Amazon. Una ripartenza di scuola Tesco (per ora) nel retail USA

Ad Andy Jassy, CEO di Amazon, sono bastati pochi mesi dalla sua nomina  per capire che la presenza nel retail fisico doveva essere ripensata dalle fondamenta. Il mercato  USA è saturo di marchi affermati ed è a basso margine. Questo significa che qualsiasi nuovo player deve essere particolarmente attrattivo se vuole imporsi e soprattutto stabilire una relazione duratura  con i clienti. Amazon ha acquisito Whole Foods Market nel 2017 per 13,7 miliardi di dollari. Un’operazione fondamentale  grazie alla caratterizzazione sul mercato dell’insegna acquisita. Ha così potuto beneficiare di un trasferimento di competenze dal settore retail ma, nel 2022, Whole Foods deteneva meno del 2% della quota di mercato alimentare, con i suoi circa 530 negozi rispetto alle migliaia di Walmart secondo i dati della Chain Store Guide.

Con il successivo lancio dei suoi negozi Fresh, Amazon ha così cercato, senza riuscirci, di attrarre clienti già frequentatori di grandi catene di alimentari come Kroger o Walmart senza però trovare un posizionamento per questi negozi che soddisfasse  veramente il consumatore ma che avesse senso anche dal punto di vista economico e quindi della redditività. “Ci stiamo lavorando sodo e vediamo alcuni segnali incoraggianti”, ha detto Jassy durante una recente intervista confermando che la società non aprirà nuovi negozi Fresh fino a quando non verrà individuata la soluzione ottimale per poi eventualmente estenderla.

“Il retail tradizionale è davvero l’ultima frontiera per Amazon in termini di crescita non sfruttata”, ha dichiarato Jordan Berke, CEO di Tomorrow Retail Consulting. “È il più importante comparto in cui Amazon  fatica a competere”. “Quando Amazon è entrata in questo business, l’ipotesi era che potessero usare la tecnologia per compensare l’ingresso tardivo per la mancanza di una grande rete fisica”, ha detto Karan Girotra professore alla Cornell Tech. “La speranza era che la tecnologia avrebbe dato loro un vantaggio, ma in realtà non è successo”.  I dati sul traffico analizzati da Bloomberg Intelligence mostrano che i clienti acquistano presso i concorrenti vicini molto più frequentemente di quanto non facciano nei punti vendita  Amazon Fresh.

L’obiettivo di Amazon è sempre quello di costruire un’esperienza di acquisto  best-in-class, diventando la prima scelta per selezione, valore e convenienza. Per accelerarne il raggiungimento, Jassy ha ingaggiato uno dei top manager migliori sul mercato nel retail internazionale per esperienza e percorso professionale, Tony Hoggett, strappandolo nel 2022 a Tesco. Una mossa decisiva per Amazon nella convinzione che il retail potesse essere riprogettato dalle fondamenta solo trovando il giusto mix tra la tecnologia, dove Amazon gioca il suo vantaggio competitivo, redditività, costi, centralità del servizio e orientamenti del consumatore dove la strada per l’azienda di Seattle resta ancora tutta in salita.

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Grande Distribuzione. Le retribuzioni non sono tutte uguali…

Mentre Governo e opposizione si confrontano a distanza sulla necessità o meno di introdurre il salario minimo legale, il costo del lavoro resta una delle principali voci di attenzione delle insegne della GDO e del comparto del commercio in generale. Il mancato rinnovo del CCNL scaduto nel 2019  è anche figlio di questo problema. Indipendentemente dalla direzione che si vorrà prendere esistono problematiche complesse nel comparto che imporrebbero una valutazione a tutto campo sui contratti nazionali, sulla loro effettiva copertura,  sulla loro attualità, sulla rappresentatività di chi li rinnova e sul loro costo. Sia riferito al cosiddetto “minimo tabellare” che è, di fatto un salario minimo ante litteram, applicato a milioni di lavoratori, che a tutto il resto, trascinamenti compresi.

