I contratti di lavoro tra declino e nuove opportunità

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Sono assolutamente convinto che i contratti aperti vadano chiusi il più rapidamente possibile. I corpi intermedi hanno ragione di esistere se sanno comprendersi e trovare, insieme, sintesi positive. Per questo non vorrei generare alcun equivoco su questo punto. Ritengo però che sia comunque necessaria una riflessione oltre la linea dell’orizzonte del “qui e ora”. E, soprattutto cercare di distinguere ciò che è necessario fare da ciò che occorrerebbe fare per accompagnare la crescita e lo sviluppo delle nostre imprese. L’azienda di domani sarà profondamente diversa rispetto a quella di oggi. Questo è l’unico punto sul quale sembrano essere tutti d’accordo. Le divergenze nascono sul come arrivarci e sul cosa occorrerebbe fare. Molti imprenditori, sbagliando, credono possibile arrivarci da soli. Così come molte grandi imprese multinazionali o meno. Anche molti manager credono possibile arrivarci da soli. Passione, impegno, formazione e una dose massiccia di tecnologia. What else? Come direbbe l’attore George Clooney nella nota pubblicità del caffè… “Chi fa da sé, fa per tre” è ancora una convinzione diffusa. In alcuni casi funziona. Sia per l’imprenditore che investe su di sé e sulla propria famiglia evitando con convinzione e/o preoccupazione l’apporto di manager esterni, sia per il manager che mette entusiasmo e determinazione nelle proprie scelte professionali e pensa di conquistare, da solo, i traguardi sempre più sfidanti che lo aspettano. Qui sta il punto. L’impresa del futuro sarà profondamente diversa e non solo a parole. Gli imprenditori e i manager, oggi, chi più chi meno, spesso cercano di fare le cose che hanno sempre fatto in modo nuovo, domani, invece, tutti saranno chiamati a fare cose nuove in modo nuovo. Questa è sostanzialmente la differenza di fondo. E quel mondo va preparato, non subìto. Innanzitutto occorrerebbe costruire un terreno di convenienze positive e di convergenze di investimento tra Stato, imprese e singole persone. Se non si converge tutti sulla costruzione di un modello diverso sarà arduo costruire un nuovo approccio. Senza favorire la sperimentazione di soluzioni innovative nelle imprese, senza luoghi e occasioni di sviluppo della ricerca, della creatività, dell’ingegno delle persone e dei territori e senza investire sull’educazione dei giovani mettendo loro a disposizione nuove opportunità e metodologie sarà difficile fare sistema. E questo è un compito a cui le rispettive rappresentanze sindacali potrebbero dare un importante contributo. Aggiungo che, se usciamo per un momento dalla logica un po’ scontata sull’importanza della formazione in generale e dello sviluppo professionale è necessario porsi qualche domanda pur considerando e dando per acquisite le eccezioni e i comportamenti già virtuosi presenti in molte realtà. Pensando alla frammentazione del tessuto produttivo italiano e a condizioni attuali, perché le imprese tradizionali, soprattutto le piccole e medie, dovrebbero investire sulle proprie risorse? Perché dovrebbero favorire la crescita professionale senza nessuna garanzia che questo investimento sia utile e resti nell’impresa stessa? E come si lega il fatto che, mentre l’impresa tende inevitabilmente ad investire su una una formazione funzionale alle esigenze del proprio business, al manager (e non solo) interessa, sempre di più, investire su di sé guardando anche più lontano, oltre l’azienda dove è occupato? Per questo occorrerebbe ragionare in termini di sistema. Altrimenti le reciproche convenienze bloccheranno qualsiasi cambiamento significativo. Investire nell’immateriale resta un investimento ad alto rischio. Può produrre grandi vantaggi o pesanti conseguenze economiche sull’azienda quindi un rischio che non può più, come in passato, essere messo esclusivamente sulle spalle della sola impresa o del singolo imprenditore. Lo vediamo oggi dove gli investimenti sono al palo. E non cresceranno solo con la leva del credito. Questo implica più condivisione ma anche meno garanzie. Oggi i contratti di lavoro non sono così. Prevalgono tutele e condizioni costruite in un epoca dove avevano probabilmente ragione di esistere. Segnalavano una appartenenza, un confine, uno status giuridico e formale oggi ormai insidiato dal basso da Paesi e persone disposte a lavorare con meno garanzie e dall’alto dal consolidarsi nelle aziende di una visione di autosufficienza entro i propri confini di valori, mission e strategie. E a farne le spese rischiano di essere soprattutto i lavoratori. Per questo i contratti di lavoro futuri dovrebbero assumere un orizzonte nuovo. Sperimentare, osare di più uscendo dalla logica fordista che li ha caratterizzati fino ad ieri. Dovranno diventare contenitori di welfare vecchio ma anche aprirsi al nuovo, fissare i minimi sotto i quali nessuno può scendere e leggeri sulle norme che ha ancora senso che riguardino tutti ma, nello stesso tempo, consentire adattamenti, personalizzazioni, sperimentazioni.
Abbiamo bisogno di maglie larghe non di camicie di forza! Persone e organizzazioni hanno interesse a condividere rischi e opportunità. Ciò che oggi hanno a disposizione per realizzarlo è insufficiente. Il futuro dei corpi intermedi, dei contratti di lavoro nazionali, di comparto o aziendali passa anche da qui. Dalla volontà di confrontarsi sugli approdi possibili del lavoro nel nuovo paradigma economico e sociale a livello globale, delle imprese e di come si organizzano e del ruolo della legislazione e dei sistemi di regolazione che ne derivano. Però in questo ordine. Purtroppo si tende a partire da ciò che si ha cercando di adattarlo al futuro. Questo sforzo, pur lodevole, ormai non è più sufficiente.

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Una sfida da accettare perché è alla nostra portata.

