Disconnettersi o connettersi con il futuro del lavoro?

Dopo il CV anonimo proposto per evitare discriminazioni nelle assunzioni la Francia procede con una nuova legge sul “diritto alla disconnessione” entrata in vigore dal 1 gennaio 2017.

Una legge voluta dalla Ministra del Lavoro Miryam El Khomri che obbliga le aziende con oltre 50 dipendenti a stabilire, con i propri collaboratori, delle regole per consentire loro il diritto di ignorare email, messaggi o SMS aziendali fuori dall’orario di lavoro.

Non è chiaro però come verrà effettivamente attuata. Quello che è certo è che, in mancanza di accordo tra le parti coinvolte le aziende sarebbero tenute a comunicare esplicitamente cosa verrà chiesto ai dipendenti al di fuori dell’orario di lavoro.

Le nuove tecnologie portano con sé una modifica sostanziale del luogo, del tempo, del contenuto e delle modalità di effettuazione di molti lavori. Pensare di riportare tutto dentro leggi e contratti costruiti nel novecento è sinceramente assurdo. In Italia nella vecchia cultura aziendale industriale il tempo passato sul posto di lavoro era un elemento di valutazione positiva del collaboratore.

Chi faceva gli “straordinari” era giudicato un leale e fedele collaboratore. Poi via via negli anni, agli straordinari “pagati”, nel rispetto del contratto nazionale, si sono sostituiti indennità omnicomprensive, superminimi, reperibilità, gettoni di presenza, ecc. con l’obiettivo di forfetizzarne il pagamento sganciandolo così dalle ore effettivamente effettuate in più o in meno. I vecchi “straordinari”, pagati ad ore, sono rimasti (ancora oggi) solo ai livelli più bassi dell’inquadramento professionale. E, in molte situazioni, se vogliamo dirla tutta, solo per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato.

Per tutti gli altri, in molti casi, gli straordinari pagati sono, piano piano, scomparsi. Sono però rimaste le prestazioni oltre l’orario. La tecnologia ha fatto il resto rendendo il proprio impegno aziendale sostanzialmente ininterrotto.

Prima ritenuta un benefit e quindi uno status symbol esclusivo la tecnologia si è trasformata, in alcuni casi, in un’ossessione per molti. In Germania, in diverse aziende, ad una certa ora, viene tagliata la connessione, in altre aziende le mail, oltre un certo orario, vengono cancellate. Forse basterebbe un po’ di buon senso e di maggiore capacità di organizzare il proprio e l’altrui lavoro.

Funzionerebbe in Italia una legge come quella francese? Personalmente credo di no. Non c’è ancora una cultura adeguata in molte aziende. I rapporti interpersonali, anche a certi livelli, non sono paritari. Il capo “democratico” esiste fino ad un certo punto come sa bene chiunque si è trovato in situazioni concrete di disagio.

E se il capo non sa gestire i collaboratori, li tiene inchiodati alla scrivania fino a tardi o pensa che sia assolutamente legittimo gestirli “a chiamata” come e quando vuole, non c’è legge che tenga. Meglio cambiare il capo.

In genere non sono mai le aziende in quanto tali a pretendere determinati comportamenti. Quindi nascono e si diffondono per precise manie di alcuni responsabili o per loro difficoltà a gestire picchi di attività e coinvolgere i propri interlocutori solo in orari decorosi.

Non è un caso che quando una persona non è all’altezza della posizione che occupa scarica sui collaboratori responsabilità, tensioni e stress. Figuriamoci se può intensificare la “tortura” ben oltre il raggio della scrivania! Personalmente più che una legge che rischia di non essere applicabile o di portare con sé reazioni e conseguenze negative in contesti organizzativi complessi opterei per delle regole aziendali da comunicare all’atto dell’assegnazione del cellulare o del pc.

Come per l’auto aziendale. Se è a totale disposizione della persona il suo utilizzo dovrebbe valere in entrambe le direzioni. E quindi, come prevede la legge francese, stabilirei un elenco ragionato di opzioni di chiamata oltre l’orario di lavoro. Così come sul posto di lavoro bilancerei il diritto a non essere controllato a distanza con un altrettanto modesto utilizzo personale degli strumenti tecnologici messi a disposizione dall’azienda durante l’orario di lavoro. Viceversa se il telefono, ad esempio, è di esclusivo uso aziendale, non ha senso il suo utilizzo fuori dal normale orario di lavoro se non per motivi estremamente seri. Ma questi restano interventi utili solo se ci si concentra sul breve.

Il punto però è che la tecnologia mette e metterà sempre più a disposizione sistemi che amplificano la produttività individuale e di gruppo, che superano sempre più il confine tra tempo di lavoro e tempo da dedicare a se stessi o ai propri cari, che mantengono perennemente connesse le persone tra di loro e, inevitabilmente, ne consentono però un controllo molto più accurato sulla loro attività.

Questo implica un forte salto di qualità culturale innanzitutto nei modelli organizzativi aziendali che dovranno essere più aperti e coinvolgenti e quindi nella gestione dei collaboratori, soprattutto dai millenials in avanti ma anche nella progettazione dei luoghi di lavoro che già oggi sono sempre meno simili a quelli tradizionali.

In questo senso più che una legge che, di fatto, cerca di stabilire regole facilmente aggirabili da chiunque occorrerebbe riflettere e lavorare su come rendere meno novecentesco il lavoro.

I confini tra lavoro tradizionale e lavoro autonomo, tra tempo di lavoro e tempo per sé, la sua durata, il suo riconoscimento, il suo inquadramento, i modelli formativi necessari, le politiche attive, il welfare vecchio e nuovo, il tempo perso per andare e per tornare dal lavoro, la necessità o meno dei tradizionali luoghi di lavoro, le forme di coinvolgimento e di partecipazione agli obiettivi e ai risultati aziendali.

Su questo siamo veramente indietro tutti troppi occupati a pensare a come ci si difende nei territori noti (da entrambe le parti) e non come esplorare insieme le opportunità offerte dal mondo che ci si sta aprendo di fronte.

Il difficile rapporto tra imprese e giovani..

Ferruccio de Bortoli chiede, in un interessante intervento sul Corriere, una maggiore generosità delle imprese nei confronti dei giovani e fatica a comprendere come mai qualsiasi strumento proposto per favorirne l’occupazione viene utilizzato quasi esclusivamente per ridurre il costo del lavoro.

È stato così, a suo tempo, con i CFL (contratti di formazione lavoro), poi con gli stages, con i voucher e, infine, anche con i contratti di apprendistato. Le stesse grandi operazioni di “svecchiamento” messe in atto soprattutto dalle grandi imprese di stampo fordista (non solo industriali) dove le sostituzioni erano anch’esse comunque dovute alla necessità di contenere i costi, si sono fermate con la crisi.

