- il bollettino ADAPT raccoglie un interessante contributo di Francesco Seghezzi accompagnato da altre importanti riflessioni sul tema Industry 4.0 lavoro e relazioni industriali. Un tema di grande attualità che cambia la prospettiva del lavoro e, di conseguenza, impone un salto di qualità a tutti coloro che se ne occupano. Se vuoi approfondire il tema, clicca qui.
Cosa significa il termine Jobs act?
Tutti ne parlano, spesso storpiando la pronuncia, il termine “Jobs act” è entrato di prepotenza nelle discussioni di chi si occupa di lavoro e relazioni sindacali. Perché Renzi lo ha utilizzato e perché il suo significato originale è diverso da quello che gli abbiamo dato noi lo vediamo in questo contributo.
Industry 4.0: un’occasione per discutere di nuove relazioni industriali.
Un recente studio curato dalla Fondazione Symbola e CNA dimostra che l’Italia è il secondo Paese in Europa per numero di aziende dove, negli ultimi tre anni, sono state introdotte innovazioni di processo e di prodotto. Di queste, più dell’80% ha meno di 50 dipendenti. Se aggiungiamo che il 95% delle nostre imprese ha meno di 50 dipendenti e meno di dieci milioni di fatturato ci rendiamo conto che il cambio di paradigma imposto da industry 4.0 è decisamente alla portata di una platea ben più ampia della sola grande impresa manifatturiera. Nell’ultimo numero della rivista Sistemi e Impresa è stata pubblicata una survey molto interessante del laboratorio Research & innovation for Smart Enterprises (RISE) dell’Università di Brescia che indaga se e come nel nostro Paese è in corso la rivoluzione digitale in ambito manifatturiero. Settanta imprese, segmentate per dimensione, sono state valutate sotto diversi aspetti evidenziando risultati significativi. È da questa realtà in continua evoluzione che occorre partire per riflettere sull’importanza e sull’impatto di industry 4.0 sulle imprese, sulla loro organizzazione e sulla gestione delle risorse umane. Ma è anche una grande occasione di ridefinizione di una strategia sul lavoro che cambia che non può non coinvolgere anche il sistema stesso delle relazioni sindacali pena una loro definitiva marginalizzazione. Non cambia solo il luogo di lavoro, il modo stesso di lavorare o il contributo che viene richiesto al singolo lavoratore ma industry 4.0 rimette inevitabilmente in discussione tutto un complesso sistema di regole e relazioni consolidate che, avendo i suoi riferimenti passati nel fordismo, hanno sempre determinato l’estendibilità collettiva e quasi automatica di diritti, retribuzioni e inquadramenti e che, nei contratti nazionali, hanno sempre trovato, negli anni passati, una sintesi condivisa. Il vero cambiamento non sta esclusivamente nella produzione materiale: le nuove capacità messe a disposizione dall’evoluzione tecnologica si inseriscono in funzioni come le decisioni strategiche o la progettazione e in settori come il terziario, l’artigianato o il consumo finale che ne erano rimasti lontani. Sono dunque le organizzazioni che devono sempre più imparare a “pensare” in modo differente. E le organizzazioni sono composte da persone a cui viene richiesto di muoversi in modo diverso dal passato. L’agire e l’interagire tra imprenditori, manager e collaboratori diventerà sempre più strategico quanto la consapevolezza che, nella filiera, cambierà sempre di più il rapporto tra produttori, servizi, distributori e consumatori finali. Con il fordismo era, in fondo, tutto più semplice. Si trattava di