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A metà gennaio il rapporto sul futuro dell’impiego pubblicato dal WEF non lasciava molto spazio alle illusioni. Gli effetti della quarta rivoluzione industriale comporteranno nuove attività nei prossimi cinque anni che creeranno circa due milioni di nuovi lavori. Purtroppo circa sette milioni di posti di lavoro saranno distrutti e questo al netto di eventuali nuove crisi. Un panorama fosco al quale non siamo sicuramente preparati. In Germania la platea dei minijobs non sembra destinata a comprimersi, in Francia i “jobber” stanno diventando un fenomeno sempre più diffuso tanto da passare, negli ultimi dieci anni da un milione a 2,3 milioni. In italia l’esplosione dei voucher segnala un problema che non si può comprendere se ci si limita solo a negare la realtà che ha provocato l’ingigantirsi del fenomeno. C’è chi pensa di nasconderlo sotto il tappeto magari ritornando al lavoro nero, sommerso o illegale coprendo una realtà che sta emergendo in tutta la sua crudezza. Da un lato il lavoro così come lo abbiamo conosciuto con le sue regole, i suoi vincoli e i suoi costi e dall’altro la necessità di costruirsi un reddito per chi, quel lavoro, non avrà la possibilità di ottenerlo. C’è “uno spettro” (la disoccupazione giovanile) che si aggira per l’Europa e che colpisce le speranze di molti giovani ma che non sembra risolvibile solo con la leva degli incentivi o degli sgravi. La mancanza di sviluppo rende tutti più fragili e più esposti alla demagogia e alla retorica. E così, invece di concentrarci sulle risposte in vista di ciò che appare all’orizzonte ci si limita a litigare nei Paesi e tra i Paesi come i polli di manzoniana memoria. È chiaro che non è questa la strada. Così come credo che nessun Paese possieda una ricetta autarchica. La globalizzazione la renderebbe comunque indigesta agli altri mettendo in forse la stabilità sociale di tutto il continente. Basta solo osservare i contraccolpi politici ed economici dell’immigrazione sui singoli Paesi e il conseguente esplodere di contraddizioni sempre più difficili da governare. Possiamo rassegnarci o sperare che altri ci pensino. Oppure impegnarci e portare il nostro contributo. Ovviamente alcune risposte possono solo essere europee e in quella sede vanno cercate. Nei singoli Paesi, però, ciascuno deve farsi carico del problema. Innanzitutto imprese e sindacati. Ovviamente né in termini assistenziali, né pensando che le vecchie ricette possano funzionare in questo contesto. Una crescita “zero virgola” non produrrà alcun beneficio significativo sull’occupazione. A mio parere occorre agire su due piani. Innanzitutto agevolando tutto ciò che porta a condividere rischi e opportunità tra capitale e lavoro. Questo comporta mettere mano ai contenuti del rapporto di lavoro. Flessibilità, salario, inquadramento, variabile, welfare. L’obiettivo non è ridurre i salari ma renderli più coerenti con un nuovo modello. E, ovviamente, occorre puntare a forme innovative di collaborazione alla vita dell’impresa. In secondo luogo ridurre i contratti nazionali lasciando alle singole imprese e ai lavoratori che vi operano la possibilità di adattarli alle esigenze specifiche. Così come in comparti omogenei. Questo per evitare situazioni di dumping tra le aziende. In terzo luogo riorganizzare forme di welfare contrattuale intersettoriale (previdenza, sanità e formazione). Occorre formare masse critiche rilevanti come già presenti in altri Paesi e non rinchiudersi in modesti interessi di settore con “fondini” ad uso e consumo più di chi li governa che di chi ne dovrebbe trarre benefici concreti. Un sistema di politiche attive che supporti i momenti di passaggio tra un’attività e un’altra è fondamentale e la possibilità di effettuare stage formativi (non strumentali) durante il percorso di studio. Io credo che occorra osare proponendo una sorta di leva civile “obbligatoria” per i nostri ragazzi alla quale le imprese dovrebbero sentirsi coinvolte positivamente. Ovviamente sarebbe meglio proporla a livello europeo per favorire una effettiva integrazione tra mondi e culture differenti. Ma tant’è. Infine il Governo dovrebbe contribuire intervenendo sul piano legislativo e fiscale. Nel primo caso aiutando le parti sociali a trovare le risposte adeguate. Il ruolo delle parti sociali è fondamentale e non va sottovalutato. Nel secondo intervenendo a sostegno con sgravi finalizzati che spingano le aziende ad accettare questa sfida. Certo, in un Paese condannato all’immobilismo come il nostro, potrebbe sembrare ingenuo proporre cambiamenti radicali e difficili da condividere. A mio parere siamo però di fronte ad una svolta epocale. Qualcuno si sta attrezzando per affrontarla semplicemente demolendo le regole attuali. Il risultato sarà una sorta di darwinismo sociale che non porta da nessuna parte. Altri stanno rimettendo al centro le persone. La loro qualità, il loro futuro e anche i loro interessi. Per i primi è sufficiente smantellare l’esistente. Per i secondi occorre costruire un sistema efficiente con nuove regole del gioco. La nostra società, come le altre società occidentali, non è in grado di reggere a lungo un modello darwiniano. La coesione sociale ne risentirebbe in modo grave. Per questo occorrerebbe dotarsi di progetti ambiziosi e coerenti. Nel nuovo paradigma economico e sociale che si sta delineando c’è spazio per le persone, per la loro intelligenza e per la loro dignità. E per il loro futuro. Dobbiamo creare le condizioni perché questo sia possibile.

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Crisi, esigenze vere delle imprese e contratti aperti nel terziario

