Carta dei diritti o Carta delle opportunità?

La mia personale critica alla “carta dei diritti” propugnata dalla CGIL parte da alcune considerazioni di fondo. Innanzitutto la visione del mondo del lavoro.

È vero che nel nostro Paese permangono ingiustizie profonde. Un terzo della nostra economia sprofonda nel sommerso e sfugge a statistiche e analisi approfondite.

Il lavoro nero è una piaga affatto ridimensionata e la presenza di un tessuto di micro imprese può certamente impedire o rallentare l’affermarsi di una cultura condivisa dei diritti e dei doveri.

Ed è evidente che i contratti nazionali non sono sufficienti a governare questi fenomeni o a far crescere una cultura della responsabilità e del rispetto reciproco. La stessa globalizzazione (sia quella in crisi di identità che quella che si affermerà comunque) impone la definizione di veri e propri diritti di cittadinanza che siano disponibili per tutti indipendentemente dalla dimensione dell’impresa o dalla tipologia del rapporto di lavoro. Diritti che dovrebbero essere condivisi da chi opera sullo stesso mercato. Lo slogan: “stesso mercato, stesse regole” dovrebbe valere per tutte le componenti coinvolte. Anche per il lavoro.

Ma è da qui in avanti che la “carta dei diritti” disegna una realtà surreale perdendosi in un oceano di vincoli che non c’entrano nulla con i diritti di cittadinanza. Innanzitutto la qualità del rapporto di lavoro nelle aziende che applicano un contratto nazionale è infinitamente migliore rispetto al periodo dove fu necessario introdurre nella nostra legislazione lo Statuto dei lavoratori. Nella visione della CGIL sembra, al contrario, addirittura peggiorata.

Oggi il diritto al lavoro si sostanzia concretamente con il diritto all’impiegabilità. Nella “carta dei diritti” questo aspetto non esiste. Esiste il rapporto di lavoro, la sua qualità e le norme che lo dovrebbero sostanziare nella singola azienda e nel rapporto con l’imprenditore. Il mondo di riferimento che permea quella cultura è il luogo di lavoro, non il mercato del lavoro. Quindi un tentativo di cristallizzazione dell’esistente.

Non c’è nulla di significativo sul fatto che il lavoro si ottiene e si perde molto diversamente che in passato. Che la tipologia dello stesso può variare nel tempo e che crescere o decrescere nella stessa azienda o sul mercato è fisiologico. Soprattutto che si resta sul mercato per molti più anni e quindi in una situazione di oggettiva fragilità.

La competizione così come i mercati sono globali, le imprese sono inserite in filiere internazionali dove le regole del gioco non vengono decise in un singolo Paese. Giocare in difesa creando vincoli in un solo Paese significa solo spingere le imprese ad aggirare l’ostacolo con conseguenze facilmente immaginabili.

Diverso sarebbe accettare la sfida puntando decisamente verso una cultura della collaborazione, della condivisione dei rischi e, ovviamente, dei benefici. Quindi puntare decisi verso un contesto che offra opportunità.

Opportunità, ad esempio, di crescita professionale conseguente a sistemi di valutazione e sviluppo concordati, di gestire le proprie transizioni lavorative tra un’attività e un’altra, di definire, anche tramite i propri rappresentanti, i livelli di coinvolgimento e partecipazione sugli obiettivi dell’azienda, di poter contare su di un welfare contrattuale robusto e moderno, di aver garantito, anche attraverso un sistema bilaterale efficace ed efficiente, un contesto di rispetto del proprio lavoro, dei propri diritti ma anche dei propri doveri.

Purtroppo la “carta dei diritti” da per scontato che tutto ciò non è possibile. O meglio che tutto ciò addirittura sarebbe ottenibile solo affidando ad altri (un giudice terzo che di lavoro e della sua evoluzione in corso non ne capisce nulla), l’interpretazione di un avverbio, di un contesto lavorativo, di una situazione.

La mia sensazione è che una parte del sindacato preferisca rinchiudersi in una sorta di “Fort Alamo” dove una generazione, la mia, preferisce riconoscersi nei gesti, nelle parole e nelle convinzioni di sempre anche se tutto questo dovesse essere sempre più estraneo a dove sta andando il mondo del lavoro e dell’impresa.

Oltretutto questa deriva rischia di interrompere un percorso di confronto e avvicinamento non solo tra organizzazioni sindacali ma anche nel rapporto e di confronto con il mondo delle imprese e delle loro rappresentanze.

L’accoglienza favorevole degli iscritti FIOM di un contratto nazionale complesso e innovativo, così come quella dei lavoratori delle imprese non sindacalizzate dovrebbe far riflettere sulle traiettorie sulle quali le rappresentanze dei lavoratori e delle imprese dovrebbero impegnarsi con maggiore convinzione. Purtroppo il tempo a disposizione non è molto.

I sindacati tra tattiche e strategie..

La chiusura unitaria del CCNL dei metalmeccanici ha segnalato un dato importante. Dove più acuta era la crisi di rapporto tra le diverse organizzazioni sindacali (e la rispettiva controparte) il lavoro di ricucitura messo in campo dai rispettivi protagonisti è stato più costruttivo e convincente che altrove.

Il fatto segnala indubbiamente una maturità e una visione che i lavoratori, soprattutto quelli più vicini alle rispettive organizzazioni sindacali, non hanno mancato di apprezzare.