fotografare e categorizzare gli “esecutori” e il contratto nazionale serviva bene allo scopo. Industry 4.0 impone, al contrario, capacità di auto-organizzazione e questo a tutti i livelli della gerarchia. Serve quindi sviluppare capacità che appartengono anche al lavoro autonomo e imprenditoriale. Saper prendere decisioni, assumersene i rischi relativi, superare vecchie logiche gerarchiche e funzionali significa investire in nuove competenze. Competenze e capacità da acquisire che abbisognano la “persona” al centro, la formazione necessaria, lo sviluppo professionale, il luogo, il tempo di lavoro e l’inevitabile coinvolgimento sui risultati e sull’andamento aziendale. Al contrario il nostro sistema contrattuale si è retto, per oltre cinquant’anni, su quattro pilastri fondamentali: l’estraneità assoluta del lavoratore dall’andamento aziendale, il lavoro dipendente a tempo indeterminato come modalità prevalente di accesso, l’inquadramento professionale inteso come scala percorribile solo in salita e un complesso di diritti e doveri (identificanti la totale subalternità del lavoratore) come sistema di valori alla base delle regole del gioco. Leggi e interpretazioni della Magistratura hanno, nel tempo, convalidato e irrigidito questo schema. Per contro la stessa cultura alla base delle principali organizzazioni aziendali nei settori industriali ma anche in molte aziende della grande distribuzione rispondevano a quella logica e quindi quei pilastri ne hanno accompagnato l’evoluzione incanalando il tutto in una liturgia sostanzialmente condivisa. La crisi e la globalizzazione hanno via via inceppato questo meccanismo restituendo, nel tempo, una “dignità” ai percorsi contrattuali che in altri comparti si erano nel frattempo sviluppati riportandoli in primo piano (vedi il terziario nelle ultime formulazioni) e promuovendo anche innovazioni legislative (vedi legge Biagi) con lo scopo sia di influenzare i diversi contratti nazionali che di mettere a disposizione delle imprese strumenti più efficaci. Infine lo strappo di Marchionne fino ad arrivare all’ultima proposta di Federmeccanica. Oggi siamo fermi qui. I pilastri (che andrebbero profondamente rivisitati) restano, tutto sommato, ancora inalterati e la discussione, anziché avvenire sui contenuti del lavoro, si limita a parlare dei livelli, dei luoghi dove il dialogo dovrebbe o potrebbe strutturarsi. Ma senza una profonda rivisitazione dei contenuti è difficile costruire nuove modalità di approccio anche se il confronto fosse portato a livello aziendale. Per questo occorrerebbe che le parti sociali si interroghino sulla “direzione di marcia”. È fondamentale che le imprese abbiano voglia e convenienza ad investire sui propri dipendenti e che questi abbiamo convenienza a investire sulla propria azienda ma anche su se stessi e sul proprio sviluppo professionale e personale. Ma se non c’è una prospettiva condivisa, se non si rimettono al centro del confronto produttività delle imprese e redditi da lavoro, formazione e politiche attive, collaborazione e condivisione dei risultati nell’impresa, non si va da nessuna parte. Poi, insieme, si vedrà cosa ha senso mantenere a livello nazionale e cosa deve essere decentrato. Un vecchio proverbio tunisino afferma:”la differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo”. È dalla centralità della persona che occorre partire. Oggi più di ieri. Ed è questa la vera sfida se crediamo in un vero cambiamento.
Un “NO”, tutto sommato, scontato..
