La realtà e la propaganda…

Premetto di aver rappresentato per oltre dieci anni, come Direttore Risorse Umane, la mia azienda (di allora) in Federdistribuzione. Penso di conoscerne i limiti ma anche l’impegno e la notevole professionalità.

Li ho spesso criticati apertamente quando hanno scelto di voler far da soli sul tema del lavoro ma continuo a considerare, molti di loro, amici e colleghi e continuo ad osservarne con grande attenzione la loro azione a tutela delle aziende della Grande Distribuzione.

Sul tema delle aperture festive hanno ragione a tenere il punto. Soprattutto oggi che i consumi sono fermi. Sarebbe stato meglio governare a monte il problema fissando dei paletti condivisi come ha proposto a suo tempo Confcommercio? Probabilmente si. Oggi però c’è una legge in Parlamento che definisce un numero di chiusure annuali accettabile sulla quale credo si possa convenire ma il tema resta aperto.

Alcuni esercizi commerciali hanno la loro ragion d’essere proprio se funzionano a ciclo continuo. Recentemente ho partecipato (come osservatore) ad un negoziato che aveva come obiettivo il lancio di una start up con oltre quattrocento dipendenti (con le tre organizzazioni sindacali di categoria) che concordava in due le festività di chiusura annuali per i prossimi tre anni. Senza alcun clamore mediatico.

Oscar Giannino propone una differenza interessante tra libertà di aprire e obbligo di aprire che condivido. Ci sono zone o attività dove non ha senso forzare e altre dov’è indispensabile.

Il sindacato di categoria ha sempre avuto, sul tema, un atteggiamento ambiguo e ondivago. Prima decisamente contrario, poi favorevole ma solo per i nuovi assunti. Refrattario per anni alle rotazioni di tutto il personale perché questo metteva in discussione i diritti acquisiti da una specifica generazione, ha costretto molte aziende a forzare quasi esclusivamente sui più giovani.

E questa divisione tra i lavoratori vecchi e nuovi ha contribuito a mettere fuori gioco il sindacato stesso la cui debolezza, in termini di mobilitazione della categoria, è ormai evidente.

Annamaria Furlan, segretaria generale della CISL, in questi giorni ha detto tutto e il suo contrario. E anche questo non ha giovato. Ha criticato l’outlet nella sua ragion d’essere, poi ha ridotto il tiro sull’apertura Pasquale in sé e, infine si è lamentata della mancanza di dialogo tra la proprietà dell’outlet e il sindacato locale. Il tutto, probabilmente, per coprire l’ondivaga politica della categoria sulla materia.

Ovviamente il decreto “salva Italia” ha determinato una fuga in avanti soprattutto perché ha spinto la stragrande maggioranza delle aziende del settore, in crisi sui margini, a forzare sulle aperture anche laddove non erano strettamente necessarie.

A questo è seguita una fase più riflessiva con aperture e chiusure meglio regolate. O con accordi interessanti come quello di Esselunga che esonera dalle prestazioni festive chi ha figli sotto i tre anni. Questa è la strada.

Altri accordi, soprattutto, per quanto riguarda gli outlet o i grandi centri commerciali potrebbero riguardare forme di welfare specifico come asili aziendali o altre iniziative che attenuino i disagi a chi deve lavorare.

La vicenda di Serravalle ha dimostrato che un’azione sindacale di tipo tradizionale non funziona su questa tipologia di lavoratori. McArthurGlenn affitta spazi spesso a marchi noti o a franchisee presso i quali lavorano pochi e selezionati venditori particolari.

Venditori che vengono formati sia dalla casa madre che dall’outlet stesso sulle abitudini di acquisto di clienti provenienti da tutto il mondo. A questo si aggiungono in base alle previsioni di vendita giovani con contratti brevi.

La stessa direttrice del centro, Daniela Bricola, proviene da una famiglia di commercianti. Con una laurea in tasca ha iniziato vendendo jeans in uno store e poi via via ha occupato posizioni di maggiori responsabilità mentre, a Serravalle, ha fatto tutta la carriera interna: retail assistant, retail manager, e infine direttore del centro.

Non si è certo tirata indietro in questa tempesta che si è scatenata in un bicchier d’acqua. Ha ricordato i diversi livelli di responsabilità avanzando anche qualche disponibilità al confronto che dovrebbe essere colta.

“Meglio crumira che disoccupata!” ha gridato una lavoratrice dell’outlet ad un militante sindacale catapultato da chissà dove, insieme a qualche decina di attivisti con bandiere, a presidiare una rotonda che la insultava per la sua determinazione a recarsi al lavoro mentre oltre duemila persone già lavoravano tranquillamente e oltre ventimila clienti affollavano il centro.

Ha pero funzionato mediaticamente. I contrari (non frequentatori dell’outlet) hanno trovato una ragion d’essere. Sul versante sindacale in termini di identità come giustamente sostiene Di Vico. I loro militanti si sono sentiti rassicurati.

Sul versante politico con l’intervento estemporaneo dell’onorevole Di Maio che ha scavalcato tutti “farfugliando” teorie e motivazioni che non hanno né capo né coda che però hanno avuto, come prevedibile, un risalto esagerato.

Il rischio è che, come per i voucher, un Governo impaurito preferisca subire una emotività esasperata (più in rete o sulla stampa che nella realtà) che tutelare le aziende coinvolte e qualche migliaio di lavoratori e un settore che rischia di pagarne le conseguenze.

Il nostro è un Paese ben strano. Si può pagare in nero la badante ed essere contro i voucher. Oppure utilizzare i voucher e promuoverne un referendum contro.

Prendersela con il consumismo e andare tranquillamente a fare acquisti all’outlet.  Oppure rivendicare più lavoro pur cercando di mettere in crisi chi lo offre, e non in nero, nonostante tutto. Addirittura utilizzare strumentalmente questo tema per uscire dalla realtà e fare propaganda per il proprio partito.

Personalmente non sono contento per l’errore, grave, commesso dai sindacati confederali che hanno sottovalutato la distanza profonda tra il loro linguaggio, mediatico o meno, in rapporto ai duemila lavoratori coinvolti a Serravalle, alle loro esigenze e alle loro aspettative.