Il costo del lavoro e il suo contenimento hanno indubbiamente caratterizzato la vita della stragrande maggioranza delle imprese almeno negli ultimi trent’anni.

Ma anche nel pubblico impiego e nelle professioni ordinistiche non è andata molto diversamente. Aggiungo che, in molte multinazionali intorno agli anni 90, si poteva diventare dirigenti prima dei 35 anni. Oggi non è più così. Si diventa dirigenti più tardi quindi si cresce più lentamente e si cambia lavoro con meno frequenza.

È evidente che un meccanismo si è inceppato e i primi a pagarne le conseguenze sono coloro i quali non riescono a proporsi alle imprese ed avere una chance di partenza.

Questa cultura si è poi consolidata con la crisi e non la si modifica solo chiedendo una maggiore generosità agli imprenditori. Purtroppo non basta.

Spesso si ha un’idea stereotipata dell’imprenditore o del manager impegnati a gestire un’azienda o una filiale italiana di una multinazionale.

Chi gestisce un’impresa sia esso il proprietario o un dirigente in realtà è solo. Deve garantire risultati certi e misurabili. Deve saper guardare lontano, motivare risorse, scelte e decisioni ma senza dimenticare che verrà misurato sul budget (se va bene dell’anno) e sui suoi scostamenti.

Il futuro della propria organizzazione non passa solo attraverso l’innovazione tecnologica, nuove idee e i conseguenti processi di cambiamento da mettere in atto ma soprattutto dalla capacità di ingaggiare i propri collaboratori formandoli, motivandoli, valorizzandone il contributo, premiandone l’impegno e la condivisione dei valori dell’impresa e delle sue strategie. E quindi anche dalla volontà e dalla capacità dei collaboratori di accettare questa sfida.

L’azienda è cambiata. Non è più la “mamma” di un tempo disposta a scambiare la fedeltà con la sicurezza del posto di lavoro. L’azienda, sempre più, tende e tenderà a proporre a ciascun collaboratore un patto che non è destinato a durare necessariamente per sempre ma solo fino a quando i contraenti saranno in grado di scambiare qualcosa di professionalmente utile ad entrambi.

Per questo se si vuole offrire opportunità ai giovani occorrerebbe operare su più piani. Innanzitutto limitando gli stage al post diploma o durante il percorso universitario. E questo implica un rapporto diverso, nel territorio, tra imprese e mondo della scuola.

Poi andrebbe costruito un modello di apprendistato senza oneri economici e organizzativi per le imprese ma con un sistema trasparente di valutazione dei comportamenti dell’apprendista e dell’azienda che lo ha preso in carico tale da premiare i comportamenti virtuosi o disincentivare le furbizie di imprenditori scorretti. Un sistema tipo trip advisor (ad esempio).

Infine occorrerebbe finanziare tutte quelle iniziative delle imprese volte a costruire vivai, percorsi di carriera nazionali o internazionali per under 35, valorizzazione dei talenti, staffette generazionali, ecc. Però non basta lavorare sul versante delle imprese.

Occorre passare messaggi corretti ai giovani. Innanzitutto su cos’è oggi il mercato del lavoro. Sulla sua qualità ma anche sulla sua inevitabile dimensione planetaria.

Quindi sulle conseguenze che determinate quanto legittime scelte personali possono determinare sul loro futuro. Un esempio. Se in Italia abbiamo 14 facoltà di veterinaria e in Germania solo 3 forse dovremmo suggerire ai futuri aspiranti veterinari di imparare il tedesco perché solo lì potranno trovare lavoro. E questo vale in molti altri casi.

Sperare di trovare il lavoro che piace sotto casa e alle proprie condizioni credo sia sempre più difficile. Ma questo non viene recepito dalle famiglie essenzialmente per ignoranza ma anche per opportunismo della politica, delle istituzioni scolastiche e degli ordini professionali.

Queste sono essenzialmente alcune delle ragioni per le quali chiedere un maggiore impegno agli imprenditori è utile ma non sufficiente. Le imprese, tra l’altro, oggi non assumono perché non intravedono i segnali chiari di una possibile ripresa economica.

Però è vera una cosa. Prima ci si confronta per trovare come comporre il puzzle prima saremo pronti per rimettere al centro una nuova cultura del lavoro. E se vogliamo che questo comprenda i giovani (di oggi) dovremmo farlo in fretta….

Lavoro, strumentalizzazioni e buona politica…

Tre notizie, quasi da prima pagina, che fanno discutere.

I voucher trasformati in problema prioritario e drammatico, la sentenza della Cassazione che ha ritenuto non necessario essere in presenza di una crisi aziendale, un calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento e, infine il caso Almaviva con le sue implicazioni sindacali e sociali.

Nel primo caso la preoccupazione per il probabile referendum richiesto dalla CGIL ha scatenato una campagna di disinformazione con al centro la numerosità dei voucher e una serie di abusi commessi in alcune situazioni.

Pochi riferimenti internazionali a situazioni analoghe, scarso interesse a comprendere le dinamiche e i fenomeni correlati, disinteresse quasi totale all’endemico fenomeno del lavoro nero o malavitoso in Italia. Ma, soprattutto, il tentativo di far credere che, l’eliminazione dei voucher sia in sé un elemento positivo e possa portare a forme di stabilizzazione del lavoro saltuario.

A chi serve questa pessima gestione della notizia? Non credo alla CGIL che rischia di vincere una battaglia sull’onda emotiva del post referendum ma di perdere, immediatamente dopo, la guerra.

Né, credo, all’opinione pubblica che rischia di essere inutilmente trascinata in una discussione sulla precarietà del lavoro su presupposti scorretti perdendo di vista il problema principale: il lavoro. Come si crea, come e dove lo si può trovare, come lo si mantiene, e cosa si deve fare se lo si perde. E questo non è solo un problema per addetti ai lavori.

La sentenza della Cassazione sul licenziamento è, da questo punto di vista, paradigmatica. I motivi che spingono un’azienda a ricorrere a licenziamenti individuali o collettivi sono quasi sempre riconducibili a motivazioni organizzative o gestionali.

Il fatto che, secondo alcuni, si dovrebbe attendere sempre e comunque una situazione economica di non ritorno per poter procedere, ha solo determinato la proliferazione di accordi sindacali fantasiosi e lacunosi, di “non accordi” con ampia facoltà a procedere unilateralmente da parte delle aziende, di licenziamenti “spintanei” tollerati e di incentivazioni individuali di ogni tipo.