La scelta di presentare una proposta sindacale alla vigilia del “semestre bianco” di Confindustria e con la trattativa dei metalmeccanici che si stava aprendo su basi ben diverse, lasciava intendere che il significato politico e il valore dell’iniziativa unitaria fossero ritenuti, dagli stessi proponenti, più importante dei contenuti della proposta stessa. Il “no” di Confindustria ad accettare quei contenuti come base di discussione era tutto sommato scontato. Così come è prevedibile che a breve seguirà il “no” di Confcommercio che, da poco, ha rinnovato il più importante contratto nazionale del Paese nel quale sono state individuate soluzioni utili alle imprese e ai lavoratori con gli stessi sindacati che oggi sostengono una piattaforma la cui impostazione, di fatto, rischia di essere percepita, da parte datoriale, come un ritorno al passato. Dall’altro lato della “barricata” l’endorsement alla piattaforma della FIOM CGIL e le perplessità di Bentivogli della FIM CISL danno il segno di quanto è complesso il contesto è di come sarà difficile muoversi. Degli “attori” principali in campo mi sembra che solo Gigi Petteni, segretario confederale della Cisl, ha cercato di gettare il cuore oltre l’ostacolo individuando il confronto come un luogo dove innanzitutto condividere un “senso di marcia”, una strategia di riferimento prima di affrontare i contenuti. È chiaro a tutti che il contesto porta inevitabilmente a riflettere sui modelli di collaborazione e di condivisione tra capitale e lavoro e quindi tra manager, imprese e lavoratori. Il punto è se farlo “tra” parti sociali attraverso un nuovo modello di relazioni industriali condiviso o “nonostante” la presenza delle parti sociali. In altri termini la domanda di fondo è se prevarrà un sistema dove i corpi intermedi si impegnano a giocare un nuovo ruolo o, di fatto, accettino di essere condannati alla irrilevanza scavalcati da forme di “collaborazione costruttiva” definite direttamente nelle aziende. Io resto convinto che, fatto salvo il diritto delle imprese e delle loro rappresentanze di tenere la “barra dritta” sui contenuti, puntare alla marginalizzazione del sindacato in sé, sia un errore. Un errore destinato a coinvolgere, nel tempo, anche le stesse organizzazioni datoriali. In gioco, credo ci sia, un modello di società intesa come una comunità in cammino dove dovrebbero esistere pesi e contrappesi, interessi deboli e forti che si ricompongano nel confronto e le contraddizioni del contesto nazionale e internazionale vengano ammortizzate da una rinnovata coesione sociale e politica. Spingere i sindacati confederali su una posizione esclusivamente difensiva e inconcludente è relativamente facile. Sfidarli su un altro terreno lo sarebbe molto meno. Il mancato rinnovo di molti contratti è lì a dimostrare l’assoluta debolezza dei sindacati nel rapporto con i lavoratori e l’incapacità delle loro rispettive controparti di trovare soluzioni condivise. Non credo però sia una buona strategia attendere soluzioni da terzi o proposte che non arriveranno certo da sole….
Il poco auspicabile “pessimismo della ragione”.
La foto proposta ieri sul Corriere si commenta da sola. Una delegazione “monstre” nel solco della tradizione militante dei metalmeccanici seduta e in attesa di un improbabile epilogo. Il rito è in pieno svolgimento. La vera novità è che, purtroppo, ci sono tre piattaforme (due sindacali e una datoriale) sul tavolo. E questo non fa presagire nulla di buono sulle modalità, sui tempi di quel negoziato e sulla possibilità che si concluda unitariamente. E questo mentre gli alimentaristi sono al palo e numerosi contratti bloccati. Le reazioni alla piattaforma di Cgil, Cisl e UIL sono state, tutto sommato, comprensibili. La proposta unitaria è probabilmente destinata a non fare molta strada così com’è. Definendola “di vecchia impostazione” o “irricevibile” sia Confcommercio che Confindustria hanno segnalato una disponibilità al confronto ma una indisponibilità di merito che complica ulteriormente il quadro di riferimento. Sull’altro versante, il Governo, sembra solo voler “scaldare i muscoli” a bordo campo minacciando di entrare in gioco. Evitare l’intervento del Governo sembrerebbe essere l’unico punto su cui le parti sociali convergono, almeno per ora. E tutto questo sembrerebbe comporre