Contratto metalmeccanici. La firma nel Black Friday?

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Forse ci siamo. I prossimi giorni potrebbero essere decisivi per la conclusione del CCNL dei metalmeccanici.

Mi verrebbe da dire, dando corpo ad una facile ironia, che la scelta del 25 novembre, un venerdì, come possibile fine della corsa non è affatto casuale. Si tratta di un giorno particolarmente importante, soprattutto per i consumi. Il famoso Black Friday.
Negli USA ha sempre costituito un valido indicatore sia sulla predisposizione agli acquisti, sia indirettamente sulla capacità di spesa dei consumatori. Ed è tenuto in grande conto tanto dagli analisti finanziari che dagli ambienti borsistici statunitensi ed internazionali.

Il Black Friday indicherebbe quindi un giorno di grandi guadagni per le attività commerciali. In altri termini, un giorno importante per i consumi.

Da qui il legame significativo con i rinnovi contrattuali. Consumi e reddito sono un binomio inscindibile. E, nella formazione del reddito i contratti nazionali rappresentano, per molti, la certezza di poter mantenere, in tutto o in parte, il proprio potere di acquisto.

Quindi un giorno importante anche per il mondo del lavoro.

Questo venerdì in particolare perché ci indicherà, inevitabilmente, alcuni orientamenti di fondo condivisi sia dalle imprese che dai sindacati metalmeccanici che contribuiranno a segnare la qualità delle relazioni sindacali nei prossimi anni.

Senza dimenticare che una lettura attenta di ciò che produrrà questo negoziato ci dimostrerà che, su diversi temi, altre organizzazioni datoriali e sindacali hanno già precorso tempi e argomenti ma sui metalmeccanici pesa la loro storia che in larga parte è la storia di tutti e quindi le loro conquiste costituiscono, inevitabilmente, un punto di svolta riconosciuto e sottolineato dai media e dall’opinione pubblica coinvolta come particolarmente significativo.

Quello che resta da vedere e se, l’importanza di questa storia passata riuscirà ad andare al di là della pur significativa probabile firma unitaria per consentire all’intera categoria di affrontare gli inevitabili cambiamenti del lavoro, dei luoghi del confronto e del modello di relazione necessario oppure se, questo nuovo contratto, approfondirà gli ancora gravi limiti emersi nel dibattito e nelle strategie tra le differenti sigle sindacali.

Ma, soprattutto, tra le nuove esigenze delle imprese e delle persone e la capacità di interpretarle e di governarle delle diverse organizzazioni sindacali di categoria. Il vero “rinnovamento” passerà da qui più che dai testi scritti.

Per Federmeccanica è comunque una scelta coraggiosa e un investimento. È una scelta coraggiosa perché, di fatto, rinuncia a trascinare la vertenza in una palude in cui potrebbe rischiare di restarne impantanata.

Falchi e colombe incrocerebbero immediatamente le spade tra di loro mettendo fuori gioco la capacità di mediazione dell’associazione datoriale proprio mentre il Paese sta cercando, faticosamente, una sua via tra globalismo intelligente e populismo mediocre.

E questo non potrebbe non riflettersi anche su di una Confindustria in evidenti difficoltà di ruolo e di movimento. Esito positivo del referendum e accordo con CGIL, CISL e UIL sono due pesanti fiches messe sul tavolo dal Presidente Boccia. I risultati ne segneranno inevitabilmente la sua autorevolezza e il percorso che lo attende. Il contratto dei metalmeccanici è certamente uno snodo importante; utile ma non certo sufficiente.

Per Federmeccanica è però anche un investimento. Aver posto al centro del negoziato le persone, la loro formazione, il loro benessere, la loro crescita e il loro contributo al successo delle imprese e non più il concetto fordista del lavoratore anonimo e uguale a tutti gli altri rappresenta un cambio di paradigma culturale.

Averlo proposto (e forse condiviso) ad un tavolo contrattuale rappresenta un segnale di grande disponibilità. Certo Federmeccanica non parla esplicitamente di “corresponsabilità” ne di coinvolgimento diretto del sindacato nelle imprese né garantisce esigibilità o livelli aggiuntivi della contrattazione ma non impedisce che ciò avvenga nelle forme e nelle modalità che le singole imprese potranno decidere.

Resta una grande incognita tutta di parte sindacale. La FIM ha disegnato un possibile nuovo campo da gioco forse un po’ troppo ardito e complesso per i differenti compagni di viaggio anche perché, dall’altra parte, molti imprenditori sono incuriositi ma anche perplessi sulla disponibilità e sulla determinazione messe in campo dallo stesso Marco Bentivogli.