Probabilmente si giustificheranno dando la colpa alla paura dei singoli non interrogandosi sulla particolare tipologia del centro e della sua proposta commerciale. Pronti a ricominciare alla prossima festività.

La realtà però è altra cosa rispetto alla propaganda politica o sindacale che sia. Speriamo che questa esperienza serva, a tutti, per il futuro.

Declinare crescendo?

Ha ragione Di Vico. In mancanza di risultati e di negoziati seri con contropartite adeguate il sindacato italiano, soprattutto quello meno strutturato, cerca solo di rassicurare i propri iscritti. Credo però che sia inevitabile.

Prendiamo l’outlet di Serravalle. Nessun sindacalista alessandrino ha sollevato problemi di principio, alzato al voce, o preteso alcunché quando il “Centro più grande d’Europa” si è insediato in mezzo alla campagna né quando si è strutturato fino ad arrivare ai duemila posti di lavoro (di vario genere) di oggi. Anzi.

A differenza di altre categorie dove tra i sindacalisti esistono veri esperti di settore, nel terziario prevale ancora la figura tradizionale del sindacalista generalista cresciuto con le regole della Grande Distribuzione del 900 scolpita nei contratti nazionali e aziendali e nelle rivendicazioni che ne hanno caratterizzato una intera generazione, nel bene e nel male.

C’è però una grande differenza tra un negozio di vicinato, un supermercato di via, un discount, un ipermercato, un centro commerciale, un mall, o un outlet. Profondamente diversi non solo per la dimensione e per le problematiche ma anche nelle fasi di apertura, di consolidamento e di mantenimento. Così come negli orari, nelle giornate di vendita, nella stagionalità. E infine nella tipologia di lavoratore necessario.

A tutto questo il sindacalista generalista non era e non è preparato. La differenza è che nelle fasi espansive, pur non incidendo sugli assetti organizzativi, ne beneficiava comunque in termini di iscritti e quindi ha lungamente abbozzato.

Pochi hanno cercato di capire l’evoluzione del settore, la sua differenziazione sia dimensionale che qualitativa del lavoro. Né di comprendere l’inevitabile cambiamento del ruolo della rappresentanza.

Un outlet tipo Serravalle con oltre duemila addetti ha dentro di sé le problematiche tipiche di un grande centro commerciale e, contemporaneamente, di una via dello shopping tipo Corso Buenos Aires a Milano. Non c’è un imprenditore. C’è un gestore di spazi.

Convergono su di esso decine di migliaia di turisti stranieri portati direttamente in pullman desiderosi di accaparrarsi capi firmati a prezzi scontati. In una festività qualsiasi più di quarantamila visitatori vi si accalcano.

Tutto questo, ovviamente, può piacere o meno. Non consente solo di alimentare illusioni, desideri di possesso di capi firmati ma anche di smaltire collezioni, magazzini strapieni di merce e sostenere opportunità di lavoro. È un approccio che funziona solo a ciclo continuo.

Per i clienti del far east, ad esempio, le nostre festività nazionali o religiose sono sconosciute. Sfido chiunque di noi a indicare le festività religiose coreane o cinesi. Ma vale così per molti altri. Così come per i connazionali pensare di fare anche cento chilometri durante la settimana è semplicemente impossibile.

Per il sindacato è una sfida vera. Può ritirarsi davanti ad una rotonda con i suoi attivisti che non lavorano nell’outlet e bloccare clienti indispettiti. Oppure cercare di capire come entrare in relazione con un mondo fatto di tipologie di lavoro, interlocutori, livelli di confronto diversi uno dall’altro.

Nel primo caso avrà lanciato un segnale identitario ai suoi iscritti che approveranno questa presa di posizione ma non cambierà nulla.

Nel secondo caso potrà iniziare un lento lavoro di recupero e di comprensione di una realtà dove impresa, lavoro, luoghi e modalità assumono contorni più sfumati della fabbrica e forse potrà anche tentare di rappresentarne le esigenze.

Le buone ragioni di ciascuno e la concretezza necessaria..

A voler litigare con tutti alla fine si resta soli con i propri problemi. Anche se si hanno buone ragioni. Le aziende della Grande Distribuzione che hanno deciso di seguire Federdistribuzione uscendo da Confcommercio a poco più di 5 anni rischiano di trovarsi ad un  punto morto.

Nel comunicato di annuncio della scissione del 22 dicembre 2011 non c’erano affatto intenzioni bellicose. Federdistribuzione riconosceva “la proficua collaborazione con la Confederazione presieduta da Carlo Sangalli e la condivisione di attività e percorsi (primo tra tutti il rinnovo del Ccnl) che restano obiettivi comuni che potranno portare anche in futuro a verificare forme di collaborazione, nell’interesse di entrambe le organizzazioni e dei settori rappresentati, sia a livello centrale che locale”. E anche Confcommercio auspicò lo stesso approccio.

C’era, ovviamente, la volontà di andare per la propria strada ma anche la consapevolezza contenuta nel saggio proverbio keniota che recita “se vuoi arrivare primo corri da solo, se vuoi arrivare lontano cammina insieme”.

E questo era un proposito utile  per tutti: la complessità della crisi, la gestione dell’imminente scadenza del contratto nazionale, i rapporti locali e centrali con le istituzioni, facevano propendere per una necessaria convergenza seppur inevitabilmente competitiva sulle singole questioni. Ma una competizione sana utile ad entrambe e finalizzata a portare vantaggi alle imprese associate e al sistema commerciale in generale. E rispettoso del ruolo delle controparti sindacali.

Purtroppo così non è stato. Federdistribuzione decise di cavalcare il decreto cosiddetto “salva Italia” del Governo Monti che prevedeva la totale liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali e di formalizzare alle organizzazioni sindacali di categoria la volontà di uscire dal contratto nazionale del terziario per sottoscrivere uno specifico per le aziende del comparto.