un quadro non esaltante e destinato addirittura a rendere improduttivo il confronto, quindi sostanzialmente inutile. La stessa pretesa del sindacato confederale di proporre un modello di difficile accettazione dal mondo delle imprese sembrerebbe confermarne il destino. È questa dunque la fotografia della situazione? Il pessimismo della ragione spinge molti a queste valutazioni. Sembra che nessuno senta, in realtà, il bisogno di costruire un nuovo sistema di relazioni industriali. E chi lo sente, non è in grado di imporre il passo necessario per realizzare quella parte di contenuti innovativi che, in parte, sono comunque presenti nella piattaforma sindacale. Senza una intesa, però, non si va da nessuna parte. Questo deve essere chiaro a tutti. Personalmente non immagino un accordo confederale dettagliato che valga per tutti. Penso, però, che un accordo quadro condiviso tra la parti sociali, sulla qualità della direzione di marcia, sia utile per il Paese. Lasciare le cose come stanno, cioè ai semplici rapporti di forza espressi dai rispettivi soggetti sociali in campo o alla buona volontà dei singoli, è un errore. Così come lo è stato in questi decenni. Questa impostazione ha lasciato interi settori scoperti e privi di diritti e di regole, ha consentito soprusi, ha favorito situazioni di dumping tra imprese, ha creato vincoli esagerati e situazioni dannose per molte imprese. I sistemi di “relazioni industriali”, costruiti intorno alla contrattazione, non hanno mai compreso fino in fondo la necessità e la difficoltà che comporta gestire “persone” in un contesto che cambia. Non ne hanno mai assecondato le aspirazioni, le attitudini, i desideri. Hanno pensato sufficiente circoscrivere il perimetro di riferimento tra “diritti e doveri”. Nel taylorismo o con il lavoro vincolato di massa questo poteva avere un senso. Oggi non più. In questo modo si è faticato a comprendere e a seguire l’evoluzione delle politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane delle imprese restando spesso ancorati ad una cultura della difesa di interessi esclusivamente economici e normativi che, una volta neutralizzati, hanno, di fatto, marginalizzato il sindacato nella stragrande maggioranza delle aziende grandi e piccole. Lo hanno reso estraneo e incomprensibile, non solo ai giovani ma anche a tutti coloro che nel lavoro, nella crescita professionale e nella condivisione delle strategie del management della propria impresa ci hanno investito e si sono impegnati. Ma hanno marginalizzato anche chi di relazioni industriali si occupa nelle imprese e per le imprese, costretti a muoversi tra “diritti acquisiti”, norme e ricorsi alla magistratura in perfetta estraneità e lontananza dalle nuove culture aziendali. Quello che abbiamo di fronte è un contesto interconnesso e molto più complicato rispetto al passato che inserisce le singole aziende in filiere globali. Solo una rinnovata collaborazione tra imprenditori, manager e lavoratori può consentire di costruire un nuovo sistema di relazioni moderno, efficace e di reciproco interesse. E questo interesse lega la qualità, la quantità del lavoro, il suo riconoscimento, lo scambio realizzabile in termini di condivisione di rischi e di opportunità, crescita personale, welfare e integrazione della singola impresa nel territorio che la ospita. Alle organizzazioni di rappresentanza la scelta di assecondare questa evoluzione o di rallentarla. Che lo si voglia o no, nessuno la potrà impedire. Di Vico ha ragione quando sostiene che: “…non è la rappresentanza in sé ad essere freno al cambiamento ma la sua burocratizzazione, il prevalere degli interessi dei suoi dirigenti sulle rispettive basi sociali”. Da qui il mio “ottimismo della volontà” perché il futuro dei corpi intermedi si gioca proprio su questo.
Welfare e corpi intermedi.