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La vicenda dell’interruzione del negoziato per il rinnovo del CCNL di Federdistribuzione è certamente da inserire in un contesto più ampio che vede, non solo le imprese della GDO, in difficoltà sul versante dei fatturati, dei margini e del costo del lavoro in particolare. La ricerca di nuovi modelli di business, la saturazione dell’offerta in molte realtà territoriali, l’impossibilità di scaricare sui prezzi gli aumenti richiesti rendono il quadro contrattuale del settore piuttosto complesso. E se a questo aggiungiamo che le difficoltà sono presenti anche in altri comparti del terziario commerciale e del turismo ci rendiamo conto che il problema assume connotati più ampi sui quali occorrerebbe riflettere più in profondità. La stagione delle vacche grasse è finita da tempo e, per questo, non hanno più ragione di esistere condizioni e concessioni aziendali erogate in tempi lontani quando la crescita era a due cifre. Il sindacato del settore lo ha capito benissimo e si muove con estrema cautela contrattando o subendo l’iniziativa delle imprese a livello locale, che chiedono e ottengono sospensioni di norme contrattuali aziendali o spingono per ottenere la trasformazione o l’abolizione temporanea di istituti ormai datati. Ovviamente le aziende non sono tutte uguali. Alcune intravedono nuove opportunità di business e si attrezzano, altre continuano lentamente un declino inarrestabile. Il confronto tra di loro, sul piano commerciale, è sempre più aggressivo perché gli strumenti a disposizione sono gli stessi, così come i clienti e la loro disponibilità economica. Per questo le tipologie delle prestazioni, i nastri orari, il lavoro domenicale e il suo costo, le differenze di retribuzione tra giovani e baby boomers, sono problemi centrali in queste realtà che, addirittura, possono comportare chiusure o compromettere le aperture di nuovi punti di vendita. Il commercio per sua natura non delocalizza, però, i grandi gruppi internazionali possono investire altrove con maggiore convinzione, se disincentivati. E questo non è un bene. Il sindacato, dal canto suo, non è sostanzialmente in grado di reagire su di un terreno diverso dal passato. Da un lato perché è sempre stato poco propenso a entrare in conflitto con la sua base di riferimento. I baby boomers, appunto. Vicini alla pensione, legge Fornero permettendo, sono i più sindacalizzati ma anche i meno disponibili al cambiamento. Dall’altro lato si trova a dover gestire il rapporto con l’insieme dei lavoratori, soprattutto quelli più giovani preoccupati per il loro contratto e quindi del futuro del loro posto di lavoro che sfuggono inevitabilmente ai richiami della solidarietà sempre più impegnati a “combattere” sotto la propria insegna aziendale “contro” le altre insegne e poco attirati da aumenti irrisori che non scaldano certamente i cuori né mobilitano le coscienze. Quindi “il cane si morde la coda”. Le aziende non hanno margini di manovra, il sindacato pure. Come se ne esce? Innanzitutto rendendosi conto che lasciare ai rapporti di forza la soluzione dei problemi non è mai una mossa intelligente. Non lo è stata quando il pendolo oscillava in favore dei sindacati, non lo è oggi dove i rapporti di forza sono a vantaggio delle imprese. Attendere tempi migliori lasciando marcire una situazione dove al disagio delle imprese si somma quello dei lavoratori che, pur non seguendo le indicazioni dei sindacati, sanno benissimo di avere retribuzioni nette basse, non è una buona cosa. Non lo è per l’economia in generale come tra l’altro ha sottolineato la stessa Banca d’Italia, non lo è per l’impegno che viene giustamente richiesto ai propri collaboratori nei confronti dei clienti e non lo è perché, l’umiliazione dei sindacati e la banalizzazione del loro ruolo, porta con sé fenomeni di radicalizzazione imprevedibili, purtroppo già presenti in altri comparti economici. Il lavoro della GDO è spesso sottovalutato e l’impegno delle imprese nell’assunzione continua di giovani poco considerato. È un errore. Nei punti vendita, si cresce, si imparano mestieri, ci si forma anche per professioni e per carriere ben più importanti. Il clima interno però è decisivo e quindi le aziende non credo siano indifferenti alla necessità di trovare soluzioni condivisibili. Inoltre, gli accordi, quando sottoscritti con convinzione sono fondamentali per accompagnare il contesto sia nella crisi che nella ripresa quando le imprese si troveranno nell’assoluta necessità di sviluppare una situazione sempre più collaborativa. In secondo luogo anche il sindacato deve capire che non si possono più distribuire risorse senza averle prima create. Se l’inflazione è praticamente inesistente, i costi non possono aumentare se non legati concretamente ad incrementi di produttività reale. Le aziende non hanno solo il costo del contratto nazionale. Nel contratto dei metalmeccanici, ad esempio, i sindacati del settore hanno calcolato che solo il 5% dei lavoratori non hanno percepito benefici economici, in linea con i minimi contrattuali proposti, nel quadriennio precedente. Quindi esiste un effetto trascinamento dei costi e una incidenza della contrattazione aziendale che non possono non essere considerati. Se questo è vero, occorrerebbe riflettere sulla necessità di costruire un sistema a vasi comunicanti che garantisca alle imprese una certezza dei costi nel quadriennio di riferimento con la disponibilità a intervenire per modificare gli squilibri provocati nelle imprese dalla contrattazione passata o da situazioni di crisi momentanee. Pensare però che questo possa avvenire con automatismi gestiti unilateralmente dalle aziende e non all’interno di deroghe e confronti tra le parti è una ingenuità e quindi un errore. Il CCNL nel quadriennio costerà lo stesso importo per tutte le imprese sia quelle che applicano il contratto del terziario di Confcommercio sia per coloro che dovessero applicarne un altro. Non ci saranno sconti o scorciatoie per nessuno anche perché i rischi di dumping tra imprese sono evidenti a tutti. Quindi non è su questo che si dovrebbe giocare la partita. Così come nessuno può pensare di rientrare nei fondi contrattuali gestiti da Confcommercio e dalle organizzazioni sindacali dopo esserne usciti accusando ingiustamente chi è restato e sbattendo la porta senza individuare modalità comuni, interessi in gioco, convenienze e percorsi credibili per tutti. Una matassa intricata, dunque. Inestricabile se sul tavolo permangono rancori, sospetti e atteggiamenti poco costruttivi anche perché nessuno può vantare diritti esclusivi di rappresentanza che non esistono e che la presenza di quattro contratti nazionali dedicati vanificherebbe di per sé… Inoltre è ormai chiaro che fare un contratto nazionale non è come fare un contratto aziendale, un po’ più grande. È un altro film. Forse qualcuno comincia a rendersene conto adesso. Le aziende della GDO, che si riconoscono in Federdistribuzione, ne hanno condizionati molti di quelli sottoscritti da Confcommercio negli anni e le esigenze vere delle imprese sono sempre stati tenute in grande conto. Come nell’ultima tornata. Quindi sarebbe molto più utile ricominciare da qui guardando avanti. E solo da qui partire per valutare se è come il confronto può essere effettivamente concluso in un comparto, tra l’altro senza esclusiva, o all’interno di una riflessione nuova, più ampia e condivisa in rapporto a ciò che sta evolvendo sul piano generale. Le organizzazioni datoriali hanno un ruolo solo se sanno interpretare le istanze delle imprese nel contesto dato. Per questo devono sapersi posizionare sempre un passo avanti per evitare che prevalgano atteggiamenti tattici o non dotandosi, di fatto, di una strategia a lungo termine. Il campionato è lungo però bisogna comprendere a fondo le regole del gioco, gli interessi in campo e gli obiettivi di ciascuno. I sindacati, datoriali o dei lavoratori, servono se affrontano e se riescono a risolvere i problemi dei propri associati di oggi ma anche di domani. Qui come altrove. Anche perché, come ricorda J.F.K. “non puoi costruire nulla con chi dice ciò che è mio è mio e ciò che è tuo è negoziabile”….

