Grande Distribuzione. Prove di unità, di strategia e di autorevolezza

Il patto anti inflazione, al di là dei risultati che produrrà concretamente, dimostra che un comparto economico vale ed è ascoltato se dimostra di sapersi rappresentare unito in tutte le sue componenti. La polemica sul cosiddetto “caro carrello” e sulle performance economiche  “stratosferiche” della GDO facevano presagire una messa in mora dell’intero settore che, per ora, è stata sventata. Il consumatore si ferma allo scontrino. Non vede i listini ballerini dell’industria.

L’esperienza che se ne dovrebbe trarre da questa vicenda è che una federazione che raggruppi tutta la Grande Distribuzione non può che essere, ancora di più, un obiettivo irrinunciabile. I “mal di pancia” della vecchia guardia cresciuta nelle guerricciole tra insegne e il fatalismo di chi, pur comprendendo il problema, è scettico sugli altri compagni di strada,  dovrebbero lasciare il campo a nuovi leader in grado di condividere  una visione comune. Per questo insisto spesso sulle analogie e sugli esempi dei nostri cugini francesi. 

Alexandre Bompard, CEO di Carrefour è, da poco,  presidente della Fédération du Commerce et de la Distribution (FDC). L’associazione che riunisce la maggior parte dei grandi marchi della distribuzione alimentare francese, compresa quella specializzata. È subentrato a François Bouriez, co-amministratore delegato del gruppo Cora-Louis Delhaize, che ricopriva questa carica dal 2011. Su LinkedIn, una volta eletto, si è subito dichiarato “onorato di questa nomina e ha paragonato il suo impegno per la FDC a quello che già contraddistingue Carrefour: “In un’epoca di inflazione galoppante, di trasformazione digitale e di lotta al cambiamento climatico, le battaglie sono numerose. E sono da tempo le nostre in Carrefour. Sono entusiasta all’idea di affrontarle con tutti i membri della FDC.”

Per capire le ragioni che hanno spinto Carrefour e il suo CEO a diventare la punta di diamante nell’interlocuzione con il Governo francese sul patto anti inflazione e  contro le resistenze di una parte dell’industria denunciando anche la skrinflation nei propri punti vendita è necessario partire da qui. Alexandre Bompard è un top manager che ha ridato un’immagine vincente a Carrefour togliendola dalle sabbie mobili di una crisi che sembrava irreversibile, è un top manager riconosciuto,  interlocutore della politica francese e un leader nel comparto. Leggi tutto “Grande Distribuzione. Prove di unità, di strategia e di autorevolezza”

Grande distribuzione e industria alimentare. Perché il “patto anti inflazione” con il Governo si deve fare..

Per capire l’importanza del “patto anti inflazione” bisogna partire dal contesto politico, economico e sociale nel quale sta prendendo forma. Abbiamo un’inflazione che incide pesantemente i redditi più bassi (le famiglie di pensionati e delle fasce più povere, tra il 2018 e il 2022, hanno perso il 10,6% del reddito reale: oltre 10 volte di più rispetto ai lavoratori attivi), i salari fermi, milioni di lavoratori con i CCNL da rinnovare, un rischio di impennate dei costi dell’energia, se l’inverno non dovesse essere clemente e, ultimo ma non di minore importanza, la durata e gli effetti conseguenti al conflitto in corso ai confini dell’Europa che consigliano cautela nelle previsioni.

È altrettanto ovvio che questo percorso, come in Francia, sarebbe dovuto partire prima ma una delle inevitabili caratteristiche di ogni intesa che vede protagonisti, politica e parti sociali, è che si fa quando matura la consapevolezza nei contraenti. Non quando sarebbe veramente necessaria al Paese. E uno dei contraenti (parte dell’industria alimentare) ha resistito a lungo sia quando era la Grande Distribuzione a chiedere un intervento comune, sia nella prima fase delle pressanti richieste del Governo. Sopratutto per gli impatti sui singoli sottosettori.