La recente presentazione del nuovo Fondo Sanitario di Confcommercio rilancia l’impegno e la presenza di una delle più importanti organizzazioni di rappresentanza in un segmento fondamentale del welfare nel nostro Paese. Nel mese di dicembre una iniziativa, altrettanto importante, promossa congiuntamente da Confindustria e Confcommercio ha presentato una proposta di costruzione di un secondo pilastro sanitario integrativo. Segnali chiari di un rinnovato impegno laddove le principali confederazioni datoriali sono già presenti, insieme alle organizzazioni sindacali di riferimento, nei fondi contrattuali per dirigenti e dipendenti. Oggi la spesa sanitaria pubblica rappresenta il 6,9% del PIL, l’obiettivo al 2019 è di abbassarla al 6,5%. Il grado di sostenibilità finanziaria del sistema sanitario va riducendosi per una serie di fattori (demografia, domanda sociale crescente, innovazione in ambito sanitario, farmaceutico e tecnologico, riduzione spesa pubblica) mentre cresce la spesa privata che oggi è di circa 30 miliardi di euro (senza dimenticare un sommerso che viene stimato in circa 15 miliardi) e, infine, i 9 miliardi a carico delle famiglie per l’assistenza alla non autosufficienza. Questi dati dimostrano in modo inequivocabile l’importanza di un secondo pilastro efficiente e integrativo con indubbi vantaggi sia per il cittadino che per lo Stato. I fondi sanitari, oggi, intermediano 4/5 miliardi di spesa e assistono circa sette milioni di italiani ma, ispirandosi agli stessi principi del sistema sanitario nazionale (equità e universalismo), ne costituiscono indubbiamente lo strumento più idoneo a completare il sistema. Al di là del fatto che la salute è un bene primario irrinunciabile e inestimabile e che tutti devono essere messi in condizione di potersi curare, un secondo pilastro forte consentirebbe indubbiamente un recupero di gettito sulla spesa sanitaria non tracciata, un sistema più efficiente, una maggiore educazione del cittadino alla spesa stessa e, ultimo ma non ultimo, vantaggi economici complessivi a saldo positivo. Lo strumento del fondo in autogestione consente di redistribuire le risorse integralmente agli assistiti senza dispersioni derivanti dalla remunerazione dell’azionista e della struttura commerciale e distributiva, voci che costano molto nell’ambito dei processi e dei prodotti assicurativi. Così come la possibilità per tutti di accedervi. Infatti, in queste proposte, non sono previsti vincoli né per l’età né per lo stato di salute degli iscritti. L’assunzione del rischio è “governata” basandosi su analisi statistico-attuariali in grado di evidenziare ex ante se lo schema che si gestisce è sostenibile o meno. Per questo motivo il controllo di organismi sul modello della Covip non solo è auspicabile ma potrebbe anche essere utile mettere, a disposizione del legislatore, l’esperienza maturata dai fondi già operativi sia sul tema della sostenibilità, del monitoraggio tecnico che della gestione degli investimenti. Sanità e previdenza integrativa rappresentano due priorità importanti nella costruzione del nuovo welfare. Così come è importante che a questo ripensamento partecipino, con un ruolo da protagonista, le organizzazioni di rappresentanza.
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La contrattazione tra passato e futuro.
La contrattazione aziendale, è bene tenerlo presente, coinvolge una parte assolutamente minoritaria delle aziende italiane. Da oltre vent’anni, dove si realizza, è spesso “concessiva” da parte sindacale per le crisi grandi o piccole che si sono succedute nelle singole imprese o, addirittura, “restitutiva” nel senso che alcune cosiddette “conquiste” ottenute in momenti di forza dai sindacati sono state via via cancellate, congelate o limitate ai soli lavoratori più anziani. Quando comprende elementi economici legati ad obiettivi aziendali questi sono, nella quasi totalità dei casi, decisi dalle imprese. Nei casi concreti dove si può parlare di vera e propria “contrattazione” abbiamo, o una tradizione negoziale positiva in particolari imprese, o una situazione sindacale dove i rapporti di forza in campo sono ancora un elemento in grado di influire sul contesto. A fronte di questa realtà, mi sono domandato perché molti, e da versanti opposti, invocano il ritorno alla contrattazione aziendale come la “soluzione” senza porsi il problema di una necessaria evoluzione condivisa del contesto sociale e sindacale del nostro Paese. Il modello oggi in crisi, ha sempre fatto perno su un sistema “circolare” di natura sostanzialmente conflittuale. Il contratto nazionale di categoria ne ha costituito, per anni, l’elemento portante. La contrattazione aziendale integrava specificità e salario e innovava materie che poi avrebbero costituito elementi di proposta da estendere