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Contratto Federdistribuzione: una reazione scontata anche se sbagliata…

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Leggendo, nei giorni scorsi, l’articolo di Cristina Casadei sul Sole 24 ore, devo dire che non mi sono sorpreso. Federdistribuzione e le Organizzazioni Sindacali di categoria non sono riuscite a individuare un percorso utile che li possa condurre alla firma del CCNL. Difficoltà più o meno analoghe sono sul tavolo della Distribuzione Cooperativa e di Confesercenti. Differenze di posizioni legittime quanto scontate. C’è chi li gestisce con maggior stile e sotto traccia e chi, no. La reazione “piccata” del vertice di Federdistribuzione era altrettanto prevedibile. Quando si deve rendere conto ad aziende, imprenditori e lavoratori che aspettano da mesi la firma del proprio contratto nazionale non ci si può limitare ad una semplice autocritica come, peraltro, sarebbe stato auspicabile. Occorre sempre qualcuno a cui dare la colpa. Siano essi i sindacati, o altre organizzazioni datoriali che hanno da tempo siglato il proprio contratto nazionale applicato, tra l’altro da molte aziende della GDO. Anche la decisione di corrispondere la prima tranche di quindici euro lordi era, tutto sommato, scontata. Prima o poi, si sapeva che i direttori risorse umane lo avrebbero consigliato ai propri Amministratori Delegati. Farlo in silenzio o in ordine sparso avrebbe rischiato di sconfessare i negoziatori e segnalato l’inevitabile presenza di falchi e colombe. È ovvio che ci sono aziende più sensibili perché in difficoltà e altre più portate a guardare il bicchiere mezzo pieno. Purtroppo questa situazione esporrà le aziende alle inevitabili reazioni legali e sindacali che caratterizzano questi irrigidimenti. Pur con ritardo l’aumento proposto corrisponde, di fatto, alla prima tranche prevista dal CCNL del terziario firmato, oltre un anno fa, da Confcommercio. Federdistribuzione poteva proporre di anticiparne quattordici o venti euro ma questo avrebbe comportato uscire definitivamente dal campo da gioco che, lo si voglia o no, resta comunque il perimetro del contratto nazionale del terziario di Confcommercio. È vero. Le aziende lamentano un problema di costo complessivo che non va sottovalutato. E non solo dai sindacati. Personalmente resto convinto, però, che non serva un altro contratto nazionale. Alla fine sarebbero quattro in un comparto di poco più di quattrocentomila addetti che fanno sostanzialmente lo stesso lavoro. Forse sarebbe meglio per tutti puntare ad un contratto unico prevedendo deroghe (come già peraltro previste dal CCNL di Confcommercio) e specificità garantite ai diversi comparti merceologici e quindi alle aziende stesse. Federdistribuzione ha un importante ruolo da svolgere nella difesa delle aziende della GDO. Lo faccia con la professionalità e la serietà che la contraddistinguono e che le sono riconosciute dalle aziende che vi aderiscono e non solo. Il punto vero però è che non si riesce a fare un contratto nazionale di lavoro specifico perché non ha più senso farlo. Non per colpa di qualcuno. Come non ha senso, a mio parere, nell’altro comparto, distributivo, continuare ad insistere con un contratto nazionale della distribuzione cooperativa. In futuro, sempre a mio parere, non dovremmo avere più di quattro contratti nazionali nel Paese (industria, terziario, agricoltura e artigianato). Non ha senso gestire il welfare contrattuale disperdendolo in mille rivoli, così come diritti, doveri, minimi contrattuali e declaratorie generali che sono sostanzialmente uguali per tutti nello stesso settore. E da un modello di questo tipo prevedere deroghe o specificità di comparto, territorio o azienda. E, se così fosse, come pensa di inserirsi Federdistribuzione in un confronto politico sindacale più ampio? Da sola? Il modello contrattuale su cui sembrerebbe insistere Federdistribuzione è decisamente datato e superato. Per questo rischia di non concretizzarsi. E questo al di là delle dietrologie di maniera. Comunque vada otterrebbe, al massimo, una vittoria di Pirro. Un contratto da mettere in archivio come un vecchio arnese del passato…. Meglio sarebbe che la partita del lavoro e del suo costo venisse gestita in un’ottica nuova, meno scontata e più in linea con le innovazioni che presto arriveranno sul terreno della contrattazione nazionale e dei suoi livelli. Magari rimettendo al centro i problemi veri delle imprese con i percorsi possibili. Capisco la volontà “autarchica” espressa da alcuni autorevoli esponenti della Federazione ma occorre che qualcuno capisca la necessità di guardare avanti impegnandosi a percorrere strade nuove nell’interesse delle aziende rappresentate, superando rancori e inutili verbosità che non rendono certo onore a chi li alimenta.

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Contratti aperti, uno spunto di riflessione..