Le insegne (almeno le più serie) non vogliono certo penalizzare i propri lavoratori. Nello stesso tempo non vogliono trovarsi caricate di eccessivi costi diretti e indiretti. Senza contropartite in grado di bilanciarne gli effetti e i trascinamenti il rinnovo, pur dovuto, rappresenterebbe  un sollievo per i singoli lavoratori in tempo di inflazione ma anche un costo complessivo  che si somma a tutta una serie di limiti oggettivi che impediscono recuperi a causa di un testo che ha fatto abbondantemente il suo tempo e che occorrerebbe riscrivere ex novo. Purtroppo questa mancanza di consapevolezza dell’inadeguatezza dello strumento, i suoi costi indiretti o  “nascosti”  che trascina senza alcun vantaggio per entrambe le parti, contribuiscono a creare una  situazione complessa  che andrebbe affrontata con tutt’altra visione.

Questa rigidità delle insegne nei confronti del regolatore nazionale non significa, però, che le imprese non abbiano una attenta gestione del proprio personale e loro precise politiche retributive. O che tutte si comportino allo stesso modo. Ovviamente non c’è solo l’aspetto economico ma se un giorno, anziché di bilanci, promozioni  o vendite al m2,  si decidesse di pubblicare la classifica delle retribuzioni nella GDO le due imprese top sugli aspetti salariali legati ai dipendenti inquadrati  nei contratti nazionali scaduti vedrebbero ai primi due posti gli eterni avversari  Coop ed Esselunga.

La prima è  la più rispettosa in assoluto dei contenuti  del contratto nazionale e della contrattazione aziendale. La seconda, meno disponibile sul versante dei rapporti con il sindacato ma con retribuzioni altrettanto significative. In aggiunta vanta le migliori retribuzioni per  quadri e dirigenti rispetto al sistema Coop. Esselunga ha poi una sua politica retributiva discrezionale, nettamente migliorativa del CCNL rivolta alle sue figure chiave.

Un gradino sotto ci sono le multinazionali francesi e tedesche con le seconde in crescita. Competitive con Esselunga su dirigenti e quadri e dotate di proprie politiche retributive specifiche ma con la contrattazione aziendale bloccata da anni (nel caso di Carrefour) o di tono minore alle prime due (Lidl). La seconda fascia è occupata dalle insegne che applicano esclusivamente il CCNL firmato da Federdistribuzione o da Confcommercio ma non hanno costi aggiuntivi derivati dalla contrattazione di secondo livello. Semplicemente perché non c’è o l’hanno abolita. Anche loro hanno una politica retributiva aziendale finalizzata alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane. Qui troviamo buona parte delle insegne più note. Più generose verso l’alto della loro gerarchia. Meno  verso il basso dell’inquadramento.

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Conad. Evoluzione o involuzione? Ai soci l’ardua sentenza…

Che fare? Credo sia la domanda prevalente che oggi è presente nei ragionamenti  di chi riflette sul futuro del Conad. Ci sono oltre  settantaseimila ragioni  per farlo. Una per i 2200 soci e una per ognuno dei 74432  lavoratori del consorzio. L’uscita di Francesco Pugliese ha chiuso una parte della sua storia nata il 13 maggio 1962 in quel di Bologna. Ed è la storia di  diverse generazioni di imprenditori che hanno creduto nelle loro capacità e nella forza della condivisione di valori comuni.  La leadership di Francesco Pugliese non solo ha dato una strategia imprenditoriale da “numeri uno” del comparto ma è riuscita a realizzare un sogno altrimenti precluso per la conformazione stessa del consorzio. In altre parole gli ha indicato una nuova missione: andare oltre i propri confini. Con la sua uscita  si gira pagina e si affronta un nuovo capitolo dello stesso libro o si fa altro? Questo è il punto.