a tutti nella successiva contrattazione nazionale. Le crisi che si sono via via succedute hanno inevitabilmente modificato i rapporti di forza consentendo alle imprese, prima di depotenziare questo meccanismo, poi di volgerlo a proprio favore e, infine, di neutralizzarlo definitivamente. Nella proposta sindacale c’è un tentativo legittimo, ma di difficile accettazione, di ritorno a formule che, di fatto, sommano benefici tra i diversi livelli. E questo costituirà inevitabilmente un primo elemento di scontro. Perché va bene l’apprezzamento per lo sforzo unitario che sicuramente connota la proposta ma occorre considerare anche che, il conto di questo sforzo, non può essere semplicemente scaricato sulle imprese prima a livello nazionale e poi in azienda. Da questo punto di vista il negoziato sarà più importante, come sempre, delle intenzioni o dei desideri contenuti nella piattaforma. Così come lo scenario che un accordo vero su un tema così delicato può aprire in termini evolutivi del sistema. Alcuni osservatori sottolineano che è stata solo la forte preoccupazione di un intervento a gamba tesa del Governo a spingere i sindacati all’unità. Personalmente non ci credo. I segnali della necessità una ripresa del percorso unitario c’erano tutti. L’amico Massagli, un po’ malignamente, la definisce, però, una unità costruita “contro” e non “per”. Io penso, al contrario che, la ripresa del confronto, fosse comunque inevitabile. Così come la sua forte caratterizzazione difensiva e, in parte, tradizionale. Soprattutto dopo la “sortita” di Federmeccanica e la mancata chiusura di molti contratti nazionali. I risultati delle divisioni identitarie di questi anni sono sotto gli occhi di tutti e nessuna organizzazione, in termini complessivi ci ha guadagnato nulla. La ragione è che nessuno dei tre sindacati confederali è riuscito a proporre una strategia in grado di produrre benefici misurabili oltre i propri confini tradizionali. Il vecchio schema sindacale:”obiettivo-lotta-risultato” non funziona più e quindi il punto vero non è rappresentato da una piattaforma unitaria “contro” o “per” ma nella definizione di una strategia di lungo periodo. E questo comporta tempo che, sia chiaro, è una risorsa scarsa.
Se la riforma della contrattazione sarà, o meno, un primo snodo verso la costruzione di relazioni industriali innovative, collaborative e propositive allora il confronto avrà comunque avuto un senso importante. Se nessuno si fida di nessuno è difficile immaginare un sistema con oltre quattro milioni di imprese che, improvvisamente, si converte ad un “nuovo” modello a cui sono state storicamente estranee (o spesso contrarie) limitandosi a riconoscere quanto definito dal proprio CCNL di riferimento. Nelle imprese italiane vige un paradosso. Nelle piccole aziende (che sono la stragrande maggioranza) l’imprenditore generalmente non vuole avere a che fare con i sindacati preferendo un rapporto diretto con i suoi collaboratori. Semmai per la gestione di alcune problematiche tende ad affidarsi agli strumenti messi a disposizione dalla bilateralità. Nelle grandi imprese industriali i sindacalisti sono, al contrario, spesso presenti e coinvolti nelle strategie aziendali come o più degli stessi lavoratori dipendenti. Quindi esiste un problema di fondo che non è facilmente superabile. Nessuno, Governo compreso, può imporre nulla a nessuno. Il sistema attuale ha retto per oltre cinquant’anni perché i ruoli sono sempre stati chiari e condivisi sostanzialmente da tutti. Sfasciarlo è pericoloso perché aprirebbe ad una situazione di dumping tra imprese difficilmente governabile in un Paese come il nostro. Il mondo però è cambiato. La competizione, la tecnologia e la globalizzazione impongono a ciascun Paese organizzazioni e sistemi più coesi, moderni e aperti dove ciascuna parte in causa condivida rischi e opportunità. La partita sulla contrattazione è lo strumento ideale per cominciare a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali dei prossimi anni. Per questo avere sul tavolo una proposta unitaria (condivisibile o meno) del sindacato è comunque importante. Certo non è risolutivo perché i problemi da affrontare restano ancora molti. Ma i negoziati servono proprio a questo. Ma questo, credo sia chiaro a tutti.
Ma è davvero solo colpa dei sindacati?