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All’ordine del giorno non c’è solo il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Altri contratti attendono da lungo tempo una loro conclusione. Turismo, grande distribuzione, pubblici esercizi, dirigenti del terziario, solo per citarne alcuni tra i principali del mondo del terziario, segnalano una vera difficoltà a comprendere il profondo cambio di contesto e quindi la necessità di adeguare le rispettive strategie alle mutate condizioni e necessità delle imprese e dei lavoratori coinvolti. E, di conseguenza, al ruolo delle rispettive organizzazioni di rappresentanza. Fare a tutti i costi un contratto non è un imperativo categorico per nessuno. Se ne può fare anche senza. Almeno per un certo tempo. Per poterlo sottoscrivere, però, occorrono alcune condizioni irrinunciabili. Innanzitutto le parti si devono riconoscere e accettare. Che, piaccia o meno, l’interlocutore individuato dalla rispettiva controparte è colui che è seduto dall’altra parte del tavolo. Non si sceglie, si trova. E l’interlocutore, con tutta evidenza, rappresenta interessi e punti di vista diversi dai propri. In secondo luogo occorre comprendere ciò che è strumentale o tattico da ciò che, invece, è determinante e irrinunciabile per l’interlocutore. L’errore più frequente è la personalizzazione. I neofiti della contrattazione lo commettono spesso. Pensare che lo stallo sia causato dall’interlocutore, dalla sua mancanza di duttilità o dal suo eccessivo protagonismo e non dai problemi posti sul tavolo. In terzo luogo occorre evitare di ritenersi comunque in una posizione di forza o di poter giocare carte che, in altri tempi o in altri contesti hanno funzionato. Il mondo cambia. Il sistema relazionale, di conseguenza, cambia anch’esso. Non accorgersene, a certi livelli, segnala un evidente insufficienza di leadership. In quarto luogo occorre sapere sempre che i negoziati non si improvvisano ma si preparano. I cosiddetti “sherpa” esistono proprio per individuare i possibili punti di contatto. Non servono se si vuole litigare all’infinito. Quando i punti di contatto non ci sono significa solo che qualcuno non ha fatto bene il suo lavoro preparatorio. O che il negoziato non è ancora maturo. In quinto luogo occorre capire quando, alla propria parte, va spiegata la natura concreta di ciò che è quel negoziato in quel contesto economico e sociale. Il cui esito è comunque una intesa che rappresenta quasi sempre la risultante di un equilibrio complesso tra dare e avere. In sesto luogo occorre capire quando è il momento di chiudere. Perché quando, e se, quel momento non viene colto, il negoziato tende a complicarsi ulteriormente. I sindacati (datoriali e dei lavoratori) servono proprio per trattare e sottoscrivere accordi altrimenti non servono a nulla. Sperare che le rispettive basi si accontentino di colpevolizzare la rigidità della controparte in eterno è un altro segno di indebolimento della propria leadership. Che prima o poi, si ribalterà su chi  lo sostiene. Infine la qualità del risultato. Firmare un contratto da cui non se ne ricava un buon giudizio è un segno di fragilità di un gruppo dirigente. Un accordo utile, per essere tale, lascia entrambi i contendenti “moderatamente” insoddisfatti. È la natura del compromesso a renderlo tale. Ma un gruppo dirigente che firma un accordo e un minuto dopo lo critica dovrebbe rassegnare le dimissioni. O per “intelligenza con il nemico” o per dabbenaggine. Gli accordi, ed è questa la chiave del successo, devono sempre chiudere una fase e saperne aprirne una nuova. Per questo chi li firma non è mai sconfitto. Anzi. Dimostra forza, lungimiranza e credibilità. È chi si tira indietro o chi sconfessa ciò che fa che dimostra solo di non essere all’altezza del mandato.

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L’importanza della ripresa del confronto tra le parti sociali

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Qualcosa, forse, si sta muovendo. Per ora solo impercettibili segnali di interesse reciproco a riprendere il filo di un dialogo costruttivo. L’occasione può essere data dall’insistente quanto opportuna richiesta di apertura di un confronto sulle relazioni sindacali e i livelli della contrattazione di Cgil, Cisl e Uil mentre il Governo fa trapelare la volontà di intervenire “autonomamente” a breve. Premetto che sono personalmente convinto che il negoziato di merito sia ancora prematuro ma ritengo altrettanto importante la ripresa di relazioni formali e costruttive. È troppo tempo che il confronto avviene a distanza o precipita nella necessità di trovare mediazioni ai tavoli contrattuali. La fine della stagione della concertazione e la stagione degli accordi separati hanno portato con sé l’idea che ognuno deve limitarsi a pensare e mediare solo in casa propria. E, in ciascuno dei luoghi di reciproca appartenenza, gli altri appaiono sempre più distanti, spesso incomprensibili nei linguaggi e nelle loro legittime identità. E non costruendo nulla insieme, si cerca di difendere al meglio le rispettive ragioni e posizioni. E questo a fronte di un Governo che, sempre meno, è in grado di utilizzare la leva distributiva per accontentare questa o quella istanza proposta. La mancanza di risultati tangibili, la natura e la dimensione della crisi, l’asimmetria di peso e di potere degli attori in gioco e la dimensione globale delle dinamiche competitive allentano inevitabilmente i rapporti con i rispettivi associati e incidono sulle rispettive capacità di mobilitazione. E se la capacità tradizionale di difendere le posizioni viene meno non cresce la capacità di proposta perché costretta nei recinti angusti dei propri mondi sempre più paralleli e sempre meno convergenti rispetto agli altri. Ma esistono tematiche che, per loro natura, sono di interesse trasversale e quindi sarebbero molto più gestibili e autorevoli se portate avanti, insieme, all’interno di una vera e innovativa cultura del confronto e della proposta. Il futuro prossimo del nostro Paese potrebbe dipendere anche da questo. La qualità della nostra democrazia, i necessari investimenti per sostenere la ripresa economica, i settori nei quali concentrare gli interventi, la lotta alla corruzione, al malaffare e alla malavita organizzata, i sistemi di welfare, il mezzogiorno solo per citare quelli che, credo, potrebbero rappresentare una grande occasione di confronto e di proposta dove ciascuno, però, non si dovrebbe limitare ad esprimere una posizione ma, con coraggio, dichiarare la propria disponibilità, nei fatti, a mettere sul tavolo parte dei suoi interessi particolari finalizzandoli ad un obiettivo comune. Quindi un nuovo ruolo dei corpi intermedi, uniti, non per chiedere, non per difendere una legittima prerogativa di parte ma per offrire il proprio contributo al futuro del nostro Paese. Personalmente credo che le parti sociali siano individualmente e inevitabilmente destinate a perdere autorevolezza e terreno. Non ci sono risorse da distribuire, la pazienza del Paese è al limite e ci sono rischi evidenti che si incrinino pilastri portanti della convivenza civile che reggono il rapporto tra culture, territori e generazioni. Se la situazione ha tenuto fino ad ora è anche grazie al lavoro “invisibile ma quotidiano” dei corpi intermedi che non hanno offerto sponde alla disperazione, alle incertezze sul futuro e alle tentazioni disgregatrici interne ed esterne. A differenza di quasi tutta l’offerta politica che, al contrario, cerca occasioni per dividersi su tutto senza trovare motivi di unità nell’interesse generale, i corpi intermedi non hanno mai scelto questa strada. Anzi. I segnali di unità nel mondo del lavoro, le iniziative comuni tra le organizzazioni datoriali esprimono altre vocazioni. Saperle mettere a fattor comune rappresenterebbe un vero salto di qualità di cui abbiamo bisogno. La ripresa del confronto, seppur provocata da temi “minori” potrebbe rappresentare l’occasione per iniziare un percorso nuovo di ricerca di una collaborazione costruttiva per qualcosa che sappia andare ben oltre i legittimi interessi di ciascuno. Per questo non è importante il luogo, la ragione o la scusa. Sarà più importante concordare l’ordine del giorno e le priorità. Le modalità, i tempi e la qualità delle intese vengono dopo.