Sulla liberalizzazione delle aperture il vento del 2011 sta cambiando. E non è necessariamente una buona cosa. La crisi della Grande Distribuzione è evidente e non è riducendo il numero delle aperture o irrigidendo il sistema che la si risolve. Anzi.

Aggiungo che sentire la “moderata” segretaria generale della CISL Annamaria Furlan affermare al Corriere che: “Vedere nell’outlet un luogo dove fare un po’ di svago, fare una passeggiata e concedersi un po’ di riposo è un modello sociale sbagliato” non è certo di buon auspicio per gli operatori economici soprattutto esteri anche perché, se è un modello sbagliato, presumo che per Furlan lo sia tutto l’anno e non solo a Pasqua e che il suo pensiero valga per tutti quei luoghi, compresi i centri commerciali, dove le persone, soprattutto quelle meno abbienti, ci passano intere giornate di festa magari senza neppure fare acquisti.

Neanche Susanna Camusso si era spinta così in avanti limitandosi ad una contestazione dell’organizzazione del lavoro, del rispetto del salario e dei diritti, contestando la necessità di aprire tutto l’anno a tutela dei lavoratori del settore.

È probabile che anche il segretario generale della CGIL non ami passeggiare per gli outlet o per i centri commerciali nei giorni festivi ma i confini tra un giudizio di natura sindacale e uno di natura etico o morale o ad un modello consumistico ritenuto in generale sbagliato credo debbano restare su piani differenti.

Certo, giudizi e convincimenti di importanti controparti sindacali non sono di buon auspicio per chi, deve investire o decidere di affrontare, e con quali strumenti, la profondità della crisi dei consumi con i suoi riflessi sull’occupazione e questo indipendentemente dalla “disfida mediatica” di Serravalle in scena il giorno di Pasqua dove tutti, il giorno successivo, la racconteranno inevitabilmente a modo loro.

Dall’altro lato, resta la ferita del mancato rinnovo di un contratto specifico così come richiesto da Federdistribuzione. Dal 1 aprile 2015, data della firma del nuovo contratto nazionale del terziario,da parte di Confcommercio,  le aziende della GDO aderenti a Federdistribuzione sono, volenti o nolenti, in dumping rispetto alle altre aziende che, al contrario, applicano quel contratto.

E questo è indubbiamente gravido di problematicità di cui non tutte le imprese ne hanno percepito le possibili conseguenze. Come ho sempre sostenuto non c’è spazio per un contratto che non sia sostanzialmente identico per quantità economiche erogate e per normative. Quindi un contratto che rischia di essere  inutile.

In più Confcommercio, come Confederazione, ha recentemente sottoscritto un accordo con CGIL, CISL e UIL che imposta regole che valgono per l’intero settore e impegna le parti al loro rispetto. Lo scenario sindacale è dunque cambiato.

L’interesse delle imprese e dei lavoratori dovrebbe prevalere inducendo chi le rappresenta a lavorare per individuare le soluzioni più idonee in un contesto diverso da quello di partenza. E queste sono all’interno del percorso indicato dal contratto del terziario già firmato sia che si scelga di optare per un contratto autonomo o magari cercando di lavorare con maggiore lungimiranza sul terreno dell’innovazione contrattuale, prevedendo dal CCNL già in essere, tutte le deroghe e le specificità del caso. Soprattutto idonee per gestire la crisi profonda del settore.

Le organizzazioni sindacali non possono che percorrere una strada nel solco di quanto concordato con Confcommercio. E questo era chiaro prima, durante e lo sarà semmai si dovesse raggiungere un necessario punto di incontro.

È probabilmente un interesse comune aprire una nuova fase soprattutto in forza del cambiamento del contesto. E forse ci potrebbero essere tante buone ragioni per farlo.

Qualcosa si muove intorno a noi…


C’è voglia di cambiamento nel Paese. E non solo nella politica. Ci sono persone chi interpretano questa voglia voltandosi indietro e chi, al contrario, cerca di trovare risposte, guardando in avanti.

La politica interpreta queste volontà agitandosi in entrambe le direzioni. Il mondo del lavoro e della rappresentanza, almeno fino al referendum istituzionale, ha tentato di tenere insieme quanto di buono veniva dal passato con un presente difficile cercando, però, per quanto è possibile, di interpretare il futuro.

D’altra parte la profondità della crisi e l’Europa presentata come matrigna hanno purtroppo rappresentato per molti solo un grande alibi. Il cambiamento necessario vissuto come una maledizione inevitabile. Quindi subìto.

Comprensibile nei singoli individui perché disorientati non in chi li dovrebbe rappresentare perché il futuro non si subisce né si immagina; si fa. E, purtroppo, lo si deve fare operando quotidianamente tra chi ipotizza cose mirabolanti ma lontane e forse improbabili e chi, incapace di uscire dal porto, ripropone costantemente l’illusione di un ritorno al passato. Ma le navi non sono costruite per essere tenute ancorate nei porti.

Purtroppo quello dei corpi intermedi è un mondo un po’ autoreferenziale dove tutti pensano di avere molte ragioni e dove i torti, semmai, sono sempre degli altri. Il recente intervento di Marco Bentivogli sul Foglio ha il merito di rompere gli schemi e di proporre uno scenario con il quale è necessario confrontarsi. Uno scenario in movimento per tutti.

Da un lato la CGIL e la sua carta dei diritti. Dall’altro i pentastellati che ripropongono la disintermediazione nel lavoro scegliendo come compagno di viaggio il rancoroso ex FIOM Cremaschi. Quest’ultimo, con i Grillini, sembra però avere un solo obiettivo in comune: delegittimare il sindacato confederale.

Tutte strade, queste, decisamente impraticabili. Sicuramente per il mondo delle imprese. Così come sarebbe un errore accettare come inevitabile il declino propositivo unitario delle organizzazioni di rappresentanza. Il rischio dell’irrilevanza dei corpi sociali si combatte entrando nel merito delle questioni poste. Anche da sindacalisti come Marco Bentivogli che segnalano l’avvicinarsi del punto di non ritorno. Non solo per il sindacato confederale.

Innanzitutto nel prefigurare un futuro possibile nel quale dobbiamo essere tutti consapevoli che la tradizionale divisione del lavoro tra terziario, industria e agricoltura sta mutando rapidamente.