È abbastanza ovvio ma anche singolare che la pubblicazione della proposta unitaria di Cgil, Cisl e Uil di riforma della contrattazione abbia suscitato reazioni essenzialmente negative. Pochi hanno colto la volontà di chiudere un’epoca di divisioni e l’intenzione comune di avviare una nuova stagione. È come se fossimo in presenza di un forte pregiudizio a prescindere su tutto ciò che proviene da quel mondo. Il paradosso è che molti tra coloro che chiedono, a parole, al sindacato di cambiare lo hanno già riposto in soffitta tra i ricordi del ‘900 e quindi non sono disposti a rimettere in discussione le proprie consolidate convinzioni. Io penso sia un errore grave perché il sindacato, pur ancora diviso, in crisi di strategia e di credibilità, provato da molte battaglie è in campo con i suoi milioni di iscritti, il suo radicamento nel mondo del lavoro e i suoi legami nei territori. Considerarlo sconfitto o marginale nella costruzione del futuro del nostro Paese in nome della disintermediazione non porterà a nulla di buono. Un altro aspetto curioso è che la stessa severità utilizzata da molti per giudicare la proposta sindacale non esiste sul fronte opposto. Non c’è alcuna proposta datoriale unitaria. Confcommercio ha la sua strategia confermata nella recente firma del CCNL del terziario che fa perno su flessibilità, derogabilità del CCNL a livello locale, rafforzamento della bilateralità e del welfare contrattuale. Non a caso il tanto citato accordo di Treviso ne è una dimostrazione evidente. Nello stesso settore Federdistribuzione si accontenterebbe, al contrario, di una semplice, quanto improbabile, “resa” dei sindacati. Nell’industria Federmeccanica ha una proposta compiuta, pur di difficile attuazione ma Federchimica ha un’altra impostazione vista la recente firma del CCNL di comparto. Potrei continuare con molti altri esempi. Confindustria sta per sedersi ad un tavolo dove, nella migliore delle ipotesi, si limiterà a mettere in discussione la proposta di Cgil,Cisl e UIL sperando che la minaccia di un possibile intervento governativo costringa a miti consigli i negoziatori sindacali. Direi un modo curioso di aprire una fase nuova. Ma questo è probabilmente dato dal fatto che tutti vorrebbero cambiare un sistema che ci ha accompagnato per oltre 50 anni ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di indicare la vera direzione di marcia. Se il Paese ha bisogno di condivisione e coinvolgimento si sceglie una strada altrimenti se ne sceglie una opposta. Oggi tutto questo non c’è ancora. Di Vico ha ragione: non è più tempo di riti e liturgie. Occorre muoversi. Per le parti sociali è fondamentale il riconoscimento e il rispetto reciproco. Se qualcuno, nei sindacati o nelle organizzazioni datoriali, pensa che una parte possa decidere nell’interesse di tutti, sbaglia perché è interesse di tutti crescere, confrontarsi e trovare nuovi equilibri positivi. Le sfide che abbiamo di fronte si vincono con un sistema di relazioni industriali moderne ma soprattutto condivise. Questo è il compito che hanno di fronte i negoziatori. I giudizi lasciamoli alla fine.
Per un “capitalismo dei partecipanti”
Severino Salvemini sul Corriere ha rilanciato un dibattito importante. Il suo assunto di partenza è chiarissimo:” ..bisogna dare vita ad una nuova dinamica di governo aziendale dove i diversi portatori di interesse possano far sentire di più la propria voce”. E così il tema che fa riferimento alla partecipazione o, in altri termini, alla collaborazione, al coinvolgimento dei collaboratori, ritorna in primo piano. Il “campo da gioco” è l’impresa di domani. Il clima interno, i processi di condivisione del rischio e delle opportunità dell’impresa, i soggetti da coinvolgere, le modalità e i limiti del coinvolgimento segneranno la qualità del lavoro e del nuovo ruolo che le rappresentanze sindacali potranno avere dentro e fuori le aziende. Per questo occorre saper guardare avanti. Oggi più che mai. La proposta di Cgil, Cisl e Uil, la stessa proposta di Federmeccanica, pur muovendo da presupposti ben diversi, secondo me, potrebbero convergere in quella direzione. E questo sarebbe indubbiamente il vero fatto “nuovo”. Anche un’eventuale legge sulla rappresentanza dovrebbe puntare a favorire questa direzione di marcia. C’è un grande bisogno di condivisione nel nostro Paese. L’esperienza della crisi, che sembra non finire mai, ha fatto implodere i sistemi di relazione ereditati dal passato: in un capitalismo iper-frazionato come il nostro, tutto si è sfilacciato anche attraverso il (poco responsabile) gioco del cerino.