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Risiko sindacale o “rosico” sindacale…

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L’accordo in FCA tra FIM CISL e il sindacato dei quadri AQCF è certamente un passo importante verso un nuovo modello di rappresentanza. Il secondo passo sarà costituito dalla necessità di individuare un diverso equilibrio tra i valori e i principi del sindacalismo confederale e un nuovo modello di “sindacalismo aziendale all’italiana” che sarà comunque destinato ad affermarsi nei prossimi anni. È un passo decisivo che dovrà consentire di evitare il sorgere di una “micronesia” di strutture isolate, non comunicanti ma soprattutto sorde ad una visione solidaristica e generalista tipica dei corpi intermedi di natura confederale in una comunità nazionale che deve comunque dotarsi di pesi e contrappesi politici e sociali per crescere in modo quanto più equilibrato possibile e affermarsi in un mondo sempre più globalizzato. Le reazioni sono state generalmente caute. Soprattutto da FIOM e UILM impegnate in una difficile opera di ricucitura in vista dello sciopero della categoria. Non condividere la scelta della FIM è legittimo. L’uscita su Italia oggi, del segretario generale del FISMIC, Roberto di Maulo, mi sembra, al contrario, fuori luogo. Il modello di sindacalismo aziendale costruito, a partire dagli anni 50, dalla FISMIC non c’entra nulla con la necessità di creare un nuovo sindacato confederale che sappia tenere insieme il nuovo mondo del lavoro indipendentemente delle vecchie categorie professionali mutuate dal secolo scorso o dai comparti merceologici. Oggi FCA produce, anche, automobili. Ma fa molte altre cose che tradizionalmente apparterebbero ad altri mondi, gli stessi confini tra attività industriali e terziarie in una logica di filiere e piattaforme globali cambiano e si integrano. Per questo è necessario un sindacato che superi i confini del passato. L’unità dei sindacati moderati proposta a suo tempo dalla FISMIC era, di fatto, solo tesa ad isolare la FIOM. Non c’entra nulla con la ricerca di un modello nuovo di sindacato confederale. E questa ricerca non dovrebbe escludere a priori nessuno, FIOM compresa. Semmai qualcuno si chiamerà fuori libero di perseguire altre strategie. Quello che mi stupisce è perché la FISMIC anziché “rosicare” e imprecare contro il supposto protagonismo altrui non rifletta sulla profonda differenza tra un sindacato che si è dovuto dividere per decidere e quindi tutelare i propri rappresentati in una particolare fase storica da un sindacato che deve riuscire a ricomporre l’intera filiera del lavoro per rappresentarla e proporsi in una nuova chiave collaborativa e quindi partecipativa. Davanti a questo bivio non c’è solo la vecchia sinistra sociale e sindacale che può decidere liberamente di perseguire la propria irrilevanza nelle imprese e nella società o le formazione “storiche” del sindacalismo aziendale come la FISMIC. C’è l’intero sindacato confederale. Per questo la proposta di Federmeccanica segna uno spartiacque che va oltre le differenze sul salario o sul decentramento della contrattazione. L’associazione delle aziende metalmeccaniche pone innanzitutto una sfida culturale. Respingerla è facile. Fermarla è impossibile. Va colta fino in fondo, se si hanno idee e proposte, per evitare di subirla. Anche in FCA c’era chi pensava fosse facile respingere le proposte di Marchionne al mittente. Abbiamo visto come è andata a finire.

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Tutti “contro” o tutti “per”?

