Tacchini e scoiattoli

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Maurizio Bernava, segretario confederale della Cisl, in un recente confronto sulla vicenda della Reggia di Caserta proponeva di affrontare i problemi della PA attraverso una maggiore partecipazione dei lavoratori, una valutazione del merito, della professionalità in un contesto di innovazione. Una ricetta per certi versi interessante ma, come cercherò di spiegare, di difficile realizzazione nel contesto attuale. “È possibile insegnare a un tacchino a salire in cima a un albero, però per quel lavoro sarebbe meglio assumere uno scoiattolo” ci ricorda spesso Giampaolo Montali. In ogni azienda, privata o pubblica, un manager deve sapersi misurare con le risorse umane che gli vengono affidate, anche perché i tacchini sono statisticamente più numerosi degli scoiattoli. Per non restare a Caserta, se prendiamo come esempio la nascente ANPAL (Agenzia per le politiche attive del lavoro) secondo il Senatore Ichino, oltre a evidenti problemi di costruzione e di finalizzazione delle sue attribuzioni e attività rischia di ritrovarsi con molti tacchini e pochi scoiattoli. Se così fosse, è evidente che non sarebbe certo un buon inizio. Secondo la sua valutazione mancherebbero le competenze necessarie a ricoprire quei ruoli nei potenziali candidati. Però il segreto del successo di ogni azienda sta proprio nel saper costruire una squadra in cui i “tacchini” possano essere motivati, allenati, sostenuti, per andare oltre i propri limiti e raggiungere risultati che nemmeno loro, in partenza, pensavano di essere in grado di ottenere. La riorganizzazione della PA è un passaggio obbligato sulla strada del cambiamento del Paese. Pensare di effettuarla senza considerare la quantità e la qualità delle risorse umane disponibili, la riqualificazione necessaria a ricoprire i nuovi incarichi e, infine, la disponibilità dei singoli a rimettersi in gioco a prescindere dall’età e dai problemi personali determinerà o meno il successo dell’operazione. Nei processi di riorganizzazione aziendale del settore privato è sempre stato evidente che non basta spostare le persone e adibirle, forzatamente o meno, a nuove attività. Occorre prepararle professionalmente ma anche lavorare sull’engagement e sulla motivazione. La maggior parte dei processi di merger and acquisition nel mondo hanno comportato enormi sprechi di risorse economiche proprio perché si sono sottovalutate le conseguenze della non gestione delle risorse umane. Nella PA italiana questo elemento si presenta ancora più complesso. E questo per una serie di motivi. Innanzitutto perché non c’è una pratica consolidata di gestione delle risorse umane né in termini di sviluppo individuale e di mobilità professionale tra settori né di valorizzazione dell’impegno e della professionalità. In secondo luogo perché le gerarchie presenti, indipendentemente dalla buona volontà dei singoli, non sembrano essere dotate di metodologie particolarmente innovative e coinvolgenti. Non esistono forme di leadership riconosciute ed esercitabili concretamente in grado di condividere, supportare e coadiuvare scelte e decisioni politiche e organizzative. L’adesione volontaria alla mobilità ritenuta dal sen. Ichino un elemento quasi censurabile, perché mette al centro il dipendente rispetto alle esigenze del cittadino, se in astratto è condivisibile, in concreto rischia di rappresentare uno dei pochi elementi da valutare positivamente. Lavorare sulla motivazione di una persona che ha scelto volontariamente un percorso è indubbiamente più produttivo che coinvolgere chi accetta o subisce una soluzione più o meno “spintaneamente”. Però il difetto principale della soluzione proposta della CISL di decentramento tout court della contrattazione nella PA è che, temo, non sia immediatamente praticabile nel contesto attuale. Come tutti i progetti di riorganizzazione l’operazione di riassegnazione delle risorse umane deve necessariamente comportare formazione e coinvolgimento del personale ma anche evidenti risparmi, efficienza ed efficacia delle nuove strutture create. Oggi nella PA c’è ancora una cultura nella dirigenza e del ruolo dei sindacati locali poco propensa alla responsabilità, alla decisione e alla individuazione del nuovo soggetto di riferimento che è il cittadino utente e non solo il dipendente pubblico. Questa cultura spingerebbe inevitabilmente a compromessi organizzativi locali difficilmente accettabili. Termini come efficienza, merito, trasparenza, rapidità si scontrano con abitudini, modalità applicative, presenza di un pluralismo di sigle sindacali, ricorsi e via discorrendo che determina l’assoluta necessità della definizione di regole chiare e condivise, tipiche di una situazione straordinaria, che incidano profondamente su situazioni personali e di gruppo all’interno di un percorso chiaro. I fatti di Caserta sono lì a dimostrarlo. Due sindacalisti locali non soddisfatti del comportamento del direttore decidono di scavalcarlo con una lettera chiedendo un intervento ad una istanza superiore. È un chiaro atto teso a delegittimare l’interlocutore tradizionale imbrigliandone i comportamenti. In quel caso, fortunatamente, non ha funzionato ma l’episodio certifica la difficoltà di decentrare alcunché senza trovarsi a dover fare i conti in un ginepraio di leggi, procedure e compromessi che continuerebbero a mettere al centro “solo” le esigenze del singolo dipendente pubblico e del rispetto di norme consolidate contro l’assoluta necessità di efficienza e di efficacia. Quindi occorre muoversi in altro modo individuando a monte lo spazio negoziale che può essere assegnato al livello locale. Altrimenti non accadrà nulla di buono. Incidere sulle rispettive “aree di confort” non è semplice. Pensare che lo possano fare dei sindacalisti locali della PA abituati spesso a tutt’altri comportamenti è velleitario. Machiavelli ci ricorda che “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al popolo”. Una riorganizzazione comporta necessariamente disagi personali, incomprensioni e ingiustizie. Il sindacato deve esercitare il suo ruolo di tutela cercando di attutire al massimo queste conseguenze con proposte e alternative praticabili ma alla politica  spetta la responsabilità di decidere e alla dirigenza di realizzare concretamente quelle decisioni. Questo è il punto vero. A Caserta o altrove. Altrimenti non si combinerà nulla di buono per il Paese.

