppone un modello di valorizzazione, coinvolgimento e di ingaggio delle persone che va oltre la logica dei rapporti di forza. Sul lavoro autonomo di nuova generazione lavorerei su un concetto di intraprendenza e di responsabilizzazione del singolo mutuandolo dalla esperienza cooperativa. 

Resta il tema più complesso che è il lavoro povero che avrà sempre più  un peso rilevante e a cui andrebbero individuati e associati alcuni diritti di cittadinanza fondamentali in capo al singolo. Ovviamente come queste riflessioni  si rapportano con le leggi attuali, il welfare, la formazione continua e i sistemi contrattuali costruiti nel secolo scorso è la vera sfida che abbiamo di fronte.

L’unica cosa che, credo, non ci si  possa permettere è di mettere la testa sotto la sabbia o perdere tempo con dispute d’altri tempi.

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