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Una probabile proposta del Governo sulla materia sembra ormai in arrivo. Federico Fubini lo ha segnalato in anteprima nei giorni scorsi. I due livelli della contrattazione (nazionale e aziendale) sarebbero confermati, pur con una diversa finalizzazione e peso. Da questi pochi elementi non sembrerebbe esserci l’intenzione a compiere una vera forzatura da parte dell’Esecutivo ma solo la volontà di sostenere e incrementare la contrattazione aziendale allargandone gli spazi, anche economici, rendendola esigibile e maggiormente funzionale alle imprese, soprattutto a quelle di una certa dimensione. E questo in una fase dove le parti sociali sembrano non sapere (o non volere) individuare alcun percorso comune né condividere un’analisi sullo stato reale del Paese e del contesto nel quale operano imprese e lavoro. Nelle conclusioni della relazione del Presidente di Confindustria Squinzi a Parma il rammarico di “…non aver convinto chi si occupa di sindacato della opportunità di riflettere sui nuovi temi fondativi dell’azione negoziale..” segnala un dato di fatto. Un forte disallineamento tra esigenze concrete delle imprese in una economia ormai globalizzata, che impone di mettere al centro il coinvolgimento dei collaboratori e le loro performance professionali e un sistema costruito nel secolo scorso che spinge inevitabilmente l’intero sistema delle relazioni sindacali su binari obsoleti. La stessa replica, sostanzialmente negativa, alla richiesta di confronto sulla proposta di Cgil, Cisl e Uil delle due principali organizzazioni datoriali sembra sottolineare questa rassegnazione sulla concreta utilità del confronto stesso e quindi la volontà di ciascuno di procedere per conto proprio. Sul tavolo dei metalmeccanici resta la sola proposta di Federmeccanica non condivisa, però, dalla totalità del mondo confindustriale. Soprattutto di chi ha appena firmato il proprio contratto nazionale. Dall’altro lato Confcommercio ritiene, a buon diritto, di avere, nel proprio CCNL, gli strumenti idonei a definire ciò che deve appartenere al livello nazionale e ciò che potrebbe essere decentrato, con quali strumenti e in quali luoghi. Poi ci sono ancora i contratti aperti che, mai come in questa situazione rischiano di avere un incerto destino. Sul fronte sindacale, l’aver partorito una proposta unitaria, spinge i tre sindacati all’attesa di una ipotetica risposta. Solo Barbagallo, segretario generale della Uil ha dichiarato che la loro proposta è da considerarsi solo un buon punto di partenza per una discussione mentre la Cgil sembra più impegnata a sostenere la “carta dei diritti” che, addirittura rischia di aggiungere ulteriori problemi in un futuro confronto con le organizzazioni datoriali. Dallo stesso sindacato dei metalmeccanici sembra riemergere, ad oggi, più una volontà unitaria di protesta che di proposta. Lo stesso vale per la PA dove il confronto vero avviene ormai solo sulla stampa. Ognuno per sé, quindi. Michele Tiraboschi, personalmente preoccupato dallo stallo della situazione e forte di una convinzione che nessuno, oltre alle parti sociali (insieme) sarebbe in grado di trovare un nuovo equilibrio, ha proposto un confronto tra organizzazioni datoriali e sindacali in terreno neutro. Mossa ingenua o inutile? Personalmente non lo credo. L’intervento governativo, pur, sulla carta non invasivo, non è certo buon viatico ad un ipotetico accordo, comunque da condividere. E rappresenterebbe, di fatto, il superamento di un limite di ruolo che potrebbe riservare, in un prossimo futuro, ulteriori sorprese. E non di segno necessariamente positivo. Comunque la si osservi è una situazione che presenta dei forti rischi di degenerazione a causa del contesto economico e sociale. Basta osservare cosa sta succedendo in Francia. Sia sul fronte delle imprese che, se non otterranno risultati concreti sul piano fiscale e contributivo, saranno sempre più costrette a forzare la situazione per cambiare profondamente le regole del gioco superando i vincoli presenti in contratti o in leggi ormai superati. Così come sul versante sindacale dove il processo di disintermediazione in atto nelle aziende rischia di marginalizzare, nei fatti, qualsiasi ruolo propositivo per il sindacato confederale e di ribaltarsi su ormai logori schemi negoziali. Confrontarsi forse serve davvero. Lo si può fare attraverso un classico confronto tra le parti seguendo la tradizione oppure in campo neutro. Almeno per mettere sul tavolo le reciproche intenzioni. Ma soprattutto per capire se e quali corpi intermedi hanno qualcosa da dire, ma anche da dare, per costruire il futuro del nostro Paese. Io credo che, pur nelle differenze e nelle contraddizioni questa volontà ci sia. Il ruolo e il futuro dei corpi intermedi si giudica proprio sulla loro capacità di proposta ma anche di resistenza al cambiamento. Con grande responsabilità e trasparenza. “Simul stabunt simul cadent”. Credo che mai come di questi tempi le organizzazioni di rappresentanza, riflettendo sugli interessi veri dei propri associati, dovrebbero avere chiaro questo punto. Tutto il resto, credo, viene dopo.

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Lo sforzo del riformismo sindacale nell’epoca della disintermediazione

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Nell’articolo di Rita Querzé sul Corriere è interessante la dichiarazione finale di Fabio Storchi Presidente di Federmeccanica il quale non ritiene affatto preoccupante il ricompattamento dei tre sindacati metalmeccanici. Anzi. Preferisce sottolineare i limiti e i problemi provocati dalla stagione delle divisioni. E quindi l’importanza di un suo superamento definitivo. Quella fase è chiusa. Lo si è constatato da parte di Confcommercio nel contratto del terziario, in quello dei chimici e degli alimentaristi da parte di Confindustria. Lo sarà, molto probabilmente, anche nei metalmeccanici. Lo stesso Bentivogli, segretario generale della FIM, nel suo intervento all’attivo unitario di delegati metalmeccanici del sud in preparazione del prossimo sciopero, ha cercato di mettere sullo stesso piano l’impegno unitario necessario per garantire la riuscita del prossimo sciopero con quello che occorrerà per costruire una nuova proposta altrettanto unitaria da contrapporre a Federmeccanica. Ha fatto bene, secondo me, a sottolineare che questo sarà il rinnovo contrattuale più difficile nella storia dei metalmeccanici. Nulla di epico, come quello del 1966, né generoso in termini di risultati come alcuni contratti successivi. È il primo contratto nazionale nell’era della disintermediazione. Di una disintermediazione che, nei fatti, è già in corso nelle imprese.. La vera domanda è se questo rinnovo fotograferà il tramonto di un’epoca gloriosa o se, al contrario, saprà contribuire ad aprirne una nuova. Nella posizione di Federmeccanica i ruoli sono chiari e assegnati. L’impresa è un luogo di creazione di ricchezza nella quale si deve determinare un nuovo patto tra capitale e lavoro. Non più l’azienda “mamma” che deve garantire “dalla culla alla tomba” ma un’azienda dove ogni contributo viene valutato, sviluppato e riconosciuto fino a quando i risultati lo consentono. Quindi, a quei risultati, tutti devono orientarsi e sentirsi ingaggiati. Un patto che presuppone un rapporto reciprocamente “maturo”, da rinnovare nel tempo attraverso nuovi strumenti formativi, professionali e partecipativi/collaborativi. Quello che è evidente è che non è affatto chiaro il ruolo assegnato al sindacato confederale. O meglio se ne coglie indubbiamente solo l’aspetto più “aziendalista”. L’imprese, la singola impresa, ha i suoi valori, la sua missione, i suoi obiettivi di business, i sistemi di incentivazione e di coinvolgimento sia per mantenere un clima positivo che sui risultati. Li propone e li concorda con una rappresentanza sindacale interna che sarà sempre meno divisa da contratti diversi, categorie professionali ma sempre più coesa verticalmente. La globalizzazione, l’integrazione nelle filiere, la tecnologia e quindi l’aggiornamento professionale necessario alla continua rinegoziazione del “patto” spingono in questa direzione. Per questo bene a fatto Bentivogli a siglare un patto con i professional della FCA. Il mondo va indubbiamente in questa direzione. A questo punto la palla passa al sindacato. A tutto il sindacato metalmeccanico. Unito nella protesta ma molto più difficile da unire sulla proposta. La posizione di Federmeccanica non è affatto debole perché risponde a quello che già oggi avviene nella stragrande maggioranza delle imprese. Questo passaggio contrattuale lo può sancire o meno. Il punto non è se ci sono mediazioni possibili. Queste si troveranno sicuramente. Per questo l’aspetto salariale rappresenta solo la punta dell’iceberg. La domanda centrale è se il sindacato saprà unitariamente proporsi come interlocutore credibile non solo per le imprese ma anche per i lavoratori stessi che, lo si voglia o meno, sono già chiamati a rispondere a queste sollecitazioni culturali e professionali nei diversi luoghi di lavoro.

