Grande distribuzione. Adesso cambia tutto…..

L’offerta cinese agli eredi di Esselunga probabilmente sarà respinta. Se vera, è comunque molto più alta del valore dell’azienda stessa. Difficile capire se è più importante la notizia dell’offerta cinese o il rifiuto di chi, in questo momento, vorrebbe provare a gestire un business nel quale, Esselunga, è ancora un punto di riferimento.

Se escludiamo la possibilità che venga formata una cordata italiana interessata all’acquisto e che, altri player del settore, siano disposti a competere con una offerta stratosferica dobbiamo prendere atto che la partita sui futuri assetti della Grande Distribuzione in Italia, ma anche in Europa, è ripresa con vigore.

Dall’altra parte dell’oceano Amazon risponde con una mossa a sorpresa. L’acquisto di Whole Foods per la modica cifra di 13,7 miliardi di dollari. Oggi Andrea Guerra Presidente Esecutivo di Eataly, sul Sole 24 Ore, rilancia il ruolo della sua azienda, sostenendo l’importante intuizione Farinettiana e cioè che nel lungo periodo paga di più il marchio delle promozioni. E che l’operazione Amazon ne sarebbe, in parte,  la dimostrazione plastica.

Ė vero. La vera novità, però,  alla base di questa importante acquisizione, da sottolineare, è che non esistono più confini settoriali insuperabili. Né rendite connesse al presidio, più o meno importante, di un solo settore.

Se la GDO ha fatto la sua fortuna negli ultimi 50 anni proprio perché intermediava in un luogo fisico determinato ciò che  l’industria food e non food proponeva, oggi quel luogo non è più esclusivo ma integrabile attraverso una logistica sofisticata che modella sulle esigenze del consumatore, attraverso la rete, produzione, stoccaggio, consegna e consumo. E, con Amazon, si predispone a farlo a livello planetario.

E da qui nascono due nuove esigenze che impattano pesantemente sul settore della grande distribuzione non solo italiana. La prima è che la forza del distributore tradizionale perde di importanza e quindi va ripensata, la seconda è che i centri commerciali devono essere anch’essi riprogettati alla radice trasformandosi in luoghi di svago ecdi intrattenimento dove c’è “anche” la vendita tradizionale ma alla cui redditività provvedono sempre più una pluralità di attività.

Amazon ci dice due cose. Il negozio tradizionale (piccolo o grande che sia) pur indispensabile va ripensato completamente in chiave digitale. L’integrazione on line e off line, su cui si sono stanno concentrate le riflessioni compatibiliste oggi più avanzate è già, di fatto, superata. Il centro della scena sarà presidiato dalle piattaforme digitali e di movimentazione delle merci.

La credibilità del marchio poi potrà  farà la differenza. Ci saranno marchi ombrello il cui compito sarà quello di dare una credibilità nuova sia al luogo fisico che virtuale attraverso portali che venderanno esperienze ed emozioni costituite da cibo, viaggi, intrattenimento, abbigliamento, ecc. riservate a target specifici gestiti attraverso i big data. In questo contesto, anche il lavoro si trasformerà radicalmente. Da un lato tutto ciò che è informazione, supporto e consulenza al consumo diventerà sempre più importante. Dall’altro si consolideranno un insieme di lavori a basso contenuto professionale (caricamenti, movimentazione, controllo, consegna, ecc.).

Così come cadranno i confini tra settori, inevitabilmente cadranno i confini tra attività impiegate nei centri commerciali. Quindi tra inquadramenti, livelli retributivi e professionalità impiegabili. E tra lavoro autonomo e dipendente.

Ovviamente in questo articolo il Sole 24 Andrea Guerra tira soprattutto acqua al suo mulino. Eataly ha bisogno di affermarsi nella sua intuizione anche per il futuro collocamento in Borsa. È però chiaro che siamo agli albori di una vera rivoluzione importante tanto quanto quella che è avvenuta in Francia alla fine dell’800 con la nascita di Bon Marché o in Italia con i fratelli Bocconi.

La GDO tradizionale non è preparata a questo ripensamento profondo né in Italia né in Europa. Salvo pochi lodevoli e artigianali tentativi (ad esempio, Carrefour, Unes, Eataly) che comunque segnalano una disponibilità positiva  a rimettersi in discussione la GDO europea è complessivamente ferma a formati e modelli del 900.

Certo gioca al mantenimento dello status quo una fase di transizione che si preannuncia lunga e, tutto sommato gestibile da un management abbastanza tradizionalista, soprattutto in Italia che però potrebbe garantire la sopravvivenza ai diversi operatori in campo spostando il traguardo un po’ più in là. Ma per quanto?

Una cosa però è certa. La sontuosa offerta cinese a Esselunga non sarà replicabile per lungo tempo. Oggi il suo format è probabilmente un modello esportabile, quindi appetibile. Ed è tuttora un’azienda di prim’ordine. In più gli imprenditori cinesi sono sempre costretti ad esagerare quando entrano in un mercato per dimostrarsi credibili.

Al di là però delle dichiarazioni di rito della proprietà di Esselunga di cui occorre prendere atto non vorrei essere nei panni di chi, a fronte di questa offerta, deve respingerla con forza mentre contemporaneamente deve concludere una difficile trattativa con tutti gli altri eredi in campo. Una decisone difficile che deve tenere conto di una cultura costruita sui successi di Bernardo Caprotti, di un management serio e impegnato a gestire questa fase e di tutti i ventitremila collaboratori coinvolti.

Accodarsi “pigramente” ai COBAS non è più un destino ineluttabile..

Dario Di Vico, anche questa volta, ha centrato il problema e… l’avverbio.  A parte i disagi provocati dallo sciopero dei trasporti di ieri due dati dovrebbero far riflettere.

Dopo la batosta dell’Alitalia il sindacato confederale del settore trasporti continua “pigramente” a subire l’iniziativa dei COBAS. Nessuna battaglia politica, nessuna presa di distanza, nessun contrasto vero. I riflettori oggi sono tutti su questa agitazione. È normale. Però non è tutto qui. Purtroppo.

I COBAS hanno anche rilanciato sulla logistica. È lì, e non altrove, che c’è in corso una battaglia sindacale vera. L’obiettivo è la titolarità della rappresentanza dei nuovi “ultimi”.