I tradizionali confini settoriali stanno venendo meno. La conseguenza di questa nuova divisione del lavoro è che l’industria tenderà sempre di più a terziarizzarsi e il terziario tenderà inevitabilmente ad industrializzarsi cercando di realizzare economie di scala nella gestione dei servizi, dei dati e delle conoscenze.

Nelle filiere globali che stanno emergendo da questi nuovi modi di lavorare tutto ciò che può essere meccanizzato e codificabile verrà sempre più attratto inevitabilmente da luoghi dove i costi sono minori (lavoro, energia, tasse, vincoli amministrativi e ambientali) o al contrario dove esistono capacità e talenti di eccellenza in specifiche situazioni.

Quindi la capacità del sindacato di trovare nuovi livelli di mediazione può fare la differenza. La vicenda FCA lo dimostra inequivocabilmente. Le conseguenze che questa prospettiva può avere per l’attuale assetto anche della rappresentanza sia imprenditoriale che sindacale, ancorate tuttora a un modello che deriva dal secolo scorso è facilmente immaginabile.

Il compito della nuova rappresentanza, che voglia impegnarsi a gestire la transizione in corso, è dunque di aiutare le imprese e il lavoro, che si presenta sempre più anche in forme differenti e deregolamentate, a non esserne travolti presidiando alcune azioni chiave. Innanzitutto investendo sul capitale umano e sulle infrastrutture necessarie alla rivoluzione digitale/globale in corso.

Poi impegnandosi a promuovere le innovazioni collettive (politiche, contrattuali, sociali, infrastrutturali, normative, di welfare e di apprendimento/ricerca) che è necessario realizzare per sostenere i percorsi delle imprese e dei lavoratori nel difficile confronto con i nuovi competitors. E su questo, gli ultimi rinnovi contrattuali hanno cominciato a dire qualcosa di nuovo.

Infine occorre stimolare lo sviluppo di iniziative che favoriscano forme (chiamiamole pure come vogliamo) di collaborazione intraprendente, corresponsabilità, partecipazione, condivisione del rischio tra i tanti soggetti coinvolti dai percorsi di transizione a monte, all’interno e a valle dell’impresa.

Ultimo ma non di minore importanza occorrerà partecipare alla trasformazione in senso creativo ed efficiente dei contesti di vita e di lavoro che condizionano produttività e creatività delle imprese (smart cities, ambienti creativi, attrazione dei talenti, relazioni utili con la ricerca e le università, servizi innovativi di welfare ecc.).

Per fare tutto questo non occorre disintermediare alcunché. Occorre esattamente l’opposto. Occorre più rappresentanza, seppure diversa, non meno.

Marco Bentivogli ha fatto bene a lanciare un segnale forte a tutto il sindacato (e non solo alla sua parte) segnalando l’urgenza dei cambiamenti necessari e la loro direzione di marcia. Sarebbe importante che la sfida venisse raccolta da tutti.

Il trivio necessario…

Nessuno ha notato la concomitanza tra due eventi apparentemente opposti. L’8 aprile, al teatro Brancaccio di Roma l’attivo dei delegati della CGIL mentre, a Ivrea il movimento 5 stelle ha scelto lo stesso giorno in un luogo simbolico e la figura di Adriano Olivetti per lanciare Sum01 “Capire il futuro”.

Da una parte un pezzo comunque importante del Paese, rappresentato dalla CGIL, che cerca di ricostruire intorno ad un’idea, condivisibile o meno, di centralità dei diritti, dignità del lavoro e una diversa distribuzione del reddito il proprio futuro politico e sociale. Una parte che individua nella globalizzazione più i rischi che le opportunità.

Dall’altra un movimento eterogeneo che sa di poter vincere politicamente perché è riuscito ad intercettare sia la protesta che la voglia di cambiamento che sta crescendo nel Paese, soprattutto tra le nuove generazioni. Un movimento che ha, nel cuore della base e dei militanti, i tassisti ma ha Uber nella testa dei suoi ispiratori.

Non è un caso che il mov 5 stelle ha scelto Olivetti e la sua Ivrea. Immagine rassicurante di un imprenditore visionario lontano dagli stereotipi manageriali e imprenditoriali ” sempre bravi a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite” di cui il nostro Paese resta uno dei principali produttori.

C’ė, nei vertici del movimento, la certezza assoluta della vittoria e quindi la volontà di rassicurare il Paese che conta. Ma anche di spiegare alle sue diverse anime interne, invitate in platea, che non c’è spazio per i protagonismi movimentisti della prima ora. Un passaggio difficile. Soprattutto perché il movimento rischia la diaspora di una parte consistente dei militanti “duri e puri” proprio nell’ultimo miglio. La vicenda di Roma è lì a dimostrarlo.

Dall’altra parte la CGIL che vinta la partita dei voucher “a tavolino” sembra aver scambiato, purtroppo, un tramonto per un’alba e cerca di serrare le fila per nuove battaglie contando esclusivamente sulle proprie forze e su quella parte della sinistra esclusivamente impegnata in una rivincita contro Renzi e ciò che rappresenta.

Un dato che li accomuna è la convinzione di potercela fare da soli. Entrambi sicuri di attrarre verso di sé il resto del mondo di riferimento. I primi sul piano sociale, i secondi su quello politico. È il NO che, inevitabilmente, li unisce. Anche se è un NO di segno opposto. Il NO a tutto ciò che cambia il lavoro costruito dai baby boomers (che oggi governano il sindacato) e lo mantiene ancorato ad una tradizionale cultura fordista, per i primi. Il NO a tutto ciò che quelle generazioni hanno costruito nel bene e nel male, in Italia e in Europa, per i vertici dei secondi.

Si elideranno a vicenda? Probabilmente si. Il punto è stabilire chi ne pagherà le conseguenze. A mio parere manca ancora all’appello un terzo soggetto credibile. Sociale e politico.

