Nel dibattito sui livelli della contrattazione non è ancora comparso in modo chiaro il tema del modello di relazioni industriali auspicato e coerente. Quindi della natura stessa del sindacato e, di conseguenza, del rapporto tra sindacato confederale e impresa. In molti interventi sindacali si dà per scontato quello che scontato non è. Che tutto sia chiaro sul modello proposto e che ci sia un interesse comune alla collaborazione e che il modello partecipativo possa comprendere la cultura rivendicativa tradizionale, il coinvolgimento sulla strategia aziendale e, perché no, la codeterminazione dell’organizzazione del lavoro. E che questo rappresenterebbe un supposto vantaggio per le imprese. Non è così. Nella stragrande maggioranza delle piccole aziende, ad esempio, l’adesione al sindacato di uno o più dipendenti è visto, dall’imprenditore, come un fatto generalmente non positivo, a prescindere. Il piccolo imprenditore, salvo rari casi, se non costretto, non ha mai voluto aver nulla a che fare direttamente con il sindacato. Da qui la nascita negli anni, in alcuni comparti, di strumenti di gestione dei reciproci interessi all’esterno dell’impresa (enti bilaterali, uffici sindacali di associazione, uffici legali, ecc.) che, di fatto, hanno assegnato alle parti sociali la composizione dei piccoli o grandi problemi di interpretazione dei contratti o del singolo rapporto di lavoro. Evitando il contatto diretto ma facendo però crescere in entrambe le parti la disponibilità a tenere conto dell’altro e degli eventuali contenziosi da ricomporre con modalità non unilaterali o davanti ad un giudice. E non è una cosa da poco visto il tessuto produttivo italiano. In questa tipologia di aziende il rapporto personale e lavorativo tra imprenditore e singoli lavoratori è generalmente costruttivo e collaborativo. A queste dimensioni aziendali il contrario sarebbe assolutamente improponibile. Quindi, il modello prevalente vede l’impresa come un luogo dove la creazione di ricchezza è interesse comune dell’imprenditore e dei singoli lavoratori e dove il CCNL rappresenta un punto di equilibrio fondamentale e insostituibile. E parliamo di oltre il 90% delle imprese del nostro Paese. Nelle medie e grandi imprese, pur non essendoci un grande feeling tra sindacalisti e manager, c’è la consapevolezza che occorre impegnarsi reciprocamente per trovare le soluzioni necessarie a mantenere un clima positivo nelle imprese. Ed è qui che la natura e il modello scelto potrebbe fare la differenza. E, partendo da qui, costruire una nuova cultura collaborativa e partecipativa. Questa è la vera posta in gioco. Si può continuare a illudersi e rappresentare una realtà che non esiste più da anni fatta di rilancio di potenziali rapporti di forza, un tempo favorevoli, improbabili lotte in grado di ribaltare la situazione e una rinnovata capacità di modificare la distribuzione del reddito nel Paese a favore del lavoro dipendente o dei pensionati. Una cosa però non si può fare: scegliere una strada costretti dalla mancanza di alternative. Altra cosa è prendere atto che le nuove relazioni sindacali dovranno tenere conto del mutato contesto competitivo delle imprese, del loro inserimento nelle filiere globali, dei nuovi modelli organizzativi indotti dalla tecnologia e, del fatto che la ricchezza deve essere preventivamente prodotta prima di essere eventualmente distribuita. Marco Bentivogli della FIM CISL, senza scandalizzarsi, cita le parole di Bob King, ex leader del sindacato auto americano (Uaw): ‘Quando gli interessi dei lavoratori coincidono con quelli dell’impresa non è solo una scelta, ma un dovere fare un pezzo di strada assieme’. Lo stesso modello tedesco è lì a dimostrare che un leader sindacale di VW è innanzitutto di VW, poi della IG metall e poi della SPD. In quest’ordine preciso. È chiaro che se si ha in testa un modello partecipativo o collaborativo di nuovo conio solo da qui si può partire. Pensare di arrivarci da un modello conflittuale o addirittura antagonista è tempo perso. Nessuna impresa sarà mai disponibile. Né in Italia né altrove. L’AD di FCA ha, credo, dal canto suo, idee chiarissime. Pensa ad un sindacato aziendale sul modello americano o, al limite, tedesco. Credo che gli imprenditori italiani più sensibili in materia pensino, più o meno, ad