Adesso, con un certo ritardo, la Cassazione certifica ciò che chiunque ha avuto a che fare con ristrutturazioni o riorganizzazioni sa da sempre e cioè che come sosteneva il Macchiavelli, “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al Popolo”.

A volte occorre prendere decisioni drastiche e in tempi certi. Altrimenti il problema diventa irrisolvibile. E non servono avverbi o aggettivi  per mascherare la realtà. Purtroppo.

Infine il caso Almaviva. Nessuno spiega che, una volta aperta una procedura di mobilità, una sua eventuale interruzione rischia di invalidare la procedura stessa.

Qualche anno fa mi trovai in una situazione analoga. Durante un difficile negoziato che coinvolgeva tutta una intera rete nazionale di vendita il sindacato confederale mi chiese di recuperare una filiale al sud che, chiusa l’anno precedente, stava terminando gli ammortizzatori sociali. In questo modo gli ultimi lavoratori rimasti avrebbero guadagnato un anno di ammortizzatori arrivando così alla pensione.

Faticai a convincere i vertici della multinazionale che non capivano perché fosse necessario riaprire un capitolo chiuso da tempo però concordammo con le OOSS che, per questi ultimi, non sarebbe stato ovviamente possibile prevedere alcun trasferimento al nord essendo in grado di agganciare la pensione.

Fatto l’accordo due lavoratori, tramite un avvocato suggerito dai COBAS, lo impugnarono sostenendo che, pur essendo vicino alla pensione sarebbero stati comunque disponibili al trasferimento in qualsiasi zona del Paese.

Nessuno però glielo aveva proposto proprio perché loro stessi avevano concordato, tramite i sindacati, un’altra soluzione.

Quella vicenda, costruita in buona fede insieme alle organizzazioni confederali e con il consenso tra le parti, avrebbe purtroppo potuto finire molto peggio causando l’annullamento della procedura con costi e conseguenze gravissime.

Per questo posso capire l’atteggiamento di Almaviva e questo indipendentemente da altri argomenti di cui non ho elementi sufficienti per giudicare.

C’è stato un tempo dove era possibile trovare un’intesa. Quel tempo però si è esaurito nei tempi e nei modi previsti dalla procedura stessa. Le lettere di licenziamento ne sono solo la conseguenza inevitabile.

Tre vicende apparentemente differenti con un unico comune denominatore. Nella materia del lavoro contano solo gli elementi oggettivi. Le norme e ciò che è scritto nelle leggi e nei contratti. Il resto appartiene alle opinioni.

La “Politica” può creare le condizioni affinché le parti in campo abbiano a disposizione strumenti adatti, opzioni concrete e tempistiche certe nelle quali esercitare i rispettivi ruoli.

Oppure la politica stessa può strumentalizzare, sulla pelle dei lavoratori, prospettando soluzioni inesistenti come ha fatto l’on. Di Maio un minuto dopo la conclusione della vicenda.

Purtroppo il Paese avrebbe bisogno di buona politica e di buoni politici. E di buona informazione. Soprattutto nelle vicende sindacali.

Il futuro dei voucher è con o senza Speranza?

C’è chi ha paragonato il PD Speranza a Turigliatto, chi ha ricordato che Bersani stava con Monti quando sono stati lanciati i voucher e che il Governo Renzi, semmai, ne ha solo regolamentato l’uso. Tutto inutile.

Intorno ai voucher sembra si stia giocando lo scontro finale sull’identità della sinistra italiana.

Il merito, come sempre in questo caso, non esiste. O meglio non interessa a nessuno. Per quanto riguarda non posso che condividere le parole di Anna Soru sulla Nuvola del Corriere con le quali sottolinea il rischio che, in caso di interventi, chiaramente emotivi, si peggiori addirittura la situazione “costringendo” un massiccio ritorno al lavoro nero.

Recentemente sono stati pubblicati dei dati che è meglio conoscere prima di schierarsi. Vediamoli pacatamente.

Innanzitutto Il voucher è l’unico strumento per retribuire in modo regolare “lavori saltuari”. Non ha alternative, né possiamo davvero credere che queste attività saltuarie si coprano con assunzioni “tradizionali”.

Il suo utilizzo assicura un riconoscimento retributivo comprensivo anche del pagamento di contributi previdenziali per prestazioni saltuarie e accessorie e la copertura assicurativa INAIL.

L’utilizzo dei buoni lavoro, è aumentato perché le riforme di questi ultimi anni hanno di fatto tolto alla disponibilità’ delle imprese qualsiasi strumento regolare per pagare prestazioni accessorie.

Infine, occorre ricordare che, mediamente ogni persona, con il voucher, prende 600 euro all’anno; pensare dunque che ci sia un forte abuso generalizzato è una lettura forzata.

La stessa INPS attraverso le analisi pubblicate sul suo sito ci dice che:

1) Per la maggior parte dei prestatori di lavoro accessorio, il volume di voucher percepiti è modesto: in media nel 2015 si è trattato di 60 voucher pro capite e la mediana è decisamente inferiore: 29 voucher.

2) I lavoratori che hanno percepito più di 1.000 euro netti con voucher risultano 207.000 mentre coloro che hanno percepito meno di 500 euro risultano quasi un milione e quindi evidente che non si tratta di lavoro sostitutivo.

3) Circa il 50% dei prestatori sono lavoratori attivi con altra occupazione o percettori di ammortizzatori sociali (sono il 50% del totale stabilmente dal 2013)

Per essere più precisi sono :

– Pensionati: la loro quota risulta pari all’8%. (Tre su quattro sono pensionati di vecchiaia).

– Soggetti mai occupati: sono pari al 14% (meno di 200.000). Si tratta essenzialmente di giovani (la mediana è vent’anni).

– Silenti (ex occupati e disoccupati di lunga durata ): sono attorno al 23%.

– Indennizzati (essenzialmente percettori di Aspi, MiniAspi o Naspi): sono il 18%

– Occupati presso aziende private: sono il 29% (quasi 400.000). Tra questi si individuano:
− 26% occupati a tempo indeterminato e full time;
− 28% occupati a tempo indeterminato e part time;
− 46% occupati, soprattutto giovani, con contratti a termine subordinati

– Altri occupati: pari all’8% sono lavoratori domestici, operai agricoli, lavoratori autonomi, casse professionali, dipendenti pubblici).

Per queste ragioni possiamo affermare, senza nessuna possibilità di smentita che:
l’effetto di sostituzione di precedenti rapporti di lavoro è molto limitato e i soggetti interessati sono in maggioranza studenti, pensionati e lavoratori in regime di ammortizzatori sociali.