Anche REWE, prima in Germania  e poi nel resto d’Europa  è cresciuta così. Senza un progetto manageriale di grande respiro i singoli imprenditori sarebbero rimasti chiusi nei loro recinti dorati. REWE stessa sarebbe rimasta circoscritta  nella Renania Vestfalia o poco più. Mentre oggi è presente in 14 Paesi Europei. Certo, nei valori di fondo  resta una cooperativa ma questo non ha impedito un’evoluzione manageriale con acquisizioni al di fuori delle singole realtà cooperative e una visione moderna del business.

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La sottovalutazione del consumatore costa cara. Anche Lidl negli USA paga pegno…

Aprendo la sua sede centrale ad Arlington, in Virginia, nel 2017 Lidl aveva promesso di convincere i consumatori statunitensi della sua intenzione di  “Rethink Grocery” offrendo un’esperienza di acquisto diversa e complessivamente più conveniente  e di aprire 100 negozi entro l’estate del 2018. Lidl allora era vista come una potenziale minaccia per Kroger, Albertsons, Walmart e i numerosi retailer regionali. Non è stato così. Probabilmente credeva che avrebbe movimentato più facilmente il mercato negli Stati Uniti come già avvenuto nei Paesi europei.

L’errore  è stato,  probabilmente,  anteporre le proprie priorità alla specificità del consumatore USA. Lidl avrebbe dovuto  comprendere che i clienti non avrebbero lasciato tanto facilmente le offerte e i prodotti dei loro retailer tradizionali per i suoi, pur  numerosi prodotti a marchio, con cui non avevano alcuna familiarità. Lidl si trova oggi ha nell’assoluta necessità di migliorare il rapporto con i consumatori americani che restano fedeli ai loro negozi locali e ai prodotti di marca più di quanto l’insegna tedesca avesse probabilmente stimato. Ha già oggi apportato modifiche alla sua strategia immobiliare, ha ammorbidito l’aspetto dei suoi negozi e ha iniziato a offrire la consegna a domicilio. Ma chiaramente bisogno fare di più. 

Chissà cosa avrà pensato Dieter Schwarz quando si è trovato costretto a  insediare, negli USA, l’ennesimo nuovo CEO. E questa volta pure americano:  Joel Rampoldt. Sostituirà a breve Michal Lagunionek che ha ricoperto il ruolo dall’aprile 2021. Joel Rampoldt è il  quarto CEO che assume il ruolo dal lancio della catena statunitense nel 2017. Il quinto dal primo arrivo di LIDL negli USA  nel 2013. Secondo Lebensmittel Zeitung, nella nota interna, il CEO di Lidl ha affermato che la nomina di Rampoldt è un passo importante per ripartire e provare a mettere forti radici negli Stati Uniti.

La multinazionale tedesca  era arrivata per la prima volta negli Stati Uniti nel 2013 per aprire i suoi primi negozi nel 2017. Si è trovata subito una forte concorrenza da parte dei retailer  tradizionali e del rivale  Aldi, che opera negli Stati Uniti dagli anni ’70 e sta rapidamente aumentando il numero  di negozi in tutto il Paese. Aldi ha attualmente 2.284 negozi in 38 stati e nel Distretto di Columbia. Uno scontro impari. Lidl fatica a connettersi con i consumatori americani. Ovviamente gli esperti sottolineano che siamo di fronte ad una realtà con le risorse e la pazienza sufficiente per trovare alla fine la sua strada negli Stati Uniti. Leggi tutto “La sottovalutazione del consumatore costa cara. Anche Lidl negli USA paga pegno…”

Patto anti inflazione. Siamo al penultimatum dell’industria alimentare

Com’era prevedibile il cerino è ritornato in mano al Governo. Il patto trimestrale anti inflazione  va in stand by. Ma il governo sembra comunque deciso ad andare avanti. La ripresa autunnale si presenta quindi sempre più complicata per il Paese. Il ministro Urso ha deciso di allargare il tavolo convocando oggi in videoconferenza le associazioni della grande distribuzione e del commercio tradizionale — Federdistribuzione, Ancc Coop, Ancd Conad, Confcommercio, Confesercenti, CNA, Assofarm e Unifardisda — puntando alla sottoscrizione comunque di  un impegno comune entro il 10 settembre  sul trimestre anti-inflazione per «offrire prezzi calmierati su una selezione di articoli rientranti nel carrello della spesa e di prima necessità, nel rispetto della libertà di impresa e delle singole strategie di mercato».