un modello analogo. Federmeccanica spinge, di fatto, in questa direzione. Ma se è chiaro il modello di partecipazione ipotizzato dalle imprese non è altrettanto chiaro il rapporto tra sindacalismo confederale e aziendale. Ovviamente Si può anche non farne nulla e lasciare le cose come stanno. Per le imprese non interessate un modello che faccia perno su di un rinnovato sistema bilaterale moderno, efficace e territoriale con la possibilità di erogare quote di salario legato ad obiettivi di impresa e pochi (quattro) contratti nazionali che garantiscano welfare e minimi di riferimento e regole generali con spazi di autonomia per settori e comparti specifici potrebbe essere la soluzione auspicabile di una qualsiasi riforma. Al sindacato quindi spetta scegliere la direzione di marcia. Allo stato è più facile ipotizzare che la montagna partorirà il topolino. I due livelli (nazionale e aziendale) tenderanno inevitabilmente ad elidersi a vicenda. Più risorse sul primo, significano inevitabilmente meno sul secondo. Landini dice che uno più uno deve continuare a fare due. La realtà è che, in futuro, uno più uno rischierà di fare zero virgola nella stragrande maggioranza delle imprese oggi ancora coperte dalla contrattazione nazionale. Con tutti i rischi che comporta una modifica che non consideri l’intero contesto di riferimento.
La tristezza dei numeri…
Nell’intervista a Landini sul Corriere emergono con tutta evidenza i limiti di una strategia che non riesce a dare risposte in grado di proporre traiettorie credibili all’iniziativa sindacale. La Cgil nelle categorie industriali e nel terziario non è affatto ferma al palo. O partecipa insieme alle altre organizzazioni di categoria all’elaborazione e alla definizione di sintesi accettabili o, addirittura, è ritornata, essa stessa, a proporre punti di incontro e mediazioni come nel terziario mettendo in discussione egemonie consolidate. In parte per evidenti difficoltà altrui, in parte per una decisa spinta della stessa Confederazione. Vedere Landini costretto a nascondersi dietro la numerosità dei suoi rappresentanti della sicurezza in FCA in rapporto al peso e alla capacità di iniziativa delle altre organizzazioni lascia perplessi. Soprattutto nella prospettiva di un futuro rinnovo del loro contratto nazionale. Fino ad oggi ci ha pensato Federmeccanica a tenere insieme i tre sindacati con una proposta insufficiente sul versante economico e forse anche su altri temi ma non sarà così ancora per molto tempo. Landini non crede che siamo dentro un cambio di paradigma economico e sociale; che all’interno delle filiere produttive l’alleanza tra capitale e lavoro produrrà una continua metamorfosi dei soggetti in campo e quindi anche della rappresentanza. Che le contraddizioni tra garantiti e non garantiti coinvolgeranno imprese, territori, culture differenti e generazioni e che non saranno più sufficienti risposte semplici a problemi complessi. Tutti i corpi intermedi si stanno interrogando su come ricomporre un quadro di riferimento evitando che le distanze nelle rispettive basi di riferimento siano troppo ampie. Lui no. Attende dentro i suoi non più solidi confini novecenteschi che le contraddizioni esplodano altrove. Da qui nasce il senso di autosufficienza, una grave sottovalutazione degli altri sindacati e del ruolo stesso della sua Confederazione. Un errore analogo lo fece, negli anni ’90 la dirigenza della FIM di Milano che, in forza degli stessi principi, diede vita alla CUB trasformando un sindacato territoriale, ricco di iniziativa, votato alla solidarietà e alla proposta sociale anche avanzata, in un promotore di cause a ciclo continuo inserito permanentemente nel circuito dell’estremismo inconcludente che strizzava l’occhio ai salotti borghesi della città. La FIOM ha sempre evitato, fino ad ora, di seguire concretamente quella strada anche estromettendo ruvidamente chi ha cercato di cavalcare in modo troppo spregiudicato i confini tra opposizione sociale e politica. Ma oggi non basta più. Da un lato quella platea lo reclama come leader “usa e getta” e dall’altro altri compagni di viaggio lo richiamano alla coerenza e lo invitano a rientrare in campo senza spocchia ma nella chiarezza. Quindi dovrà scegliere con chi stare. La proposta di Federmeccanica, checché ne pensino