La seconda critica “anti patto” è la mancata convocazione di tutti gli attori che a monte e a valle con le loro decisioni incidono sul prezzo finale. Chi sostiene questa tesi non ha la più pallida idea delle dinamiche associative e negoziali di questo Paese ai tavoli governativi. Confindustria, Confcommercio, Coldiretti, Conftrasporto, Federalberghi hanno rapporti continui e privilegiati con questo Governo. Le loro istanze sono costantemente sul tavolo di tutti i ministeri, per certi versi ne costituiscono il vero riferimento economico e sociale. Potrei aggiungere che ne rappresentano una buona fetta della base politica ed elettorale che sostiene questa maggioranza ma non mi interessa allargare il discorso sul piano politico.

C’è un Governo che chiama i due attori principali in commedia (chi emette lo scontrino al consumatore e chi fissa i listini) e chiede loro un chiaro segnale di disponibilità all’interno di un percorso negoziale nel quale, industria alimentare e distribuzione, potranno indicare tutti gli elementi aggiuntivi in grado di rendere quel patto potabile ai consumatori e in grado di provare ad invertire la rotta sui consumi. Il patto anti inflazione come altre occasioni di incontro tra parti sociali e politica non è mai una “passerella” inutile né scansabile con una semplice alzata di spalle come alcuni hanno sostenuto. Leggi tutto “Grande distribuzione e industria alimentare. Perché il “patto anti inflazione” con il Governo si deve fare..”

Il futuro è del discount? No. È di chi saprà mettere al centro i veri bisogni del cliente…

Sono convinto che se il Gruppo Rewe nel 1994 avesse lasciato fare a Bernardo Caprotti avremmo avuto in Italia, un ibrido brianzolo-tedesco con vent’anni di anticipo, in grado di tracciare una traiettoria innovativa anche nel discount. E di competere alla pari rispetto a ciò che oggi sono Lidl e Aldi. O altre insegne discount nazionali. Lidl era arrivata solo due anni prima (1992) ad Arzignano in provincia di Vicenza. Aldi, in quel tempo,  pensava agli USA. Eurospin aveva aperto l’anno prima (1993) e MD si apprestava a lanciare la sua attività proprio nel sud. I tedeschi di Rewe attraverso il loro discount Penny  avevano le idee chiare: entrare in Italia coinvolgendo il migliore su piazza: Esselunga.

Probabilmente Bernardo Caprotti stesso aveva intuito la potenzialità del business o comunque la necessità di non limitarsi ad un ruolo di semplice spettatore. Altrimenti non li avrebbe nemmeno ricevuti. Per i tedeschi Bernardo Caprotti era un mito. La sua presenza nel progetto Penny Market avrebbe garantito il successo sul mercato italiano.  In seguito hanno anche provato a comprare la stessa Esselunga da tanto che ne apprezzavano il lavoro svolto. Il CEO di Rewe era Hans Reischl un figlio di contadini di Passau nella Bassa Baviera che aveva conseguito la maturità  in un  liceo serale di Colonia e poi studiato economia all’Università di quella città. Reischl, in trent’anni, ha  trasformato il gruppo cooperativo in un moderno gruppo commerciale.  Una sorta di Francesco Pugliese della Renania Settentrionale-Vestfalia. Messo fuori dal Gruppo tedesco a 6 mesi dalla pensione con accuse poi finite in niente. L’ho incontrato una volta sola durante le fasi preliminari di acquisizione di  Standa. Un uomo sicuramente in grado di intendersi con Bernardo Caprotti. Purtroppo la joint venture costruita al 50% non poteva funzionare a lungo. Troppo gelosi i manager tedeschi sulla gestione commerciale del discount e troppo indipendente ed egocentrico Bernardo Caprotti che conosceva bene il nostro mercato,  per accettare un ruolo subalterno. Durò però 5 anni. Nel 1999 Rewe si riprese l’intera azienda.

