Lo sciopero generale del 29 novembre. Le conseguenze inevitabili sul sindacalismo confederale

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C’è qualcosa  di profondamente diverso e preoccupante nella stagione sindacale  che arriva. La divisione del sindacalismo di matrice confederale porta inevitabilmente con sé due effetti.  Da un lato rischia di spingere  CGIL e UIL nel campo presidiato dai sindacati di base, tutt’altro che marginali in alcuni settori e, dall’altro ripropone la necessità di certificare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali che rischia di coinvolgere anche le singole categorie e quindi le dinamiche dei futuri rinnovi dei CCNL. 

Maurizio Landini ha evocato addirittura la necessità di una  “rivolta sociale”. Rivolte che, come la Francia a volte ci mostra, nascono generalmente dal basso, dalle contraddizioni sociali  senza essere annunciate, evocate o previste dall’alto come in questo caso. Il 29 novembre ci sarà una verifica non tanto del malessere presente nel mondo del lavoro che è evidente ma della capacità di interpretarlo da chi ha proposto la mobilitazione a partire  dalla partecipazione dei diretti interessati, i lavoratori dipendenti,  allo sciopero generale di otto ore indetto da CGIL e UIL (la CISL non ha aderito).

Contemporaneamente si è messa in movimento anche la galassia del sindacalismo di base, Cub, Sgb, AdL Cobas, Confederazione Cobas, Clap, Sial Cobas, presenti nei servizi, nel pubblico impiego, nei trasporti  e nella logistica, che ha anch’essa  indetto lo sciopero generale per l’intera giornata del 29 novembre contro la manovra e la politica socio-economica del Governo. Ovviamente quest’area prova ad alzare la posta puntando a  far emergere le contraddizioni presenti nel sindacalismo confederale non volendo delegare loro la protesta sociale e la decisione sulla prosecuzione delle iniziative dopo lo sciopero.

Come ho già scritto, più che la roboante dichiarazione in sé, preoccupa la deriva imboccata dalle due sigle del sindacalismo confederale. Che ci stiamo dirigendo più o meno consapevolmente verso il rischio di una pericolosa lacerazione del tessuto sociale mi sembra evidente. Aumento dell’area della  povertà, preoccupazioni per il futuro che lambiscono anche il ceto medio, crisi del welfare state, sono sotto gli occhi di tutti. Mi lascia però perplesso la convinzione di Landini che sia necessario evocare la rivolta sociale e che  lui e Bombardieri possano presentarsi come i possibili interpreti.

Affermare ad esempio che i salari sono fermi da qualche decennio e la precarietà nel mondo del lavoro è una costante, risponde al vero ma è difficile addebitarla a questo Governo e non ad una serie di ragioni e responsabilità che risalgono nel tempo. O che esistano scorciatoie per risolverla e soluzioni semplici a portata di mano. E queste responsabilità non esonerano né i governi precedenti né gli stessi Sindacati confederali che in questi decenni non erano su Marte. Difficile quindi chiamarsi fuori.
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Il turn over (elevato) in GDO come indice di insoddisfazione…

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Come giustamente ricorda Francesco Seghezzi: “In Italia c’è una crisi dell’offerta di lavoro, che peggiorerà nei prossimi anni a causa delle trasformazioni demografiche. Ma allo stesso tempo è il secondo paese in Europa per numero di persone che potrebbero lavorare e non lo fanno perché disoccupati o inattivi. In particolare abbiamo la quota più alta di inattivi che si dichiarano “disponibili a lavorare ma che non cercano attivamente lavoro”. Una categoria particolare, che potrebbe sembrare paradossale, ma che dice molto del nostro mercato del lavoro, tra lavoro nero, frammentazione, scoraggiamento” .

Se poi passiamo dal mercato del lavoro alle aziende, c’è un indicatore che spiega, più di molti altri, il clima  ben al di là dei dei premi ufficiali che difficilmente scavano nelle viscere di un’impresa e delle indagini interne spesso costruite sui desideri dei top manager. È il turn over dei dipendenti. Lasciare un’azienda spesso è sintomo di una sconfitta reciproca. Per il collaboratore che cerca altrove ciò che non è riuscito a trovare dopo aver investito tempo e impegno ma anche per l’azienda perché perdere risorse umane  sulle quali si è investito, non solo i cosiddetti “talenti”, ha un costo enorme per le imprese. 