alcuni esponenti sindacali, nella sua indigeribilità segnala comunque la volontà di mantenere un sistema che prevede ruoli e compiti precisi ai diversi livelli. L’alternativa non sarà un semplice ritorno al “modello classico” ma, piuttosto, il fai da te. Azienda per azienda. La cautela di Bentivogli è quindi più che giustificata. Il punto è come gettare “l’acqua sporca” contenuta nella proposta, senza “gettare anche il bambino”. Chiedere al nuovo Presidente di Confindustria di abiurare la posizione di Federmeccanica è ingenuo e inutile. Meglio farebbe Landini a contribuire all’elaborazione di una proposta alternativa insieme a UILM e FIM che non si basi solo sul rifiuto della proposta datoriale. Altrimenti il rischio è che anziché contare i rappresentanti della sicurezza Landini si troverà costretto a contare i livelli (veri) di adesione alle iniziative sindacali e agli scioperi. E allora non basterà accusare la controparte o le altre organizzazioni sindacali di cedevolezza o di connivenza con le tesi di controparte…
Convergenze interessanti
La nuova stagione sindacale aperta con la presentazione della piattaforma confederale sulla contrattazione, l’annuncio di iniziative comuni sulle pensioni e la firma unitaria nei principali contratti nazionali segnalano il sostanziale rientro in gioco della Cgil e le difficoltà di elaborazione e proposta che sembrano essere presenti in Cisl e Uil. In un recente convegno in Università Cattolica a Milano lo stesso Gigi Petteni, segretario confederale della Cisl, ha lanciato l’allarme agli intellettuali di area affinché ritornino a impegnarsi nel sociale a supporto del sindacato. Mai come oggi la solitudine dei corpi intermedi non aiuta la loro elaborazione strategica e non porta da nessuna parte. Gli unici segnali di cambiamento e di proposta sembrano provenire da qualche categoria dell’industria e da alcuni territori. L’ultima mossa interessante, in ordine di tempo, è la convergenza della FIM CISL con l’associazione quadri e professional di FCA (AQCF). Una decisione che ha colto impreparati quanti ritenevano che la ripresa dell’iniziativa unitaria sul rinnovo del CCNL comportasse il “sacrificio” di una linea politica vincente quanto indigesta alla FIOM. Quest’ultima decisione dimostra solo che l’unità sindacale provocata dalla posizione di Federmeccanica al tavolo contrattuale comportava una risposta. E questa risposta doveva essere, giustamente, unitaria. Ma, come aveva già fatto notare Bentivogli, tattica e strategia sono due cose differenti. E la strategia della FIM, anche sulle innovazioni che il rinnovo del CCNL può e deve produrre, è ancora sostanzialmente differente da quella della FIOM. E questo, prima o poi riemergerà nel confronto. I ritardi di elaborazione e le posizioni sbagliate non si recuperano con qualche autocritica estemporanea. Per questo servono i congressi, comportamenti coerenti al centro con in periferia e il rispetto delle opinioni diverse e dei luoghi dove queste opinioni si formano. Tutto questo presuppone tanta strada ancora da fare. E credo che sia da apprezzare se la FIOM intenderà percorrerla pur mantenendo la propria cultura e la propria identità. Un sindacato si rinnova solo se intuisce la direzione del cambiamento. Per questo la convergenza con l’associazione dei quadri FCA è strategica. Nei processi di integrazione nelle filiere globali saranno sempre meno le vecchie categorie contrattuali a determinare i confini organizzativi. E quindi anche quelli sindacali. Nell’impresa di nuovo conio, dirigenti, quadri e lavoratori di ogni livello, collaborano. Partecipano insieme al successo o al declino dell’azienda stessa. Ed è solo sperimentando nuovi linguaggi, culture e valori che sarà possibile declinare nuove traiettorie sindacali. La convergenza su alcune tematiche tra associazioni che provengono da un passato differente ma che vivono la stessa realtà arricchirà entrambi. Male fa Fismic a non comprenderlo. E male fanno le altre organizzazioni a restare ancorati esclusivamente a modelli gloriosi, importanti, da cui non avrebbe alcun senso prescindere che però vanno declinati nell’impresa di oggi e di domani. E male fa anche Federmanager a restare chiusa nel proprio recinto. Il futuro non si prevede, si fa. E il futuro va in questa direzione. Per tutti.