Proporre, come chiave di lettura, una FIOM consenziente perché militarizzata e quindi dipendente dai voleri di Maurizio Landini come ha fatto Giuliano Cazzola mi sembra francamente esagerato anche perché tenere in una perenne tensione inconcludente una organizzazione sindacale e i suoi militanti può funzionare con un COBAS di modeste dimensioni non con una grande organizzazione che comunque fa parte della CGIL.

Il contratto dei metalmeccanici non è affatto sbilanciato a favore delle imprese. Contiene impegni, costi, soprattutto futuri, che vanno ben al di là di di quanto un’associazione di imprese ha mandato di sottoscrivere se non in una fase di riorientamento strategico delle relazioni sindacali, dei ruoli della contrattazione e del futuro dell’intero sistema.

C’è un equilibrio sostanziale che rappresenta una indubbia particolarità in un contesto dove le piattaforme sindacali, pur preparate con cura, si sono infrante contro muri datoriali sempre meno disponibili.

Gli impegni contenuti e la gestione dello stesso contratto ne marcheranno il cammino, lo collocheranno nella giusta dimensione e ne consentiranno una giusta valutazione solo alla fine del percorso concordato tra le parti.

Modalità di partecipazione dei lavoratori alla crescita e allo sviluppo delle loro imprese, ruolo della contrattazione aziendale, revisione dell’inquadramento, formazione dei lavoratori come diritto soggettivo, sicurezza sul lavoro, solo per citare alcuni temi rilevanti, costituiscono una base di confronto di notevole contenuto e spessore. Ed è su questo che si chiariranno i confini dentro il quale il cosiddetto “Patto di fabbrica” troverà o meno uno sblocco plausibile e concreto. Oppure resterà solo sulla carta. Ed è per questo che il percorso di confronto tra i massimi organismi di FIM, FIOM e UILM avviato oggi è molto importante.

Non va però sottovalutato, che tutto questo avviene in un contesto di relazioni tutte da ricostruire tra le diverse organizzazioni sindacali sia in categoria che a livello confederale.

Innanzitutto in categoria dove le tendenze egemoniche della FIOM, che si sono manifestare fortunatamente solo nel rinnovo del contratti minori o in periferia, non sembrano destinate a rientrare facilmente nonostante l’impegno di tutte le segreterie nazionali.

Così come in FCA dove, sempre la FIOM, non segnala alcuna volontà concreta di “redenzione” quasi come continuasse ad attendere la realizzazione della profezia negativa evocata con una certa ossessione in tutti questi anni che ha trasformato Maurizio Landini in una sorta di Voldemort della saga di Harry Potter che, temendo di essere sconfitto da un bambino nato da poco, tenta di ucciderlo, continuando ad attaccarlo fino a quando, almeno nella saga è lui ad essere sconfitto definitivamente.

Per non parlare della carta dei diritti proposta dalla CGIL che, pur rappresentando un interessante punto di osservazione di una possibile evoluzione del mondo del lavoro non ha nulla che la possa mettere in relazione con il disegno strategico concordato con Federmeccanica nel dettato contrattuale dei metalmeccanici appena firmato se non sui principi generali. O con quanto ipotizzano tutte le organizzazioni datoriali per rilanciare il lavoro e favorire la ripresa.

Infine il referendum con la sproporzione evidente tra i contenuti rimasti sul tappeto e le conseguenze politiche e sociali che potrebbe innescare. Conseguenze che solo un sindacato unito su proposte chiare potrebbe evitare. Ultimi ma non ultimi gli imminenti congressi sindacali con tutte le tensioni e i nervosismi tipici delle stagioni riservate alla riproduzione.

Segnali a volte difficili da decifrare o da interpretare per un osservatore esterno soprattutto perché le tattiche e i segnali trasmessi rischiano di prevalere sulle necessarie strategie da mettere in campo.

D’altra parte le difficoltà della Politica sono evidenti. Così come sono altrettanto evidenti le difficoltà di una sinistra sociale che fatica a rientrare in campo perché insiste su un’idea di lavoro sempre più difficile da realizzare quindi lontana dalle esigenze del Paese e dalle urgenze delle nuove generazioni. E, come già sottolineato, sempre più lontana dalle disponibilità delle imprese e delle loro organizzazioni di rappresentanza.

Il rischio è di abbandonare la strada della concretezza e della contrattazione tipiche del sindacato per rifugiarsi nella pura testimonianza.

Ed è su questo, sulla comprensione del contesto e delle risposte che solo il confronto tra sindacati e con le rispettive controparti può determinare, che la differenza tra espedienti tattici e visione strategica chiarirà il ruolo che i gruppi dirigenti dei sindacati, confederali e di categoria ma anche di tutti i corpi intermedi, vorranno giocare nei prossimi mesi e che ne segnalerà il possibile rilancio o il declino. I segnali, purtroppo, sono ancora abbastanza contraddittori.

Ristrutturazioni aziendali e responsabilità da condividere.

Se per quanto riguarda una qualsiasi attività produttiva è possibile ipotizzare una sua riconversione non è così per un punto vendita della GDO. Soprattutto se di grandi dimensioni.

Se il fatturato non è adeguato il negozio, piccolo o grande che sia, va chiuso. Più tardi lo si fa, peggio è sia per la redditività complessiva dell’azienda ma anche per i lavoratori.