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La metafora della Reggia di Caserta…

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Quello che è accaduto alla Reggia di Caserta deve farci riflettere. Per certi versi è una metafora del nostro Paese. Un luogo bellissimo che tutti ci invidiano, sottovalutato, da rilanciare, dove un direttore cerca di impegnarsi, in perfetta solitudine, completamente circondato da una fortissima resistenza al cambiamento. Il fatto che, questa resistenza, si sia manifestata con una lettera sottolinea ancora di più l’arroganza di chi pensava che, nascondersi dietro una o più sigle sindacali, fosse sufficiente a “spaventare” l’intruso costringendolo a recedere e a comportarsi di conseguenza. I “mariuoli” non pensavano certo di assurgere agli onori della cronaca nazionale. Pensavano che, a seguito della loro iniziativa, qualche solerte funzionario sarebbe stato inviato dal Ministero per mediare, magari convincendo il direttore che, certe richieste di maggiore impegno e disponibilità, pur assolutamente condivisibili, avrebbero dovuto essere gestite con maggiore tatto e sensibilità nei confronti dei sindacati locali. Così facendo il direttore avrebbe perso completamente la sua autorità (ma anche la sua motivazione) e si sarebbe trovato ostaggio, non dei lavoratori, ma di qualche “cacicco” locale che, in questo modo, avrebbe potuto rimarcare il suo potere personale di interdizione. Fortunatamente non è andata così. I vertici confederali non hanno avuto dubbi a schierarsi dalla parte della ragione creando quell’isolamento necessario che sarà fondamentale nei prossimi mesi e che consentirà al direttore a continuare il suo lavoro con ancora maggiore determinazione. E sicuramente presto, tutti noi, ne godremo i benefici. Nessuno ha avuto dubbi su quali fossero i veri interessi in gioco. Né il Governo, né le parti sociali, né i media, né l’opinione pubblica. Quello che mi chiedo è perché tutto questo “buon senso” non possa essere trasportato a livello “Paese”. Ne avremmo veramente bisogno. Se tutti insieme convergessimo su quattro o cinque macro obiettivi fondamentali e non ci perdessimo in scontri verbali di retroguardia trasformeremmo questo nostro Paese in una Reggia. Non bisogna essere dei fini politici per capire che il Paese che dobbiamo cambiare è quello che si nasconde dietro quei comportamenti, che a Caserta si sono manifestati alla luce del sole, ma che sono presenti e radicati ovunque. Nella politica, nei diversi ceti sociali, nei corpi intermedi, nei media, nelle istituzioni. E che solo con uno scatto di orgoglio e di determinazione collettiva riusciremo a sconfiggere. Il nostro è un Paese che ha bisogno di una nuova Costituente più che di una nuova Costituzione. I corpi intermedi potrebbero dare il proprio contributo convergendo unitariamente su alcune proposte sulle quali sono disposti a mettersi in gioco. Così come a Caserta si è scelto il Direttore senza se e senza ma, in questo caso si sceglierebbe il Paese, l’interesse generale e la necessità di riscriverne le regole del gioco. E così passare finalmente da una logica difensiva ma perdente dove domina il “già dato” e “cosa mi aspetto dal mio Paese” a quello di “cosa posso fare”. Prima che sia troppo tardi.