Lo “scontro” al tavolo negoziale dei metalmeccanici è solo sul salario?
Agli osservatori meno attenti non pare vero. Il negoziato sul rinnovo (o rinnovamento) del CCNL dei metalmeccanici si è fermato, come da tradizione, sul salario. Inaccettabile o insufficiente la proposta di Federmeccanica per i tre sindacati. Posizione, per altro, assolutamente comprensibile. Nessuno, ovviamente, vuole arrivare ad una rottura definitiva, perché la posta in gioco è alta, però l’impasse è evidente. La proposta di Federmeccanica è chiara. L’istituzione di un minimo di garanzia nazionale che consentirebbe l’aumento salariale solo a chi, alla firma, si troverebbe sotto quella soglia. Il calcolo dei sindacati, non smentito da Federmeccanica, conferma che l’aumento verrebbe percepito solo dal 5% della categoria. Quindi, per loro, una proposta inaccettabile. Non mi interessa qui entrare nel merito né fare previsioni. Probabilmente un accordo si troverà, prima o poi. Mi interessa cercare di ragionare sul punto. Ad una recente iniziativa di AREL a cui ho partecipato alcuni relatori hanno preferito mettere l’accento sull’alternativa tra livelli negoziali differenti senza entrare nel merito e su come questo risolverebbe la questione di fondo posta da Federmeccanica. A dire il vero Stefano Franchi ha cercato di inquadrare nel contesto economico e produttivo le ragioni della loro proposta ma, devo ammettere, senza grande ascolto. A parte Franco Martini della Cgil che, invece, secondo me, ha compreso il problema e la criticità delle distanze in gioco. Il punto è che la complessità del contesto economico continuerà a crescere. Per questo le imprese convergeranno, sempre di più, verso modelli a rete dipendendo interamente dalle filiere globali nelle quali saranno inserite. E questo ricorso alle filiere esterne porta con se modelli produttivi e organizzativi flessibili e decentrati, nuove conoscenze e nuovi servizi a monte e a valle. Di fatto il superamento del modello costruito intorno alle leggi, ai vincoli, e ai contratti nazionali o aziendali che ci trasciniamo dalla metà del secolo scorso. Il lavoro di chi partecipa al nuovo modo di produrre valore in tante diverse situazioni va sempre più perdendo le connotazioni facilmente definibili che aveva in passato. Innanzitutto tutti i lavoratori, che lo si voglia o no, saranno sempre più in competizione tra di loro. Tra luoghi e fabbriche nella stessa filiera o di filiere concorrenti e questo spingerà inevitabilmente il singolo lavoratore in una ottica profondamente diversa. In quante imprese in crisi, dipendenti e imprenditori si sono trovati concordi nel cercare soluzioni praticabili ad alcuni problemi determinati dal confronto competitivo globale (i costi, gli orari, la flessibilità, ecc.). In secondo luogo, la distribuzione del reddito nella filiera sopra descritta è sempre meno affidata alla contrattazione tra datore di lavoro e dipendenti sia a livello aziendale che con i sindacati a livello nazionale. E questo è il punto vero. La vera novità sottesa dalla proposta di Federmeccanica. Sono i prezzi dei contratti di fornitura tra fornitori e committenti che lo determineranno. Per cui la vera contrattazione che distribuirà il reddito della filiera (a imprenditori e lavoratori) si farà, sempre di più, ai tavoli che fissano i prezzi delle forniture. Da qui la richiesta di decentramento che se non gestita correttamente porterà inevitabilmente ad una situazione di dumping tra imprese e lavoratori. Infine, la terza questione che si apre per i sindacati, è quella dello status specifico che andrà assegnato al nuovo modello di riconoscimento professionale del lavoro dove sono richiesti autonomia, intelligenza, condivisione del rischio, dei valori dell’impresa e responsabilità. Tutti si rendono conto, ormai, che la figura del “lavoro dipendente” classico, ereditato dalla tradizione fordista, comincia ad essere superata, nei suoi elementi di fondo, rispetto alle nuove esigenze. Ma la cultura e l’ordinamento del lavoro, nel nostro Paese, sono fondamentalmente orientati alla conservazione dei modelli discendenti dai vecchi paradigmi che solo Marco Biagi aveva cercato di superare. Tutti i tentativi di cambiamento vanno avanti tra discussioni, spesso inutili, che si concentrano su aspetti secondari spacciati come innovazioni rivoluzionarie. Quindi, al di là del legittimo diritto di manifestare un dissenso di merito con la propria controparte il punto di svolta che caratterizzerà le nuove relazioni industriali passerà anche dalla capacità di affrontare o meno le questioni di fondo che sottendono alla “provocazione” di Federmeccanica Indipendentemente delle soluzioni che potranno essere individuate. Personalmente credo che la strada sia stata tracciata. Questi temi caratterizzeranno inevitabilmente i prossimi rinnovi contrattuali in ogni comparto. La sfida vera sarà tra chi vorrà giocare, fino in fondo, la partita e chi, al contrario, si limiterà a subirla.