Per dirla tutta, nella convinzione generale degli imprenditori, la navigazione verso industry 4.0, prevederebbe un ruolo assolutamente marginale per le organizzazioni sindacali. E il sindacato, tutto il sindacato, è percepito, al di là dei convegni, come un freno che si aggiunge a tutti i freni già tirati che in questo Paese circondano l’impresa.

Il segretario generale della FIM sta cercando di sparigliare le carte ma la diffidenza è ancora molto diffusa. E, spesso, i sindacalisti, anziché cercare di comprendere tutto ciò che avviene dentro un’azienda o le vere difficoltà delle imprese di oggi si accontentano di una caricatura datata di ciò che preoccupa il singolo imprenditore o il manager che devono affrontare situazioni complesse.

Oppure di continuare a leggere la realtà con lo specchietto retrovisore. E questa distanza è certamente da colmare. Per questo la firma del contratto, pur importante in sé, si misurerà sugli affidamenti che sul quel tavolo verranno concordati e condivisi.

È lì, come su altri importanti tavoli negoziali, che si gioca una parte del futuro delle relazioni sindacali del nostro Paese. Credo che questo sia chiaro a tutti.

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Corresponsabilità? Le navi non sono costruite per restare in porto

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La stagione dei grandi contratti nazionali del settore privato si sta avviando ai titoli di coda. Ci sono distanze che devono ancora essere colmate in alcune categorie ma la sostanza non cambierà.

Un dato sembra emergere in modo pressoché definitivo. Non è più il conflitto sindacale tradizionale a spostare sostanzialmente il risultato finale. Così come la rigidità di alcune associazioni o federazioni datoriali, alla lunga, non riesce più ad imporre alcunché.

In altri termini, la legge del pendolo, è anch’essa entrata in crisi quindi i rapporti di forza, favorevoli o meno, non sono più una opzione perseguibile.

Il contesto mediatico, sociale ed economico spinge comunque e sempre per soluzioni condivise e non sollecita contrapposizioni inconcludenti e infinite. Tra l’altro molti degli stessi obiettivi enunciati da entrambe le parti nei negoziati presuppongono quasi sempre una sostanziale condivisione.

E questo vale sia per il welfare contrattuale, la bilateralità in generale ma anche per l’esigenza che emerge con forza nelle imprese più innovative di coinvolgere, condividere e ingaggiare su obiettivi comuni l’azienda intesa come comunità di persone.

Quindi occorre andare oltre l’apporto semplicemente individualistico mettendo in gioco la disponibilità, l’intelligenza collettiva e lo spirito di iniziativa dell’insieme dei collaboratori su obiettivi condivisi. Un’impresa che vuole coinvolgere deve conoscere innanzitutto le sue persone, proporre loro percorsi di crescita, premiarne il merito, condividere economicamente i risultati raggiunti.

Ma deve anche riconoscerne la maturità, l’apporto e gli specifici interessi collettivi di cui sono portatori. L’opposto dell’azienda fordista, di matrice autoritaria dove le persone erano tutte uguali, intercambiabili e da gestire nella singola mansione affidatagli. O collettivamente come numeri tramite il vecchio modello di relazioni sindacali.

In questa “nuova” impresa la cultura tradizionale della contrapposizione e del conflitto collettivo ancora presente in una parte del sindacalismo italiano non ha più ragione di esistere nei termini prodotti nel secolo che abbiamo alle spalle. Anche il linguaggio, utilizzato spesso dal sindacato stesso per insistere in una logica caricaturale un po’ forzata delle posizioni della controparte, rischia di essere controproducente innanzitutto per chi lo utilizza.

Senza mai dimenticare che, l’inevitabile conclusione, ormai generalmente “win win” di qualsiasi negoziato, rende l’enfasi spesso utilizzata nella comunicazione tradizionale assolutamente inadatta a gestire i risultati ottenuti.

Quando la narrazione impiegata a sostegno delle proprie tesi è distante dalla realtà il distacco che si crea tra chi parla e chi ascolta diventa inevitabile.

E, se tutto questo è vero, non sarà sufficiente lavorare sui luoghi del confronto. Non esiste alcun automatismo tra decentramento e un conseguente ruolo collaborativo e propositivo. Ne c’è alcuna disponibilità esplicita di tutto il sindacato né da parte degli imprenditori di darlo per acquisito.

Su questo equivoco merito e metodo rischiano di non coincidere e quindi di sprecare un’opportunità di innovazione e di crescita per l’intero sistema. L’impresa di oggi, ma soprattutto quella di domani non può prescindere dalla implementazione un vero sistema collaborativo.