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Se i sindacati si rassegnano alla irrilevanza

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I segnali, purtroppo, ci sono tutti. Dalla lettera autogol dei sindacati della Reggia di Caserta, al tentativo della FIOM di rientrare in partita sorvolando sul fatto di essersi messa fuori gioco da sola nella vicenda FCA. Ma anche l’idea di presentare una piattaforma unitaria che, pur rappresentando un atto positivo in sé, per il suo valore simbolico, in mancanza di interlocutori interessati rischia di essere ricordato come un esercizio di stile fine a se stesso. Comunicare, come fosse un successo politico, l’incontro con la CONFAPI e la sua presunta disponibilità a proseguire il confronto di merito è un altro segno di grande debolezza. Così come l’irritazione di Gigi Petteni per il mancato coinvolgimento del sindacato sul decreto del Governo previsto per la prossima settimana in tema di detassazione dei premi di produttività. Da questi esempi sembra emergere da più parti una vera difficoltà del sindacato confederale a ridisegnarsi un ruolo propositivo e costruttivo in un contesto diverso dal passato. Dall’altra parte sia il ministro Poletti che il sottosegretario Nannicini in diverse occasioni hanno sottolineato la disponibilità del Governo a confrontarsi con le organizzazioni sindacali a fronte di proposte di merito in sintonia, ovviamente, con un percorso di rinnovamento delle relazioni industriali che sappia superare tutti i suoi limiti attuali. Nell’ultimo confronto tra Tommaso Nannicini, Marco Bentivogli della FIM e Marco Gay presidente dei giovani imprenditori di Confindustria il tema è emerso in tutta la sua portata. Non esiste alcuna volontà di emarginazione ma semmai esiste una indisponibilità a percorrere strade che non porterebbero da nessuna parte. Personalmente credo che il punto vero stia proprio qui. O le organizzazioni sindacali confederali unitariamente decidono di imboccare un percorso nuovo senza sommare le rispettive debolezza e senza nascondere i problemi sotto il tappeto o il rischio di auto condannarsi alla irrilevanza è molto concreto. L’esempio della FIOM è paradigmatico. Dura e pura, minaccia fuoco e fiamme ma non riesce a toccare  palla. Sotto questo punto di vista il rinnovo del contratto dei metalmeccanici sarà un grande banco di prova. La tentazione in entrambe le delegazioni di utilizzare lo specchietto retrovisore è ancora forte e, ad alcuni di loro, suggerirà avvincenti scorciatoie, toni sopra le righe e metafore guerresche tipiche della tradizione classica. Ma quello che è successo in FCA e che rischia di succedere altrove è lì a dimostrare che solo dove esiste un sindacato che comprende la profondità del cambiamento in atto e lo accompagna nell’esclusivo interesse dei lavoratori c’è un futuro per la rappresentanza altrimenti c’è solo lo spazio per una sterile quanto miope difesa dell’esistente. Finché dura. Ma, come abbiamo visto, in questo contesto, è un atteggiamento che rappresenta solo l’altra faccia dell’irrilevanza.