Questo dicono i numeri. Il resto sono strumentalizzazioni ideologiche di chi non ha argomenti veri. A mio parere il Governo deve continuare ad insistere sulla strada della tracciabilità e dei controlli per evitare usi impropri dei voucher penalizzando chi non ne fa un uso corretto.

Scegliere, al contrario, di abolirli o di ridurne fortemente l’utilizzo senza introdurre altri strumenti analoghi sarebbe solo un grave errore.

Perché difendo il “maleducato” Poletti

Non ho nessun rapporto con l’attuale ministro del lavoro né gli invidio il suo ruolo.

Sono tempi difficili e Poletti, sia chiaro, non è né Brodolini né Giugni. Da quando è al Ministero del Lavoro tutti, molto più di lui, si sono “impicciati” di lavoro mettendolo spesso in ombra.

Sopra, il Presidente del Consiglio Renzi, al Senato il Presidente della commissione lavoro Sacconi, alla Camera, Cesare Damiano. All’INPS Boeri. Senza parlare di Nannicini, ministro ombra o, al PD, il suo partito, di Taddei.

L’energia e i cervelli messi in campo sul lavoro in questi ultimi anni non hanno uguali in nessun altro dicastero. E senza la scusa della concertazione. Quindi senza l’assillo dei sindacati.

Poletti non verrà ricordato per nulla di tutto ciò che, nel bene e nel male, si è prodotto in questo periodo. Altri si prenderanno i meriti e i demeriti. Verrà forse ricordato per aver fatto il Ministro del lavoro mentre altri si occupavano alacremente di lavoro.

A lui è rimasto il compito più ingrato. Vendere i risultati. Non al Paese perché lì ci hanno pensato e provato altri. Ai media, ai tecnici e agli esperti. Mission impossible, direbbe qualcuno.

Poletti non mi piace quando strizza l’occhio sottobanco a certi personaggi della GDO favorendo, di fatto, situazioni di dumping tra imprese che operano sullo stesso mercato né quando si sbilancia troppo perdendo quel ruolo terzo che invece credo sia importante per chi si occupa di lavoro. È una materia ad alta sensibilità sociale. Troppi morti in Italia per cambiare il lavoro, troppi bersagli additati alla pubblica opinione. Troppi estremismi e troppi conservatorismi. E oggi diciamolo pure, ancora pochi risultati concreti.

Però credo che in questo Governo Poletti sia uno dei pochi esponenti con valori, idee e cultura del lavoro e della società molto più moderni e innovativi di altri ben più gettonati di lui.

Vorrei ricordare, innanzitutto a me stesso, che questo è un Governo di centro sinistra. E che se c’è una cosa che deve fare il centro sinistra è ritrovare un senso, una direzione di marcia intorno a valori condivisibili e praticabili.

il disagio sociale che è emerso con forza dal referendum lo dice chiaramente.

Quando parla Poletti non dice mai cose ovvie o scontate. Rischia quasi sempre l’autogol perché è fatto così. Dice quello che pensa. È difficile trovare, in politica, una persona che può darti la sensazione che le sue affermazioni traggano radici da convinzioni profonde, genuine. Credo siano le sue origini e il contesto nel quale è cresciuto.

Marta Fana sbaglia. Nell’articolo sull’Espresso usa una frase maleducata e fuori luogo del Ministro per addebitargli tutto ciò che è successo o non è successo in questi anni. Compreso il NO al referendum. Sarebbe tutta colpa di Poletti individuato come unico capro espiatorio di una situazione che ha ben altre cause e ben altre responsabilità.

Anziché completare il percorso iniziato con la Biagi lavorando sul nuovo concetto di lavoro e sulle politiche attive si è preferito tornare indietro illudendosi di poter ritornare a “contare” i posti di lavoro come antidoto alla mancanza di lavoro. E creare così un circolo virtuoso. Così si sono sprecate risorse importanti, si è inconsapevolmente  rilanciata una vecchia cultura del posto di lavoro come modello da perseguire ma impossibile da realizzare concretamente e, alla fine, ci si ritrova con un referendum, proposto dalla CGIL, che, se effettuato, riporterà il tema al punto di partenza in un contesto politico e sociale sempre meno disponibile all’innovazione e al cambiamento. Basti vedere la vicenda dei voucher dove nessuno ha voglia di entrare nel merito o di valutare i dati reali.

Poletti ha sbagliato a parlare di una parte dei giovani espatriati quasi fosse soddisfatto di averli persi. Ha detto una grande sciocchezza. Come Fornero sui giovani tutti choosy, Padoa Schioppa sui bamboccioni o Martone sugli sfigati. Di questi tempi basta molto meno per essere invitato a farsi da parte. Allora le polemiche sono rientrate velocemente. Spero succeda così anche questa volta.

Il Ministero del Lavoro ha da gestire partite molto delicate mei prossimi mesi. Poletti è la persona giusta? Io credo di sì. Sia per parlare con tutti i sindacati sia con quella parte del PD che nutre pericolosi sentimenti di rivincita.

Condivido che, se non dovesse aver più voglia di fare il Ministro ė giusto che si faccia da parte. Ma se così non fosse, dopo aver chiesto scusa, affronti con maggiore determinazione e presenza tutte le partite aperte.

Dimostri che il suo Ministero è in grado di ridare una rotta al lavoro. Proponga un momento di condivisione e di proposta di tutti i soggetti in campo e di tutte le proposte praticabili. Il referendum appena svolto ha determinato un reset profondo di cui bisogna tenerne conto anche sul tema lavoro.

C’è un disagio sociale che va interpretato e a cui vanno date risposte. Non insista su litanie prive di significato, oggi. Dimostri, con i fatti, la capacità di imboccare una nuova direzione di marcia.

Se così farà quello che ha detto si dimostrerà solo uno stupido quanto modesto incidente di percorso. 

The Times They Are A-Changin’ di Bob Dylan (traduzione)

 

L’ultimo libro di Daniel Goleman e Peter Senge  (A scuola di futuro, manifesto per una nuova educazione) si conclude con un aneddoto interessante.

E’ il 2012. In una scuola il gruppo di Peter Senge ha animato il lavoro di bambini in progetti che applicano il pensiero sistemico per comprendere le conseguenze delle nostre azioni su scala globale.

Il progetto presentato da una studentessa di 12 anni si riassumeva in una foto di una turbina a vento installata di fronte alla scuola.

A quel punto, avendo catturato l’attenzione di un pubblico per lo più stupefatto, la dodicenne lo ha affrontato direttamente, con tutti i suoi 30 chili di determinazione, e ha detto con calma: “spesso sentiamo che noi ragazzi «siamo il futuro».