Preso tra voucher, congressi e Jobs Act il sindacato confederale sembra distratto altrove. Pubblico impiego, trasporti e logistica rappresentano il luogo ideale per tentare di mettere in discussione i tradizionali equilibri di forza. COBAS e altre formazioni lo hanno capito benissimo.

Purtroppo i sindacati confederali continuano a osservare da spettatori la scena mettendo in campo attori di secondo piano. Inconsistenti sulla vicenda Alitalia, “pigri” mentre gli scioperanti prendono i cittadini per il collo, fuori gioco domani. Lo “schiaffo alla democrazia” viene anche da qui. Troppo facile per la CGIL cercare nemici solo altrove.

La stagione congressuale della Cisl, purtroppo, non ha detto quasi nulla su questo punto. Giuseppe Sabella fa bene a valorizzare ciò che i congressi di FEMCA e FIM hanno saputo mettere all’ordine del giorno. Sono segnali importanti. Il sindacato confederale deve però saper ritrovare una strategia unitaria che faccia chiarezza su determinati temi.

Fortunatamente AnnaMaria Furlan ne ha preso rapidamente le distanze: “Non è abusando di uno strumento così importante e delicato come lo sciopero nei servizi pubblici che si portano a casa risultati. Anzi e’ l’esatto contrario: si danneggia l’immagine del sindacato e si portano a casa solo difficoltà inutili per la gente e per gli stessi lavoratori”.

Il congresso confederale della CISL offre una grande opportunità ad Annamaria Furlan. Non lasciare isolato il pragmatismo sindacale di Marco Bentivogli, continuando l’operazione trasparenza e pulizia interna non fermandosi davanti alla forza economica e alla numerosità di alcune categorie e riposizionare, così, la CISL sul piano politico e sociale completandone il ridisegno organizzativo.

Sull’altra sponda la CGIL oggi porta in piazza la sua forza ma anche tutta la fragilità di una posizione sempre più condannata a interpretare un ruolo politico e di perno sociale di una sinistra vecchia e prevedibile circondata dalla diffidenza di generazioni sempre più lontane.

Oggi in campo, insieme alla CGIL, si ritrova una sinistra “neo paternalista” che insiste nell’offrire ai giovani di oggi soluzioni troppo semplici a problemi complessi. Propone i soliti “draghi invisibili” da combattere e liquida con troppa disinvoltura ambiguità, responsabilità e complicità delle generazioni precedenti, e quindi anche del sindacato e dell’intera sinistra, sulle speranze e sul futuro di questa generazione.

È vero che Susanna Camusso deve innanzitutto tenere insieme il suo popolo in un momento di grande smarrimento della sinistra (non solo in Italia) ma farlo su di un obiettivo di fatto secondario limitandosi ad offrire una sponda al rancore antirenziano e un punto di coagulo dell’estremismo salottiero mettendo a repentaglio un disegno unitario ben più importante resta un azzardo pericoloso.

Farlo subito dopo che i COBAS hanno buttato benzina sul malessere del Paese lo è ancora di più. E non sarà facile per Camusso rimarcare l’abisso morale e politico che separa (fortunatamente) la CGIL da queste formazioni distruttive e minoritarie.

Nel movimento sindacale c’è in corso una evidente battaglia politica sull’egemonia  dagli esiti incerti. I contratti nazionali hanno segnato un possibile percorso che però non è affatto scontato.

Ci sono ritardi, interessi e storie personali, ambiguità, resistenze, furbizie che, ad esempio, il percorso congressuale della CISL non ha sciolto completamente e che sono presenti, purtroppo, in tutto il sindacalismo di matrice confederale e che rischiano di rallentare i cambiamenti necessari e urgenti.

La giornata di ieri pur con il suo carico negativo e passatista ha mostrato però segnali che vanno colti. Chi sta dalla parte dei cittadini non è affatto un crumiro sempre e comunque così come chi sta “pigramente” dalla parte dei colleghi che interrompono un servizio pubblico di venerdì non è sempre e comunque, un “collega che sbaglia”. E questo è un importante passo in avanti…

Contratto Federdistribuzione. Forse è arrivato il momento di cambiare musica…

Credo sia rimasto solo il Ministro del Lavoro Poletti e qualche suo fedelissimo dirigente ad attendere fiducioso la firma di quello che avrebbe dovuto essere il quarto Contratto nazionale della Grande Distribuzione firmato da Filcams CGIL, Fisascat CISL, e Uiltucs UIL con Federdistribuzione.

Anche l’ultimo tentativo di trovare una soluzione sembra sia fallito. Probabilmente Federdistribuzione tenterà adesso di “allungare il brodo” suggerendo alle aziende di erogare una nuova tranche e rendendosi disponibile (a parole) alla prosecuzione del confronto con lo scopo di “distrarre” il ministro del lavoro che, peraltro, non sembra essere particolarmente interessato. Anche le “sue” cooperative hanno la loro vertenza in alto mare. E questo, lavoratori coinvolti a parte, conviene a tutti.

La firma, data per imminente in diverse occasioni continua a non esserci. E difficilmente potrà esserci come sostengo fin dall’inizio di questa lunga telenovela. Federdistribuzione, anche se non lo ammetterà mai, si è trovata (o si è messa da sola), tra l’incudine e il martello.

Pur non avendo un know how negoziale particolarmente sofisticato, ha pensato possibile evocare una specificità di comparto su cui far convergere le imprese associate senza valutare gli interessi spesso divergenti degli amministratori delegati delle singole realtà aziendali.

Sempre disponibili quando c’è la possibilità di non aumentare il proprio costo del lavoro, meno quando ci sono da condividere soluzioni particolarmente innovative. Nessuno, in sostanza, si vuole esporre. Venuta meno l’importanza del collante associativo, come obiettivo in sé, è rimasta sul tavolo la distanza sugli aspetti economici.

È stata probabilmente una ingenuità quella di pensare di poter ottenere un contratto nazionale in dumping avallata solo dal vago impegno di qualche dirigente sindacale di categoria particolarmente favorevole alla moltiplicazione dei contratti.

Fallito il “blitzkrieg” datoriale ma constatata contemporaneamente la scarsa conflittualità sindacale, il secondo assalto è stato condotto mettendo in campo nuovi protagonisti anche perché, nel frattempo, Confcommercio aveva firmato il suo contratto.