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“Fare impresa per creare valori”

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Roger Abravanel non poteva ottenere migliore risposta. Confindustria c’è. Per la prima volta nella sua storia una delle grandi organizzazioni degli imprenditori italiani decide che è arrivato il momento di chiedere ai suoi associati un importante momento di riflessione sul senso e sul ruolo dell’imprenditore nella società. E non lo fa chiedendolo a qualche intellettuale amico in un convegno ma a quello che sempre più si sta dimostrando un grande punto di riferimento in questo cambio di paradigma economico, sociale e politico che attraversa l’intero pianeta: Papa Francesco. E non è stata una passerella mediatica. Anzi. È stato un momento fortemente simbolico. In Italia ci sono oltre cinque milioni di imprenditori. Un numero sconosciuto altrove. Cinque milioni di persone che ogni giorno devono trovare in se stessi la forza e l’ingegno di guardare avanti. In un mondo dominato dalla finanziarizzazione e dall’integrazione globale non è facile. Non lo è mai stato ma oggi lo è ancora meno. Per affrontare questa sfida quotidiana, oggi più che mai, occorre trovare un senso, una ragione, una direzione di marcia che sappiano andare oltre la semplice realizzazione del profitto e del benessere personale. Ed è questo disorientamento sul proprio futuro, su quello dei propri figli, sulla capacità o meno di navigare in mari sconosciuti ma anche sulla grande responsabilità rispetto ai propri collaboratori e alle loro famiglie che spinge a cercare dentro di sé una motivazione, una forza d’animo un senso che rimetta in discussione vecchie convinzioni alla ricerca di un ruolo attivo, di presenza, nella comunità. In una comunità nazionale anch’essa percorsa da smarrimento, incertezza, preoccupazione verso il futuro dei propri membri. Ed è questa necessità di sentirsi di nuovo “parte” e non solo “homo oeconomicus” che mostra in tutta la sua forza morale il messaggio di Papa Francesco e la volontà degli imprenditori di interrogarsi veramente. Frasi come “Non c’è giustizia e benessere senza il rispetto dell’individuo” pronunciata dal Papa, oppure “rinnoviamo l’impegno a costruire una società più giusta e vicina alle nostre persone” pronunciata da Storchi, presidente di Federmeccanica, segnalano la presenza di qualcosa di più profondo che Confindustria ha avuto il merito di intercettare e di fare emergere in tutta la sua forza. Certo non basta. Ma guardiamoci intorno. Dove cogliere un segnale altrettanto importante? Nel mondo, in Europa o anche più vicino a noi? Nulla. Tutto sembra andare in ben altra direzione. “Come sarebbe diversa la nostra vita se imparassimo a costruire insieme”. In questa affermazione semplice, diretta ma inequivocabile sta il senso del messaggio di Papa Francesco. L’applauso degli imprenditori presenti rappresenta una conferma e un impegno. Hemingway sosteneva che:”dobbiamo abituarci all’idea che ai più grandi crocevia della vita, non c’è segnaletica”. Beh! Questo è un segnale forte e chiaro. A tutti noi saperlo coglierlo o meno.

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Contratto metalmeccanici. È il tempo della riflessione.