Trattenere e coinvolgere I propri collaboratori e i lavoratori in genere è quindi sempre più importante. Soprattutto in tempi di difficoltà nel reperimento di  risorse.  L’Italia, pur in cambiamento, è oggi il Paese in testa alla classifica per il tempo medio più lungo trascorso presso lo stesso datore di lavoro con 12,2 anni. Difficile però che questo dato si confermi con l’avvento delle  nuove generazioni. Seguono Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Regno Unito) secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). La media del turn over cresce dall’8,2% del 2021 al 13,3% del 2022.  Colpisce il dato recente del 35% il turnover di Esselunga, ma riguarda soprattutto dipendenti giovani maschi con meno di 30 anni.

Poche insegne forniscono i dati. Nella distribuzione moderna italiana è sempre più difficile attrarre risorse per i modelli organizzativi proposti e l’impegno temporale richiesto. Si rischia che, i più giovani, considerino questo lavoro di passaggio  verso altre realtà. Un dato su cui riflettere. In Europa Tesco tre anni fa era vicino al 30% di turn over. Ora  è appena al di sotto della media del settore, intorno al 35%. Carrefour a livello mondo dichiara il 25%. Il tasso di turn over del lavoro a livello complessivo, in Germania, oscilla tra il 25 e il 30% Nel Gruppo Rewe dal 19 al 25% (2022). Mercadona in Spagna fa eccezione: si attesterebbe intorno al 2%. Un altro dato su cui riflettere.

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Amazon USA. Nel food deve uscire dall’angolo…

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La maggior parte delle operazioni di M&A si incagliano quasi sempre sulla necessità di allineare le diverse culture presenti in chi acquisisce e in chi è acquisito. Nel caso di Amazon e Whole Foods già nel 2017 era chiaro che le difficoltà sarebbero state molto forti . Entrambe le aziende erano dotate di una forte personalità organizzativa con un punto in comune: l’”ossessione” per il cliente visto però da due prospettive molto diverse tra di loro. La prima punta a raggiungerlo e soddisfarlo attraverso la tecnologia e il servizio. La seconda blandendolo con un’esasperata ricerca della qualità del prodotto offerto nel negozio fisico.  In altre parole l’obiettivo dell’acquisizione era mettere insieme il meglio di entrambi i campi. Facile da teorizzare, difficile da mettere a terra.

Andy Jassy, subentrato da poco a Jeff Besoz e proveniente da AWS, il cuore del sistema Amazon, ci ha messo poco a capire che, le due culture altrettanto forti e vincenti nei loro campi d’azione, non avrebbero legato facilmente. Inoltre Jassy doveva anche venire a capo di Amazon Fresh lanciato nel 2007 a Seattle senza grande successo, rilanciato nel 2019, uscito alla grande  dalla pandemia,  ma ancora alla ricerca di una sua vera identità nell’eco sistema  Amazon. Whole Foods, da parte sua, aveva un imprinting troppo forte. Un portato della cultura e del profilo del suo fondatore Jack Makey un personaggio particolare con un grande fiuto per gli affari che ha compreso tra i primi che il biologico avrebbe potuto  diventare un business importante negli USA. L’azienda è cresciuta  lentamente e con fatica fino ai primi anni 90 quando il biologico è esploso. Whole Food si è allargata  così a ovest, in California, e poi è sbarcata a New York. I negozi Whool Foods sono diventati dei templi del bio, pieni di cibi organic, local, vegani, alimenti ispirati dalle diete ‘paleo’, amatissime dalle celebrità Usa, e basate su prodotti freschi, antiossidanti e antinfiammatori. Ma il rovescio della medaglia è che i prezzi sono sempre stati alti. “La qualità richiede che le cose costino, anche tanto”, ripeteva  spesso lo stesso Mackey.