Paolo Pirani, segretario generale UILTEC, con una battuta felice ha centrato il problema: “Più che un Partito della Nazione occorrerebbe un Patto per la Nazione”. Indubbiamente è l’ultima chance che ha a disposizione questo Paese prima del burrone. Chi non crede nella deriva movimentista o in quella tecnocratica digitale non può stare alla finestra. Non siamo di fronte ad un bivio ma ad un trivio.

È difficile pensare che un Paese come il nostro con differenze territoriali e culturali così profonde e con il nostro debito pubblico possa “salvarsi” mettendo le generazioni l’una contro l’altra o scegliendo strade diverse da tutto il resto d’Europa.

Nel sindacato, nei corpi intermedi più in generale e, probabilmente nel Paese c’è anche voglia d’altro. Lo stesso referendum del 4 dicembre lo ha dimostrato. Che lo si voglia ammettere o meno è da lì che occorre ripartire per ricostruire, insieme, un’altra idea di Paese. Più moderno, inclusivo, unito nei territori, nelle generazioni e nei suoi valori di fondo.

Mala tempora currunt….

Le dinamiche messe in atto dall’esito referendario stanno rimettendo in moto il quadro politico italiano e, di conseguenza, le dinamiche che attraversano i corpi intermedi.

Sul fronte datoriale la debolezza di Confindustria è evidente. Le vicende interne pesano. La stessa difficoltà a chiudere l’accordo confederale con i sindacati lo dimostra come il fatto che, i suoi comparti, hanno preferito chiudere i rispettivi contratti nazionali manifestando la volontà di mantenere comunque una forte autonomia settoriale.

Inascoltata dal Governo sui voucher (come purtroppo tutte le organizzazioni datoriali), sta tentando di rimettersi in gioco lasciando intendere al Governo la possibilità di uno scambio tra l’aumento del’IVA e una riduzione del cuneo fiscale. Scambio che non farebbe bene al Paese.

Ma, al netto dei problemi specifici di Confindustria, questa difficoltà a rientrare in gioco per poter dare il proprio contributo propositivo al rilancio del Paese è un po’ di tutte le parti datoriali. E questo non è un bene di fronte alla accentuata debolezza della politica, alle sue divisioni e in un contesto internazionale profondamente mutato.

Se Atene piange, però Sparta non ride. Nel campo sindacale ciò che i contratti nazionali avevano prodotto di buono sul terreno dell’unità tra le diverse sigle confederali e con le rispettive controparti rischia di essere vanificato dalla divaricazione che pare inarrestabile tra la CGIL e le altre due confederazioni.

Il protagonismo messo in campo dal primo sindacato italiano è evidente. La “vittoria a tavolino” sui voucher è solo il primo segnale. È difficile non cogliere nei propositi di Susanna Camusso la volontà di approfittare della debolezza della sinistra politica (vecchia e nuova) per contribuire in modo determinante a ridisegnarne il campo.

La CGIL, come peraltro le altre organizzazioni sindacali, ha capito benissimo che nelle aziende il vento è cambiato profondamente. Tra i lavoratori c’è preoccupazione per il proprio futuro e per il contesto ma c’è voglia di dare il proprio contributo, di impegnarsi e di fare la propria parte nell’interesse dell’impresa e del lavoro.

C’è, in sostanza, voglia di collaborare, di investire su se stessi e nel rapporto con la propria azienda. Certo permangono situazioni di crisi, anche grave, dove i sindacati sono costretti in un ruolo tradizionale. Ma, queste realtà, non rappresentano la norma.

Non è un caso che i contratti nazionali si siano chiusi unitariamente e il dissenso presente nell’elaborazione delle differenti piattaforme è improvvisamente scomparso lasciando il campo ad una volontà convergente nelle singole categorie. Così come non è un caso che, proprio la CGIL, ha messo in campo una spinta decisiva per chiudere rapidamente i rinnovi e formalizzare gli accordi sulla rappresentanza e sui livelli della contrattazione.

A tutto questo, però, non è seguito nessun forte ridisegno dei rapporti unitari né la volontà di riprendere una iniziativa comune che rimettesse al centro un ruolo propositivo dell’insieme delle parti sociali. È un po’ come se l’obiettivo politico della CGIL di contribuire a ridisegnare in prima persona il campo della sinistra fosse comunque prevalente a tutto il resto e quindi necessitasse di sgomberare velocemente il terreno da tutto ciò che poteva in qualche modo ritardarne l’implementazione sociale. Contratti nazionali compresi.

È vero che CISL e UIL confederali sono in evidenti difficoltà sul piano dell’iniziativa generale ma nelle rispettive categorie la generosità e la disponibilità messa in campo sul terreno unitario faceva ben sperare. Vedremo le prossime mosse.

È chiaro che una CGIL che si dovesse caratterizzare sempre più come soggetto politico è comunque destinata, prima o poi, a entrare in rotta di collisione con l’insieme del sistema della rappresentanza. E questo non è un bene. È già successo in altri Paesi con un esito scontato.

Il vero problema è che una CGIL che si dovesse sottrarre per mero calcolo politico ad un ruolo unitario e di proposta con l’insieme del sindacato confederale propedeutico ad una convergenza tra capitale e lavoro commetterebbe un grave errore destinato ad essere pagato da tutto il Paese. Purtroppo i segnali di questi giorni non sono incoraggianti.

Signore, io sono Irish…

Un vecchio e indimenticato pezzo dei New Trolls negli anni 70 descriveva la domenica di uno schiavo nero che, dopo una durissima settimana impiegata a raccogliere il cotone, il giorno del riposo si trovava costretto a fare 60 miglia a piedi per andare e tornare dalla messa.

Allora la domenica aveva questo duplice scopo: riposare e dedicare a Dio, per i credenti, il settimo giorno. Riposare significava recuperare veramente le forze. E non metaforicamente. Da allora molte cose sono cambiate. Nel lavoro, nel vivere la propria religiosità e nel dare significato al termine “riposo”.

Per il lavoratore coinvolto in una particolare attività economica e per quello che, quel giorno, lo utilizza per trasformarsi anche in consumatore. Sul lavoro festivo, purtroppo, si va da un estremo all’altro.