Non siamo d’accordo. Non abbiamo tutto questo tempo. Dobbiamo cambiare le cose ora. Noi ragazzi siamo pronti, e voi?

Molti di noi, ragazzini nel 1964 e liceali nel 1968, ci sentivamo pronti. Scriveva Bob Dylan, oggi premio Nobel,  nel 1964, a 23 anni…..

I tempi stanno cambiando

Venite intorno gente
dovunque voi vagate
ed ammettete che le acque
attorno a voi stanno crescendo
ed accettate che presto
sarete inzuppati fino all’osso.

E se il tempo per voi
rappresenta qualcosa
fareste meglio ad incominciare a nuotare
o affonderete come pietre
perché i tempi stanno cambiando.

Venite scrittori e critici
che profetizzate con le vostre penne
e tenete gli occhi ben aperti
l’occasione non tornerà
e non parlate troppo presto
perché la ruota sta ancora girando
e non c’è nessuno che può dire
chi sarà scelto.

Perché il perdente adesso
sarà il vincente di domani
perché i tempi stanno cambiando.

Venite senatori, membri del congresso
per favore date importanza alla chiamata
e non rimanete sulla porta
non bloccate l’atrio
perché quello che si ferirà
sarà colui che ha cercato di impedire l’entrata
c’è una battaglia fuori
e sta infuriando.

Presto scuoterà le vostre finestre
e farà tremare i vostri muri
perché i tempi stanno cambiando.

Venite madri e padri
da ogni parte del Paese
e non criticate
quello che non potete capire
i vostri figli e le vostre figlie
sono al dì la dei vostri comandi
la vostra vecchia strada
sta rapidamente invecchiando.

Per favore andate via dalla nuova
se non potete dare una mano
perché i tempi stanno cambiando.

La linea è tracciata
La maledizione è lanciata
Il più lento adesso
Sarà il più veloce poi
Ed il presente adesso
Sarà il passato poi
L’ordine sta rapidamente
scomparendo.

Ed il primo ora
Sarà l’ultimo poi
Perché i tempi stanno cambiando.

Il rilancio e la vitalità dei corpi intermedi e il pericoloso tramonto della politica..

È vero come sostiene oggi Di Vico sul Corriere che il referendum richiesto dalla CGIL con oltre tre milioni di firme, se confermato, avverrà in un contesto politico, sociale ed economico molto diverso da quello nel quale era stato proposto.

Così come è vero che i rapporti tra le tre confederazioni sindacali sono indubbiamente migliorati e, gli ultimi accordi con il Governo, con le organizzazioni datoriali e i contratti firmati confermano una rinnovata vitalità di tutti i corpi intermedi. Una vitalità che solo gli osservatori meno attenti avevano data per persa in questi anni.

Ci hanno provato in molti a riporre nel baule dei ricordi del novecento tutto ciò che non correva alla stessa velocità delle Borse e di un modello dato di globalizzazione salvo poi accorgersi che forse non era la velocità in sé, il problema, ma era la direzione di marcia ad essere quantomeno un po’ presuntuosa.

Corpi sociali e politica hanno fortunatamente separato da tempo i loro destini. E questo è stato un bene.

I sindacati hanno sviluppato anticorpi e messo in atto dinamiche organizzative e di supporto che hanno consentito loro di non seguirne il declino. Lo stesso vale per le organizzazioni datoriali che più si sono tenute alla larga dalle beghe della politica romana più hanno mantenuto un rapporto forte con i loro associati.

Associati e iscritti che, sul versante delle scelte politiche personali, stanno dove gli pare. Grillo e Lega compresi. Ma, di sicuro, né con i Forconi i primi, né con i COBAS  i secondi. E questo è già di per sé un grande merito, spesso sottovalutato, dei corpi intermedi nel nostro Paese.

Personalmente sono un sostenitore della democrazia rappresentativa e quindi non amo lo strumento referendario in sé. Ovviamente lo rispetto e prendo atto che oltre tre milioni di italiani hanno ritenuto necessario richiedere a tutto il Paese un pronunciamento su tre quesiti precisi (art. 18, voucher, appalti).

Vedremo tra breve quale sarà la decisione della Corte di Cassazione. Personalmente non credo che questo referendum cambierà sostanzialmente i rapporti tra le diverse sigle sindacali confederali.

La CGIL in questo momento sembra essere l’unica organizzazione sindacale (a livello confederale) ad avere una linea, condivisibile o meno, ma chiara. Basta leggere la loro carta dei diritti.

Trovo singolare la sottovalutazione che ne è stata fatta, così come la presunzione che la CGIL abbia messo in campo tutta la sua credibilità solo per contrastare l’ex Presidente del Consiglio, e che, infine, l’idea di disegnare un nuovo campo dove diritti e doveri nel lavoro e nella società ritrovino un equilibrio oggettivo, sia solo figlia di una cultura passatista e non una esigenza non più rinviabile per la qualità della nostra democrazia.

C’è, nel merito, tanto da discutere e tanto da litigare e c’è pure, è vero, Annibale alle porte. Ma proprio per questo occorrerebbe cambiare passo. Non fare un passo indietro. Nel sindacato, in tutto il sindacato, costruendo percorsi unitari condivisi e solidi come già sta avvenendo in diverse categorie.

Tra organizzazioni di rappresentanza sindacali e datoriali cercando di trovare nuove risposte ai problemi veri delle imprese e del lavoro. Infine, tra corpi intermedi e politica impegnandosi per presentare e condividere proposte che guardino al futuro del Paese.

Temo che il problema ormai non sia nemmeno più Grillo il quale, al massimo, se mai dovesse farcela, si troverà nella stessa situazione del leader socialista Pietro Nenni ai tempi del primo centro-sinistra: «Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni, ma non li ho trovati».

Quello che temo è che ormai si continuano a sentire sempre più spesso sinistri scricchiolii nelle fondamenta del Sistema stesso nel quale siamo cresciuti che non fanno presagire nulla di buono per il futuro della nostra democrazia.

Sapere che ci sono in campo anche forze positive, costruttive e impegnate a difenderla non va sottovalutato.

Poi ci sono le contingenze, le liti da cortile, i dissensi di merito. Ma, è indubbio, che sulla qualità della nostra democrazia, dobbiamo essere dalla stessa parte e possibilmente trovare, insieme, nel merito, le soluzioni più equilibrate. Se questo non sarà possibile che si voti con grande serenità e che se ne accetti con altrettanta serenità il risultato.

Meglio sarebbe se si riprendesse da subito una discussione seria sul Jobs Act e su tutto ciò che manca ad esso per costituire una vera svolta nelle politiche del lavoro del nostro Paese.