Acquisita l’azienda, messo alla porta Mackey, per evitare traumi organizzavi viene nominato CEO Jason Buechel che in quella cultura è cresciuto ma che non conosce le dinamiche competitive della  grande distribuzione. Whole Foods non compete con Walmart e compagnia. Anzi, per certi versi ne condivide i i clienti che, dopo gli acquisti bio vanno altrove a cercare coca cola e hamburger per i figli..  Jassy allora tenta la mossa del cavallo. L’obiettivo di Amazon  era ed è quello di costruire un’esperienza di acquisto  best-in-class, diventando la prima scelta per selezione, valore e convenienza. Insieme a Doug Herrington CEO World Wide Amazon Stores decidono di chiamare  Tony Hoggett da Tesco. Uno dei migliori su piazza con un percorso professionale adatto alla sfida. Hoggett arriva portando con sé Claire Peters da Woolworths supermarket (prima in Tesco) e il direttore della vendita al dettaglio di Boots e anch’esso veterano di Tesco, Peter Bowery.

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Conad e Selex. Il derby d’Italia

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Se togliamo le multinazionali e i discount, che per ora, fanno gara a sé, e ci concentriamo sui  top manager veri protagonisti della competizione, non stiamo solo parlando d un testa a testa tra fatturati, volumi e margini di due realtà pur differenti  che si misurano tra di loro. Stiamo anche parlando di due tra i migliori top  manager, non dipendenti da un singolo imprenditore. D’altra parte i manager non sono tutti uguali. Ognuno può dire la sua nel range dimensionale nel quale è abituato ad operare. Le alte quote sono per pochi. Anche in GDO. Ciascuno dei nostri due protagonisti potrebbe essere tranquillamente seduto al posto dell’altro. E, come sappiamo qualcuno, tempo fa,  ci ha pure pensato.  E questo è un dato che li differenzia da tutti gli altri.

Sarà un caso ma uno è interista e l’altro è juventino. Conoscono a fondo le realtà in cui operano. Entrambi vantano  anche esperienze professionali fuori dal settore. E questo è un bene. Maniele Tasca (Gruppo Bolton, Boston Consulting Group e Bain & Company, Gruppo Alpitour) dal 2009 General Manager SELEX Gruppo Commerciale S.p.A. Francesco Avanzini (Aia, Barilla, Arena, Unichips e Gruppo Fini). Dal 2009 prima Direttore Commerciale in Conad poi Direttore Generale Operativo, e, da poco,  Direttore Generale, guidando tutte le attività di business del Consorzio Nazionale. Sanno che la classifica che li vede protagonisti e che sottolineano o minimizzano, a seconda delle circostanze, è un modo come un altro per dimostrare  innanzitutto il loro lavoro e ciò che hanno saputo costruire o difendere.

Avanzini, classe 1963, è poi un vero interista. Conosce le sue capacità ma sa anche che, deve fare i conti con le bizze della sua squadra (di calcio). Campioni che a volte sottovalutano la forza dell’unità.  Anche Conad rischia di essere un po’  così. Grande capacità di movimento nelle singole cooperative ma difficoltà a concentrarsi e spendersi insieme nel gioco di squadra.  Avanzini è una persona per bene. È come Inzaghi dopo Conte. Per lui non basta garantire  i risultati. Ad ogni passo l’ombra del paragone con il predecessore lo accompagna. E sarà così ancora per lungo tempo. Per Avanzini però parla il CV. Dove è stato ha sempre fatto bene.  Forse sbaglia nei convegni a terrorizzare  i  suoi buyer bolognesi spaventandoli con l’imminente arrivo al loro posto dell’intelligenza artificiale o quando  insiste a presentarsi con  un profilo manageriale prescrittivo.  Ha un compito difficile. Come Inzaghi appunto. Ad Avanzini basterebbe imporre il suo originale stile di leadership per guidare sereno il Consorzio. Ha tutti i fondamentali per riuscirci. È il migliore  della compagnia. Deve solo crederci fino in fondo. Sotto di lui, tra l’altro,  stanno crescendo giovani leoni. Conad può contare a Bologna e nelle cooperative su profili manageriali interessanti per il suo futuro come Massimo  Lucentini, Francesco Cicognola, Alessandra Corsi, Nicola Webber, Matteo Capelli, Valentino Colantuono. Solo per citare quelli  a me più noti. Tutti in grado di garantire al consorzio un futuro di successi. Una grande realtà si misura anche su questo. Sono le performance della squadra che segnalano il vantaggio. Giocano insieme da una vita. Il primo, Avanzini, anche per il livello complessivo della sua squadra,  può dichiarare di competere in  Champion mentre il secondo dovrà, per ora, accontentarsi del campionato.