Giustamente il Presidente di Federdistribuzione Carlo Buttarelli tiene il punto: «Sono mesi che chiediamo all’industria di mostrare senso di responsabilità verso le famiglie, abbassando, dove possibile, i propri listini di vendita», ma «l’industria di trasformazione, sollevando argomentazioni pretestuose e strumentali, si dichiara indisponibile: la distribuzione moderna conferma invece la volontà di continuare la collaborazione con il governo». Ottima decisione. Adesso bisogna lavorare per riportare tutti al tavolo. 

Centromarca e Associazione Ibc (Industrie Beni di Consumo) che insieme rappresentano le più grandi aziende italiane del settore hanno ribadito, da parte loro (per ora), il “Non debemus, non possumus, non volumus”  al ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Le ragioni sono contenute in una nota. “La marginalità delle aziende si è deteriorata a causa del forte aumento del tasso di sconto. Il quadro complessivo non consente previsioni realistiche sulla dinamica dei conti economici e sulle linee delle politiche commerciali dei prossimi mesi. Un’azione di controllo dei prezzi, a prescindere da queste variabili e dalle differenti condizioni delle singole aziende, rischia di pregiudicare la tenuta del tessuto produttivo (soprattutto delle Pmi) e la continuità dei fondamentali investimenti a presidio di qualità, sicurezza, sviluppo, occupazione e sostenibilità”.

“I bilanci industriali – prosegue il comunicato – registrano riduzioni dei margini, a conferma del fatto che, consapevoli della debolezza del potere d’acquisto delle famiglie, i produttori di beni di largo consumo hanno fatto quanto era in loro potere per trasferire con gradualità a valle gli extracosti anche incamerando negli anni scorsi contrazioni significative dei profitti. Nell’alimentare i margini per unità di prodotto hanno registrato una riduzione del 41,6%. L’Osservatorio Congiunturale Centromarca – Ref Ricerche evidenzia che lo scorso anno il 43,5% dei manager delle aziende alimentari e non food ha riscontrato profitti in diminuzione e il 6,2% ha prodotto in perdita. Nel 2022 le tensioni al rialzo dei costi, già in atto nel 2021, si sono accentuate. Leggi tutto “Patto anti inflazione. Siamo al penultimatum dell’industria alimentare”

Grande distribuzione. Il discount Penny in Germania aumenta i prezzi per una settimana in difesa dell’ambiente.

Mentre in tutta Europa si formalizzano accordi per ridurre l’impatto dell’inflazione sulla spesa delle famiglie, soprattutto con i redditi più bassi, in Germania un’azienda, parte di un grande gruppo GDO presente in tutta Europa, lancia qualcosa di più di una provocazione.  Un forte segnale di riflessione collettiva  che guarda al futuro.  Dei tre discount tedeschi di rango Penny  è forse il meno noto. Vanta 3000 punti vendita in Europa e, in Italia, nasce nel 1994 in compartecipazione con Esselunga. Oggi PENNY, nel nostro Paese,  ha circa 400 punti vendita,  7 centri di distribuzione e  oltre 4.200 collaboratori.  Nel 1999 Esselunga esce dal capitale di Penny Market Italia e la società passa sotto il controllo totale del gruppo REWE (Gruppo nel quale ho avuto la fortuna di lavorare per molti anni). A partire dal 2000 inizia una  politica di espansione con l’acquisto di una cinquantina di punti vendita di dimensioni medio-piccole dalla Plus Italia, situati in Liguria, Toscana e Umbria. Alla fine del 2014, il logo aziendale cambia nel resto d’Europa,  Dal 14 aprile 2022, anche in Italia il logo “PENNY.” sostituisce la vecchia insegna Penny Market.