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Personalmente trovo un errore agevolare una deriva tradizionale nel rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. L’intervista di Rocco Palombella sembrerebbe andare in questa direzione. Infatti sostenere come ha fatto il dirigente sindacale che l’analisi proposta da Federmeccanica del contesto economico è sostanzialmente corretta ma questo non può avere conseguenze sul costo del rinnovo contrattuale mi sembra una forzatura. Comprendo benissimo l’esigenza di inviare messaggi chiari alla controparte e contemporaneamente di rassicurare i propri militanti sulla determinazione messa in campo ma questo non può comportare l’inevitabile effetto collaterale di spingere Federmeccanica sulla barricata opposta. Innanzitutto perché il Paese non credo abbia bisogno di barricate in questo momento. In secondo luogo perché il rinnovo dei vertici confindustriali spinge inevitabilmente alla radicalizzazione e quindi, chiunque abbia in testa una svolta più partecipativa dovrebbe perseguire con maggiore determinazione una strategia negoziale di valorizzazione continua degli elementi costruttivi evitando di evocare tra i militanti il ricordo del “bel tempo che fu” quando il conflitto poteva porsi l’obiettivo di modificare posizioni intransigenti o strumentali. Oggi non è più così. Ci sono comparti senza contratto da anni e questo non provoca nessuna reazione né solidaristica né da parte delle istituzioni. Oggi occorre avere delle solide buone ragioni per convincere e creare alleanze perché la posta in gioco è molto alta. Lo è per le persone, lo è per l’intera comunità nazionale, lo è ovviamente anche per i corpi intermedi. L’idea di sommare gli effetti economici dei due livelli di contrattazione non è perseguibile. Tra l’altro è il vero motivo sul quale la proposta unitaria confederale rischia di non fare nessun passo in avanti. Occorre al contrario trovare come renderli integrabili offrendo al primo un compito ma lasciando al secondo la possibilità di sperimentare concretamente forme di partecipazione all’andamento economico aziendale e investendo su reali incrementi di produttività. Non farlo adesso significa rimandare una vera riforma della contrattazione per almeno tutta la durata del contratto. È questo l’obiettivo? Io credo di no. Certo anche Federmeccanica deve fare dei passi avanti. Ha avuto la capacità di proporre innovazione vera sia nel merito che nel metodo. Ha messo sul tavolo una proposta stimolante, ha raccolto consensi in Confindustria e non solo. Ha, di fatto, proposto un orizzonte nuovo che contribuisce a ridisegnare un sistema vecchio e superato. Ma non può farlo da sola. Per non trasformare il tutto in una bandiera deve trovare interlocutori sindacali che “comprendono il nuovo e che guidano il cambiamento”. Non deve sprecare una occasione fidandosi solo della “legge del pendolo”. La forza oggi non serve se l’obiettivo è la condivisione. Occorre, al contrario,  favorire la  crescita di una cultura nuova. Tutti coloro che sono interessati a farlo devono fare un passo indietro avendo in testa questo obiettivo. E questa è una responsabilità di non poco conto.

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Quale livello di Welfare aziendale nelle piccole e medie imprese?

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Welfare Index PMI è un indice, promosso da Generali con la partecipazione di Confindustria e Confagricoltura, che valuta il livello di welfare aziendale nelle piccole e medie imprese italiane. Sviluppato dalla società specializzata Innovation Team, questo strumento vuole fotografare il livello del welfare aziendale nelle PMI e, nel contempo, offrire alle aziende la possibilità di valutare il livello di servizi offerti comparandoli con quelli delle altre imprese che hanno partecipato all’indagine. Il Welfare Index PMI esprime con un numero che va da 0 a 100 il livello del welfare aziendale presente nelle 2.140 aziende, appartenenti a tutti i settori produttivi, oggetto dell’indagine.

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ISTAT – rapporto sulla competitività dei settori produttivi

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Il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi è tradizionalmente finalizzato all’analisi degli aspetti strutturali e dinamici della competitività del sistema delle imprese. Quest’anno, nella sua quarta edizione, il Rapporto propone una lettura congiunta dei dati sulla domanda di lavoro, allo scopo di valutare adeguatamente le caratteristiche della ripresa occupazionale vista dal lato delle imprese.

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Contratto metalmeccanici: insidie e opportunità di un negoziato non tradizionale