La reazione del sindacato, in questi casi, è generalmente pavloviana. Sanno tutti benissimo che non ci sono alternative e che la procedura non andrà oltre i 75 giorni ma nessuno se la sente di proporre altro, oltre a qualche ora di sciopero che, nella maggioranza dei casi, non serviranno a nulla.

Le parti sociali nel nostro Paese sono in grado di gestire qualsiasi situazione meno la più grave: il licenziamento. Se stiamo all’ultima vicenda in ordine di tempo e che coinvolge una grande multinazionale francese il comunicato della Filcams CGIL recita: “Le argomentazioni dell’impresa hanno portato ad evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il costo del lavoro e la redditività dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati”.

Motivazioni chiarissime. Ma per evitare un giudizio di merito il comunicato conclude con: “Le informazioni declinate dall’impresa sono risultate generiche e improvvisate”.

Si preferisce quindi addossare le colpe all’azienda, pronunciando frasi di rito, proclamando lo stato di agitazione e lasciar passare il tempo. L’azienda, dal canto suo, sa che questo è il prezzo da pagare. Un dialogo tra sordi.

Così come i trasferimenti di sede o di attività. Le aziende devono essere sempre attente ai costi. Ottimizzano strutture, semplificano gli organigrammi, concentrano attività.

Giampiero Castano, coordinatore dell’unità del ministero dello Sviluppo economico per la gestione delle vertenze delle imprese in crisi, ed ex sindacalista, insinua che queste operazioni possono nascondere la volontà di ridurre il personale. Non è così.

Due unità produttive sottoutilizzate o sovradimensionate sono entrambe a rischio. Concentrare le attività in una sola consente di gestire meglio i servizi comuni, gli affitti dei siti e determinare migliori sinergie. Molte sedi direzionali saranno a rischio nei prossimi anni. Così come molti siti produttivi.

L’insegnamento da trarre in queste vicende è se esistono o meno alternative di gestione e quindi se le parti sociali anziché agire o reagire passivamente, pur nel rispetto di leggi e contratti, sono in grado di assumere iniziative, individuare strumenti specifici, studiare formule di accompagnamento perché come sostiene Fabio Savelli, a commento di un ottimo articolo di Rita Querzé sul Corriere di oggi, “il proprio lavoro lo si salva solo spostandosi”. Su questo, fortunatamente, non partiamo da zero. In alcune categorie si stanno sperimentando opzioni interessanti. Però non ancora unitariamente.

È chiaro che per i singoli colpiti da un licenziamento la strategia del “il posto di lavoro non si tocca…” oggi non funziona più. Al massimo funziona nella prima parte della procedura. Poi scatta il “si salvi chi può”. Gli attuali ammortizzatori sono studiati per lasciare, di fatto, la persona sola con il suo problema.

Strumenti quali, il trasloco, la differenza sul costo di affitto, i distacchi temporanei, un interlocutore per le pratiche burocratiche, un supporto sui servizi sociali (scuola, sanità, relazioni, ecc.) e sulle modalità dell’inserimento lavorativo sarebbero molto più importanti se gestiti insieme dall’azienda e dai rappresentanti sindacali. Nelle aziende di cultura francese alcune di questi aspetti vengono gestiti attraverso il cosiddetto “plan social”.

Un insieme di strumenti che devono consentire al lavoratore licenziato di rimettersi in gioco. Ma con una assunzione di responsabilità anche dell’azienda che lo licenzia.

Nelle riflessioni sulle politiche attive il tema sulle concentrazioni di attività, sui trasferimenti intergruppo, i distacchi presso terzi, le nuove opportunità interne e la formazione aziendale necessaria e, non ultimo, tutti gli strumenti alternativi al licenziamento dovrebbero trovare la possibilità di approfondimento indispensabile.

Oggi il lavoro si perde e si trova dove c’è. Dare per scontato che quando lo si perde in un’azienda, lo si può trovare solo fuori e da soli non è così scontato. Almeno occorrerebbe crederci, superare i pregiudizi ideologici e provare ad individuare soluzioni percorribili.

Aziende industriali, contratto del terziario…

Secondo i dati più recenti citati da Rita Querzé sul Corriere di oggi un terzo delle aziende iscritte ad Assolombarda (Confindustria) applica il contratto del Terziario firmato da Confcommercio.  E questo non da ieri.

Quindi l’idea sottesa nel cosiddetto “patto di fabbrica”, proposto dal Presidente Boccia ai sindacati confederali, sulla necessità di sviluppare una contrattazione nazionale specifica di produzione  confindustriale su industry 4.0 c’entra fino ad un certo punto.

La ragione della scelta delle imprese è molto semplice. Nel comparto manifatturiero i contratti sono settorializzati quindi risentono delle differenti culture (sempre di stampo fordista) prodotte nei differenti comparti merceologici. E questo crea, costi diretti, indiretti e vincoli organizzativi.

Nel terziario il contratto è uno solo. Da sempre. Costruito proprio per potersi adattare a settori molto diversi tra di loro. Quindi molto lasco. Questo lo rende decisamente più moderno, gestibile e modellabile su misura di esigenze specifiche o particolari.