Secondo Giovanni Arena, AD dell’omonimo Gruppo, “Discount è una parola da dimenticare”. A Largo Consumo, in un’intervista di qualche tempo fa ha giustamente dichiarato che i discount sono semplicemente supermercati convenienti, ognuno con una sua diversa strategia.  Il nostro modello – ha proseguito Arena – è sviluppare la marca privata: abbiamo modificato il nostro Dna di supermercato premium, quello di Decò, in supermercato di convenienza partendo dal design del punto di vendita, che deve comunicare subito ai consumatori gli aspetti fondamentali come essenzialità, prezzi chiari e bassi, e profondità di assortimento nel fresco e freschissimo, che sono i nostri punti di forza”. Con il marchio SuperConveniente, il Gruppo offre invece prodotti selezionati che fanno concorrenza ai discount. Fondato a Valguarnera Caropepe (EN) nel 1976 dai fratelli Gioachino e Cristofero Arena, oggi con una rete di oltre 180 punti vendita ad insegna Supermercati Decò, Maxistore Decò, Superstore Decò, Iperstore Decò, Gourmet Decò, Local Decò, SuperConveniente, IperConveniente e NonSoloCash ed oltre 2.500 collaboratori, è leader assoluto nel territorio siciliano. E copre tutti i formati perché tarati sul cliente.

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Grande distribuzione, Discount e Industria di Marca. Non una alleanza strategica ma una convergenza necessaria…

La fotografia che emerge nel rapporto Coop 2023 (https://bit.ly/460gWfh) sullo stile di vita degli italiani di oggi e di domani è sempre un appuntamento interessante perché da un lato propone analisi e disegna alcune possibili traiettorie per il nostro Paese e dall’altro, per la prima volta, presenta una Cooperazione, aperta e disponibile con un Governo, non certo amico, ma con il quale è comunque necessario aprire un canale di confronto serio insieme al resto del comparto.

Parto dalla domanda centrale per il futuro prossimo del settore. È possibile ipotizzare l’idea di un’alleanza strategica tra industria di marca e Grande Distribuzione? Tra la prima e l’intera GDO la vedo difficile. Altra cosa è una convergenza tattica sul patto anti inflazione che ha prodotto, in previsione dell’incontro del 10 settembre, una lettera di impegno rivolta alle singole imprese aderenti a Centromarca e una richiesta  al  Ministro Urso di farsi promotore di un tavolo interministeriale delle associazioni delle imprese del largo  consumo.  Un ottimo passo in avanti dopo le incomprensioni dei mesi scorsi.

Dario Di Vico sul Foglio (https://bit.ly/3r4diSM) rilancia  tra le altre una affermazione importante  di Maura Latini Presidente Coop: “Se il discount arrivasse per assurdo a una quota di mercato del 40% cosa succederebbe non solo all’industria ma a tutta l’economia italiana? Innanzitutto solo in Germania è a quei livelli. In Olanda la MDD è alta ma non supera il 30%. Come in Francia. In Italia siamo intorno al 25%.  Se mai arrivasse a quei livelli sarebbe solo per incapacità della GDO tradizionale di trovare nuovi equilibri. Vale per il discount come per l’online.  Aggiungo che il discount in Italia è cambiato profondamente e continua a cambiare tanto che è sempre più difficile distinguerlo dal resto della GDO. Il contesto economico e sociale eccezionale, sottolinea Di Vico  è ovviamente quello di “una contrazione secca dei consumi, soprattutto dei ceti meno abbienti, causata dal combinato disposto tra livelli di inflazione ai quali fortunatamente non eravamo più abituati e una perdita del potere di acquisto che Coop stima non inferiore al 15%”. Giusta l’analisi del contesto di Di Vico ma temo che alcuni manager protagonisti, interrogati per l’iniziativa, scambino l’effetto con la causa.

Il discount come semplice “rifugio” dei meno abbienti è  ormai una caricatura. Non è più così da diverso tempo.  L’inflazione ha semplicemente  accelerato un processo in corso che nell’evoluzione della logistica (vedi Amazon) e nella modificazione dei modelli di consumo ha prodotto o sta producendo non solo nel nostro Paese. La crisi delle grandi superfici, l’omologazione verso il basso sul piano dell’offerta di quasi tutte le insegne, il tramonto dei “grandi vecchi” animatori   del comparto nel secolo scorso, l’affacciarsi nel settore di multinazionali gestite da giovani manager  o da esperti professionisti e non dai soliti “raccomandati” parcheggiati  nel nostro Paese in attesa di ulteriori  step di carriera, hanno fatto il resto. Il discount è il dito. La luna è la difficoltà di affrontare i cambiamenti in corso nell’atteggiamento dei consumatori e di riposizionarsi con un’offerta credibile per ogni cluster di clienti.  L’inflazione ha semplicemente reso ancora più evidente una tendenza. Le famiglie, questo è evidente, non solo per far fronte alle difficoltà economiche, spendono meno per l’alimentazione ma ormai anche in modo diverso.