Sull’altra sponda Maniele Tasca, classe 1968, juventino. Niente di più diverso dal primo. Molto preparato, deciso, lungimirante. Bravo a coinvolgere l’interlocutore e a trascinare  una squadra di imprenditori da cui è stimato.  Ne deve gestire molti più del primo. A giudizio di molti è il migliore top manager del comparto. Anzi alcuni  si interrogano su cosa lo trattenga in Selex. Mi piace immaginare che,  nella sua testa, coltivi un sogno. Trasformare Selex in qualcosa di più di una centrale. Forse un punto di arrivo per l’intera compagine.  Sarebbe una svolta. Un punto di riferimento per l’intero settore. La trasformazione di quello che già oggi è già un “signor” bruco in farfalla. La stessa pubblicità, in fondo,  insiste sul ruolo protagonista dell’insegna  Selex. Tasca, più che Motta,  mi ricorda  l’ex juventino Conte.  Sa però che non può fare la Champion. Tutte le centrali, così come sono oggi, mostrano un limite strutturale. Ma se c’è un top manager che può portare Selex un passo alla volta nel futuro del retail questo è Tasca. È però pronto per nuove sfide. Da DHR lo vedrei bene in Esselunga quando Giuliana Albera e Marina  Caprotti decideranno quale dovrà essere  il futuro della loro azienda.
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Tempo di primi bilanci al “REWE fully plant-based” di Berlino

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Il primo novembre si è festeggiato la Giornata Mondiale del Veganismo e Rewe ha colto l’occasione per tracciare un primo bilancio dell’apertura, a marzo 2024, a Berlino, del suo primo e nuovo supermercato vegano . Sono passati più o meno sei mesi ed è tempo per  una prima verifica. Già prima del passaggio a Rewe era comunque un supermercato vegano gestito da Veganz. “È ancora presto per decidere l’espansione in altre realtà del modello” ha affermato Peter Maly, membro del consiglio di amministrazione del gruppo REWE. Sei mesi dopo l’apertura, però Peter Maly si dimostra soddisfatto per i risultati  del negozio. “Lanciare un negozio puramente vegetale nel mercato di oggi è stata una decisione coraggiosa, ma eravamo fiduciosi nella nostra competenza e nell’esperienza dei prodotti vegani dalla gestione di oltre 3.800 negozi in tutta la Germania”.

I dati  confermano che l’idea di un retailer a base vegetale con una gamma completa può funzionare se collocato nella giusta posizione. “Va inoltre  considerato che  le nostre sedi REWE a livello nazionale beneficiano così di prodotti testati per la prima volta nel “REWE voll pflanzlich” (completamente vegetale) prima di essere aggiunti alla più ampia gamma di prodotti REWE”. I dati sono comunque interessanti Con oltre 2.700 prodotti vegani in uno spazio di 212 metri quadrati, il negozio offre verdure fresche, prodotti da forno, articoli refrigerati, dolci e cura della persona ed è frequentato da 5500 clienti alla settimana che possono contare su orari  prolungati fino alle 23.

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Amazon USA. Un altro top manager lascia Seattle…

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Non esistono top manager adatti a tutte le stagioni. Così come non esistono persone indispensabili. Certi “addii” sono più pesanti di altri  ma la vita continua. Non esistono però, CEO fotocopia. Se un top manager lascia o viene sostituito l’azienda deve mettere in conto che ne risentiranno strategie e traiettorie del business.  Amazon è una realtà importante e in grado di reagire con tempestività all’uscita di due top manager di primo livello. Beth Galetti, SVP, People eXperience and Technology di Amazon insieme al CEO Andy Jassy saranno già al lavoro perché non solo Tony Hoggett SVP Worldwide Grocery Stores ha lasciato. Anche Matt Wood, vicepresidente di Amazon Web Services e storico promotore delle iniziative di apprendimento automatico e intelligenza artificiale del gigante del cloud, ha lasciato l’azienda dopo 15 anni. Wood ha annunciato la sua uscita da Amazon in un post su LinkedIn mercoledì mattina. Un portavoce di Amazon ha confermato la sua partenza a GeekWire.