Le aziende generalmente badano al sodo. Lo stesso sistema bilaterale costruita intorno al welfare aziendale ha bisogno di masse critiche rilevanti e di una cultura della flessibilità e del bilateralismo che non si improvvisa né nelle associazioni datoriali, né nei sindacati.

Qualche esempio. Nel CCNL del terziario, orari e organizzazione del lavoro hanno, come obiettivo principale, il soddisfacimento del cliente e l’adattabilità al mercato. Non è così nei comparti industriali dove al centro, che lo si voglia ammettere o meno, c’è ancora il prodotto e chi lo produce.

Il diritto soggettivo alla formazione giustamente sottolineato da tutti come rilevante nell’ultimo contratto dei metalmeccanici, è presente nel contratto dei dirigenti del terziario già dal 1994. Così come, dallo stesso anno, per i Quadri che sono nel CCNL dei lavoratori del terziario. La formazione è centrale ed è diffusa a tutti i livelli, il welfare sanitario copre già oltre un milione e mezzo di lavoratori. 

Infine se pensiamo alla implementazione di una nuova attività, la fase di test di un prodotto o di un servizio e la loro relazione con il lavoro necessario sia in termini di costo, durata, qualità e inquadramento ci rendiamo conto della profonda differenza  tra i differenti modelli contrattuali e quello del terziario.

La stessa Federdistribuzione, nel suo tentativo di uscita dal CCNL del terziario (in corso da oltre due anni), vorrebbe mantenerne la flessibilità, gestire autonomamente parte (non tutta) della bilateralità, e pagare ancora meno i lavoratori di quanto stabilito nel CCNL firmato da Confcommercio. Operazione non facile da realizzare e soprattutto che rischia di innescare una inevitabile fase di dumping pericolosa per tutto il comparto spinto ad una infinita gara al ribasso con risultati immaginabili per i lavoratori coinvolti.

Nel comparto industriale i metalmeccanici hanno appena concluso un contratto propedeutico anche ad industry 4.0. Come può pensare Confindustria di costruire un “patto di fabbrica” che prescinde da questa realtà consolidata? E con chi? Che cosa è il CCNL dei metalmeccanici se non la base per il “patto di fabbrica”?

Tempo fa Marco Bentivogli prospettava la costruzione di un sindacato industriale di nuovo conio, in grado di valorizzare la manifattura sul piano della difesa degli interessi nazionali del settore e dell’evoluzione del lavoro sia nei contenuti che nel rapporto con l’impresa. Quella, credo, resta l’unica strada praticabile.

Le organizzazioni di rappresentanza, datoriali e sindacali, devono rendersi conto che il problema non è come recuperare le aziende o i lavoratori sotto le proprie insegne con operazioni di semplice presidio dell’offerta di servizi. O di concorrenza tra sigle. Altrimenti si aprirà ad una fase incontrollabile di dumping contrattuale.

Il tema centrale è quale rappresentanza è, e sarà, funzionale alle imprese e ai lavoratori in un mondo globalizzato.

Il 900 ha costruito intorno alla manifattura fordista una ideologia è un modello organizzativo e contrattuale prevalente che si è esteso a tutti i settori. Quel modello è in declino.

Probabilmente, nel privato, servirà puntare decisamente verso un modello contrattuale nazionale più leggero costruito intorno a 3 comparti principali: terziario, industria, agroalimentare con contrattazione aziendale, territoriale o di comparto collegate.

Il punto è se i corpi intermedi saranno in grado di comprendere che il futuro non è nella competizione organizzativa sull’esistente ma nell’individuare cosa, imprese e lavoratori, hanno bisogno nella transizione verso il nuovo paradigma economico e sociale e di come metterlo loro a disposizione.

È lì, è solo lì, che chi avrà  più tela da tessere….

Scuola e impresa: due mondi che si possono parlare.

Dunque l’Anpal comincia a fare sul serio.

L’idea di formare un migliaio di nuove figure professionali specializzate nell’avvicinare il mondo della scuola a quello dell’impresa è importante e per questo fa bene Di Vico sul Corriere a sostenerla.

Oggi questo rapporto non funziona, se non sporadicamente e solo grazie alla autorevolezza individuale di alcuni professori. Nella stragrande maggioranza dei casi sono mondi che non comunicano tra di loro. Non comunicano per diverse ragioni e non tutte per responsabilità della scuola.

Nel progetto “fermenti vivi” lanciato anni fa nel Gruppo Danone a livello internazionale i giovani neolaureati godevano di un periodo di inserimento congruo, strutturato a 360 gradi, con sistemi di assessment in entrata, tutoraggio e valutazione delle competenze acquisite. Lo stagiaire era ritenuto un investimento e non un tappabuchi semi gratuito e sostitutivo di una richiesta di assunzione vera non andata a buon fine.

Fortunatamente ci sono anche oggi numerose aziende che investono sui giovani ma occorre considerare che molti dei passaggi auspicabili nelle fasi di inserimento di un giovane abbisognano di forme di tutoraggio e di gestione non presenti dappertutto.

Per questo è molto importante il coinvolgimento a monte delle imprese anche attraverso le loro associazioni di rappresentanza per costruire progetti specifici, definire priorità e modalità di relazione con le scuole stesse, di coinvolgimento dei titolari o dei manager delle imprese che potrebbero essere interessate in attività di presentazione nelle scuole coinvolte o da coinvolgere.