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L’inflazione cala. Non i suoi effetti sulle famiglie..

Ci sono diversi modi per osservare la realtà di fronte all’impennata dei prezzi. L’industria guarda essenzialmente i suoi conti. La Grande Distribuzione a questo ci aggiunge il rischio sui volumi di vendita. Il consumatore, soprattutto quello vincolato da entrate fisse e basse guarda con una certa preoccupazione, il suo portafoglio. Tra nove mesi ci saranno le elezioni europee che saranno certamente influenzate da ciò che succederà in campo economico e sociale nel periodo e determineranno, nel bene e nel male,  il futuro prossimo dell’intero continente che, ai suoi confini, ha una guerra, provocata dal Russia, con conseguenze e durata, oggi  assolutamente imprevedibili.  In questo contesto geopolitico, le aspettative, le priorità, le preoccupazioni delle persone e, naturalmente il loro atteggiamento nei confronti dei consumi si modificano profondamente.

Per questo è utile leggere  quanto emerge, dai dati appena pubblicati, del Barometro europeo sulla povertà e sulla precarietà economica 2023 di Ipsos France e Secours Populaire, organizzazione di volontariato francese (https://bit.ly/3sNLi6c). Su 10.000 intervistati, di età pari o superiore a 18 anni, in dieci paesi (Germania, Francia, Grecia, Italia, Polonia, Regno Unito, Moldavia, Portogallo, Romania e Serbia) condotto dal 7 al 27 giugno su internet su un campione di 10.000 persone rappresentative delle popolazioni nazionali secondo il metodo delle quote più di un terzo degli intervistati dichiara di non essere in grado di affrontare l’attuale contesto economico.

Quasi tre europei su dieci riferiscono di trovarsi in una situazione precaria, il che li porta o li porterà  a rinunciare a certi bisogni, come, in certi casi, a curarsi o mangiare a sufficienza. Più di un europeo su due intervistati afferma che il suo potere d’acquisto è diminuito negli ultimi tre anni (55%). Questa situazione è particolarmente acuta in Grecia (64%), Serbia (63%) e Francia (60%) e peggiora in Italia quest’anno (59%, +2 punti rispetto al 2022). La metà degli europei, il 48%, teme che la propria situazione economica peggiorerà nei prossimi mesi; più di un europeo su due, il 51%, si è infatti già trovato nella situazione di dover diminuire le spese almeno una volta negli ultimi sei mesi per salute, riscaldamento, cibo, trasporti; oltre un genitore europeo su tre, il 36%, non è stato in grado di soddisfare i bisogni primari dei propri figli, dai pasti alla salute, dalla scolarizzazione,  al vestiario.

Ma non finisce qui. Oltre un europeo su due, il 55% – rileva ancora il Barometro sulla povertà e sulla precarietà economica – dichiara non solo di aver visto diminuire sensibilmente il proprio potere d’acquisto negli ultimi tre anni, ma anche le classi medie stanno scoprendo gli effetti negativi della crisi, dall’aumento dei prezzi di cibo ed energia alla diminuzione dei servizi pubblici sostituiti con servizi privati più cari. Analoghi anche i dati relativi al nostro Paese. Il 69% degli italiani è preoccupato dal rischio di trovarsi in una situazione di precarietà nel prossimo futuro e il 37% dichiara di aver rinunciato a curarsi nell’ultimo anno per le liste d’attesa troppo lunghe del sistema sanitario nazionale e l’impossibilità economica di rivolgersi a strutture private.

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Grande Distribuzione. Nella carriera vince il merito.

“Entrare come addetto alle vendite e diventare CEO”. Il quotidiano francese Le Figaro ha dedicato al tema, qualche tempo fa, un servizio interessante. È un problema vero perché l’ascensore sociale si è interrotto quasi ovunque. Resistono alcuni comparti che offrono ancora questa prospettiva professionale. Nella grande distribuzione, ad esempio, poter crescere, indipendentemente dal punto di partenza e dai titoli  posseduti e far crescere professionalmente i propri collaboratori,  è una pratica ancora diffusa e condivisa.