L’outlet di Serravalle Scrivia, suo malgrado, rischia di trasformarsi in una sorta di linea di confine. Finirà come sempre. Da una parte la narrazione dei contrari al lavoro domenicale quasi esclusivamente sui media, dall’altra la realtà di migliaia di lavoratori/consumatori che, quel giorno, come in tutte le altre festività, affolleranno l’outlet per passare una giornata di festa magari con qualche acquisto.

Un outlet, un grande centro commerciale ma anche un supermercato dovrebbero essere aperti sempre. Soprattutto oggi dove i concorrenti sono del livello e dell’aggressività commerciale di Amazon o E Bay. Questi ultimi con negozi virtuali aperti tutto l’anno h 24 con saldi a getto continuo per tutto l’anno. Se non fossero frequentati anche nei giorni festivi non avrebbe alcun senso tenerli aperti. I costi di gestione sarebbero pesantissimi.

Domenica scorsa sono stato al “Centro” di Arese. C’erano decine di migliaia di persone. Famiglie, giovani, un po’ di tutto. Dal 1963 al 2005 c’era l’Alfa Romeo. Poi più niente. Sono cresciuto a due passi dal Portello a Milano. Anche lì fino al 1963 c’era l’Alfa Romeo. Poi il nulla. Il centro commerciale ha rivitalizzato il quartiere e trasformato un luogo degradato in un centro di incontri e di svago tutto l’anno.

A differenza di altre città Milano ha saputo interpretare bene il passaggio da città industriale a città del commercio e del terziario. Ha gestito con intelligenza le contraddizioni tra Grande e piccola Distribuzione. Ha assorbito gli inevitabili contrasti. Questo ha creato occupazione vera. Sopratutto per molti senza alcun titolo di studio, donne e giovanissimi anche provenienti da altri Paesi.

Occorrerebbe prendere atto che come la televisione si è trasformata negli anni in un antidoto alla solitudine per molti anziani questi centri sono diventati accoglienti, pieni di vita e luoghi frequentatissimi tutto l’anno. E non solo per fare acquisti. Negarlo o far finta di non vederlo è un errore.

O meglio è uno di quei residui di atteggiamento fine 900, un po’ snob, che comprende anche il giudizio sui Mc Donald’s, sulla Coca Cola, sul terziario in generale visto come ancillare rispetto ad un mondo che non esiste più. Personalmente poi, lo dico sommessamente,  provo un certo imbarazzo per tutti quei laici che si nascondono dietro il tema religioso esclusivamente per sollevare un inutile polverone..

Per centinaia di migliaia di persone lontane da questi dibattiti sono luoghi dove passare il tempo. Sarebbe ora di comprenderlo e guardare avanti. Anche perché il lavoro sarà sempre più terziario. Povero o ricco di contenuti che sia.

L’amico Giuseppe Sabella centra il problema quando invita a riflettere su di un punto: “Il lavoro futuro passa inevitabilmente per una nuova umanizzazione dei luoghi di lavoro. E, chiaramente, il lavoro festivo va pagato come tale.” Sono perfettamente d’accordo.

Per questo ci sono i contratti di lavoro che devono evolvere proprio perché il lavoro cambia. Aprire 360 giorni all’anno non significa lavorare tutto l’anno. Significa organizzare il lavoro e i riposi e retribuire il giusto. E il giusto lo si deve concordare  nei contratti di lavoro.

Ma il lavoro nel terziario resta profondamene diverso da quello industriale. Ruota intorno al servizio, non al prodotto. Si dice: “ma all’estero non è così”. È vero. Il tessuto distributivo degli altri Paesi e le regole sono diverse. Anche il tessuto industriale, però, è diverso.

Ogni Paese ha le sue regole, i suoi contratti di lavoro e una cultura commerciale differente. Si aggiunge: “C’è molto lavoro povero”. Si. Però  questo fornisce uno sbocco a migliaia di giovani, sopratutto donne che non proseguono gli studi e che possono entrare nel mercato del lavoro e crescere. E, assicuro i più scettici, la formazione messa a disposizione nella Grande Distribuzione è di notevole entità e qualità.

C’è molto da fare sul piano contrattuale. Certo che si. Verso il basso perché il fordismo è entrato nei centri di Distribuzione, nelle attività di consegna e nel lavoro povero della GDO e verso l’alto anche in quegli stessi o in altri settori. C’è da affrancarlo proprio dalla cultura fordista senza però dimenticare che molti di quei lavori saranno presto sostituiti da macchine o direttamente dai consumatori stessi.

Francesco Riccardi sull’Avvenire esagera quando scrive: “I sindacati – e in particolare la Cgil – hanno compreso da tempo, però, che in gioco non c’è tanto e solo una questione contrattuale su orari e retribuzioni, che si possono sempre negoziare, ma qualcosa di assai più prezioso: i diritti di ciascun lavoratore e di tutti…”.

Mi sembra francamente una esagerazione. Non credo che i sindacati si siano mai proposti di bloccare a Pasqua o in altri periodi, Gardaland, i parchi tematici o le multisale cinematografiche. Non c’è molta differenza e anche lì lavorano, pur nel rispetto dei loro diritti, migliaia di lavoratori del terziario.

A suo tempo Confcommercio pose il problema della regolamentazione delle aperture cercando di consentire alle Regioni uno spazio di manovra soprattutto quando, nel gennaio del 2012, entrò in vigore la riforma c.d. Salva Italia del Governo Monti, con la liberalizzazione totale degli orari di apertura, 24 ore giornaliere e 365 giorni l’anno.

Non ci fu nulla da fare. Né nessuno (anche di chi oggi protesta) disse nulla. Comunque Federdistribuzione conferma un aumento degli occupati significativo a seguito della liberalizzazione. Che di questi tempi, non credo sia comunque da sottovalutare.

Sgravi contributivi per i giovani. Perché ripetere l’errore?

S. Agostino ci ricorda che  “Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere”. È in quel insistere per “superbia” che sta l’errore vero (allora come oggi).

Nel prossimo Def (Documento di Economia e Finanza) ci saranno (così scrivono i giornali) sgravi contributivi riservati ai giovani con meno di 35 anni di età che vengono assunti per la prima volta con un contratto di lavoro stabile.