Un giovane che non è mai stato in un’azienda ha bisogno di almeno sei mesi per capire dov’è. E di almeno altrettanti mesi per essere utile e cominciare ad acquisire le competenze e le capacità necessarie a relazionarsi con il contesto. E questo se può contare su punti di riferimento precisi. Almeno in una realtà non tayloristica.

Per questo sono auspicabili tutti quegli interventi che, prima dell’inserimento, consentano ad un giovane di conoscere il contesto, le persone con cui ci si relazionerà, i valori, la cultura e le sfide su cui quell’azienda specifica ingaggia e valuta i propri collaboratori. L’azienda non è un “postificio”, non garantisce nulla, offre un’opportunità. Questo deve essere molto chiaro ad un giovane.

Il principale lavoro del tutor sarà proprio quello di spiegare loro che entrare in un’azienda non è un punto di arrivo, oggi. È una occasione che va messa a profitto fino in fondo.

L’impegno messo fino a quel momento nello studio e la possibilità di affrancarsi dalla propria famiglia, soprattutto in termini economici, costituiscono il carburante necessario a mettersi in gioco.

Sapere che c’è una figura intermedia che aiuta a superare i problemi pratici ma anche di inserimento e adattamento è importantissimo. Sostenere questo percorso è un dovere che riguarda tutti.

E del CNEL, cosa ne facciamo?

Di tutti gli argomenti proposti nel referendum stravinto dal NO, quello sul CNEL era l’unico dov’è tutte le parti in causa ne auspicavano la soppressione.

L’operazione, tra l’altro, era già iniziata con lo spostamento di parte dei dipendenti, la promessa al CSM della sede e le dimissioni di molti consiglieri. L’esito del referendum pone evidentemente un problema.

Cosa fare di un organo costituzionale nel quale nessuno ha creduto più di tanto per decenni. Un dato mi sembra inequivocabile. Tra l’intenzione dei costituenti e la pianta ormai appassita che avrebbe dovuto essere abolita con il referendum il salto logico è enorme.

L’art. 99 della Costituzione recita: “Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa.
E’ organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.”

I costituenti non avevano affatto pensato a quel simbolo dello spreco di risorse pubbliche che nel tempo il CNEL ha dimostrato di essere ma a qualcosa di importante, utile al Paese perché in grado di portare la voce e le proposte dell’Italia che lavora e produce integrandole, in un contesto di democrazia rappresentativa, al Parlamento.

Un ruolo, a mio parere, ancora più importante oggi dove la distanza tra il Paese reale e le sue rappresentanze è sicuramente aumentata. Una cosa però è certa.

Questa ridefinizione del ruolo dell’istituto non può essere lasciata a chi oggi ne occupa ancora qualche vecchia e traballante poltrona. Leggere che Presidente e vice Presidente rimasti in carica stanno autonomamente presentando ad altri organi costituzionali proposte di autoriforma rende ancora più triste l’epilogo di un fase che va, al contrario, prontamente chiusa.

Il compito di ridisegnarne i nuovi confini non spetta a loro. Spetta alle organizzazioni delle imprese, del lavoro e del volontariato. Personalmente spero se ne facciano carico presto.

Auspico tre caratteristiche fondamentali. Innanzitutto il CNEL dovrebbe diventare un luogo di elaborazione, di confronto e di proposta comune sui temi del lavoro. I componenti dovrebbero essere pochi, non pagati essendo retribuiti dalle rispettive organizzazioni, soprattutto di alto livello e realmente rappresentativi della loro parte.

Dipendesse da me metterei anche qualche vincolo sull’età dei consiglieri e sulla loro provenienza perché di tutta questa gente che ripete a pagamento le stesse cose da almeno quarant’anni non se ne può più. Ma questo so che resterà solo un pio desiderio.

Spazio alle imprese, ai manager, al lavoro. Alla cultura della partecipazione e del confronto. Luogo di certificazione della contrattazione e dell’innovazione sociale e organizzativa. Un luogo vivo, vivace e strategico per il Paese.

Stiamo vivendo anni decisivi per il futuro del lavoro. Pensare di creare un luogo riconosciuto dove i corpi intermedi si possano impegnare positivamente e costruttivamente insieme per il bene del Paese e senza pretendere nulla in cambio mi sembrerebbe un buon viatico.

Non solo per un nuovo CNEL.

Voucher e FCA viaggiano insieme.

Pedretti, segretario generale dello SPI CGIL, è una persona equilibrata. Nell’intervista al Corriere dimostra quella pacatezza e quella lungimiranza che solo chi ha cominciato a lavorare a 15 anni ed ha attraversato tutte le principali vicende sociali del nostro Paese può avere.

Conosce la CGIL e la FIOM come le sue tasche. Distribuiva l’Unità nelle fabbriche quando il solo fatto di leggerla poteva portare al licenziamento. Non come oggi dove nessuno la legge più e i suoi giornalisti vengono licenziati. È cambiato il mondo e lui lo sa bene.

Nella vicenda dei voucher si è mosso con coerenza. Sa benissimo che dovrà alimentare con i suoi, gazebo e manifestazioni a favore dell’abrogazione dei voucher, e continuare ad utilizzarli per pagare i pensionati che aprono e tengono vive le sedi del sindacato.