Quale riforma della contrattazione? Una proposta del tutto personale…
Ormai è chiaro. Il confronto sui livelli contrattuali proposto da Cgil, Cisl e Uil non porterà a nulla di risolutivo. Almeno così sembra. La convinzione che bastasse sommare le reciproche posizioni in un rinnovato quadro di iniziativa unitaria si è dimostrata sostanzialmente inefficace. Nessuna controparte significativa pare intenzionata a coglierne lo spirito propositivo e ad entrare nel merito. Certo la tempistica scelta non sembra particolarmente centrata e, a parte i giudizi di merito, tre elementi ne condizionano il percorso. L’elezione del nuovo vertice di Confindustria e il rinnovo in corso del CCNL dei metalmeccanici nel settore industriale e i confronti ancora aperti nel settore del terziario che impediscono a Confcommercio di avviare un confronto utile e reciprocamente costruttivo. Detto questo, credo che alcuni elementi di merito dovranno caratterizzare qualsiasi ripresa di negoziato. Innanzitutto un principio credo, condivisibile da tutti: non si può distribuire ricchezza che non si è ancora creata. Quindi il nuovo modello dovrà necessariamente partire da qui. Non esistono né automatismi né scorciatoie praticabili. Soprattutto in fasi di inflazione bassa o assente. In secondo luogo il ruolo e il peso del welfare contrattuale anche in rapporto con quello aziendale; i suoi confini, le massa critiche necessarie e il conseguente consolidamento. In terzo luogo la formazione delle persone come strumento fondamentale di “ricostruzione continua” della professionalità dei singoli. Infine i luoghi deputati al negoziato, le materie specifiche da assegnare ai vari livelli e le eventuali deroghe. In questo contesto dovrà essere possibile anche prevedere la sospensione temporale di istituti in caso di crisi o in particolari situazioni territoriali. Così come dovrà essere possibile, la definizione di aree contrattuali in settori specifici dotate di relativa autonomia (ad esempio la GDO o la ristorazione nel terziario) che, pur rispettando il CCNL di riferimento per quanto riguarda alcuni istituti, possano derogare su materie specifiche e omogenee del loro comparto. Ottenendo così il risultato di ridurre notevolmente i contratti nazionali e di garantire la gestione delle peculiarità. Infine un tema che non appare mai ma che, personalmente, reputo fondamentale. La riforma del salario e dell’inquadramento. Pensare che si possa parlare di una efficace riforma della contrattazione senza affrontare questi due temi significa mettere in conto che la “montagna partorirà il topolino”. L’inquadramento risale agli anni ’70 del secolo scorso e non sarà certo una delle ennesime commissioni nei singoli contratti a garantirne modifiche significative. Bisogna innanzitutto chiedere al Governo, e quindi al Parlamento, di mettere mano, ad esempio, all’art. 2103 del codice civile e, di conseguenza, all’articolo 13 della legge 300 per affrontare, non tanto il tema del demansionamento, quanto quello della rispondenza effettiva del livello contrattuale (nuovo o vecchio) con la concreta mansione svolta. Senza trascinamenti derivati dall’anzianità aziendale, superando inquadramenti e mansionari obsoleti e limitandosi, ad esempio, a indicare range retributivi da mettere in relazione con nuovi e precisi riferimenti parametrali. La vera riforma passa da questo punto. E, partendo da qui, mettere mano alla struttura complessiva della retribuzione individuando ciò che dovrebbe costituire il minimo garantito nazionale (ad esempio parametrandolo alla CIG), ciò che è salario professionale da legare alle nuove scale parametrali