Balza oggi alle cronache per un’iniziativa senza precedenti. In un esperimento che è partito ieri, lunedì 31 luglio, e che durerà una settimana in tutte le 2.150 filiali tedesche della catena, una gamma di nove prodotti, principalmente latticini e derivati della carne, verrà venduta in base al loro costo ovvero a quello che gli esperti di due università tedesche hanno ritenuto essere il loro vero costo, aggiungendo anche  il loro effetto indotto sull’ambiente. Sul  suolo, sul  clima, sull’uso dell’acqua e sulla salute. È molto più di una provocazione. Serve per far riflettere e per far crescere il livello di consapevolezza dei consumatori tedeschi. Tra tanto “green washing” che non incide in profondità sui comportamenti agiti, Penny alza l’asticella. I veri costi sono stati calcolati in collaborazione con l’Università di Norimberga e di Greifswald, tenendo conto di tutti i danni ambientali causati dalla produzione di quegli  alimenti specifici. Ciò include l’impatto sul suolo, sull’acqua, sulle emissioni e altro ancora. Il reddito aggiuntivo derivante dagli aumenti dei prezzi di quella settimana sarà ristornato a progetti ambientali locali. Il risultato  è però un forte aumento del costo di alcuni prodotti di origine animale.

“Vediamo molti nostri clienti soffrire per i prezzi dei prodotti alimentari aumentati a causa dell’inflazione. Tuttavia abbiamo voluto dare un messaggio ancora più scomodo. I prezzi del cibo che vendiamo, che si sommano  lungo la filiera di approvvigionamento, non riflettono i costi ambientali. Vogliamo così contribuire a creare una diversa consapevolezza con la campagna nazionale sui veri costi”, ha detto Stefan Görgens, COO di PENNY, in conferenza stampa.

La campagna che durerà una sola settimana (www.penny.de/wahrekosten) ha l’unico  scopo di aumentare la consapevolezza dell’impatto ambientale sulla  produzione alimentare. Attualmente, le industrie della carne e dei prodotti lattiero-caseari in Germania  ricevono sussidi governativi e agevolazioni fiscali che aiutano a rendere i loro prodotti meno costosi al consumatore.  Contemporaneamente altre iniziative sono in campo a livello europeo per  chiedere di dirottare questi sussidi verso  prodotti proteici alternativi per aiutare a contrastare  il cambiamento climatico. Posizioni difficilmente conciliabili. Nel frattempo, organizzazioni come il Danish Climate Council e la UK Health Alliance on Climate Change hanno chiesto di tassare carne e latticini per ridurne i consumi. Leggi tutto “Grande distribuzione. Il discount Penny in Germania aumenta i prezzi per una settimana in difesa dell’ambiente.”

Grande Distribuzione. UNES, quali prospettive per il futuro prossimo?

Se oggi mi chiedessero di indicare due insegne in Lombardia particolarmente visibili, piacevoli da visitare  e performanti (discount a parte) indicherei Iperal e Tigros. Mi aspetto molto dal nuovo corso di Carrefour italia rispetto  al punto di  partenza  e mi riservo di approfondire altre insegne subregionali al nord come al sud per completare un aggiornamento delle insegne che corrono per essere le best performer del comparto ciascuna in base alle strategie scelte dai rispettivi management. I numeri però non dicono tutto. Soprattutto cambiano in funzione degli uomini che li realizzano. Su Esselunga ho già espresso le mie perplessità. Oggi affronto  Unes, un’altra insegna che non sta ritrovando  le importanti traiettorie di business  a cui ci aveva abituato ( è l unica azienda, lo dico anche da cliente,  che per un certo periodo ho pensato potesse mettere un po’ di fiato sul collo  al leader Esselunga sulla piazza di Milano).

Comprendere perché un’insegna riesce ad affermarsi tra tante, risalire la china e imporsi ad una platea di consumatori difficili e frastornati da mille richiami e poi ricadere nell’oblio è fondamentale per rendersi conto  che, nella Grande Distribuzione, nulla è mai acquisito. Si sale e si scende alla stessa velocità. Non solo i passaggi generazionali possono rallentare o far cambiare direzione di marcia.  La differenza la fanno i manager, a cui spesso i successi non sono perdonati, quasi come gli insuccessi. Il caso di Unes è paradigmatico.