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Le recenti dichiarazioni di Rocco Palombella della UILM sulla possibilità di ricorrere allo stato di agitazione per superare lo stallo del negoziato indurrebbero a pensare che la trattativa dei metalmeccanici sta scivolando verso una deriva di segno antico. Le stesse preoccupazioni, pur senza tirare affrettate conclusioni, le ha espresse Marco Bentivogli a nome della FIM. Del resto, l’anomalia di una vicenda che vede sul tavolo tre piattaforme diverse alle quali si è sovrapposta in corso d’opera una proposta sindacale unitaria di riforma della contrattazione che individua percorsi difficilmente praticabili, è evidente. Visto da fuori il nodo sembrerebbe sostanzialmente rappresentato dalla proposta economica di Federmeccanica che, a giudizio unanime, coprirebbe solo una fetta modesta dell’intera categoria. E questo non è accettabile per nessuno dei tre sindacati. Quindi lo stallo e le reazioni conseguenti sembrerebbero inevitabili. Se così fosse qualsiasi tentativo di innovazione condivisa di metodo e di contenuto tramonterebbe cedendo il passo alla tentazione di ritornare su terreni noti innescando reazioni e contrasti con il corollario di accuse e contro accuse. Ma questa situazione potrebbe offrire anche interessanti opportunità di cambiamento vero se le parti dimostrassero di essere veramente animate dalla volontà di gettare le basi di una svolta profonda. Innanzitutto è impensabile che, in una categoria che vede, secondo dati sindacali, il 70% dei lavoratori coperti dalla contrattazione aziendale si ipotizzi un aumento nazionale certo solo per il 5% dei lavoratori. Questo significa che per circa il 25% del totale non ci sarebbe nulla per tutta la durata contrattuale. Diverso sarebbe un meccanismo che anziché fotografare il passato prenda in considerazione l’arco di tempo relativo alla durata futura del CCNL ipotizzando eventualmente tranche di copertura laddove non si sviluppi la contrattazione aziendale. Questo meccanismo di spostamento al secondo livello otterrebbe, tra l’altro, l’obiettivo di iniziare a variabilizzare parte del salario legandolo a necessari recuperi di produttività e al coinvolgimento dei lavoratori su obiettivi aziendali certi e misurabili. Quindi renderebbe coerente il salario contrattato sia a livello nazionale che aziendale ad un percorso collaborativo già realizzato, come sembrerebbe, in altre punti del negoziato in corso. D’altra parte l’eventualità di “marciare divisi per colpire uniti” avendo sul tavolo due piattaforme sindacali mi sembra di difficile praticabilità. Così come quella di trovare nelle proposte confederali il bandolo della matassa perché questo troverebbe assolutamente indisponibile la controparte datoriale che non sembra aver alcuna intenzione di sommare i costi dei due livelli. D’altra parte, se i metalmeccanici vogliono realizzare un vero giro di boa del sistema contrattuale del nostro Paese, devono segnalare chiaramente la volontà di rilanciare un contesto collaborativo e costruttivo che sappia integrare (e non sommare) i livelli della contrattazione e i suoi contenuti lasciando alla contrattazione aziendale il compito di consolidare una svolta che farebbe da apripista a quelle categorie dove esiste praticamente solo il CCNL e che non sono ancora attrezzate per un sistema misto. Nella stesso tempo Federmeccanica deve dimostrare che la svolta collaborativa non è strumentale ma è veramente finalizzata a cambiare il sistema delle relazioni sindacali. Su questo credo si giochi molto della credibilità delle parti in causa e della volontà di andare avanti. Per queste ragioni preferisco puntare su di un esito diverso e costruttivo di questa fase di evidente stallo e non mi unisco al coro di chi dà già per persa la partita.

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L’indispensabile vitalità dei corpi intermedi.