Per ascensore sociale si intende quante possibilità hanno i figli di genitori con un reddito modesto di riuscire a ricoprire incarichi più importanti e meglio remunerati. È, in sostanza, il processo che consente e agevola un cambiamento del proprio stato economico e sociale di partenza. Non sempre e non solo grazie alla sola istruzione scolastica terziaria.  L’istruzione resta, citando Malcom X, «il passaporto per il futuro, il mezzo per prepararsi ad affrontarlo». E questo deve essere chiaro.  Ma oggi,  da sola non basta.  Serve, una volta entrati in azienda, conoscere e sapersi muovere “dalla parte delle radici”.

È quindi l’impegno personale, la capacità di sacrificarsi e sentirsi parte del team nel quale si è inseriti, è la voglia di crescere e di affrontare sfide crescenti, è la qualità e la disponibilità dei capi incontrati che possono valorizzare o meno le caratteristiche delle persone. E a non dimenticarsele quando, emigrando in altre realtà del comparto, grazie a queste relazioni, si riformano squadre vincenti. Tutto questo crea quelle capacità e quella personalità professionale che può fare la differenza.  Non sempre è sufficiente ma molto  spesso funziona. E nella GDO,  per chi non ha fatto esperienze altrettanto significative in altri comparti o in altre posizioni aziendali, è  il punto vendita il primo step. Ed è da lì che si parte per crescere.

L’elenco di chi ce l’ha fatta è lungo. Non faccio nomi perché sarebbe troppo facile, per me, dimenticare qualcuno. In quasi tutte le insegne sono i risultati personali e di team che favoriscono  la crescita professionale. Almeno fino ad un certo livello.  E questi professionisti formano l’ossatura fondamentale di ogni insegna: il cosiddetto middle management. Penso agli specialisti di pescheria, panetteria e ortofrutta. Penso ai capi reparto e i direttori di punto vendita. Macellai e salumieri che determinano il successo dei loro punti vendita. Vere e proprie scuole aziendali di prim’ordine, non sempre riscontrabili   sul curriculum.

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Lavoratori azionisti coinvolti su obiettivi e risultati. Negli USA funziona in Publix. Potrebbe funzionare anche da noi, secondo la CISL.

Nel sud est degli Stati Uniti c’è una azienda che piacerebbe a Luigi Sbarra segretario generale della CISL: Publix Super Markets. Ha generato vendite per circa 54,5 miliardi di dollari USA nell’anno fiscale terminato il 31 dicembre 2022. Un aumento del 13,6% rispetto al 2021. Impiega 240.000 persone, ha 1380 punti vendita, scuole di cucina, centri di distribuzione e undici impianti di produzione. Publix è la più grande azienda di proprietà….. dei dipendenti negli Stati Uniti.

Ha una forte cultura aziendale costruita sul fatto che, almeno 220.000 persone delle 240.000 impiegate possiedono azioni che vengono concesse annualmente al personale. Fondata da George Jenkins nel 1930 come piccolo negozio in Florida, Publix è cresciuta fino a diventare la più grande catena di supermercati di proprietà dei dipendenti e continua a essere uno dei principali retailer del Paese. Uno dei cinque supermercati leader in termini di vendite e dimensioni.Il top management ha una lunga esperienza in azienda. Il suo CEO, Todd Jones, lavora a Publix da 41 anni, avendo iniziato come commesso di negozio. Il 60enne è pagato “modestamente” secondo gli standard USA per i CEO. Ha guadagnato $ 3,6 milioni nel 2020, contro $ 22,4 milioni per il capo di Kroger, Rodney McMullen.

Jones ed è il primo amministratore delegato a non essere un membro della famiglia Jenkins. Sebbene le azioni della società esistano, sono disponibili per l’acquisto solo da parte di dipendenti, membri del consiglio e parenti della famiglia Jenkins. Barron’s stima che il dipendente medio  detiene $ 150,000 in azioni e che alcuni fedelissimi  possano averne per importi a sette cifre. I vantaggi  azionari aiutano a differenziare Publix dagli altri retailer. L’azienda non è sindacalizzata, afferma David Livingston di DJL Research, un consulente del settore. “I loro salari sono inferiori a quelli dei loro concorrenti sindacalizzati, ma i dipendenti sanno che nel lungo periodo ne traggono un vantaggio grazie ai bonus azionari”, afferma.  Nel 2022, Publix ha aperto 40 nuovi supermercati, ristrutturato 117 punti vendita  e chiuso 11 negozi.Il prezzo delle azioni è aumentato da 13,19 dollari per azione a 14,55 dollari per azione, a partire dal 1° marzo. 