Un’epoca si è chiusa. L’epoca nella quale un Governo, anziché essere arbitro, scendeva in campo a favore di una delle due squadre. Oppure cercava di giocare la partita da solo. Non ci sono più risorse né la forza politica per farlo.

E non conviene neanche ai corpi intermedi perché alla fine tutto resta provvisorio e indefinito. L’esatto contrario di ciò che serve alle imprese e al lavoro.

Contratti. Il post fordismo non è solo industry 4.0

Il superamento dei modelli contrattuali discendenti dal fordismo ha, in due vicende contrattuali, apparentemente distanti, risposte completamente differenti e, per certi versi, opposte su cui innestare una riflessione vera per gli sviluppi che entrambi possono portare sul futuro del lavoro perché, credo, nulla è ancora scontato.

Nel contratto dei metalmeccanici l’elemento collettivo, di contenuto e di equilibrio tra i contraenti è stato sostanzialmente mantenuto. Anzi. Per certi versi, Il sindacato ha rafforzato il suo ruolo come interlocutore. Sia centrale con il welfare contrattuale e la formazione, sia decentrato con i rinvii su produttività e altro. E si appresta a contribuire a riscrivere l’inquadramento professionale insieme a Federmeccanica.

Diverso è il caso della GDO dove, il confronto tra Federdistribuzione (ultima trincea del fordismo commerciale e contrattuale tradizionale) con Fisascat Cisl, Uiltucs Uil, e Filcams CGIL va in una direzione esattamente opposta. Quella di “imporre” un contratto sulla base esclusiva dei rapporti di forza in campo.

Quale era (ed è) l’impostazione tradizionale di un qualsiasi contratto di lavoro? Da una parte l’azienda con le sue esigenze e dall’altra una collettività che, all’interno di un insieme di diritti e doveri definiti e condividendo una attività tutto sommato simile, erano (e sono) in grado di negoziare sulla base di reciproci interessi. Preferibilmente tramite le organizzazioni sindacali e datoriali.

In entrambi i settori (metalmeccanico e GDO) questo schema ha funzionato per anni. Nel metalmeccanico, la necessità di un cambiamento profondo è stato evidenziato da FCA poi, ad una certa distanza, dalla proposta di rinnovamento contrattuale di Federmeccanica. Segnali inequivocabili di un necessario cambiamento.

Ma FIM, FIOM, UILM, anziché resistere unitariamente o divisi in una trincea di difesa a oltranza dell’esistente hanno accettato e rilanciato la sfida. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Un’analoga operazione è stata messa in atto da Confcommercio con il recente contratto del terziario con le organizzazioni sindacali di categoria e con l’accordo sui livelli contrattuali con CGIL, Cisl, Uil confederali. Accordo soddisfacente per molti ma ritenuto insufficiente da Federdistribuzione che ha insistito per dotarsi di un proprio contratto specifico.

Nella GDO per anni è stato ritenuto più conveniente, anche da parte delle imprese multinazionali, accodarsi al contratto Confcommercio dove la presenza dei piccoli ha indubbiamente aiutato a contenerne i costi e a contribuire al suo sviluppo.

Quel modello è entrato in crisi, al di là del legittimo protagonismo associativo, quando l’offerta commerciale ha iniziato a superare la domanda. La crisi, il calo dei consumi e l’obsolescenza dei format commerciali hanno fatto il resto.

Le imprese inizialmente hanno preferito seguire una impostazione sindacale tesa ad accettare differenze significative tra i vecchi collaboratori e i nuovi (sugli inquadramenti, sulla qualità del rapporto di lavoro, sugli orari, e sul lavoro festivo e domenicale) che hanno contribuito non poco a dividere la vecchia guardia sindacale dai nuovi assunti che andavano via via aumentando.

Poi, sempre le aziende, hanno messo in discussione le rigidità organizzative e i premi fissi presenti nella contrattazione aziendale bloccandola, cancellandola o negoziando modifiche sostanziali mentre la crisi costringeva a chiudere contemporaneamente molti punti vendita obsoleti e, infine non riconoscendo il contratto nazionale del terziario firmato da Confcommercio e, proponendo un percorso autonomo.

Questa escalation supportata in ogni realtà da forme di coinvolgimento, importanti investimenti formativi, sistemi premianti, prospettive di carriera o di trasformazione del contratto da tempo determinato o parziale a tempo pieno ha disarticolato ed emarginato  il ruolo delle organizzazioni sindacali e il rapporto tra rappresentanti interni dei lavoratori con i lavoratori stessi.

Il sindacato, a quel punto, anziché reagire studiando, analizzando il cambio di passo, comprendendo i problemi veri e avanzando proposte di governo delle situazioni concrete si è lasciato isolare nelle singole realtà limitandosi ad una difesa della vecchia generazione di lavoratori, lasciando i nuovi assunti completamente in balìa delle imprese. Paradigmatica è la inutile guerra sulle festività e sul lavoro domenicale limitata ai lavoratori meno giovani o l’incapacità di chiudere il contratto della distribuzione cooperativa proprio per tutelare prerogative di una  particolare fascia di lavoratori.

A quel punto le aziende utilizzando al meglio il turn over e la flessibilità in entrata, hanno potuto costruire, intorno alle figure manageriali che si sono nel frattempo moltiplicate, una struttura di controllo, di sviluppo professionale e di gestione delle risorse, estesa fin dentro ad ogni punto vendita, coinvolgente e severa ma in grado di cooptare i collaboratori più disponibili ed emarginare quelli meno disponibili.

Il sociologo Renato Curcio (sicuramente più noto per altro ma estremamente puntuale nello studio della sociologia delle organizzazioni della GDO) parla di “singolarizzazione del rapporto di lavoro”.

Singolarizzazione nella quale lo scambio è ovviamente asimmetrico e prevede comunque la sostanziale esclusione del sindacato. È avvenuto in un tempo relativamente breve qualcosa che ha messo in discussione il modo di concepire il lavoro “in termini di tempo, di spazio e di mansioni”.

Quindi il lavoro nella GDO ha perso, sempre usando le parole di Curcio, la sua dimensione sociale e collettiva assumendo solo una dimensione personale.

In altri termini ciò che fino a pochi anni fa coinvolgeva solo figure apicali in certi contesti e con i dovuti distinguo si è diffuso a tutti i collaboratori siano essi precari, a tempo determinato, a parte Time o con specifiche esigenze personali o familiari da soddisfare.

E, per chi non viene “ingaggiato” dalle aziende e su cui insistono investimenti, formativi e professionali importanti, resta un destino di lavoro povero, precario e marginale più vicino al proletariato della logistica…

Il prossimo (primo) contratto della GDO – Federdistribuzione, se mai ci sarà, fotograferà inevitabilmente, e in modo netto, questa asimmetria. Con diversi tipi di conseguenze.