Non si sa ancora nulla sul successore di Wood. Così come non si sa ancora nulla sul successore di Hoggett. Due casi diversi tra di loro e probabilmente nemmeno collegati ma entrambi i top manager alla testa di due settori nevralgici per il gigante di Seattle. Pur sotto lo stesso tetto sono realtà agli  antipodi. AWS è una “macchina” da soldi . Grande punto di forza di Amazon. Il retail fisico, al contrario,  è il suo punto di debolezza; una “macchina” che deve trovare il suo equilibrio. Sia Hoggett che Wood sono già al lavoro altrove. 

Partiamo da Wood che è US & Global Commercial Technology and Innovation Officer at PwC. Wood in Amazon AWS è stato coinvolto nelle iniziative di machine learning e business intelligence di Amazon per molti anni, molto prima dell’ascesa dell’intelligenza artificiale generativa. È diventato VP of AI di AWS a settembre 2022, appena prima che ChatGPT di OpenAI mostrasse il potenziale dell’intelligenza artificiale generativa, spingendo AWS e altri a darsi da fare per recuperare terreno. Più di recente, Wood è stato coinvolto nel lancio di Amazon Q, l’assistente AI generativo dell’azienda per la business intelligence e lo sviluppo di software. “Dopo 15 anni incredibili, è tempo per me di dire addio ad Amazon”, ha detto Wood nel post su LinkedIn mercoledì mattina, che ha generato centinaia di commenti.

Dall’altra  parte se dovessi scrivere un romanzo sulla vita di un top manager della grande distribuzione mondiale sceglierei proprio Tony Hoggett. Da noi forse solo  Maura Latini AD di  Coop Italia può vantare un percorso simile seppure circoscritto al nostro Paese. Tony ha iniziato come “trolley boy” in un parcheggio Tesco a Bridlington, ha fatto  30 anni in Tesco ed era uno dei suoi migliori manager. Quando Hoggett è entrato in Amazon ha detto:  “Amazon mi ha offerto una sfida. Il punto di incontro tra qualcosa che amo e mi piace davvero, qualcosa in cui penso che sarò bravo e qualcosa di cui il mondo del retail ha bisogno”. Leggi tutto “Amazon USA. Un altro top manager lascia Seattle…”

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Despar c’è. Non solo in italia

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Despar è la dimostrazione evidente che quando un’azienda globale impara a pensare localmente, vince sempre. E non c’entra nulla se in un singolo Paese viene gestita direttamente, con società consortili, franchising o cooperative. Il punto è che chi presidia il territorio deve conoscere il mestiere, interpretare le esigenze  e stare un passo avanti ai propri clienti anticipandone aspettative e consumi. Il modello imprenditoriale di Despar è una delle traiettorie possibili per il futuro della GDO. Nella mia ipotetica classifica dovrò rivalutarne ruolo e peso perché è vero che è sotto i cinque miliardi di fatturato (4,4 miliardi di euro) che per me è una linea di demarcazione significativa per valutare peso del management e imprese ma occorre considerare che l’insegna non copre tutto il territorio nazionale.

Il prodotto a marchio (MDD) si conferma elemento distintivo dell’offerta Despar e un asset strategico di sviluppo: ad oggi, la MDD Despar è tra le best performer per tasso di crescita nella Gdo (Fonte: Nielsen IQ Discover) con vendite che hanno superato il miliardo di euro. Despar Italia ha raggiunto una quota MDD sul totale vendite grocery pari al 23,9%, superiore a quella del mercato totale MDD in Italia (che si attesta al 22,6%) e in crescita di 1,3 pt rispetto all’anno precedente (Fonte Nielsen, dati I+S Grocery, progressivo settembre 2024) “e ci avvicina progressivamente e con grande slancio all’obiettivo del 25% di quota MDD entro il 2025” ha dichiarato Filippo Fabbri Direttore Generale di Despar Italia. Probabilmente comincia a “vedere” il secondo posto dopo Conad che è già pari al 33,5% delle sue vendite.

Guardando all’Italia, in un contesto di mercato grocery in crescita a valore del 2% rispetto all’anno precedente, Despar Italia sta ottenendo delle performance positive crescendo del +2,7% rispetto al 2023 (fonte dati Nielsen I+S progressivo settembre 2024). Despar in Italia si sta preparando, nel 2025,  a festeggiare i  65 anni. È nata il 9 ottobre del 1960 all’interno della famiglia di SPAR International. Il nome deriva dal motto olandese “Door Eendrachtig Samenwerken Profiteren Allen Regelmatig” (Attraverso la cooperazione armoniosa tutti traggono vantaggio con regolarità), il cui acronimo venne poi modificato in “De Spar” che in olandese significa “l’abete”, da cui il marchio.