Come sa benissimo che, alla fine di questa vicenda, esisteranno ancora strumenti analoghi. L’ha detto lui e lo ha ribadito con altre parole Susanna Camusso: per la CGIL, i voucher non devono sostituire lavoro altrimenti regolamentabile. Segnali comunque di disponibilità, se li si vogliono cogliere all’interno di un negoziato serio.

Dove temo la CGIL sopravvaluti la fase politica e sociale attraversata dal nostro Paese è quando ritiene che questo referendum sta rimettendo al centro del dibattito il tema del lavoro. Purtroppo non è così. O meglio questo dovrebbe essere lo sforzo che i corpi sociali insieme dovrebbero fare anziché rinchiudersi nei rispettivi recinti.

Il tema centrale per chi vive i problemi e forse meno per chi ne discute, lo hanno capito benissimo i grillini, è il reddito delle persone. Anche di chi lavora. E questo indipendentemente da come questo reddito sia costruito. Lo ha capito benissimo anche Trump che, nonostante la ripresa del lavoro ottenuta sotto Obama, ha vinto le elezioni anche su questo.

Il referendum sui voucher così come sarebbe stato quello sull’art. 18 è permeato da una cultura sindacale profondamente nordista che vede il lavoro e le sue regole come erano state concepite nel 900. Ovviamente per chi quelle regole poteva dettarle o contribuire a scriverle.

È una cultura lontana dai problemi reali di chi il lavoro non lo trova, di chi lo trova solo in nero, di chi, pur trovandolo, deve restituire parte del suo guadagno al caporale di turno, da chi vive con la pensione di qualcun altro, di chi deve emigrare.

Sul reddito di cittadinanza condivido le tesi di Ricolfi sulla sua impossibile realizzazione però è indubbio che ha un potere semplificatorio e di attrazione di cui occorre tenere conto.

Il referendum e il dibattito che lo accompagnerà scoprirà inevitabilmente questo vaso di Pandora. E la CGIL non aprirà una nuova stagione all’insegna dei diritti da riconquistare. Abbasserà solo il ponte levatoio consentendo a chiunque di infilarsi con la propria demagogia.

Come si fa a non accorgersi che il disagio sociale ha già preso altre strade sul piano politico inseguendo altri pifferai e non lo si recupera più richiudendosi in parole e slogan che non scaldano più i cuori da tempo neanche dei militanti più stretti ma, al contrario, accettando la sfida del cambiamento?

Occorre stabilire alcune priorità, condividerle nel movimento sindacale ma individuare anche i luoghi del confronto e della proposta con le organizzazioni datoriali prima che sia troppo tardi. E la CGIL oggi ha un dovere in più rispetto allo stato di difficoltà strategica in cui versano altri sindacati. Oggi soli non si va da nessuna parte.

Per questo, ad esempio, non capisco il silenzio di Landini sulla vicenda FCA. FIM e UILM si sono pronunciate. Così come la solita sinistra dei salotti televisivi tutta soddisfatta delle accuse all’arcinemico Marchionne.

La FIOM non può stare in mezzo al guado. Il nostro PIL, giusto o sbagliato, è trascinato dalle vendite delle auto FCA, se c’è una possibilità di ripresa dobbiamo assolutamente consolidarla soprattutto in questo momento di incertezza.

Se di fronte alla prima prova di unità il sindacato dei metalmeccanici anziché reagire come i colleghi della IG metall in difesa dell’industria nazionale si smarca, non la vedo molto bene. Voucher e FCA sono due facce della stessa medaglia.

Ognuno evidentemente è libero di scegliere di andare nella direzione che crede. Ma un vero segnale di cambiamento passa da come il più importante sindacato italiano ricostruisce un tessuto unitario e propositivo e uno dei suoi più importanti sindacati di categoria reagisce di fronte alla delegittimazione della principale industria italiana.

Ed è su questo che si misura la qualità dei gruppi dirigenti. Non è tempo, questo, di né né.

Il futuro non si attende. Si fa.

“Employability” è la parola chiave. Potrà aprire molte porte. La traduco subito per evitare che Landini ci veda subito una fregatura: impiegabilità. È, in concreto, l’unica opzione possibile nel mondo del lavoro di oggi, ma soprattutto di domani.

Necessita innanzitutto di una convinta responsabilità personale corroborata da strumenti e opportunità definite dalle leggi o dai contratti. Nel recente contratto del metalmeccanici le parti hanno concordato attraverso il diritto individuale alla formazione un primo strumento fondamentale. L’importanza di questa intuizione va ben oltre il testo contrattuale. È però il primo passo nella direzione giusta.

In un mondo globalizzato il lavoro e i suoi diritti collegati non si possono tutelare astrattamente. Capitale e lavoro si muovono con spazi e logiche diverse. Pensare che possano valere le regole del 900 quando il lavoro a tempo indeterminato era la regola e quando il lavoro si svolgeva sostanzialmente in una o poche aziende è una illusione che rischia di costare molto cara ad una intera generazione.

Se alziamo lo sguardo da qui a dieci anni il lavoro prevalente sarà profondamente diverso da oggi. Meno lavoro a tempo indeterminato nelle forme oggi conosciute e più lavoro autonomo in forme che già oggi si stanno delineando nel resto del mondo. Un confine destinato a diventare sempre meno netto.