Due problemi di non facile soluzione sono fermi sul tavolo: il costo complessivo e le condizioni di un eventuale rientro nel fondo EST gestito da Confcommercio e CGIL, CISL e UIL di categoria dedicato al welfare sanitario.

Anche su questi punti, pur insufficienti di per sé a giustificare un ulteriore contratto nazionale, l’intesa si è dimostrata comunque impraticabile. La firma poi del protocollo sulla rappresentanza tra Confcommercio e CGIL CISL e UIL con gli impegni reciproci contenuti, sottoscritti proprio per impedire situazioni di dumping contrattuale, ha definitivamente stravolto il contesto rendendo di fatto, impossibile a chiunque, ottenere un risultato economico sostanzialmente diverso dai contratti nazionali di riferimento.

D’altra parte pensare che Confcommercio possa accettare di sostenere sulle sue sole spalle un impianto contrattuale importante e costoso per le sue imprese mentre “lontano dagli occhi” sindacalisti di vecchia impostazione insieme ad altre associazioni datoriali sottoscrivono tranquillamente accordi in dumping è un po’ difficile da pretendere.

E adesso cosa può succedere? Ovviamente nulla. Le aziende della GDO sanno benissimo che fino a Natale possono tranquillamente tirare a campare senza particolari problemi. Il sindacato di categoria, d’altro canto, non è in grado di esprimere nulla di incisivo.

Una prova di realismo da parte delle aziende più disponibili a non trascinare fuori tempo massimo la vertenza sarebbe quella di applicare il contratto in essere firmato da Confcommercio a fronte di precise contropartite da individuare.

Alcune aziende lo stanno già facendo dietro le quinte. Le più strutturate e con problemi veri dovrebbero muoversi cercando di individuare seriamente garanzie, bilanciamenti, tempi, modalità, contenuti. Credo sia interesse di tutti superare questa impasse.

Non sarà sufficiente l’erogazione unilaterale di una tantum a fine luglio da parte delle imprese né i continui equilibrismi di una parte del sindacato a concordare una via di uscita onorevole. Machiavelli ricorda sempre che non si può essere innocui al Popolo e di sollievo al Principe.

Sul versante politico il Ministro Poletti dovrà, prima o poi, rispondere della latitanza del suo Ministero. Su quello sindacale, probabilmente, si cercherà comunque di forzare la mano sul piano legale. Ma ne vale la pena?

Forse occorrerebbe prendere atto della situazione cercando, insieme (Confcommercio, Federdistribuzione, sindacati di categoria) una strada diversa da quelle percorse fino ad oggi che tenga conto del mutamento profondo dello scenario.

Ma anche musica e suonatori dovrebbero cambiare. L’interesse delle aziende e dei lavoratori del settore, i costi relativi e quindi l’entità degli aumenti e della sua distribuzione possono trovare una risposta percorrendo strade in linea con gli accordi firmati da Confcommercio con CGIL, CISL e UIL.

Ci sono diverse ipotesi percorribili e in linea con quanto richiesto (in termini di costi) dalle principali aziende del settore. Basta volerlo approfondire seriamente senza continuare a guardare il contesto dal proprio buco della serratura.

È chiaro che c’è un problema economico serio per le imprese della GDO. Nessuno lo nega. Occorre avere più coraggio e più consapevolezza in funzione di dove si vuole o si può arrivare. Più che cercare sponde inutili nel sindacato in una logica (questa si) da bottegai del secolo scorso le imprese dovrebbero guardare ai problemi che hanno di fronte a 360 gradi.

Le risposte esistono. Basta volerle trovare. Scegliere di non fare nulla, isolerà ancora di più le aziende della Grande Distribuzione che non lo meritano. E questa è una deriva che sarebbe meglio evitare. Da parte di tutti.

Riflessioni sulle leadership…

L’assemblea annuale di Confcommercio, al di là dell’attualità dei contenuti proposti dalla  relazione, ha riportato sotto i riflettori l’importanza della leadership nelle dinamiche politiche e sociali attuali.

La standing ovation finale riservata al Presidente Carlo Sangalli dal “suo popolo” ne ha segnalato plasticamente l’attualità e l’importanza . Lo stesso Carlo Calenda (indubbiamente un leader di nuovo conio e spessore) che aveva recentemente duettato con Vincenzo Boccia nella assemblea di Confindustria si è misurato, con diversa considerazione, sia con la platea attenta ed esigente di Confcommercio che con il “suo” Presidente cogliendone la differenza sostanziale tra i due mondi.

Ryszard Kapuściński, scrittore polacco autore dell’interessante “In viaggio con Erodoto”, racconta che T.S. Eliot nel saggio su Virgilio del 1944, mette in guardia contro un tipo particolare di provincialismo, quello del tempo.

“Nella nostra Epoca in cui la gente tende sempre di più a confondere la saggezza con il sapere e il sapere con l’informazione, e in cui cerca di risolvere problemi esistenziali in termini meccanicistici, nasce un nuovo tipo di provincialismo che forse merita un nome nuovo.

È un provincialismo relativo non allo spazio bensì al tempo, che considera la storia una pura e semplice cronaca degli accorgimenti umani i quali, una volta compiuta la loro funzione, sono finiti nella spazzatura. Un provincialismo secondo il quale il mondo sarebbe una proprietà esclusiva dei contemporanei dove la continuità con il passato non esiste. Dove l’esperienza non detiene quote di mercato.

Conclude Kapuściński: “Esistono quindi i provinciali dello spazio e i provinciali del tempo. Basta un mappamondo per dimostrare ai primi quanto siano ciechi e fuorviati dal loro provincialismo; basta una pagina di storia per dimostrare ai secondi che il presente è sempre esistito”.

Vecchie e nuove generazioni si sono sempre affrontate per poi passarsi, al momento giusto, il testimone. Nella politica, l’età non è mai stata, di per sé, un’elemento di garanzia. Anzi. L’età non conta, ad esempio, per Bernie Sanders, senatore del Vermont dal 2007 che con i suoi 76 anni nella corsa alla Casa Bianca è riuscito a trascinare l’entusiasmo dei giovani democratici americani.

Oppure per James Corbyn che ha conquistato il Labour Party dopo i 65 anni in alternativa agli eredi di un mostro sacro del revisionismo socialdemocratico come il giovane (a suo tempo) Tony Blair ed è riuscito a rimontare in modo impressionante su Theresa May.