Per restare  in Italia,   potrebbe essere una evoluzione interessante del modello  Conad e Coop dove  i protagonisti sono i soci, imprenditori  o clienti. Non i lavoratori in quanto tali.  Fantascienza? Che sia un coinvolgimento tramite azioni, legato ai risultati dell’insegna o del sito o, come in Svizzera, attraverso una retribuzione legata alla cifra d’affari (https://bit.ly/45VlV0R) siamo certamente di fronte ad un interessante evoluzione del rapporto di lavoro. Ovviamente considerando culture e  differenze tra settori. Tutto questo nell’esperienza Publix, oltre agli importanti risultati economici, produce un tasso di  fidelizzazione, coinvolgimento, responsabilità e impegno molto maggiore dei concorrenti. Difficile, se non impossibile,  poterlo replicare da noi. Soprattutto nella Grande Distribuzione.
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Listini industriali e caro carrello della spesa. È necessario riaprire il confronto triangolare

Bisognerebbe che qualcuno rileggesse “l’Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto. L’opera narra delle gesta di cavalieri cristiani e musulmani abituati a fronteggiarsi. Tra questi c’era Agramante, il re dei mori che era riuscito a riunire eserciti molto diversi tra di loro accomunati però dalla stessa fede, pur essendo di etnie diverse abituati a dilaniarsi attraverso  continue lotte intestine. La Grande Distribuzione è sempre stata così:  litigiosa e incapace di darsi una strategia comune. Finalmente le sue tre espressioni più importanti (Federdistribuzione, Conad e Coop) hanno trovato un punto di incontro nell’interlocuzione politica con il Governo dopo un periodo più o meno lungo dove ciascuna insegna ha cercato di arrangiarsi a fronte delle richieste di aumento dei listini  che da monte ricadevano come un fiume in piena sugli scaffali della GDO ingenerando nei consumatori la convinzione che le responsabilità fossero esclusivamente a valle.

L’industria alimentare è da sempre portata ad atteggiamenti più sobri e  misurati. Ha dalla sua la filosofia della lobby ben organizzata. Sa di avere il fiato sul collo di Coldiretti e le ragioni della filiera a monte  ma non si aspettava che la GDO, per la prima volta,  tenesse unitariamente la  posizione con il Governo. Le richieste di aumenti dei listini (non sempre giustificati) tutto sommato accettati nelle singole insegne, la durata eccessiva dei contratti in tempi di inflazione non contestati e la mancanza di visione politica di insieme di quest’ultima l’hanno convinta a tenere duro anche  questa volta nella certezza che il fronte si sarebbe, prima o poi, sgretolato. D’altra parte gli aumenti richiesti, in buona parte oggettivi, seguivano gli aumenti delle materie prime, dell’energia e dei trasporti rendendoli pressoché inevitabili. Altri meno. Soprattutto le differenze di impatto tra i diversi sottosettori.

Centromarca, l’associazione più titolata,  ha però puntato troppo alto. Ha rifiutato prima un dialogo con la GDO teso a costruire un percorso comune e poi ha pensato di replicare lo stesso atteggiamento con il Governo alzandosi dal tavolo e ribadendo l’intenzione di non sottoscrivere alcunché.  La GDO non si è scomposta ed è rimasta seduta al tavolo.  Chi si alza ha sempre torto.