e, infine, ciò che è salario da mettere in relazione all’andamento aziendale o ad obiettivi specifici. In questo modo si avrebbe una parte fissa e due variabili. La parte fissa e quella professionale di riferimento sarebbero trattate a livello nazionale, l’ultima a livello aziendale insieme all’allineamento di quella professionale alle esigenze specifiche dell’impresa. Le due parti variabili spingerebbero decisamente verso un modello dove la formazione e la crescita professionale diventerebbero un elemento decisamente più importante e condiviso così come un effettivo e non formale coinvolgimento su rischi e opportunità dell’impresa farebbe evolvere in senso collaborativo il contesto delle relazioni industriali. Certo non sono scelte facili. Soprattutto se si crede ancora possibile un ritorno al passato o un semplice aggiustamento della situazione attuale. Ma se riteniamo che l’azienda deve essere sempre più un luogo di creazione di ricchezza e, quindi, di collaborazione tra capitale e lavoro non abbiamo altra strada. Dobbiamo individuare gli strumenti per condividerne l’andamento, i problemi e le prospettive. Da entrambe le parti. Le nuove modalità organizzative da industry 4.0 in avanti e i nuovi modelli organizzativi e di business vanno in questa direzione. Le persone, il loro contributo e la loro qualità (impegno, condivisione, capacità e competenze) ritornano al centro dei valori e degli interessi dell’impresa. Meglio se con nuove relazioni industriali. La cosiddetta “disintermediazione” si impedisce solo se si abbandonano le rendite di posizione con proposte chiare. Per questo occorre che entrambe le parti si attrezzino dotandosi di una strategia e di una visione comune in grado di affrontare il futuro. Strategia che, oggi pare non esserci ancora.
Quale futuro per i nostri diplomati? Il rapporto Almadiploma – da secondo welfare
Il Rapporto 2016 AlmaDiploma, che scaturisce dalla decima Indagine sugli Esiti a distanza dei Diplomati presentata lo scoso 25 febbraio a Roma, vuole essere funzionale sia alle politiche per l’orientamento sia al miglioramento del rapporto fra formazione/istruzione e mondo del lavoro. Tutto questo nell’ottica del contrasto alla dispersione scolastica e al fenomeno dei NEET (giovani di 15-29 anni né occupati né impegnati in percorsi formativi o educativi) che in Italia interessa il 26% dei giovani (il 10% in più rispetto alla media europea).
Caro Inps, tieniti la tua busta arancione…. di Elisa Calessi
Caro Inps, caro Tito Boeri, non mandarmi la busta arancione. Ti faccio risparmiare la spesa di busta, lettera e francobollo. Sarà poco. Ma meglio che niente. No, non mandarmela. Apprezzo l’intenzione, capisco la filosofia che c’è dietro. Mi sforzo, per così dire, di capirla e immagino sia, suppergiù, questa: è bene che le persone, e in particolare i giovani, siano consapevoli del futuro previdenziale che li aspetta (o sarebbe più corretto dire: che non li aspetta). Capisco, ma proprio per questo insisto: non voglio la busta arancione.
Innovazione e domanda di consapevolezza. Piero Dominici – nova sole 24
L’obiettivo principale di questo paper è quello di evidenziare i livelli di connessione esistenti tra la particolare contingenza/congiuntura storico-culturale e la sempre più attuale ed urgente domanda di filosofia e di un “diritto alla filosofia” inteso, non tanto come risposta ad una domanda di senso che è forte, radicata ed evidente, quanto come una sorta di diritto alla consapevolezza, ad essere capaci di riflettere, analizzare criticamente ed elaborare pensiero e, possibilmente, soluzioni alle problematiche della propria esistenza.