Giovani e meno giovani se le sono sempre cantate e suonate. Quando il democristiano Mariano Rumor lancia “Terza Generazione”, ad esempio, era poco più che trentenne così come quando Forlani, De Mita o Craxi, sotto i quaranta, tentarono, a volte con successo, altre volte meno, di scalare i rispettivi partiti hanno sempre posto al centro anche la questione generazionale. Con tutta la strumentalità del caso.

Per non parlare del mondo delle imprese dove i passaggi generazionali sono a volte traumatici e spesso mettono a rischio migliaia di posti di lavoro. Marco Bentivogli della FIM CISL con una dura quanto azzeccata metafora sui cosiddetti “figli di papà” trasmette un sentimento purtroppo diffuso: “I padri, pancia a terra in officina mentre i figli pancia al sole a Formentera”. Non è sempre così, fortunatamente.

La giovane età, in sé, non è mai stato un fattore di successo. Anzi, aver vissuto solo il presente non abilità ad alcuna corsia preferenziale per affrontare il futuro. L’esperienza, la capacità di non farsi abbagliare dal nuovismo e di saper dosare e affrontare i rischi di una decisione sono fondamentali per chi ha ruoli di leadership vera.

Un altro elemento determinante che non ha alcuna relazione con l’età è la capacità di parlare al cuore della propria gente più che alla testa, tipica dei leader consumati. In tempi di imbonitori e di venditori di fumo cinici e spregiudicati l’aver vissuto e condiviso storie personali ed esperienze di vita fa ancora la differenza. E questa non si improvvisa.

Oggi in politica, nelle associazioni e nelle imprese c’è, al contrario, carenza di leadership vere, forti e visionarie. C’è spesso una esagerata presenza sui media, tanta comunicazione unilaterale, scarsi risultati concreti. In questo modo, però, le leadership si logorano velocemente e indeboliscono le loro organizzazioni o i movimenti che le esibiscono.

La disintermediazione assume una sua ragion d’essere anche a causa di queste fragilità. Ed è stata ridimensionata  nel nostro contesto anche perché si è trovata di fronte movimenti radicati e leader riconosciuti.

Eppure le leadership longève restano punti di riferimento fondamentali in una società complessa. Napoleone definiva i leader “commercianti di speranza”. Io la trovo una definizione stupenda. I grandi imprenditori o i manager di imprese globali guidano, ingaggiano e trascinano migliaia di persone pur di differenti nazionalità e radici indicando strategie, unificando linguaggi e culture. Questo è possibile solo coinvolgendo i propri collaboratori attraverso momenti specifici, forme sofisticate di comunicazione e sapendo creare momenti di condivisione collettiva.

Nonostante questo le aziende sono però molto meno complesse delle associazioni di rappresentanza e dei partiti, che, a differenza delle imprese stesse, devono (necessariamente) fare i conti anche con il consenso democratico, quindi con opinioni diverse, correnti organizzate, localismi, gruppi di interesse che rendono le leadership ancora più determinanti per governarli.

Da qui nasce l’importanza delle squadre che si costruiscono intorno alle leadership che ne possono potenziare ruolo e carisma oppure offrirne una immagine a volte inconsistente o sbiadita. Per queste ragioni le grandi organizzazioni politiche e sociali tendono a creare rapporti di fiducia e di stima nel tempo nei confronti del proprio leader oltre la qualità delle squadre di vertice stesse. È questo che da la cifra del loro successo.

Le  leadership vere ciascuno se le tiene strette riproponendole nel tempo. Peter Duker ci ricorda che “I leader più in gamba non pronunciano mai la parola io. Non lo fanno non perché si sono esercitati a non dire io ma perché, semplicemente, non pensano in termini di io ma di noi, in un’ottica di squadra”. Ed è questo che crea fiducia, rispetto, identificazione e continuità nel tempo. Ed è quello a cui si è assistito e respirato nell’auditorium di via della Conciliazione intorno al Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.

L’importanza del congresso della FIM CISL per la CISL..

Il congresso dei metalmeccanici della CISL conclude una fase e ne apre una nuova. Il contenuto del libro scritto da Marco Bentivogli “Abbiamo rovinato l’Italia?” e la firma del nuovo CCNL avevano segnalato un inizio di saldatura tra teoria e pratica.

L’idea di un sindacato autorevole, in grado di uscire dalla gabbia del 900, post ideologico ma ancorato a valori sani, affatto superati. Il congresso ha confermato e rilanciato questa impostazione. Intorno alla FIM CISL si sta radunando un mondo interessante, vivace, intellettualmente stimolante che propone un concetto di “comunità in cammino” dove il lavoro, nella sua accezione più moderna, diventa obiettivo, misura e senso.

Dove non c’è più spazio per la demagogia né per la vecchia retorica sessantottina. Dove la vita sociale e la democrazia non si fermano davanti ai cancelli dell’azienda ma ne diventano parte integrante in termini di diritti ma anche di doveri. Dove la realtà va cambiata vivendola e non trasformandola in un eterno drago invisibile da combattere.

Lo stesso slogan “Indipendenti ma non indifferenti” segnala la volontà di instaurare un rapporto adulto e pragmatico con la politica fatto di convergenze sulle risposte necessarie al futuro del Paese. Senza sconti ma senza pregiudizi ideologici.

Non c’è dubbio che la FIM CISL conferma e mette a disposizione dell’intero movimento sindacale, ma anche delle sue controparti, nuove strade da esplorare che pongono la responsabilità e la crescita della persona umana al centro della società e dell’impresa.

La novità è che, finalmente, questa puntigliosa rivendicazione non è accompagnata dalla solita saccenza sindacale di chi si sente depositario della ragione assoluta condita da insopportabili atteggiamenti predicatori destinati a lasciare il tempo che trovano.

Al contrario è una disponibilità da condividere, modellare e costruire, insieme, nell’interesse dell’impresa, del lavoro e di ciò che ci sta intorno. In questo senso un congresso sindacale utile, importante e diverso da tutti quelli celebrati in questa fase dalle altre categorie cisline.

E qui forse sta il punto vero sul quale focalizzare la riflessione nei prossimi giorni. Quanto emerso dal congresso della FIM CISL in termini di profondità e chiarezza non ha nulla da condividere con la tradizionale retorica congressuale uscita dalla stragrande maggioranza degli  altri congressi di categoria.