Il lavoro operaio stesso cambierà profondamente. Sia verso l’alto dove l’uso di macchinari sempre più complessi imporrà titoli di studio e continue specializzazioni sia verso il basso dove dove la concorrenza sul costo del lavoro metterà sempre più a rischio le tutele tradizionali.

I luoghi del lavoro, la sua durata giornaliera, le competenze per mantenerlo o per cambiarlo saranno profondamente diversi rispetto ad oggi. E se il lavoro si dovrà cercare con maggiore frequenza, mantenere con professionalità forti e aggiornate, gestire nelle fasi di transizione, le politiche attive saranno fondamentali. Soprattutto davanti al rischio di una ripresa di sviluppo senza ripresa occupazionale.

Il futuro non si aspetta. Si fa.

Su queste nuove traiettorie ci si può impegnare ciascuno per la propria parte (sindacati, imprese, studiosi della materia) oppure si può attendere e subirle. E, nel frattempo parlare d’altro.

Ma dietro il futuro del lavoro non c’è solo il destino di una generazione. C’è in gioco il ruolo dei contratti, delle organizzazioni di rappresentanza, l’evoluzione stessa dei sistemi formativi, della scuola, del welfare vecchio e nuovo, delle politiche del lavoro.

Di tutto questo, oggi, c’è poco all’ordine del giorno. Ci sono opinioni, studi, segnali ma non c’è una volontà comune che punta decisa in quella direzione. Per questo il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ha dato un segnale importante che non va sottovalutato. Né fatto fallire.

Sarebbe deprimente dover discutere e duellare per un anno sul tema dei voucher trasformati in una sorta di Fort Alamo del 900 pur sapendo che nulla hanno a che fare con il contesto tracciato sopra.

Una cosa è certa e il rinnovo del contratto dei metalmeccanici ne è la dimostrazione plastica. Non c’è aria per battaglie ideologiche nel Paese. Né di rivincite per minoranze di Partito. C’è una precisa volontà di delegittimazione della Politica e delle Istituzioni. E i soggetti preposti a realizzare questo obiettivo sono già in campo.

Non saranno i voucher a spostare consenso. Anzi. Il punto vero è che nel furore di questa battaglia di retroguardia si rischia di non capire che il resto del lavoro si modellerà da solo sui rapporti di forza imposti dalla competizione globale.

La durata dell’orario di lavoro. Solo una convenzione del 900?

Otto ore di lavoro, otto per vivere e otto per riposare sono stati un obiettivo per molti anni nel secolo scorso del movimento operaio e sindacale. Una volta raggiunto, si è tradotto nelle leggi e nei contratti diventando un riferimento per tutti. Una convenzione, appunto, accettata da tutti.

Sopra questo limite c’è il lavoro straordinario, sotto il part time. Per molti lavori è ancora così. Per altri, i nastri orari e una diversa distribuzione dell’orario settimanale dovuta ad esigenze di ottimizzazione degli impianti o di servizio, hanno abbassato quella soglia.

A questo schema nato e cresciuto nell’era fordista si sono aggiunti ferie, permessi e quant’altro che, pur rappresentando legittime conquiste, accentuano il divario tra le ore potenzialmente lavorabili in un anno e le ore effettivamente lavorate.

Questo, ovviamente, per tutti quei lavori dove è l’ora di lavoro che può rappresentare un indicatore convenzionale accettato da tutti. Per altri è la prestazione in sé, la realizzazione o meno di uno o più obiettivi concordati a stabilire la quantità di tempo necessario al loro raggiungimento.

Quindi, in questi caso, le cosiddette otto ore sono solo un indicatore formale di riferimento ma non hanno nessun legame con la retribuzione o il tempo di lavoro. E, tutto questo, senza voler entrare nel merito del lavoro autonomo o professionistico dove l’indicatore orario è decisamente fuori luogo.

È del tutto evidente che se l’organizzazione aziendale cambia sia in termini qualitativi che quantitativi anche grazie alla introduzione di tecnologia o di innovazioni organizzative una tradizionale distribuzione dell’orario di lavoro produce inevitabilmente esuberi a meno che non si intervenga introducendo nuove attività supportandole con formazione adeguata e non si attivino politiche attive in grado di gestire le transizioni tra un posto e l’altro.

Ma queste politiche che, nel nostro Paese, a differenza che altrove, si configurerebbero già come risposte innovative e assolutamente necessarie non sono in grado, da sole, di rispondere a ciò che, la crisi da un lato e, l’innovazione tecnologica e organizzativa dall’altro, mettono già oggi a disposizione delle imprese.

Quindi la riflessione dovrebbe andare oltre e provare a comprendere la necessità stessa di alcune tipologie di luoghi di lavoro, il tempo e le risorse economiche che occorrono per raggiungerlo, le modalità di esecuzione e, di conseguenza, il tempo necessario al suo svolgimento e infine il suo corrispettivo economico.

Contemporaneamente occorrerebbe ragionare sugli eventuali recuperi di produttività e su come redistribuirli uscendo, però, da una logica fordista. Ovviamente tutto questo porta a ulteriori riflessioni sulla tipologia dei contratti, sul ruolo delle organizzazioni di rappresentanza e sulla loro prospettiva.