La prima evidente che porta con sé il rischio di consolidamento di una spaccatura tra tutelati e marginali. I primi lontani dal sindacato per scelta, i secondi per necessità.

Una seconda conseguenza è rappresentata dal rischio di sgretolamento della contrattazione nazionale dell’intero settore del commercio distributivo (quella aziendale è inesistente) dove la presenza di ben quattro contratti a disposizione delle imprese provocherà nel giro di poco tempo un inseguimento al ribasso sempre più difficile da governare dalle associazioni di categoria.

La terza conseguenza riguarderà una ulteriore messa in discussione del ruolo del sindacato di settore e la sua affidabilità come interlocutore con evidenti conseguenze a medio lungo termine sul sistema bilaterale e sulla gestione dei fondi contrattuali.

Per le imprese, ormai ripiegate sul breve, soprattutto se multinazionali, ci sono indubbi vantaggi. Non applicare i contratti, ritardarne l’applicazione, utilizzare la leva economica per dividere “i buoni dai cattivi” comportano risparmi importanti con i quali attenuare i margini commerciali in crisi. Sul lungo, al contrario, non è così. Anzi.

Quindi ci sono diversi approdi al post fordismo contrattuale. Nessuno è scontato e nessuno è dovuto. Ma questo presuppone un salto di qualità sia delle associazioni datoriali che sindacali. Altrimenti l’esito appare scontato e non certo equilibrato.

Favola natalizia semiseria dalla terra dei cachi…

In Europa, subito dopo la seconda guerra mondiale, c’era un Paese dove un partito solo poteva governare. E un altro poteva solo fare opposizione. Il popolo votava generalmente per il primo. A volte faceva arrivare il secondo quasi fino al filo di lana. Così per far pensare ad una vera competizione. Poi rinsaviva e rivotava per il primo.

Tutti però erano contenti così. Poi anziché costruire muri come si sarebbe fatto oggi ne è caduto improvvisamente uno. Apriti cielo! A nessuno, da quel momento e nel mondo, è  interessato più nulla di quel Paese.

Per questo motivo il secondo partito, quatto quatto, pensando di fare il colpaccio, ha costruito senza farsi troppo notare una macchina da guerra. Gioiosa, però, per non spaventare nessuno.

Ma, proprio sul filo di lana, il popolo è rinsavito di nuovo e ha votato per un altro. Non quello di prima, uno nuovo. Appena disceso in campo..

Dopo un po’ di tempo, il partito che non era mai arrivato primo, ci ha riprovato cambiando nome e, per sicurezza, mettendo alla sua guida un leader preso a prestito dal partito che vinceva sempre. Così, finalmente, ha vinto.

Un guaio! Per non smentirsi ha quasi immediatamente scaricato il leader optando per un usato sicuro ripescato tra quelli abituati a perdere.

E così, finalmente, anziché un leader con i baffi abituato ad arrivare primo se ne è dato uno con i baffetti del partito che poteva solo arrivare secondo. Si sentiva meglio così. Per evitare che qualcuno lo prendesse sul serio, però, ha scopiazzato le proposte tipiche del partito che era abituato ad arrivare primo così gli elettori, hanno preferito l’originale alla copia e lo hanno fatto ritornare immediatamente secondo.

E così poco dopo, passato il periodo dei fiori degli ulivi e delle querce, si è, piano piano, fatto scalare da una piccola ma importante pattuglia di chi era abituato ad arrivare primo. E si è dato un nome più rassicurante che facesse dimenticare le radici di provenienza.

Pensavano ormai di aver fatto tutto ma si sono accorti che l’Europa, manco fosse una vecchia suocera, ci chiedeva di decidere se stare di qua o di là. Ma dentro il partito, purtroppo, c’erano persone che volevano stare sia di qua che di là.

Così, ad un certo punto, l’Europa ha perso la pazienza. Non ci volevano più, né di qua né di là. Nel bel mezzo di questa interessantissima discussione il mondo intero è andato in crisi. Qui no. Anzi.

Vista la situazione grave ma non seria, è arrivato un comico che ha detto basta. Si era già da tempo messo in testa di costruire un movimento politico prendendo come simbolo le stelle che si incollano sugli alberghi e dicendo “vaffa” a tutti e due i partiti che un po’ continuavano a litigare è un po’ cercavano di andare d’accordo.

Siccome la confusione era tanta, il presidente della repubblica e tutti i partiti decisero di ingaggiare un tecnico con il loden a cui diedero il compito di salvare capre e cavoli. Appena salvi, tutti i partiti lo scaricarono immediatamente insieme alla strega cattiva accusandoli di tutti i mali possibili. E negando di averli mai conosciuti né chiamati.

A quel punto nel partito che non sapeva arrivare primo un giovane boy scout, stanco di guidare i lupetti nei boschi della Garfagnana, decise di partecipare alle primarie per pensionare, finalmente, tutti coloro che non volevano arrivare primi. E cominciò a raccontare che da quel momento avrebbero dovuto sentirsi primi. Non solo in Italia ma anche nel mondo.

Apriti cielo!

Quelli che non volevano arrivare primi, il comico e tutti quelli che si sentivano messi da parte si sono coalizzati contro quello che voleva farli diventare primi. Gli hanno detto NO e lo hanno gonfiato come una zampogna.

E lui se n’è andato sbattendo la porta. Adesso il comico vuole legittimamente diventare il primo partito mentre il partito che nel frattempo è ancora primo, nonostante tutto, può tranquillamente sperare di tornare ad essere secondo. O almeno a provarci.

Come è sempre stato.

Se al disagio sociale si risponde in modo insufficiente…

Fino al referendum sembrava tutto chiaro. Da un parte chi voleva cambiare il Paese, dall’altra tutti gli altri. In mezzo, ma comunque schierato con il NO, chi pensava comunque giusto cambiarlo ma non così come veniva proposto da Renzi e dal PD.

Nessuno poteva però immaginarsi cosa sarebbe successo il 4 dicembre. Né in un campo, né nell’altro. Né tantomeno i media o gli intellettuali schierati che continuano tuttora a non vedere i problemi di una parte del Paese tutti presi a fornire della realtà una lettura esclusivamente politicista cioè cristallizzata nelle logiche e nei riti della politica.

Tre incognite di cui nessuno aveva previsto le dimensioni. L’affluenza, il voto giovanile, le rabbia sorda delle periferie urbane e rurali. Tutte e tre queste incognite si sono riversate, pur con motivazioni differenti sul NO.