Se togliamo il congresso della FEMCA CISL e poco altro che hanno confermato una tradizione collaborativa e riformista già nota, nessun altro congresso ha proposto alcunché di rilevante o che verrà ricordato dai posteri.

Annamaria Furlan ha, davanti a sé, un compito ingrato al suo congresso. Scegliere contenuti e qualità continuando fino in fondo la trasformazione della CISL che ha iniziato all’insegna della trasparenza e in questo modo riposizionare definitivamente l’intera CISL proiettandola nel futuro o restare ferma subendo le logiche interne di conservazione orami evidenti in molte categorie.

Lo scontro, più o meno esplicito, emerso anche dall’unico punto abbastanza criptico (visto dall’esterno) della relazione di Marco Bentivogli sulle vicende interne tra le categorie industriali e nei rapporti con la Confederazione non ha chiarito in modo univoco la direzione di marcia forse con lo scopo di consentire al congresso confederale il compito di trovare le sintesi necessarie.

Non sarà un passaggio di poco peso. La CISL è in evidenti difficoltà di ruolo e di proposta. Da un lato la CGIL ha già individuato una direzione di marcia che la pone al centro dell’iniziativa ma che rischia, se condivisa, di portare l’intero convoglio confederale, su di un binario morto.

Dall’altro lato il “dopo Bonanni” si sta rivelando molto più complesso del previsto. Il ritorno sulla scena di una CISL protagonista e propositiva resta però fondamentale.

Annamaria Furlan, in questi mesi si è mossa abbastanza bene affrontando alcuni nodi in modo risoluto. Per questo il congresso confederale sarà, da questo punto di vista un passaggio molto importante. Staremo a vedere.

Il paradosso dei metalmeccanici

Mentre la Politica si interroga sul migliore sistema elettorale possibile i corpi intermedi si ripropongono, da diversi punti di vista, all’attenzione del Paese.

Confindustria ha detto la sua nella sua ultima assemblea rimettendo al centro del dibattito l’idea di un “Patto di scopo” come contributo importante alla soluzione dei problemi del Paese a cui seguiranno le proposte di altre organizzazioni datoriali a cominciare da Confcommercio che domani affronterà la sua assemblea annuale.

Sul fronte sindacale, va in scena, oggi, il congresso dei metalmeccanici della CISL. Anche su questo versante ci sono segnali di una rinnovata volontà di riposizionamento strategico dopo la firma dei grandi contratti che hanno dimostrato una vitalità interessante, soprattutto nel comparto industriale.

Il congresso della FEMCA CISL ha confermato la volontà di questa organizzazione di continuare a rappresentare un importante punto di riferimento nel panorama sindacale. È un comparto che, unitariamente, ha sempre avuto una vocazione riformista e ha saputo sempre trovare pragmaticamente tutto ciò che si è reso necessario per governare l’innovazione, i cambiamenti organizzativi e culturali che hanno attraversato il settore.

I suoi dirigenti in tutte e tre le organizzazioni sono sempre stati personaggi sobri, in grande sintonia con i propri rappresentati, poco disponibili a strappi e avventure. Da sempre contrappeso politico e sindacale alla esuberanza dei metalmeccanici. Fondamentale il loro ruolo nelle rispettive organizzazioni confederali.

È però indubbio che, al di là dei propri recinti organizzativi, qualcosa si sta muovendo. In tutte e tre le confederazioni. Difficile prevedere se e dove approderanno le scelte che, dopo la firma dei contratti, hanno ripreso a segnalare crepe tra la CGIL e le altre organizzazioni.

Un dato però è certo. Il congresso che si apre oggi è da seguire con interesse. Non per l’esito che è ovviamente scontato e che si concluderà con l’elezione di Marco Bentivogli come leader indiscusso della categoria ma per capire se il sindacato che verrà delineato dallo stesso Bentivogli saprà guardare oltre la categoria ponendosi come punto di riferimento per un rinnovamento sindacale di cui ne ha bisogno il Paese.

E non lo dico pensando alla sola strategia della CISL che è oggi evidentemente abbastanza difficile da decifrare come alternativa ad una CGIL che, al contrario, sembra essere in ben altra situazione ma pensando alla novità rappresentata da un sindacato che tanto ha dato (nel bene e nel male) nella costruzione del modello precedente e che oggi è in grado di contribuire in modo altrettanto importante a delineare le nuove sfide, i contenuti e le forme organizzative necessarie a realizzarli.

Dalla FIM CISL oggi ci si aspetta molto. Il loro rinnovo contrattuale, la tenuta delle intese unitarie, i tempi legati all’innovazione e ai nuovi livelli contrattuali hanno trovato un nuovo punto di riferimento sia nel sindacato sia nella rispettiva controparte datoriale. E non era facile prevederlo.

La volontà di cambiare quando si manifesta proprio laddove il cambiamento è ancora più necessario ha molte più possibilità di tradursi in fatti concreti rispetto a dove le parole servono solo a mascherare un istinto gattopardesco e di conservazione della propria poltrona. Per questo a noi spettatori non resta che il compito di augurare a Marco Bentivogli e ai suoi metalmeccanici un grande in bocca al lupo per la loro assemblea.

Abbiamo bisogno tutti che sia un momento vero, profondo e sentito di cambiamento perché è destinato a produrre conseguenze un po’ su tutto il sistema. L’asticella va alzata per ciascuno di noi. Oggi più che mai. Per questo il congresso della FIM CISL è diverso dagli altri.

Nel panorama generale a loro è assegnato il ruolo della “goccia che fa traboccare il vaso”, un atto a volte incomprensibile e inaspettato ma nel quale, è sempre nascosto ogni vero cambiamento.

Come si può chiedere un aumento di stipendio?

Nel 2010 la casa editrice Einaudi ha pubblicato uno scritto di Georges Perec, definito, qualche anno prima, dalla critica francese «il racconto esilarante di una corsa ad ostacoli, di comici rimbalzi e appuntamenti mancati».

Il titolo: “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento” recentemente rilanciato da Fabio Savelli sulla Nuvola del Lavoro del Corriere. Con una ironia pungente Perec, scrittore molto interessante purtroppo scomparso giovanissimo, pone un tema rilevante.

Oggi, è ancora sufficiente “prendere il coraggio a due mani, alzarsi dalla scrivania e andare dal proprio capo con una richiesta di aumento retributivo” così come è stato per buona parte del 900?