Giuseppe Sabella, sempre molto attento alle dinamiche del lavoro, ha scritto recentemente dell’esperienza emiliana a cui sta lavorando il giurista Piergiovanni Alleva. Al di là del caso specifico non sono molto convinto che quella sia la strada giusta. In altri termini temo che parlare del lavoro che c’è e su come distribuirlo su più teste non porti da nessuna parte. Non si esce dal paradigma fordista e quindi ci si blocca davanti alla entità dello scambio e a chi ne deve sopportare i costi.

Nel mercato globale le nostre imprese sono parte di filiere internazionali, ne condividono le strategie e ne subiscono i vincoli. Difficilmente li condizionano. E, in questi vincoli, il lavoro, se affrontato in modo tradizionale, è destinato a subirne le conseguenze in termini di quantità, qualità, costo e remunerazione. Addirittura di localizzazione. Sono gli stessi contratti di fornitura o di subfornitura che producono quei vincoli sempre più difficili da eludere.

E da questa situazione non se ne esce rivendicando una specificità nazionale  ma solo cercando di ridisegnare e innovare i modelli organizzativi e la qualità del lavoro. Tra l’altro il recente contratto dei metalmeccanici e il piano Calenda possono dare un aiuto importante nell’evoluzione di questa nuova cultura.

La CGIL tra referendum, grillini e congresso..

Com’è nel suo stile sempre attento e puntuale, Dario Di Vico sul Corriere non si è lasciato sfuggire lo scontro, aperto da un incauto intervento dell’on. Di Maio sulla vicenda Almaviva, tra grillini e CGIL.

Uno scontro che era inevitabile accadesse. La vittoria del NO al referendum ha avuto due vincitori indiscussi e ne ha rilanciato le rispettive ambizioni. Sul versante politico, il M5S, e, sul versante sociale, la CGIL. Ma questa divisione (politico e sociale) rischia di non avere più senso in una fase di grande debolezza della politica tradizionale.

I confini sono, di fatto, saltati. Non è un caso che i grillini rilanciano la loro proposta di reddito di cittadinanza mentre la CGIL si appresta ad una difesa orgogliosa e militante dei contenuti alla base del prossimo referendum. Quindi i due terreni si sovrappongono con tutti i rischi del caso.

Per il movimento 5 stelle la disintermediazione è nel DNA. Non è, come per Renzi, un modo per snobbare i sindacati. Non sono semplicemente previsti nel loro modello culturale e sociale. La “rete” non li prevede. Quindi, prima o poi, lo scontro sarebbe stato comunque inevitabile.

La CGIL ha dalla sua una lunga esperienza di scontro sia con Cisl e Uil che, alla sua sinistra con le innumerevoli sigle che hanno occupato negli anni la micronesia dell’estremismo sindacale e sociale ma sa che non è sufficiente difendersi o agitare slogan. Un sindacato deve sottoscrivere accordi, saper mediare, portare risultati.

Sul referendum costituzionale il sindacato di Susanna Camusso si è mosso con estrema cautela evitando di sconfinare dal merito. E questo ha pagato. Inoltre ha ricucito con CISL e UIL e sottoscritto con grande convinzione importanti accordi con le organizzazioni datoriali. Sicuramente ha prodotto più risultati di chi l’ha preceduta. E questo senza dimenticare l’importante riposizionamento della FIOM.

Il referendum e tutto quello che ragionevolmente verrà messo in campo per evitarlo va, anch’esso, nella direzione di rafforzare il ruolo sociale ma anche politico della Cgil. Se così sarà tanti frettolosi censori della gestione di Susanna Camusso dovranno rivedere giudizi e analisi spesso ingenerose.

Per i grillini, dopo la vittoria politica sul NO al referendum istituzionale, uno scontro sul referendum proposto dalla CGIL rappresenterebbe una manna inaspettata. Troppe incertezze alla guida di alcune amministrazioni cittadine, troppe fazioni e troppi proclami. Uno scontro vinto in partenza è quello che ci vuole.

Sapendo che, così come l’opinione pubblica si è già scordata dei promotori del referendum istituzionale, si scorderebbe altrettanto velocemente della CGIL come promotrice del nuovo appuntamento referendario. Per come è posto si trasformerà in un potente sfogatoio contro il sistema dove il merito sarà del tutto secondario.

Per questo la CGIL alza i toni. Chiamare i voucher “pizzini” e trasformarli nel male assoluto ha come unico scopo quello di alzare il prezzo della mediazione. La CGIL sa benissimo che la strada del negoziato con il Governo insieme a CISL e UIL è l’unica praticabile. Così come non sono un caso gli ormai quotidiani appelli alla ragionevolezza degli altri due sindacati.

Ora la parola passa alla Corte Costituzionale che valuterà se la materia dei quesiti referendari e materia che può essere sottoposta a referendum abrogativo. È chiaro che, in entrambi i casi, i grillini cercheranno di portare acqua al loro mulino.

È però la Cgil che deve scegliere. Nei metalmeccanici la FIOM ha scelto di guardare avanti insieme a FIM e UILM e a FEDERMECCANICA, lasciando per strada gli ex amici della estrema sinistra sociale. E i risultati tra i lavoratori hanno dimostrato che è stata una scelta giusta e condivisa.

Adesso tocca alla CGIL trovare le mediazioni, individuare gli interlocutori e, con essi, la strategia tradizionale o innovativa da proporre al prossimo congresso. Un impegno non da poco.