Il successo sarà sempre più costruito insieme  ai clienti, ai fornitori, e ai partner ma anche insieme ai propri collaboratori con i quali andranno condivisi rischi e opportunità. Ciascuna componente, con il suo contributo, rafforza o indebolisce il brand, quindi, di fatto, accelera o frena i potenziali risultati.

Ma questo cambiamento presuppone visione, coerenza, rispetto e valorizzazione di tutti i soggetti in campo. Ma, soprattutto, coinvolgimento. E questo coinvolgimento non si ferma davanti ai cancelli né può escludere il sindacato a prescindere.

Soprattutto in tempi dove la navigazione è a vista e i rischi sono talmente elevati che non possono essere esclusivamente in capo all’imprenditore. Certo quando si coinvolge occorre saper ascoltare, condividere, ingaggiare e poi comunque decidere. Ma è una navigazione diversa dal passato. Più responsabile e attenta al contesto e a tutto l’equipaggio.

È la corresponsabilità.

Una parola tutta da riempire di significato concreto perché  le navi non sono costruite per restare in porto. Lo stesso vale per il sindacato. Tutto il sindacato. Ormai fermo ad un bivio: accettare il declino continuando a sognare un ruolo e un peso che non c’è più nelle singole imprese o cogliere la sfida della corresponsabilità fino in fondo?

E questa sfida non può essere raccolta se si inseguono ancora superate egemonie novecentesche o se si cerca solo di farsi concorrenza nelle imprese scavalcandosi sui contenuti del confronto con l’azienda stessa. A mio parere il sindacato in questo modo rischia solo di fare la fine dei polli di manzoniana memoria che si beccavano tra di loro mentre venivano portati dal pollivendolo.

La stagione che abbiamo alle spalle ha lasciato in eredità solchi profondi dentro il sindacalismo confederale tra differenti sigle difficili da superare. Forse non sarà sufficiente un rinnovo unitario di uno o più contratti per invertire la tendenza.

Per questo, un semplice spostamento del livello del confronto in un contesto ancorato a modelli più o meno formalmente conflittuali, suscita legittime perplessità negli imprenditori e, di per sé, non farà evolvere un bel nulla.

A volte mi sembra che chi ne scrive la faccia troppo semplice. Senza un riorientamento culturale unitario, il ruolo del sindacato, e quindi la contrattazione aziendale, non decollerà in chiave collaborativa neanche attraverso robusti incentivi economici ma resterà confinata (ad esaurimento) solo laddove ha messo radici tradizionali. O sotto il saldo controllo delle imprese.

E questo non è sempre un bene. Il sistema ha bisogno di profondi cambiamenti e di equilibrio, non di scorciatoie.

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Perché vincerà comunque il SI…

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Mi sono stancato di sondaggi e commenti come credo tanti come me. La Brexit e le elezioni americane mi sono bastate.

La superficialità, salvo pochi casi, ormai domina sovrana. Purtroppo gli stessi soggetti che non hanno azzeccato alcuna analisi continuano imperterriti nonostante la pessima figura registrata.

Con una rapidità impressionante i media hanno scaricato i sondaggisti che, rassegnati e desiderosi di non essere messi definitivamente fuori gioco, hanno accettato la parte pur non essendo gli unici colpevoli…

Sul referendum istituzionale il gioco continua. I temi sono due e, guarda caso, nessuno sul merito del referendum stesso: la fine di Renzi come Presidente del Consiglio e la conseguente resa dei conti nel PD.

Il primo tema mi sembra scontato: se Renzi perde si dovrà fare da parte come Presidente del Consiglio. Lo ha detto e credo che lo faccia.

Il punto che forse molti sottovalutano è che, anche in questo caso, Renzi non perderà affatto sul piano politico. Avrà “solo” perso il referendum.

Proprio l’averlo personalizzato e aver spinto la compagine che lo ha avversato a personalizzarlo contro di lui lo porrà alla testa della percentuale che, pur nel caso di una sconfitta di misura, rappresenterà comunque un’area vera che esprime una volontà di cambiamento ben maggiore dell’elettorato del PD stesso.

E, siccome l’eterogeneità degli avversari non consentirà alcuna riforma, si potrà preparare alle elezioni del 2018 alla testa di un partito, il PD nel quale gode di un consenso ben maggiore di quello accreditato da chi tende ad enfatizzare posizioni assolutamente irrilevanti presenti al suo interno.