Assolutamente no.

Il risultato sarebbe quasi sicuramente un garbato quanto netto rifiuto con tutto il seguito di rancori e frustrazioni inevitabili.

Nel mio lavoro di DIrettore Risorse Umane ho avuto la possibilità di esercitare entrambi i ruoli. ho richiesto riconoscimenti economici (non sempre con successo) e, per funzione aziendale, ho dovuto ascoltare le richieste di colleghi e collaboratori. Dalla mia esperienza ho tratto alcune riflessioni che vorrei condividere.

Le persone, anche se hanno raggiunto un certo livello di integrazione in azienda, faticano a parlare di sé, del proprio stipendio, delle proprie aspirazioni professionali o dei propri interessi. A volte si lamentano con i colleghi e attendono che, prima o poi, le Direzioni Risorse Umane o il proprio capo, si ricordino di loro.

Le aziende, in genere, hanno una loro politica retributiva annuale nella quale occorre sapersi inserire positivamente e al momento giusto. Le aziende più strutturate propongono un incontro di valutazione e sviluppo almeno una volta all’anno ed è un momento importante, formale, da non sottovalutare.

Saper rappresentare le proprie esigenze, formative e professionali o chiedere un adeguamento retributivo fa parte del set di competenze necessarie nel mondo del lavoro di oggi. Per farlo occorre possedere buone capacità negoziali, intraprendenza, conoscenza del contesto, giusta ambizione, determinazione. Ma anche saper gestire una possibile sconfitta, reagire positivamente e rapidamente, trarne insegnamenti utili. Tutte capacità che si possono apprendere senza particolari problemi.

Per questo non è affatto un momento da banalizzare. Va preparato nei minimi particolari. Come se si dovesse incontrare, da candidato per una nuova posizione di lavoro, un head hunter professionista.

L’interlocutore aziendale che ci si troverà davanti, in genere, non è uno sprovveduto. Conosce le politiche retributive dell’azienda, l’organizzazione nel suo insieme, i tempi, le eventuali modalità di erogazione, la valutazione vera sul contributo e sul peso specifico del richiedente.

Per queste ragioni la richiesta di incontro deve essere innescata da una ragione professionale oggettiva. Almeno nelle intenzioni. Un attività seguita che dimostra una maggiore copertura del ruolo, un contributo importante al lavoro del team, un progetto andato a buon fine.

Scelto il motivo, l’incontro dovrà essere richiesto in modo formale. Non si può discutere di sé in coda ad una riunione o in presenza di altri! L’ordine del giorno dovrà essere preannunciato e motivato dall’esigenza di potersi confrontare con chi è preposto, per ruolo, a farlo. Meglio, se possibile, concordare anche il tempo a disposizione.

La prima parte del confronto dovrà essere dedicata alla presentazione di sé, delle proprie aspettative professionali, del proprio contributo ai progetti e ai risultati aziendali. In sostanza occorre dedicare una parte del tempo a sottolineare l’importanza del proprio investimento personale nell’azienda e dei risultati realizzati come conferma della propria crescita.

Questa fase non deve essere un monologo né contemplare rivendicazioni passate o lamentele inutili ma neppure richieste precise. Deve semplicemente sollecitare un dialogo e, possibilmente, una condivisione dell’interlocutore sui fatti.

Attenzione! Solo se questa fase sarà sviluppata correttamente e completamente si potrà passare alla fase successiva: quella delle richieste specifiche. Chiarita l’asimmetria nei comportamenti tra impegno personale e riconoscimento dello stesso occorre dimostrarsi aperti a soluzioni differenti, distribuite nel tempo, sia sul piano quantitativo che qualitativo lasciando all’interlocutore aziendale la possibilità di riflettere e, eventualmente, di controbattere con argomentazioni nel merito delle problematiche poste.

Questa è la fase dove la conoscenza del contesto, la capacità negoziale e la determinazione possono giocare un ruolo decisivo. Da entrambe le parti. A questo punto le carte saranno tutte sul tavolo.

L’interlocutore aziendale può decidere di avanzare una soluzione di compromesso, proporre di valutare la richiesta all’interno di future politiche retributive e di sviluppo o rispondere negativamente. Il richiedente avrà, innanzitutto, chiara la valutazione che l’azienda (o il proprio capo) ha di lui quindi la convenienza o meno ad investirci passione ed energia, in futuro. O cercare un altra sfida sul mercato.

Nello stesso tempo, l’azienda, forse per la prima volta, si sarà potuta fare un’idea diversa del collaboratore, del suo approccio da professionista e delle sue capacità. Qui sta il vero salto di qualità. Far percepire ai responsabili aziendali (capo o DHR) la presenza di un collaboratore professionale, attento ai propri interessi e disponibile a rimettersi in discussione. Ma anche esigente e, perché no, dotato di una giusta ambizione. Il mercato del lavoro richiede sempre più soggetti con queste caratteristiche.

Crescere in azienda significa anche saper giocare le proprie carte e sapersi far valere. Per questo un colloquio serio e argomentato, se preparato e gestito bene, sarà stato comunque positivo e utile. Soprattutto per consolidare e sviluppare la propria capacità di interagire con interlocutori interni o esterni all’azienda a tutela dei propri interessi economici e professionali.

ILVA tra tatticismi e strategie..

Sulla vicenda ILVA, trovo francamente inopportuno mettere sul tavolo degli accusati il sindacato come fa Goffredo Buccini sul Corriere di oggi (http://Bit.ly/2rr5WW9).

In questa fase del negoziato i diversi soggetti in campo si stanno solo mettendo in posizione. Nessuno (credo) vuole fare saltare il banco ma ciascun protagonista può essere un interlocutore credibile solo se assume una posizione di partenza chiara da cui muoversi in una logica negoziale complessa.

Lo stesso vale per Alitalia dove i sindacati confederali, pur usciti a pezzi dal referendum, rappresentano gli unici interlocutori possibili. Veramente qualcuno può pensare che l’esasperazione degli esclusi, se non governata e gestita, sia un segno di lungimiranza delle relazioni sindacali?

Qualsiasi negoziato vero prevede passaggi obbligati. Goffredo Buccini propone un approccio valutativo asimmetrico in quanto il sindacato sarebbe oggi poco credibile perché responsabile (pur non non in via esclusiva) di non aver capito per tempo né il declino né il mostro ambientale che si andava creando in quel di Taranto. Addirittura di averlo condiviso.