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È difficile replicare a Roger Abravanel. La sua convinzione sulla sostanziale inutilità dei corpi intermedi è granitica. Così come la certezza che la contrattazione nelle singole aziende di qualsivoglia dimensione rappresenterebbe la soluzione ottimale per imprese e lavoratori. Nella sua intervista televisiva auspica, addirittura, una fine parallela per le organizzazioni datoriali e sindacali. Anzi. Utilizza le critiche di Bombassei e Marchionne per generalizzare un opinione di sostanziale inutilità dell’organizzazione datoriale che, a suo giudizio, sarebbe condiviso da molti imprenditori. È una opinione diffusa. E non da oggi. Innanzitutto essere iscritti ad un’organizzazione sindacale non è obbligatorio così come è ovvio che chi ha ritenuto opportuno non rinnovarne l’iscrizione ha tutto il diritto di criticarne i comportamenti. La volontarietà e quindi la libertà di aderire o meno, di per sé, dovrebbero far riflettere chi crede nel tramonto imminente dei corpi intermedi. Personalmente credo che questa prospettiva non sia né prevedibile né auspicabile. I corpi intermedi, pur attraversando, nel tempo, cicli di crescita e di calo del tutto fisiologici, hanno una vitalità propria difficile da contestare. La loro legittimità è data dalle migliaia di imprese e lavoratori che nei territori, nelle associazioni o nelle federazioni conferiscono loro un mandato. Basterebbe entrare in una qualsiasi sede associativa periferica per rendersene conto. Far da soli non è sempre possibile. Chi è in grado di farlo sottovaluta spesso l’esigenza di rappresentanza che ha chi non è in grado di tutelarsi da solo. Per fare solo un piccolo esempio recente basta citare il caso dei proprietari di appartamento di Firenze sostenitori della disintermediazione, che, ai primi problemi di rapporto con la loro controparte, hanno ritenuto indispensabile associarsi per trattare al meglio con Airbnb. Ma è così ovunque e su ogni tema che abbia un interesse minimamente collettivo. Quindi ipotizzarne un declino irreversibile e definitivo è, di per sé, un errore di valutazione. Non va sottovalutata, inoltre, la capacità di rigenerazione dei corpi intermedi. Sicuramente più marcata in periferia, meno evidente al centro, dove resta però fondamentale la presenza di una leadership riconosciuta e autorevole in grado di determinare un impatto mediatico specifico. In periferia, è evidente registrare una presenza a macchia di leopardo a seconda del differente insediamento territoriale e della capacità di interazione con il contesto economico, sociale e politico. Detto questo nessuno nega la necessità di profondi cambiamenti sia per le organizzazioni datoriali che sindacali. Ma questo non c’entra nulla con la disintermediazione auspicata da alcuni esponenti del mondo politico e da alcuni opinionisti poco informati sulle dinamiche organizzative e sociali proprie del nostro Paese. La presenza di più candidati alla carica di Presidente di Confindustria è un segno di grande vitalità. Ciascuno di loro porta con sé un modo specifico di intendere la rappresentanza. Chiunque vincerà proporrà scelte differenti che influenzeranno non poco il contesto politico. Confcommercio ha, da parte sua, da tempo avviato profondi programmi di rinnovamento investendo su progetti organizzativi importanti sia a livello locale che centrale. Anche nei sindacati dei lavoratori si registrano chiari segnali di cambiamento, ad esempio, nelle categorie industriali della CISL ma anche in scelte precise di rinnovamento dei gruppi dirigenti locali e centrali in molte categorie della Cgil. Tutto questo è sufficiente? Ovviamente no. La velocità di cambiamento del contesto economico nazionale e internazionale impone una accelerazione continua per fornire alle imprese e ai lavoratori punti di riferimento costanti su temi quali modelli contrattuali praticabili, nuove tutele, servizi innovativi, welfare integrativo, reti e capacità di sviluppare integrazione nelle filiere. Quindi tutto ciò che è fuori dalla portata dei singoli. Ipotizzare un contesto futuro che non preveda contrappesi sociali significa inevitabilmente rassegnarsi ad un modello di società darwiniana dove solo ai più forti è consentito dettare le regole del gioco. Esattamente l’opposto di ciò che serve ad una comunità nazionale complessa come la nostra che deve trovare nella convergenza di interessi e nella collaborazione tra generazioni e territori la sua rinnovata ragion d’essere.

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Salario minimo legale: uno studio proposto da Eurofound e sviluppato da Karel Fric.

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Si parla tanto di salario minimo in Italia. C’è chi lo fa in buona fede e chi meno. Se l’obiettivo fosse la lotta al lavoro nero o l’individuazione di una copertura per chi non è tutelato da un contratto nazionale, è certamente una riflessione da fare. Se, al contrario, l’obiettivo fosse solo quello di scardinare la funzione equilibratrice del CCNL e di conseguenza aprire ad una stagione di dumping tra imprese questa tendenza va decisamente contrastata. Questo studio affronta il tema proponendo le diverse soluzioni adottate nei Paesi UE. Per questo è sicuramente un contributo interessante.

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