Sul piatto, per questa misura, ci dovrebbe essere circa un miliardo di euro l’anno. Confindustria, dal canto suo, è soddisfatta anche se questo potrebbe avere, come conseguenza, un aumento dell’IVA.

Sia chiaro, l’idea di ridurre il cuneo fiscale (a tutti) è corretta. Anzi, dovrebbe essere salutato come un atto dovuto. E non solo per i giovani. Raccontare però che, in questo modo, si contribuisce a ridurre la disoccupazione giovanile, soprattutto là dove ha raggiunto livelli di assoluta intollerabilità è un errore che rischia di portare con sé conseguenze molto negative.

Da un lato, tutti hanno capito che i 18 miliardi della decontribuzione renziana non hanno funzionato perché senza ripresa economica non si crea occupazione stabile e che, addirittura, anche in presenza di una inversione di tendenza, non sarà certo l’industria a creare occupazione.

Dall’altro, si persevera nello spingere gli imprenditori ad assumere, incentivando alcune tipologie, cercando di forzare, così, le loro esigenze. Scettiche le reazioni (non solo) della Cgil che ricorda: «sono già stati dati 18 miliardi con la decontribuzione Renzi senza grandi risultati. Meglio sarebbe investire su di un piano straordinario di lavoro per i giovani».

Personalmente non sarei così sbrigativo nel respingere al mittente questo approccio. L’intuizione della CGIL non è sbagliata. Il punto vero è, ancora una volta, decidere se siamo o meno di fronte ad un’emergenza nazionale o se il Governo chiede (semplicemente) ad una parte sociale un atto di generosità nei confronti di un segmento della popolazione.

Se non è così occorrerebbe decidere chi è il soggetto vero dell’intervento (i giovani e il loro futuro o solo il loro costo per le imprese) e agire di conseguenza. La Regione Emilia Romagna, dal canto suo, ha predisposto fin dal 2012, un piano interessante concordato con l’insieme delle parti sociali.

Oggi abbiamo i primi risultati. Per quanto riguarda il “Fondo per l’assunzione e la stabilizzazione” sono stati erogati 2463 incentivi sia per nuove assunzioni che per conferme a tempo indeterminato. Attraverso il “Fondo apprendistato” sono stati finanziati 27 mila percorsi formativi. Con il “Fondo fare impresa” sono stati finanziati 283 voucher che hanno consentito, al termine dei percorsi, al 60% dei giovani di avviare un’attività. Infine è stato predisposto un “Fondo giovani” (30/34 anni) per finanziare percorsi individuali di formazione, prevalentemente dentro le imprese, finalizzate a far acquisire competenze utili al loro percorso professionale.

Un approccio, come si può vedere, molto diverso. Soprattutto una assunzione di responsabilità molto diversa da parte di tutte le componenti sociali, istituzionali e formative della regione. Il messaggio forte che esce da queste prime valutazioni è di aver ottenuto un risultato parziale, certo modesto ma utile.

Ciascuno lo difenderà, si predisporrà per migliorarlo ulteriormente, per renderlo ancora più funzionale. Non si scateneranno inutili polemiche, né ci saranno trasmissioni televisive, indagini, pallottolieri che narreranno una realtà lontana dal Paese reale.

Ed è per questo che ho ricordato che più che ripetere l’errore è la superbia nel ricommetterlo dove sta il vero male. Oltre che nell’inutile spreco di risorse.

Il piano Calenda e il rischio di sottovalutare il lavoro…

Per Rachel Botsman non ci sono dubbi. Lo ha scritto nel suo libro What’s Mine is Yours che è uno dei testi di riferimento della sharing economy: il potere della collaborazione e la fiducia, cambieranno il nostro modo di lavorare e consumare.

Cambieranno il modo di pensare ai brand e ai prodotti, le esperienze e i comportamenti sia dei consumatori che del lavoro. L’economia in generale e quindi le aziende, lo dicono ormai tutti, saranno caratterizzate sempre più da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità.

In questo contesto la collaborazione diventa una inevitabile strategia di sopravvivenza. Difficile cavarsela da soli. Quindi l’impresa collaborativa sarà, per sua natura, più competitiva.

Deve saper costruire un modo di rapportarsi nuovo all’esterno con clienti, fornitori, partner, reti, ecc. e, all’interno con i propri collaboratori. Nel rapporto Technology vision 2015, Accenture analizza le tendenze tecnologiche destinate ad affermarsi nei prossimi anni e mette come centrale il cambiamento in atto verso la “We Economy”.

Aziende che fanno sistema e non opereranno più come singole entità ma amplieranno i confini tradizionali del proprio business entrando in contatto con altre realtà dando così vita a nuovi ecosistemi digitali collaborativi.

Da un’indagine globale condotta su oltre 2000 dirigenti aziendali e responsabili IT è emerso che quattro intervistati su cinque pensano che in futuro i confini tra settori saranno sempre più sfumati e le piattaforme digitali li trasformeranno in ecosistemi interconnessi tra di loro. Saper operare in questo modo e non invece come singole entità aziendali farà la differenza in termini di business.

Per i manager la sfida è quella di saper convivere e interagire con questi ambienti sapendo estrarre e interpretare da essi il massimo dei segnali, anche contraddittori, che il sistema produce dotandosi di un mix di competenze specialistiche, di capacità manageriali e, ovviamente, digitali.

Ma questo vale anche per i lavoratori che devono investire, sulle proprie capacità e competenze in un mondo che tende a renderle velocemente obsolete, sull’uso efficace del loro tempo e su nuovi strumenti di relazione e di comunicazione.

Per questo il piano Calenda dovrebbe essere accompagnato da un’ambizione maggiore sia sul terreno del coinvolgimento dei corpi intermedi che sul tema del lavoro quindi non può non avere anche un marcato risvolto innovativo sul terreno sociale oltre che economico. I contratti di lavoro firmati sono già andati più avanti.