Com’era prevedibile più si avvicina settembre, che segnala la data di scadenza per aderire o meno al patto anti inflazione, più c’è chi cerca  di seminare confusione nel campo di Agramante. Se però oggi le polemiche feroci sul “caro carrello” non colpiscono  (almeno dal versante politico) la GDO lo si deve a Federdistribuzione, Coop e Conad che hanno ben compreso la necessità di un dialogo costruttivo con l’Esecutivo. Indipendentemente dal suo colore. Questo si chiama “far politica” cosa sconosciuta (salvo in Coop e, in parte in Conad) nel mondo associativo della GDO fino a qualche tempo fa.  Risultato che va ben al di là da ciò  che l’operazione sui prezzi potrà garantire concretamente. Leggi tutto “Listini industriali e caro carrello della spesa. È necessario riaprire il confronto triangolare”

Sindacati, Associazioni Imprenditoriali e Governo. Quale autunno ci aspetta?

Mentre i partiti di opposizione incalzano il governo con la loro proposta di introduzione del  salario minimo Rita Querzé sul Corriere  pone un tema ineludibile. (https://bit.ly/3KGo88c): “Se non vorranno buttare la palla in tribuna le parti sociali dovranno inevitabilmente affrontare il problema delle retribuzioni mettendoci del proprio”. Se è vero com’è vero che i contratti coprono il 97% dei lavoratori del settore privato (14,5 milioni i lavoratori dipendenti esclusi agricoli e domestici) è lì che andrebbe concentrata l’iniziativa delle parti sociali.  Nel dettaglio, dall’elaborazione della Fondazione Di Vittorio dei dati Cnel-Inps relativa a 894 Ccnl, risulta che: 207 Ccnl firmati da Cgil, Cisl, Uil coprono 13.366.176 lavoratori dipendenti del settore privato; 687 Ccnl firmati dalle altre organizzazioni sindacali interessano 474.755 lavoratori. A questi dati bisogna aggiungere 689.355 lavoratori dipendenti per i quali il datore di lavoro non ha indicato chiaramente il Ccnl applicato. Quindi i contratti siglati dalle tre Confederazioni tutelano la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti del settore privato.

“Sono due in particolare le leve nel cruscotto di sindacati e associazioni delle imprese: la definizione della rappresentanza (chi può contrattare che cosa) e la struttura della contrattazione” conclude Rita Querzé. Se il problema dei salari non fosse centrale per l’inflazione che si scarica sui redditi delle famiglie ma anche sui costi  a carico delle imprese, le parti sociali, temo, svicolerebbero ancora una volta dalle loro responsabilità limitandosi a chiedere al Governo un intervento con proposte  di difficile attuazione visto il contesto. Oggi però, è chiaro a tutti, che “buttare la palla in tribuna” non è più possibile.

D’altra parte l’ultima mossa (affidare al CNEL l’onere di individuare un percorso) segnala tutta la difficoltà del Governo di centro destra che intravede  il rischio, anche per l’iniziativa dell’opposizione sul salario minimo, di tensioni sociali difficili da mantenere sotto un livello di guardia accettabile. L’obiettivo, mentre passa la palla al CNEL, è quindi cercare di tenersi fuori. Almeno fino a quando sarà possibile. Sul tema, tra l’altro, il centro destra non ha molto da dire. Non ha tra le proprie file né le competenze né un’autonomia di pensiero sul lavoro dipendente in grado di proporre un patto autorevole sul modello Ciampi  e di riuscire a convincere le parti sociali a sottoscriverlo. Per ora sembra essersi accodato alle rappresentanze datoriali che, da parte loro,  non hanno una linea comune se non l’intenzione, questa si condivisa con i sindacati,  di scaricare i costi di qualsiasi intervento sulla collettività. Defiscalizzare gli aumenti salariali e intervenire sul cuneo fiscale questo significano.

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Continua la crescita di Aldi negli USA con una strategia che punta oltre il discount

Per comprendere le traiettorie di una multinazionale non basta osservarne i movimenti più razionali. Aldi ha un suo modello e lo esporta. Generalmente con successo. In mercati complessi come quello americano, però, si muove per  acquisire know how diversi, decide di sperimentare sé stessa in nuovi formati, studia i comportamenti dei consumatori locali e, con le acquisizioni, oltre a crescere,  si  propone di gestire culture organizzative differenti. Per questo l’operazione di acquisizione in corso  è importante non solo per il mercato americano. Aldi sta cercando di andare oltre il suo tradizionale modello di discount. Questa è, a mio parere, la vera notizia.