Un po’ di storia per comprenderne le traiettorie possibili.

L’azienda è di proprietà di Marco Brunelli, oggi 95 anni, che resta  a mio parere il vero dominus della Grande Distribuzione italiana. Nessuno ha collezionato i suoi successi. Cofondatore di Esselunga (in società con Bernardo e Guido Caprotti), di GS supermercati, (in società con Guido Caprotti),  fondatore e proprietario dei gruppi Finiper operante col marchio Iper la Grande I  e UNES). Inoltre, ha ricoperto la carica di presidente di Carrefour Italia. Poi c’è l’aspetto umano che per il sottoscritto conta come e più di altri giudizi. Avendo conosciuto sia Bernardo Caprotti che Marco Brunelli, posso dire di aver stimato entrambi ma sottolineo, sommessamente, che la mia  preferenza personale va al secondo.  Leggi tutto “Grande Distribuzione. UNES, quali prospettive per il futuro prossimo?”

Grande distribuzione e Amazon. Solo se al centro c’è il cliente la tecnologia fa la differenza

Sotto lo stesso tetto (Amazon) due elementi interessanti ruotano intorno alla possibile evoluzione tecnologica del punto vendita e quindi dell’intero comparto della GDO. Da un lato il riposizionamento, con la progressiva chiusura, di diversi punti vendita senza cassa di Amazon (non solo negli USA). Nulla di sconvolgente. Il motivo è semplice: i ricavi non giustificano la loro presenza in quei territori.

Nei 16 principi della leadership di Amazon (https://bit.ly/474SJ8T), il decimo, dedicato alla Frugalità, chiarisce il punto: “Ottenere di più con meno. Risorse limitate alimentano intraprendenza, autosufficienza e creatività. Non si ricevono punti di merito nel far crescere gli organici, l’entità del budget o le spese fisse”. “Come qualsiasi rivenditore fisico, valutiamo periodicamente il nostro portafoglio di negozi e prendiamo decisioni di ottimizzazione lungo il percorso”, ha dichiarato un portavoce di Amazon riportata da GeekWire. “Rimaniamo impegnati nel format, gestiamo i punti vendita Amazon Go negli Stati Uniti e continueremo a scoprire quali luoghi e funzionalità vengono apprezzati  maggiormente dai clienti mentre continuiamo a far evolvere i nostri negozi”, ha concluso.

Quindi la logica che ha portato al primo negozio senza code e privo di casse che ha dato una scossa all’intero comparto e che  è stato aperto da Amazon a Seattle nel 2016, è in fase di ripensamento. Negli anni successivi ne sono stati inaugurati altri, sempre negli Stati Uniti (v. Chicago nel 2018) e con l’obiettivo di aprirne 3000 entro il 2021. Cosa che non è avvenuta. Nel 2021 quel formato  è sbarcato anche in Europa, a Londra. Oggi chiude anche quello. Avrebbero dovuto essere più di cento in UK, si sono fermati a 18.

Aggiungo che, la tecnologia Just Walk Out è molto costosa e impegnativa per le risorse aziendali. I negozi, non va mai dimenticato, sono luoghi sociali e l’interazione fisica non può essere banalizzata. Ambienti pur efficienti rischiano di apparire senz’anima. L’errore  è sempre quello di anteporre le proprie convinzioni alle priorità  dei clienti. La tecnologia di checkout è interessante e per certi versi “eccitante”ma non promuoverà mai la fedeltà a lungo termine se l’esperienza del negozio non è unica e avvincente. Se insisti, devi offrire in cambio molto di più della curiosità suscitata e della rapidità, insita nel modello che non prevede casse, per attirare clienti. Se poi l’offerta  non è particolarmente competitiva, al di là della tecnologia, se i presunti risparmi, alla prova dei fatti,  non si  verificano, il problema resta.