Anche delle modeste ambizioni di chi vorrebbe far coincidere il proprio perimetro associativo con il tutto. Non è un caso che industry 4.0 è nato e decollato in Germania dove hanno saputo inserirlo in un contesto sociale e collaborativo molto più avanzato.

La scommessa che abbiamo di fronte è proprio questa. Aver promosso un importante rinnovamento dei contratti di lavoro e le relazioni sindacali e aver investito sul welfare e la formazione continua non servirà a nulla se non inserito in questa prospettiva.

Adesso occorre contribuire al decollo dell’ANPAL per dotare il Paese di politiche attive efficaci e, attraverso l’alternanza, far collaborare il mondo della scuola e del lavoro in modo più consapevole. Sarebbe singolare che un profondo processo di innovazione delle imprese e del lavoro non colga l’esigenza di coinvolgere in modo sostanziale chi lo rappresenta.

Il “patto di fabbrica”, l’adozione di modelli che sviluppino la corresponsabilità e la collaborazione non si creano assegnando ruoli da comprimari ai soggetti in campo che, al contrario, devono esserne protagonisti consapevoli. Certo non sarà un lavoro facile perché permane, in una parte del mondo del lavoro, una cultura legata a quel “breve quanto irripetibile periodo” del novecento che fatica a credere nel cambiamento e nell’innovazione.

Ma questa non può essere una scusa per evitare il confronto. Né può essere lasciato confinato alle scadenze naturali dei contratti spostando sempre più in avanti l’esigenza di cambiamento delle relazioni sindacali del nostro Paese anche perché, il tempo, non è una variabile infinita a disposizione.

Il rischio che un nuovo protagonismo sindacale, se non trova sbocchi e interlocutori sul terreno della condivisione del futuro del lavoro e dell’impresa ripieghi su se stesso, è molto forte.

Questa deve essere la sfida che la Politica deve saper mettere in campo fin da subito e che, le parti sociali, devono essere pronte a cogliere in positivo.

Il curriculum e le iperbole del Ministro. Calcetto a chi?

Le iperbole del nostro Ministro del Lavoro, prima sui giovani che sono emigrati, poi sui curricula rischiano di superare, in popolarità le metafore di Bersani. Deve esserci, a sinistra, una gara non dichiarata a chi sa farsi più del male. Gara nella quale Giuliano Poletti è decisamente in testa. I problemi che solleva non sono, però, mai banali.

È banale, semmai, la loro rappresentazione ad un Paese che vive quei problemi sulla propria pelle. Il curriculum sta al lavoro come un qualsiasi “gratta e vinci” sta alla ricchezza. Purtroppo è vero.

Ma, giocare a calcetto, come propone il Ministro non è un’alternativa utile. Dentro un curriculum ci sono le speranze e le aspettative di chi lo scrive. C’è la sua autostima, la volontà di misurarsi sul mercato, di dimostrare le proprie qualità.

Spesso il protagonismo raccontato è esagerato e il linguaggio è incerto o incomprensibile. Ci si dimentica che un CV è scritto per chi, forse, lo leggerà. Lo scopo è suscitare curiosità e interesse. Non presentare la propria autobiografia personale e professionale completa.

Centoquarantaquattro milioni di curricula certificati sono girati nel 2016. Il tempo di lettura varia da 6,5 secondi a 20 secondi per quel 5/10% di essi che verrà letto da qualcuno. Difficile essere notati.

Tra l’altro, in Italia il mercato è dominato dal passa parola, dalla segnalazione o raccomandazione. Non necessariamente da intendere nella sua accezione negativa. A scuola non insegnano a scrivere un CV e nelle aziende, purtroppo, non sempre insegnano a leggerlo.

Un curriculum di trent’anni di lavoro non dovrebbe mai superare le due pagine e tutto ciò che riguarda esperienze precedenti ai 3/5 anni è di scarso interesse, per chi legge. Risultati raggiunti, contributi personali, scacchi subiti e ripartenze dovrebbero costituirne l’intelaiatura principale.

Per un giovanissimo più di ciò che ha fatto, meglio raccontare brevemente come e perché lo ha fatto. Ma un CV, pur scritto bene, senza un network sviluppato per tempo serve a poco.

E il network si sviluppa a scuola, sui social, partecipando ad iniziative, facendo sport o volontariato, mantenendo relazioni positive negli anni con i capi e colleghi di lavoro. Farsi conoscere e apprezzare è fondamentale.

E questo non lo si ottiene senza un impegno costante e continuativo non dimenticando mai che l’obiettivo di un curriculum non è ottenere lavoro ma è ottenere uno o più colloqui. Quindi è meglio essere sempre se stessi utilizzando un linguaggio consono.

Chi legge, se è in azienda, sa bene cosa gli hanno detto di cercare. Conosce i valori dell’azienda, la sua organizzazione, pregi e difetti di chi sarà il futuro capo, e del team. Può anche permettersi di sbagliare scartando un ottimo CV sapendo che nessuno se ne accorgerà mai. Chi scrive non sa quasi nulla di tutto questo. E spesso manco si informa.

È un campo dove, tra l’altro è difficile innovare. Però c’è chi può fare di più. La scuola, certamente, avvicinandosi di più al mondo del lavoro, inserendo nei propri programmi la scrittura del CV e il colloquio di lavoro. Magari chiedendo alle aziende del territorio di essere parte attiva sfruttando l’opportunità offerta anche dai percorsi di alternanza.

Le agenzie per il lavoro potrebbero attivare un canale di supporto in questa direzione, le stesse società di outplacement che più di altre conoscono bene il lavoro necessario per far riflettere le persone sul loro percorso e su come presentarlo. Si può fare molto.

L’unica cosa che non si deve fare è banalizzare un tema e una strumentazione che, per quanto criticabili e poco efficaci, rappresentano il mezzo con cui le persone, in perfetta solitudine, cercano di affrontare un mercato del lavoro sempre più complesso.

Le gaffes di cui si rendono protagonisti ministri e vice ministri del lavoro in carica sono sempre più frequenti e dovrebbero far riflettere, più che suscitare ironia, in un Paese normale. Altrimenti il “calcetto” dovrebbe essere riservato a chi fa queste battute.