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La GDO ha veramente bisogno di un suo CCNL?

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È ormai evidente che siamo prossimi a possibili cambiamenti nel sistema contrattuale del nostro Paese. Federico Fubini sul Corriere presenta un’ipotesi di percorso graduale allo studio del Governo. Lo schema prevederebbe materie specifiche per il livello nazionale e altre possibili a livello aziendale. La stessa posizione di Federmeccanica punta, pur a certe condizioni, a salvaguardare un ruolo al loro CCNL. Quindi è probabile che l’obiettivo su cui convergere resti quello di costruire un sistema a due livelli indicando in modo chiaro cosa dovrà comprendere il primo e cosa il secondo. Perfettamente compatibile con le opzioni offerte dal CCNL del terziario firmato da Comfcommercio. Federdistribuzione, (ma, per certi versi, anche Confesercenti e Coop) avevano iniziato un percorso alternativo in un contesto politico, sociale e contrattuale completamente diverso da oggi nel quale ipotizzare nuovi soggetti contrattuali o insistere su specificità e peculiarità era ritenuto un punto importante di chiarezza (almeno per i proponenti). La strada intrapresa non solo non ha partorito risultati apprezzabili (almeno fino ad ora) ma rischia di non offrire alle imprese soluzioni utili ma solo ulteriori problemi. Nella migliore delle ipotesi i due punti principali (adeguamento salariale e welfare), in termini di costi, non potranno registrare differenze significative rispetto al CCNL del terziario. Al massimo si porrà un termine di adeguamento delle scadenze reciproche. Quindi la montagna rischia di partorire il classico topolino. La GDO ha sempre avuto il suo vero punto debole nei contratti aziendali perché nelle singole realtà ha dovuto, in passato, subire l’iniziativa sindacale. Ed è evidente che in tempi dove il punto vendita o il sistema logistico era più esposto alle agitazioni, il potere contrattuale del sindacato è sempre stato molto forte. Quindi indennità, inquadramenti, turnazioni e orari sono stati oggetto di “scorribande” che spesso hanno messo in seria difficoltà la gestione stessa dei punti vendita e quindi delle singole imprese. A questo occorre aggiungere che un’azienda “sotto attacco” interno si trovava esposta anche alla aziende concorrenti che ne traevano, in termini di vendite, indubbi benefici. Questo schema, nel passato, ha sempre reso deboli le difese nei confronti del sindacato anche a fronte di richieste assurde (ragionando nell’ottica odierna). Oggi la situazione si è ribaltata. Il sindacato è debole e diviso, i lavoratori coinvolti in progetti di crescita e sviluppo, le regole del gioco sono cambiate e i rapporti di forza sono favorevoli alle imprese. Quindi le aziende stanno cercando da lungo tempo di rimettere in discussione sia la contrattazione aziendale per riprendere definitivamente il controllo di tutti gli aspetti organizzativi che il costo del lavoro in generale. Va sottolineato che questo non è un tema posto strumentalmente dalle imprese. Il settore è in difficoltà, la leva dei prezzi non è oggi utilizzabile, le promozioni le fanno ormai tutti, i margini sono risicati, gli affitti sono di difficile rimodulazione e quindi i vincoli sui costi, sugli inquadramenti e sugli orari pesano ancora di più e le rigidità presenti in molte aziende aggiungono costi che potrebbero essere evitati. In questo contesto, continuo a pensare che la soluzione non è farsi il proprio contratto nazionale perché questa opzione non risolve nessuno dei problemi che non dipendono comunque da quel livello. Forse sarebbe più saggio percorrere altre strade. Magari in linea con l’evoluzione prossima del contesto contrattuale. Welfare e minimi contrattuali che siano di comparto o che siano quelli del CCNL del terziario non hanno alcuna influenza sui costi. Quindi rappresentano solo un problema politico che interessa poco le singole imprese coinvolte. Ovviamente interessa molto di più le federazioni o le confederazioni che lo hanno proposto in alternativa a quello del Terziario. Ma questo è un altro discorso. Altro tema è rappresentato dalla opportunità e dai luoghi dove affrontare l’esigibilità concreta su tematiche costistiche. Iniziando dall’inquadramento che comprende sia il problema della derogabilità del 2103 del cc. o dell’art. 13 della legge 300. Tema veramente importante che andrebbe posto e affrontato seriamente nelle sedi più idonee. Il collaboratore dovrebbe essere retribuito per il lavoro che svolge concretamente. Non per il suo percorso professionale passato. Questo, tra l’altro, non spingerebbe fuori dall’azienda i lavoratori più anziani che potrebbero, al contrario, essere meglio riutilizzati anche in caso di cambio di mansione. E questo è un tema che interessa tutto il comparto del terziario. Così come sarebbe utile poter sperimentare forme di sviluppo professionale in azienda che non siano necessariamente inserite nell’inquadramento tradizionale. Infine formule di derogabilità temporanea o legata non solo è non tanto alle aperture ma anche in particolari situazioni di mercato o locali. Ad esempio mi si dovrebbe spiegare la differenza tra un’insegna che apre ex novo e che ha degli indubbi vantaggi organizzativi ed economici nell’avviamento garantiti dal contratto e quella che subisce quell’apertura perché ne condivide il bacino di riferimento e non ne ha nessun vantaggio. Anzi.  Infine la possibilità di poter variabilizzare parte della retribuzione magari derogando da istituti obsoleti e investendo su forme di coinvolgimento serio sull’andamento economico degli stessi punti vendita. Certo si tratterebbe di abbandonare strade note scelte più per replicare ruoli e luoghi deputati al confronto tradizionale per spingere verso modelli alternativi. E ridare senso e ruolo alla contrattazione decentrata. Ma questo non basta. Le aziende possono fare solo la loro parte. Occorre, e questo è molto importante, che gli interlocutori sindacali decidano la posta in gioco, le nuove priorità e mettano in campo una nuova consapevolezza. Il futuro delle relazioni sindacali potrebbe passare anche da qui.

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