E, in forza di questo, dovrebbe limitarsi, in via preliminare, ad accettare qualsivoglia interlocutore per il solo fatto che si sia seduto al tavolo.

Poco importa se, in una vicenda negoziale, su alcuni aspetti molto simile, quella di Fincantieri, il Governo Francese stia surrogando addirittura il ruolo dei sindacati, cercando di capire se gli impegni sono onorabili, le intenzioni verificabili concretamente e se, questo accordo, è propedeutico ad un futuro trasferimento di know how in Cina o è in grado di garantire comunque un futuro alla cantieristica in terra di Francia.

Da noi questo aspetto di garanzia e di verifica della correttezza della strategia è interamente sulle spalle dei sindacati. Governo e istituzioni sembrano non voler esercitare questo importante ruolo da protagonista.

Almeno questo non traspare dalle dichiarazioni ufficiali. Il messaggio sembra essere: “C’è stata un asta, c’è un vincitore, il piano sembra credibile (comunque senza alternative) quindi cercate un accordo e fateci sapere quanto ci costerà. E, se qualche cosa dovesse andare storto, sappiate che la responsabilità sarà interamente vostra”.

Personalmente credo che ognuno dovrebbe fare la propria parte. Il passato, purtroppo, non conta nulla, oggi. Né ha senso lo scaricabarile sulle responsabilità. Se l’ILVA può avere un futuro vero (e l’interesse delle cordate in campo sembrerebbe dimostrarlo) Il Governo non deve solo verificare se la strategia risponde all’interesse del Paese ma dovrebbe essere il garante autorevole degli impegni sottoscritti.

Piano industriale, produzioni e siti, risanamento ambientale credibile e modello di governance non sono argomenti secondari del confronto e quindi presuppongono un tempo adeguato sia in sede tecnica che politica. Poi c’è il tema drammatico degli esuberi e della loro gestione. Ed è su questo che sarebbe sbagliato ragionare esclusivamente in termini di ammortizzatori sociali in una logica assistenziale.

Dichiarare che nessun lavoratore verrà lasciato per strada come ha fatto il Governo non è sufficiente. Addirittura può essere controproducente in questa fase. Il problema c’è, chiunque è in grado di comprenderlo.

Lo sforzo che dovrà essere messo in piedi per realizzare questo obiettivo in aree disagiate come quelle in questione è enorme. Va pensato, progettato e costruito insieme. E deve prevedere, nell’accordo che si raggiungerà, tempi, modalità, interventi, responsabilità precise ed esigibili. Delle istituzioni, delle comunità locali, dell’azienda e degli stessi sindacati.

Ed è l’unico modo per evitare pesanti conseguenze sociali nei territori coinvolti. Ed è per queste ragioni che il confronto deve avvenire nei tempi e nei modi necessari.

Ed è proprio per la complessità della situazione, per i pesanti risvolti che questa vicenda può produrre (se non gestita) che occorre sostenere tutti i soggetti impegnati nel negoziato. per come ci si è arrivati, per il contesto politico, territoriale e sociale, per gli interlocutori in campo la vicenda ILVA può veramente essere un terreno vero di sperimentazione innovativa sulla governance, sulle relazioni industriali e sulla gestione delle conseguenze attraverso un piano sociale di grande qualità.

L’importante è non iniziare delegittimando i soggetti in campo. Sarebbe un errore inutile e imperdonabile.

ILVA! Il futuro, gli esuberi e le soluzioni da condividere

È vero che negli ultimi vent’anni le ristrutturazioni aziendali hanno sempre comportato tagli ed esuberi. È sempre stato così e verrebbe da concludere che aziende come Alitalia o ILVA non possano sfuggire, più di tanto, a queste logiche.

Peraltro i media, oggi, insistono sulla ineluttabilità delle conseguenze occupazionali. L’alto numero degli esuberi viene presentato come inevitabile da entrambe le cordate interessate all’acquisto dell’ILVA e questo non può non provocare la reazione preoccupata delle comunità locali coinvolte e quindi dei sindacati.

Certo il negoziato con i rappresentanti dei lavoratori potrà ridurne il numero e gli ammortizzatori individuati potranno distribuirne gli effetti sociali nel tempo. Un punto però resta ineludibile.

Migliaia di persone dovranno rimettersi in gioco indipendentemente dalla loro età, dalla loro professionalità e dalla possibilità o meno di reimpiegarsi sul territorio. Un negoziato tradizionale, in genere, dopo aver trovato una sintesi sul numero degli esuberi si occupa quasi esclusivamente di chi resta. Spesso tralasciando la gestione di quanto concordato.

Credo che, questa volta, per la situazione occupazionale dei luoghi coinvolti, per la storia di quelle realtà produttive, per la particolare tipologia di lavoratori lo sforzo per individuare soluzioni praticabili dovrebbe essere molto più complesso.

Partiamo dai fatti. Il Ministro Calenda oggi avverte: “Non ci saranno rilanci”, quindi il perimetro delle possibili soluzioni è quello individuato con l’asta. Entrambe le cordate non sono posticce. Comprendono un giusto mix che dimostra un interesse reale al mercato potenziale. Quindi al prodotto.

L’obiettivo, almeno per il sindacato e le comunità coinvolte, non è l’accordo. Questo è solo il mezzo. L’obiettivo è dare un futuro al lavoro e all’impresa. Ai sindacati e all’azienda stabilire se questa intesa deve essere nel solco delle ristrutturazioni gestite fino ad ieri o la prima di segno nuovo.

In questo caso occorrerebbero tre caratteristiche (irrinunciabili). Innanzitutto il livello di coinvolgimento e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori dalla fase dei sacrifici occupazionali (certi) al rilancio da costruire, insieme.

Nessun via libera senza condizioni. Il percorso deve essere condiviso. Sia nella strumentazione che nel governo delle fasi. Come e fino a che punto sarà compito delle parti stabilirlo. In secondo luogo le garanzie sul futuro dei siti dovrebbero essere almeno pari a quelle concordate dal Governo francese con Fincantieri.

E su questo punto il coinvolgimento e l’impegno del nostro Esecutivo sarà fondamentale. In terzo luogo la gestione degli esuberi. Non è solo un problema di numeri. Occorre che la cordata vincente, il Governo, i territori coinvolti costruiscano un percorso condiviso che ha come obiettivo non la CIGS in sé ma il ricollocamento di tutti gli esuberi.