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Grande distribuzione e inflazione. Presto si aprirà un negoziato decisivo con il Governo

C’è l’intero Governo in affanno sul tema. L’inflazione, se non verranno messe in atto le contromisure necessarie per attutirne gli effetti e provare a stimolare la discesa, rischia di lacerare il tessuto sociale del Paese.    Il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso punta ad un  accordo su un paniere di prodotti di largo consumo a prezzi calmierati. Il negoziato che si aprirà vede una GDO che si sente presa di mira mentre l’industria alimentare ha “svicolato” fino ad ora dalla proposta di aprire un tavolo comune. I rapporti di forza pesano.

Confindustria è sul pezzo. Sta cercando di salvaguardare le traiettorie economiche dei suoi associati. Quindi Federalimentare, fino ad ora, ha rimbalzato le richieste di coinvolgimento. Confcommercio ha sotto la sua ala una pluralità di settori, ognuno con le sue priorità. Insieme a Coldiretti sono però gli interlocutori privilegiati del Governo Meloni. Federdistribuzione e tutto il resto della compagnia, pur animati da tanta buona volontà,  sono il classico vaso di coccio tra vasi di ferro.

C’è poi una differenza strutturale nel modello decisionale tra le diverse rappresentanze. Confindustria e Confcommercio fanno politica “per” le imprese. Federdistribuzione prova a fare politica “con” le imprese. E mettere d’accordo teste abituate a diffidare l’una dell’altra e tutte convinte di saperla lunga non è cosa facile. Di questo ne va dato  atto.

“Va premesso che l’inflazione in Italia sta diminuendo più rapidamente che in altri Paesi europei, ma noi vogliamo fare di più anche per evitare che gli aumenti diventino strutturali come è avvenuto durante la fiammata del 2007/2009. Stiamo lavorando per calmierare i prezzi dei beni di largo consumo individuando un paniere non solo alimentare con meccanismi che definiremo in questi giorni con tutti gli attori della filiera, dalla grande distribuzione organizzata a produttori e commercianti. L’obiettivo da raggiungere già prima della pausa estiva è un accordo di sistema per un “trimestre anti inflazione”. ha dichiarato il ministro al Corriere. In questi mesi l’industria alimentare si è mossa con lungimiranza. Da un lato forzando con richieste di aumenti dei listini generalizzati alle singole insegne e dall’altro, convincendo il Governo che la GDO ha margini abbondanti a disposizione mentre il primario e il secondario devono consolidarsi nel post pandemia e in una situazione geopolitica e climatica tutt’altro che assestate. Per queste ragioni vanno lasciate lavorare per consolidarsi in una fase difficile.  
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Grande Distribuzione. A Milano si riaprono i giochi?

C’è una novità importante sulla piazza di Milano. I punti vendita della grande distribuzione si assomigliano un po’ tutti.  Questo è il paradosso che riapre una partita che sembrava ormai chiusa. Pensavo che si puntasse ad essere “diversi”. Non ad essere tutti “uguali”. Credevo che la “prima della classe”  restasse a lungo irraggiungibile per una concorrenza che, dopo aver perso per strada il “Viaggiator Goloso” di Unes, (l’unica insegna in grado, in passato, di impensierire Esselunga a Milano) sembrava rassegnata a giocare in un campionato minore.

Ci ha pensato l’insegna di Pioltello a rimetterli in gara. Qualità del servizio, professionalità, convenienza e offerta si stanno schiacciando inesorabilmente verso il basso. Il contagio dell’ossessione sui costi l’ha raggiunta e questo la spinge ad un avvitamento inevitabile nonostante continui ad investire. I vari Esse aperti  e ben settanta bar Elisenda testimoniano una volontà. Però i risultati si fanno con i superstore. I mal di pancia interni e nei punti vendita, non lasciano dubbi. Quello che si vede, per chi ha l’occhio attento, è un rallentamento che viene colto dalla concorrenza come un segnale di debolezza evidente su cui lavorare per ridurre il gap.

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