Se ciascuno cerca di passare agli altri il cerino acceso che ha in mano, sperando che a scottarsi siano loro, è facile capire come le relazioni tra committenti e fornitori, banche e imprese, lavoratori e imprenditori, territori e sistemi produttivi in essi insediati si siano logorate e non reggano ormai più alla pressione degli eventi.
Molti anelli della catena produttiva stanno saltando o sono sempre più paralizzati e privi di capacità di risposta. E questo mette in seria di difficoltà anche le strutture della rappresentanza in generale, a cui oggi si pone una opportunità fondamentale quella di contribuire ad arrestare la disgregazione delle filiere produttive, delle relazioni sociali e dei sistemi territoriali, usando la loro capacità di generare senso e legami per invertire l’andamento delle cose, proponendo una logica di collaborazione tra le parti, sia nell’affrontare la crisi giorno per giorno, ma anche nel costruire un futuro comune che possa riattivare il meccanismo dello sviluppo, oggi gravemente inceppato.
Inoltre, occorre considerare che gli strumenti da mettere in campo per affrontare la pressione competitiva dei mercati sono anche altri, e riguardano le parti sociali direttamente coinvolte: bisogna condividere i rischi, le perdite ma anche le opportunità, trovando un criterio ragionevole per ridimensionare certe attività distribuendo i sacrifici tra le molte parti co-interessate alla sopravvivenza di una certa impresa o di una certa fascia di attività.
E’ un processo difficile, in cui la contrattazione sociale può forse fornire la cornice normativa e logica: ma tocca alle singole persone, alle singole imprese, alle singole banche, ai singoli territori dire in che modo possono contribuire alla sopravvivenza ed eventualmente – in prospettiva – al rilancio di attività che non vogliono vedere chiudere o fuggire altrove. La contrattazione aziendale ha già in molti casi trovato formule ragionevoli di distribuzione dei sacrifici che le parti in causa sono disposte ad assumere, in uno spirito di collaborazione mutualistica, di reciprocità, in vista di un interesse comune per la sopravvivenza. Bisogna fare tesoro di queste esperienze anche se il loro contenuto è spesso una rinuncia, una riduzione delle aspettative e delle pretese contrattuali, un’accettazione di sacrifici che aiutano il sistema di cui si fa parte a non soccombere, di fronte alle gravi difficoltà. Ma certo, tutto questo non basta. La collaborazione solidale (redistribuzione politica e contrattuale del reddito, in nome dell’equità) e quella mutualistica (modificazione delle condizioni di lavoro e di reddito di ciascuno, in nome di un interesse comune alla sopravvivenza del sistema produttivo) servono solo ad evitare danni più gravi.
Questo nuovo modello di collaborazione necessaria da costruire insieme nasce dal fatto che, per mantenere i nostri livelli di occupazione e di reddito nel lungo termine, dobbiamo trovare il modo di aumentare di molto il valore co-prodotto dalle nostre imprese e dalle nostre filiere, in modo da compensare gli svantaggi di costo di cui soffriamo nei confronti dei concorrenti emergenti, e delle multinazionali che li utilizzano come parti delle loro filiere globali.
Questo aumento della produttività (valore prodotto per ora lavorata e per euro investito) richiede interventi correttivi importanti, rispetto alle tendenze spontanee del sistema produttivo esistente e dei modelli di business che esso ha espresso sin qui.
È necessario quindi sviluppare una vera collaborazione tra chi sviluppa progetti, investe risorse, assume rischi in vista di un traguardo comune, che riguarda – prima del singolo imprenditore-innovatore – l’impresa (con i suoi stakeholders, prima di tutto i suoi lavoratori), la filiera (con i suoi fornitori, committenti, distributori e consumatori), il territorio (con le istituzioni locali), l’economia della società nel suo insieme (espressa dalle differenti parti sociali). Ed è in questo contesto che l’accordo tra le parti sociali diventa un tassello auspicabile e fondamentale.