Come? Innanzitutto coinvolgendo tutto l’indotto. In tutti gli accordi di fornitura o subfornitura dovrebbe essere introdotta l’attenzione necessaria al tema. L’azienda si deve impegnare ad incentivare chi, nel territorio, assume i propri esuberi o direttamente o indirettamente.

Occorre uno sforzo formativo eccezionale la cui regia andrebbe assegnata all’ANPAL ma che dovrebbe coinvolgere tutti coloro che sono in grado di portare soluzioni concrete. Così come le associazioni imprenditoriali locali dovrebbero favorire questi percorsi di ricollocamento, condividendoli e proponendoli ai loro associati.

Lo stesso Governo dovrebbe “pretendere” una maggiore assunzione di responsabilità della cordata vincente sulla scorta, ad esempio, delle proposte che Tommaso Nannicini ha recentemente esposto. Per queste ragioni la vicenda ILVA, ma non solo, non andrebbe vista solo da un punto di osservazione tradizionale. Occorre interrompere un circolo vizioso e individuarne uno virtuoso. Pur nelle difficoltà di una svolta dolorosa e necessaria.

Credo che su questo temi come la “corresponsabilità” o, rubando l’idea al Presidente di Confindustria Boccia, di un “Patto di scopo” centrale e territoriale potrebbe costituire un nuovo inizio di un percorso che cerca di cambiare le tradizionali regole del gioco, innovandole e sperimentandole.

Managers and companies: discontinuity, vision for the future and new skills by Stella Sassi


In the past, it was easier. Companies who felt the need to acquire a new manager with certain skills asked their HR manager to fill out a job description, a precise profile of the position, and after a meeting with the trusted Head Hunter they would have a shortlist of candidates to choose from.

The market was basically transparent, managers were generally referenced and it was not difficult to get all the information needed to complete a fairly accurate picture.

Organizations were ready for inclusion because old or new managers responded to fairly compatible logic. A general manager, a sales manager, or a human resources manager had to occupy a position with well-defined boundaries both in terms of skills and competences.

They even sought candidates who would recognize themselves in the values ​​of that specific company. Even for the manager it was fairly clear. Skills and skills required by the offered position, professional path, and projects. The investment was on the long run and therefore the selection phase was very important and no mistakes had to be made.

At some point, everything has changed: more and more plain organigrams, internal employees replaced by interns with no prospect, temporary managers, downsizing of intermediate managerial levels, no chances for professional growth or career inside the company, broken promises and professional deskilling. Few (competent?) decided and many followed the instruction, regardless of the professional level.

The long season of the crisis has dictated its rules. On the market, at that point, it could be found everything and more, both in terms of quantity and quantity of resources available, and often in terms of offer by the professionals. But it is precisely the crisis that led to the need to change, to look up, to think of a different future.

In other words, to call into question both managers and companies. The goals have become increasingly difficult to define and complex to achieve, the market has become increasingly competitive and the competition more aggressive.

The new requirements are dictated by an increasingly “unfaithful” client, who do not care about slow interlocutors, and by a huge amount of data available increasingly difficult to analyze.

And so, the “traditional” answers are increasingly questioned: many companies struggle to be responsive, new organizational models are emerging in order to allow greater effectiveness and adaptability to the context, by creating value, satisfying the customer and creating true value in the company, they become the new focus also for the Human Resources Departments.

It is increasingly required to know how to move through uncertainty and ambiguity and to know how to lead, integrate, engage teams towards ambitious and increasingly challenging goals. From 2000 onwards, it has radically changed how to generate value for many businesses and for people.

The crisis of Taylorism and traditional hierarchies made of traditional organizational charts, procedures, roles, functions and careers set a new starting point: discontinuity. And this discontinuity brings with it two “new” characteristics for managers that need to be revisited: entrepreneurship and leadership.

Entrepreneurship understood as risk sharing, absence of pre-defined guarantees and professional and personal qualities similar to those required to an entrepreneur. Leadership as a capability to engage, guide and motivate coworkers even on unfamiliar situations. In addition, the manager must also build his own “personal brand” by adapting it to new business cultures.

It changes the way in which the enterprise decides and organizes with a view to producing value. Managers need to be useful to the company they work for, to themselves (career, but also the intrinsic meaning of work) and even to the socio-economic context that recognizes the function. It increases the responsibility for the manager and the companies towards all stakeholders and thus towards the overall social system.

This is also required to develop a vision of the world, the context and the society in which the company operates and interacts. From now on, new skills emerge, skills that managers will no longer be able to do without.

First and foremost, there is a need to have, more and more, the ability to build in a short time and in the context of Smart Organizations capable of responding to requests and contingencies of external change, which means for a manager, skills of ” Execution agility “(understood as the ability to accomplish its strategies faster than competition) and” Responsivity “(understood as ability to respond, even changing in style, to changes in context or market).

Secondly, there is the need for an open and dialectical mind able to interpret the complexity of the context and make it feasible, but also have the empathic ability to persuade others (within and outside the company) to be followed in the path identified. There is the need to develop a smart cooperation.

Third, it is required the ability to integrate cultural, contextual, gender and age differences to broaden the vision to elaborated which means interculturality and diversity.
They become equally important, the speed of learning, and the curiosity. So, the management of disruptive innovations (innovations that radically redefine the role of the enterprise’s ecosystem, the concept of value for the customer and the business models of the companies themselves) that developed exponentially on the market by taking oxygen to other solutions and feeding new and connected areas of growth.

Finally, there are two not less important skills: competitive intelligence, that is the ability to monitor competitors and instinct to close, which means to decide, choose and take responsibility for choices. Even when they prove to be wrong.

This is for sure a very interesting work for who trains managers and for the most innovative Human Resources Departments. But there are also many opportunities to reflect for managers and businesses. It is not possible to compete in global supply chains and new markets, as well as it is not possible take advantage of opportunities and business unless managers release energy, passion, creativity, and will accept new challenges.

But all this is possible by investing on resources, on young people, on relationships with universities, and on who can support businesses to create this discontinuity with the past. Otherwise, it is important to note the old rule so dear to Anglo-Saxon school managers, that when the speed of the external context is clearly higher than the speed of the internal organizational context, the end is inevitably begun. This is true for both managers and enterprises.