Con riferimento al contesto internazionale, il 2023 è stato un anno ricco di risultati positivi in tutto il mondo per Spar International, il maggior gruppo mondiale della distribuzione associata presente in 48 Paesi nel mondo. Spar International ha raggiunto nel 2023 un fatturato complessivo di 47,1 miliardi di euro, registrando un aumento dell’8,3% rispetto al 2022. Una crescita che si accompagna all’espansione in nuove aree geografiche in tutto il mondo: dopo l’ingresso in Kirghizistan, il marchio SPAR nel 2024 è entrato anche in Paesi nuovi come l’Uzbekistan e il Rwanda. Leggi tutto “Despar c’è. Non solo in italia”

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Fusione Fnarc Darty e Unieuro. Giusta la strategia ma il diavolo sta nei dettagli del percorso…

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L’Opas di Fnac Darty e Ruby Equity Investment su Unieuro com’era prevedibile ha avuto successo. La soglia minima del 66,67% è stata superata e oltre 6,3 milioni di azioni, pari a circa il 30% del capitale, sono state consegnate nella seduta del 25 ottobre. Fnarc Darty oggi controlla il 71,5% del capitale, compreso il  4,4% racimolato sul mercato prima dell’opas. Tutto fatto quindi? Temo proprio di no.

Domenica 17 e lunedì 18 novembre 2024 si terranno le elezioni regionali in Emilia-Romagna. Qualcuno ipotizza l’annuncio di “golden power”.  I partiti politici, impegnati all’ultimo voto in una regione che sta vivendo momenti difficili, guardano, insieme ai sindacati  a Roma e chiedono, all’unisono  “se intende procedere con l’utilizzo del Golden Power sull’offerta del gruppo francese, una procedura che permetta al Governo di bloccare o apporre particolari condizioni a specifiche operazioni finanziarie nell’interesse nazionale, in settori considerati strategici”. È un momento teso nei rapporti con i francesi. Sullo sfondo aleggia Stellantis e le promesse non mantenute di Tavares. Nessuno si fida di nessuno. Tantomeno i forlivesi.

Il Golden Power, di fatto, è un’autorità speciale che consente a un Paese di prendere decisioni chiave o di influenzare l’operatività di un’azienda. Può essere applicato in diversi contesti e situazioni. È in sostanza  “la facoltà di dettare specifiche condizioni all’acquisto di partecipazioni, di porre il veto all’adozione di determinate delibere societarie nei confronti di aziende che ricadono nell’interesse nazionale”. Il commercio, in realtà, non lo è. Ma i dati dei clienti, per qualcuno,  potrebbero esserlo. L’agenzia multimediale economica Bloomberg cita, al riguardo, fonti “informate sulla questione”, secondo cui l’esecutivo potrebbe valutare se imporre limitazioni all’influenza di Fnac Darty su Unieuro. E le limitazioni riguarderebbero l’accesso dei francesi ai dati sensibili di milioni di clienti, con le relative preoccupazioni riguardanti anche i pagamenti digitali degli utenti.

Per ora non ci sono commenti ufficiali. Si sa che il ministro del made in Italy D’Urso non è mai stato convinto di cedere ai francesi Unieuro. E tutti i partiti dell’intero arco costituzionale, con varie motivazioni, sollecitano  il “No Pasaran”.  C’è però un problema difficile da negare: l’azionista principale della Unieuro è già francese: dal 2021 la Iliad di Xavier Niel possiede il 12%, la famiglia del fondatore Silvestrini ha meno del 10%, ma la catena di negozi è stata costruita a sua volta grazie al fondo britannico Rhone Capital. Difficile definirla italiana. 

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Tony Hoggett lascia Amazon.

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La notizia non passerà certo inosservata. E il primo a comunicarla su LinkedIn è stato il diretto interessato spiazzando sia l’azienda, presa un po’ alla sprovvista,  sia le riviste USA del comparto che non avevano evidenziato problemi. “Dopo quasi tre anni in Amazon, è arrivato il momento di fare il passo successivo nella mia carriera. Il mio tempo in Amazon è stato incredibile e sono grato ai miei colleghi per il loro supporto, la loro guida e la loro amicizia. Sono ottimista riguardo al lavoro che Amazon sta facendo per migliorare l’esperienza di acquisto dei clienti e non ho dubbi che i team manterranno lo slancio in mia assenza. Farò il tifo per tutti voi”.