Persone al centro
Bene ha fatto Di Vico a scrivere, oggi sul blog del Corriere, che nella proposta di Federmeccanica c’è una riflessione nuova e, di fatto, molto impegnativa. Innanzitutto per imprenditori e aziende. L’importanza delle persone per una nuova cultura delle imprese. Impostazione che va al di là delle tipiche resistenze sul salario o dei tentennamenti sull’inquadramento tipiche di ogni fase negoziale e che lancia una sfida completamente diversa al sindacato che, a parte la FIM CISL, che proprio ieri ha centrato il tema dello sviluppo dei lavoratori anche attraverso la formazione, sembra non accorgersene. Ma questa è una sfida anche per chi, nel dibattito sulla successione alla guida di Confindustria, si schiera sulla proposta di Federmeccanica senza cogliere in pieno il significato di questa svolta. Purtroppo la stagione che abbiamo alle spalle e che ha caratterizzato le relazioni industriali del nostro Paese non aiuta ad accettare l’idea che sia necessario un vero e proprio cambio di paradigma. Troppe visioni a corto termine, troppe incoerenze e troppe reticenze per nascondere modesti interessi di comparto. Nel secolo scorso, quando l’antagonismo e il conflitto dominavano la scena, le poche innovazioni in chiave partecipativa provenivano da minoranze (sindacali e datoriali) che sperimentavano, in provetta, forme di collaborazione costruttiva. Oggi è diverso. L’incertezza del contesto impone il dialogo. Che lo si auspichi o meno. Che lo si subisca o che, al contrario, lo si proponga. Si affacciano nuovi bisogni, i confini del lavoro si modificano, le imprese si misurano con nuovi modelli di business, i cambiamenti costringono ad accelerazioni imprevedibili e improponibili fino a pochi anni fa. Oggi ce la caviamo ancora continuando a fare cose vecchie in modo nuovo ma, chi si sta affacciando sulla scena, si troverà a fare, sempre più, cose nuove in modo nuovo e, d’altra parte, abbiamo sempre meno esperienza consolidata e utilizzabile per quello che dovremo andare a fare. Su un punto, credo, siamo tutti d’accordo: le persone, nelle imprese, sono e saranno sempre più importanti. E le persone, nell’azienda di oggi e di domani non vanno solo tutelate nel rapporto di lavoro, vanno ingaggiate, motivate, coinvolte, responsabilizzate. La sfida, è nella formazione, nello sviluppo, nella crescita professionale ma anche nella costruzione di nuove relazioni sindacali. O saranno in grado di accompagnare queste esigenze consentendo alle persone opportunità di crescita, di continua “ricostruzione” professionale per interagire con un mercato del lavoro molto più complesso, di mettere loro a disposizione welfare integrativo e innovativo, di creare opportunità di bilanciamento tra esigenze di lavoro e esigenze di relazione, oppure saranno sempre più marginalizzati e resi irrilevanti nelle aziende e nel Paese. L’impresa non è un luogo di scontro. Non lo è più da molto tempo. L’asimmetria nei rapporti di forza è evidente e condivisa. Pensare di riportare indietro le lancette del tempo per riequilibrarli è una fatica inutile. Però l’impresa del futuro necessità di persone consapevoli, convinte, coinvolte con le quali dovrà essere possibile costruire dei patti chiari, magari a tempo, ma chiari. Quindi rapporti più maturi. Per questo i contratti nazionali sono e restano importanti. Dovranno definire comunque, oltre ai i minimi retributivi di riferimento, la cornice, gli strumenti, le regole di ingaggio, i costi da pagare se, queste regole, non dovessero essere rispettate. Evitando così situazioni di dumping tra le aziende e di concorrenza tra lavoratori di diversa provenienza. Così come i contratti aziendali che si dovranno occupare di coinvolgere, ingaggiare e condividere rischi e opportunità tra l’impresa stessa e i suoi collaboratori. Il primo passo, importante, è stato quello di decidere che la stagione degli accordi separati si doveva chiudere. Le imprese e le loro rappresentanze hanno compreso che non portava da nessuna parte e i singoli sindacati confederali che non ne avrebbero conseguito alcun rilevante beneficio. Solo nel comparto metalmeccanico, per la persistenza di vecchia logiche, non solo ideologiche ma anche di potere, era e forse, è ancora necessario reggere con forza un distinguo sui contenuti. La deriva identitaria quando è sganciata da una progettualità alta e idee forti però produce solo subalternità. Quindi una nuova stagione di ripresa di iniziativa unitaria era auspicabile ed è importante che sia di nuovo possibile. È evidente che una unità esclusivamente difensiva e intesa come la sommatoria delle reciproche debolezze strategiche è solo destinata ad accelerare il processo di marginalizzazione. Per questo non basta comprendere il cambiamento. Bisogna esserne parte. Da soli non si basta più. L’azienda per reagire al contesto cerca nuovi equilibri, si trasforma da organizzazione in organismo e quindi diventa sempre più trasparente e vissuta da chi ci vive dentro. Per questo rimette al centro le persone. Sempre meno “dipendenti” è sempre più collaboratori con cui si condivide e si concorda. La vera sfida per il sindacato e per le nuove relazioni sindacali sta tutta qui. Certo ci si può sottrarre tornando indietro. Oppure mettersi in gioco. E non saranno le formule o l’esportabilità di un modello a fare la differenza. Quindi, nel sindacato confederale, diventerà sempre più importante che si riprenda a discutere di strategie, obiettivi e contenuti anche della contrattazione in chiave innovativa e non conservatrice. Credo però non sia sufficiente percorrere questa via da soli. Sindacati da un parte e imprese dall’altra. Occorre uno sforzo comune. Ricordandoci sempre che al centro ci sono le persone, la loro vita, il loro impegno e il loro futuro. E in gioco c’è il ruolo che i corpi sociali vogliono giocare nella nostra comunità. Una sfida non da poco.