Non necessariamente sulla riforma proposta che pochi hanno preso in considerazione al momento della scelta. Un NO forte e chiaro che ha tante componenti e, non tutte, coerenti fra di loro.

L’affluenza, che rappresenta l’elemento unificante, indiscutibile della protesta e dell’esternazione del disagio sociale delle altre due incognite, il voto giovanile e la situazione di grave difficoltà che si vive nelle periferie urbane e rurali del Paese sono, a mio parere, gli elementi da cui partire. Altrimenti continueremo a cercare soluzioni semplici a problemi difficili.

L’ottanta per cento di NO sotto i 34 anni evidenziano una spaccatura generazionale fatta di mancanza di lavoro e di reddito ma anche di mancanza di comunicazione intergenerazionale.

Una spaccatura che nessuno riuscirà  ad interpretare in chiave politica. Molti di questi giovani, pur saliti transitoriamente sul taxi dei 5 stelle, hanno capito benissimo che nessuno è in grado di fornire loro risposte sufficienti in tempi ragionevoli e utilizzabili concretamente.

Ma non protestano più in piazza come le generazioni precedenti. Si lamentano sui social prigionieri di un mondo che non riesce né a farsi sentire dal resto della società né ancora a costituire un blocco sociale forte in grado di ribaltare la situazione a proprio favore.

Lo stesso mercato del lavoro è stato costruito per mettere a disposizione modeste e parziali risposte, in termini qualitativi e quantitativi in una situazione di crisi e di mancanza di prospettive. Risposte frustranti, lontane dalle aspettative e dagli studi effettuati dai ragazzi stessi, che spesso contribuiscono a minare in profondità l’autostima di chi non è messo in condizione neanche di proporsi per un lavoro.

Restano solo i social dove condividere questa impotenza prendendosela contro nemici immaginari continuamente proposti da cattivi maestri. Ma se non finalizzata è gestita questa rabbia inconcludente sarà costretta a cercare sbocchi come un fiume carsico e a produrre inevitabili quanto gravi lacerazioni del tessuto sociale. Da qui si capisce perché il Jobs Act, ad esempio, non ha creato nessun entusiasmo nei diretti interessati. Anzi.

Così come la tensione che sta montando nelle periferie contro gli immigrati, i vicini di casa, nelle famiglie e tra le famiglie.

Disagio grave che ormai non è più gestito da nessuno. A parte gli schiamazzi dei populisti nostrani che rischiano di bruciarsi le mani loro stessi se continuano ad esacerbare gli animi senza offrire soluzioni. Di fronte a questa situazione la politica, purtroppo, parla d’altro. Di coalizioni, voto anticipato, consultazioni. I giornali imperterriti accompagnano questo teatrino che scava solchi profondi tra le elites e le persone normali.

Di Vico ci racconta spesso con grande lucidità delle modificazioni che attraversano il mondo del lavoro. Le tre classi proposte nei suoi articoli secondo la definizione del sociologo Antonio Schizzerotto (L’operaio cognitivo, l’operaio fordista, il nuovo proletariato della logistica ma anche dei servizi alla persona, facchini e badanti, soprattutto stranieri) non si congiungono però a sufficienza con il retroterra sociale e il contesto economico nel quale queste figure si muovono e interagiscono o si scontrano tra di loro. Né con il resto del sottoproletariato urbano o rurale che vive alla giornata in un contesto di lavoro nero, malavitoso o, addirittura, in semi schiavitù.

Questa miscela tra mondo giovanile, lavori sottopagati o marginali, lavoro nero, disagi abitativi e di relazione, modelli di convivenza si sta radicalizzando e, questi aspetti non trovano più nella comunità, nella parrocchia, nel sindacato, nella scuola o nella famiglia ammortizzatori sufficienti e credibili.

E questo mondo, sempre più emarginato, si trova di fronte solo qualcosa di inarrivabile, impalpabile, inutilizzabile, dotato di una comunicazione astrusa e tutta da addetti ai lavori. Una comunicazione che parla solo di più zero virgola del PIL, di “ce lo chiede l’Europa” che resta matrigna e lontana, di Borsa, di posti di lavoro che riguardano solo gli altri, di vitalizi, di sprechi, di attività economiche che chiudono e di immigrazione incontrollata.

E tutto questo ha preso via via sempre di più le sembianze di una persona, il Presidente del Consiglio, ritenuto unico e massimo responsabile, verso cui la politica (con la p minuscola) ha indirizzato tutti gli strali possibili per non condividerne le responsabilità che non sono assumibili se non dall’intera comunità nazionale e rifiutandosi di fare un’opposizione seria e costruttiva.

E lui, anziché comprendere questo disagio e questa avversione crescente e questa sua impossibilità a gestire da solo questi passaggi ha continuato imperterrito la sua strada in solitaria e la sua narrazione del Paese che vorrebbe e non quello che è e da cui non si può prescindere.

Adesso, però, sia chiaro, sono guai per tutti.

Per una sinistra salottiera e senza idee che ha lasciato a suo tempo le periferie per conquistare il centro ma che, in questo modo, non sa più capire le periferie e i problemi che vi insistono, per una destra populista che pullula di piromani ma non sembra avere capacità di una proposta politica equilibrata e per movimenti che presidiano la rete ma non hanno la più pallida idea di cosa sia un quartiere popolare dove convivono etnie, abitudini, rabbie differenti. E, da questo punto di vista l’esempio di Roma capitale è paradigmatico.

Una cosa a mio parere risulta molto chiara.

Che lo si voglia o no, è solo partendo da ciò che ha spinto una parte minoritaria seppur importante dell’elettorato, a chiedere un cambiamento vero che si può ricostruire una comunicazione concreta, un rapporto, una proposta con quella parte che, con altrettanta buona fede, si è trincerata con lo schieramento opposto. Quindi occorre ripartire dalle profonde ragioni di cambiamento vero di chi ha votato SI.

Se qualcuno pensa che la soluzione sia nell’approfondire le contrapposizioni non ha capito nulla.

Il referendum un cosa ce l’ha insegnata. Ci sarà chi lavorerà in questa direzione per acuire le contraddizioni sociali. I COBAS ci stanno già provando. Così come l’estrema destra.

I riformisti di entrambi gli schieramenti devono capire che quel NO non è solo un esercizio democratico assolutamente legittimo ma contiene anche veleno sociale, lacerazione, quindi pericoli per la stessa democrazia.

Per questo occorre ttrarne le conseguenze necessarie. E questo impegno non può essere lasciato solo alle forze politiche. Nessuno si deve permettere di scherzare con il fuoco se ha a cuore il futuro del Paese.