Tony Hoggett, SVP, Worldwide Grocery Stores lascia quindi Amazon. Ex dirigente di Tesco, Hoggett ha iniziato a lavorare in Amazon nel gennaio 2022 e ha fatto parte fino ad oggi, del senior leadership team dell’azienda, o S-team, che si incontra regolarmente con il CEO di Amazon Andy Jassy e gli altri alti dirigenti. L’S-Team  comprende i 23 consiglieri più fidati ed è il luogo deputato a  prendere le decisioni strategiche a lungo termine che  modellano il business aziendale. Gli incontri quotidiani coinvolgono per lo più membri dell’ S-Team sul lato retail dell’azienda, come Doug Herrington, CEO, Worldwide Amazon Stores,   Brian Olsavsky, SVP and CFO,  Udit Madan, VP, Worldwide Operations, Drew Herdener, SVP, Communications & Corporate Responsibility  e la responsabile delle risorse umane Beth Galetti, SVP, People eXperience and Technology. Vedremo presto chi sostituirà Tony Hoggett.

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Retribuzioni top manager USA. Cresce l’insofferenza anche nei confronti degli azionisti che le avvallano

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In Italia, soprattutto in GDO, siamo molto lontani da queste cifre. E comunque non si parla volentieri delle retribuzioni come avviene in altre parti del mondo. Qui da noi, nel dibattito pubblico, il denaro è ancora ritenuto “lo sterco del diavolo”. Difficile parlarne in modo trasparente. Aggiungo che, nella GDO, non essendoci aziende quotate in borsa i pacchetti retributivi dei top manager pur essendo decisamente più bassi, non sono pubblici. Altrove il tema è all’ordine del giorno. Secondo un  rapporto dell’Economy Policy Institute dal 1978 al 2023, la retribuzione dei CEO di alto livello è aumentata dell’1,085%, rispetto a un aumento del 24% della retribuzione di un lavoratore medio.  Nel 2023, l’Ad di una società S&P 500 ha guadagnato 196 volte di più rispetto ai dipendenti medi, nel 2022 il compenso era di 185 volte superiore (Lo stipendio lordo medio in America è stato di $59,980 nel 2023. Era di $56,428 nel 2022 (+5.4% rispetto al 2021). Nel 1965, quando venivano pagati 21 volte di più.

I CEO vengono pagati di più per la loro influenza sui consigli di amministrazione aziendali, non solo per le loro competenze o per il contributo che apportano alle loro aziende. Secondo i primi risultati di un sondaggio condotto da Gallup e dall’Università di Bentley, due terzi degli americani ritengono che le aziende non si stiano impegnando a ridurre il divario di ricchezza tra gli amministratori delegati e i dipendenti.  Gli stipendi esorbitanti dei CEO hanno contribuito ad aumentare la disuguaglianza negli ultimi decenni, poiché hanno probabilmente aumentato lo stipendio di altri grandi percettori di reddito, concentrando i guadagni al vertice e lasciando meno guadagni per i lavoratori comuni. “Le retribuzioni dei Ceo sono scandalose. E minano enormemente la fiducia nelle nostre istituzioni”, ha dichiarato Nell Minow, vicepresidente di ValueEdge Advisors, alla CNN, che ha riportato per prima i risultati del sondaggio. L’articolo completo è disponibile su Fortune.com.

Aggiungo che l’inflazione oltre ad essere una tassa iniqua e particolare che colpisce inversamente il reddito negli USA ha lasciato un segno pesante ed è diventata un elemento centrale addirittura della campagna elettorale. Molte imprese, inutile negarlo, hanno rimesso a posto i loro conti nel 2023 dopo qualche anno di magra. E i top manager che avevano parte della loro retribuzione legata ai risultati di business e all’andamento azionario ci hanno guadagnato. E il 2023, sotto questo punto di vista è stato per loro molto positivo. E se il fenomeno inflativo in parte è rientrato, le code sul reddito delle persone continuano a  produrre effetti diseguali.

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