Il rinnovo dei contratti nazionali tra strategie, contenuti e liturgie
Il rinnovo del contratto nazionale di qualsiasi categoria, rischia, negli anni, di assomigliarsi sempre nelle liturgie che lo accompagnano, Nessuna evoluzione particolare all’orizzonte. Il punto è che, se si vuole cambiare, passando da un sistema sostanzialmente rivendicativo/conflittuale ad un’altro, maggiormente collaborativo, le modalità, la comunicazione, le forme di composizione e di dissenso vanno riviste profondamente. Ad esempio come si può pensare di “chiamare alla lotta” per costringere la controparte a forme maggiori di partecipazione? Oppure a costruire e condividere pezzi importanti di gestione del welfare contrattuale? Oppure ad avere uno sbilanciamento dei costi sul livello nazionale e chiedere contemporaneamente un maggiore decentramento della contrattazione? E potrei proseguire con altri esempi. Questa impostazione che lo si voglia o no, è tipica di una cultura che vede nel conflitto uno strumento ancora in grado di modificare sostanzialmente la posizione della controparte (e non è più così da tempo) accompagnata da una comunicazione altrettanto tradizionale che cerca di banalizzare le posizioni di una controparte con cui si vorrebbe costruire una strategia diversa. Tutti sanno che il costo complessivo di un contratto è calcolato minuziosamente dalle imprese. Solo le contropartite, la dimensione delle tranche, le modalità e la durata sono evidentemente mobili e, solo in questo modo, si potrà individuare un bilanciamento con le richieste; per questo condividere la direzione di marcia è più importante delle distanze sui singoli punti. Ed è per questa ragione che, l’unico modo di “mettere in difficoltà” una controparte, resta nella capacità di presentare controproposte credibili e praticabili che rispettino una strategia complessiva. Quando si trovano queste soluzioni parziali, di solito, il negoziato fa degli utili passi in avanti. Credo sia evidente a tutti che i rapporti di forza sono cambiati. Così come è evidente che la piattaforma prevalente, sulla quale il confronto avviene, è sempre più spesso quella datoriale. Quindi è solo la capacità propositiva e non la minaccia del conflitto in sé che può modificare i comportamenti. Soprattutto quando questi scontano anche elementi esterni al tavolo negoziale. A volte prendere tempo non è perdere tempo. Soprattutto quando continuano ad esistere profonde differenze strategiche nello stesso sindacato. Una strategia unitaria esclusivamente difensiva è destinata a non percorrere nuove strade ma di portare tutti su di un binario morto. Occorre indicare con chiarezza dove si vuole andare, con chi e con quali obiettivi. E questo non lo si ottiene sommando le rispettive debolezze o illudendosi di poter riprendere uno spazio sociale messo definitivamente in crisi dalla globalizzazione e dal contesto sociale e politico. Occorre ben altro. La contrattazione, è evidente, resta comunque la ragion d’essere di un sindacato. I suoi contenuti e le modalità con cui vengono sviluppati e realizzati caratterizzano la qualità dei dirigenti e la loro capacità di interpretare e accompagnare il cambiamento preparando il futuro. In entrambi i campi quindi non solo tra i sindacati dei lavoratori. E, di questa qualità, lungimiranza e convergenza il nostro Paese, oggi, ne ha un gran bisogno.