Aldi US ha annunciato di aver acquisito Winn-Dixie e Harveys Supermarket da Southeastern Grocers. L’accordo, che dovrebbe concludersi nella prima metà del 2024 comprende circa 400 punti vendita Winn-Dixie e Harveys in Alabama, Florida, Georgia, Louisiana e Mississippi. L’accordo conferma  le traiettorie di crescita di Aldi negli ultimi anni e segnala la sua più grande acquisizione negli Stati Uniti. Almeno  fino ad oggi. Bill Read, vicepresidente esecutivo di Retail Specialists, ha dichiarato a CoStar News che è stato colto di sorpresa da questo accordo. “Aldi ha fatto bene a entrare in molti dei mercati del sud-est e ad acquistare un retailer affermato che esiste da 30, 40, 50 anni. Winn-Dixie presenta vantaggi non solo geografici. Età dei negozi e penetrazione del mercato su tutti. Interessanti  per Aldi “perché consente di crescere di scala velocemente”, secondo Read. Nel suo rapporto, che precede la notizia dell’acquisto di Winn-Dixie e Harveys, Coresight ha affermato che il cambio di passo di Aldi conferma  un salto di  strategia. “A differenza di altri rivenditori tradizionali, Aldi e Lidl negli USA si sono affidati principalmente all’espansione organica, guidati dalla loro prudenza finanziaria e dal loro status”, ha affermato Coresight. “Tuttavia, valutare acquisizioni o accordi di joint venture per nuovi ingressi sul mercato, sono opzioni meno rischiose rispetto alla crescita organica e consentirebbero ad Aldi ma anche a  Lidl di sfruttare le strutture dei loro partner e la loro conoscenza del mercato”.

Aldi ha stabilito per la prima volta la sua presenza nel sud-est a metà degli anni ’90 e da allora ha investito 2,5 miliardi di dollari nella regione. Ciò che sarà interessante è la modalità con cui Aldi cambierà i negozi Winn-Dixie e Harveys che non intende ribattezzare con il proprio marchio. Le due realtà sono profondamente diverse e questo richiederà cambiamenti di approccio su entrambi i modelli. È chiaro che Aldi vuole mettersi alla prova anche su supermercati più tradizionali che non seguono il suo modello a basso costo. Aggiungo che le competenze di Aldi e l’efficiente catena di approvvigionamento renderanno certamente i negozi di Southeastern più competitivi. Ci sono però delle diversità da allineare. Ad esempio le due aziende hanno un approccio diverso nella gestione dei collaboratori: nelle statistiche dedicate alle Risorse Umane  Winn-Dixie ha il punteggio più alto per l’equilibrio tra lavoro e vita privata mentre  ALDI ha il punteggio più alto per retribuzione e benefit. Aldi e  Winn-Dixie sono poi profondamente diversi agli occhi dei consumatori. Entrambi vendono food ma Aldi è comunque un discount. L’assortimento è molto diverso. Winn-Dixie è considerato un negozio di alimentari tradizionale con location più grandi, gastronomia a servizio, panetteria, banco della carne e una farmacia in negozio. Frutta e verdura non la confezionano i clienti.  In Aldi, si. Alcuni negozi Winn-Dixie hanno anche un piccolo bar all’interno. In questa realtà non sono abituati a “noleggiare” il carrello mettendo una moneta da $ 0,25 per fare in modo che le persone riportino i carrelli nell’apposito spazio, come da noi. In Aldi, è così. Tutti elementi che rendono necessaria una certa cautela nel passaggio di consegne perché mostrano abitudini differenti.

Ci sono 210 negozi di alimentari di marca Aldi in Florida, secondo il suo sito web. Ciò include 13 a Orlando, otto a Jacksonville, sette a Miami, cinque a Tampa e dozzine di singole località in varie città e paesi. Ci sono oltre 400 sedi Winn-Dixie in Florida. Ciò include 28 nell’area di Orlando, 42 nell’area di Jacksonville, 39 nell’area di Miami, 82 nell’area di Tampa e centinaia di altre località in varie città e paesi. Ma il settore dei supermercati nazionali statunitensi è estremamente competitivo, con player regionali affermati come Publix molto radicati nel sud-est e retailer online, nonché catene nazionali che detengono una fetta del mercato alimentare tra cui Walmart, Target, Costco, Amazon e Whole Foods Market.
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