Quindi chi pensa di mandare in pensione anticipata un leader che registrerà comunque un successo personale ben superiore a quello del suo litigioso partito mentre gli avversari dovranno accontentarsi di un risultato ingestibile credo abbia fatto male i suoi conti. Così come chi, nel PD, pensa di rientrare in gioco in un partito pur litigioso oltre ogni immaginazione ma profondamente cambiato.

In un Paese in affanno e in difficoltà sociale ed economica con un destra in ricostruzione tra salviniani anti euro e governativi filo europei e i grillini in crisi di crescita, le elezioni del 2018 non si presenteranno così negative per chi sarà individuato come l’unico che ha tentato di personificare e portare avanti un cambiamento fortemente contrastato e, a quel punto, tutt’altro che compiuto.

Lo stesso cambio di tono di questi mesi segnala un disegno che guarda più in là del voto imminente. L’aggressività nei confronti dei “burocrati” dell’Unione non è casuale né finalizzata solo al 4 dicembre. In gioco c’è molto di più.

Soprattutto dopo le elezioni USA.

Questa è la ragione principale per cui il mio SI non si esaurisce il 4 dicembre dove è naturalmente scontato. Voglio pensare che il patrimonio di consenso che prenderà forma quel giorno al di là del risultato numerico verrà raccolto con convinzione per continuare a tenere accesa la volontà di cambiamento del Paese indispensabile a prescindere dall’attuale Presidente del Consiglio.

Di questo ce n’è indubbiamente un gran bisogno. E da questo punto di vista il referendum istituzionale è certamente un’occasione importante per mostrare fin dove possono arrivare i nuovi confini.

È vero c’è stata la Brexit, Trump ha vinto negli USA votato anche dagli operai e il disallineamento tra popoli e rispettive elites sembra approfondirsi.

Ma il referendum in Italia non c’entra praticamente nulla con tutto questo.

Gli altri Paesi hanno un debito pubblico sotto controllo, non hanno tre delle cinque mafie più importanti sul loro territorio  e non hanno un’evasione fiscale paragonabile alla nostra.

Cambiare non è solo un capriccio di pochi ma un’esigenza del Paese e dire che è possibile comunque farlo dicendo NO al referendum, pur incomprensibile, resta un diritto.

Pensare di farlo mettendo insieme una compagnia eterogenea che è la stessa che ha fatto poco o nulla fino ad ora è un’impresa impossibile.

Per questo il SI vincerà comunque. Che piaccia o meno agli esperti di casa nostra….

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Il lavoro, quando c’è…

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E adesso chi glielo spiega ai ragazzi che hanno protestato davanti al McDonald’s che quand’anche lo trovassero il lavoro sarà per loro e per tutta la loro vita fatica, impegno e sacrificio?

Chi racconta loro che cercarlo e trovarlo oggi è molto difficile ma non è nulla rispetto a ciò che dovranno mettere in campo per mantenerselo nel tempo?

Forse a scuola e a casa non hanno più nessuno che può o è in grado di farlo. In rete gira una frase molto bella che rappresenta i giovanissimi “Maneggiare con cura, contiene sogni”.

Colpisce nella sua semplicità. È una parte essenziale del processo di crescita. Pensare a se stessi, ai propri desideri, alle proprie traiettorie di vita. Guai se non ci fosse.

È l’unico antidoto al cinismo e alla competizione esasperata. Ma assunto in dosi eccessive porta ad una dissociazione dalla realtà. Spinge ad estraniarsi e a considerare tutto ciò che non rientra nel proprio punto di vista come una dimostrazione inoppugnabile delle proprie convinzioni e quindi alimenta un pessimismo cosmico che mette piombo nelle ali. E spinge ai margini.

McDonald’s o una Banca non sono il diavolo.

Si può entrare dalla porta principale o ci si deve accontentare di entrare dal retrobottega. l’unica cosa che non si può fare è rinunciare a provare ad entrarci.

Qualsiasi crescita personale, realizzazione di un proprio sogno o di un progetto di vita passa da lì. Da quel primo passo. E nessuno lo può compiere se non il diretto interessato con la consapevolezza necessaria.

Ventisettemila opportunità a disposizione per sentire il profumo non solo degli hamburger ma anche del sudore e della fatica dei colleghi ma anche di cominciare a misurarsi con il contesto che darà senso e misura alla realizzabilità dei propri sogni, i tempi necessari, i percorsi fondamentali.

La scuola non è in grado di spiegarlo: produce titoli scritti su di un pezzo di carta ma, da sola, non può fare di più. Neanche la famiglia può fare molto.

Soprattutto se già nella scelta della scuola del figlio c’è la preoccupazione e l’ansia sulla mancanza quasi certa di uno sbocco qualsiasi. Inviare trenta o quaranta CV e non ricevere alcuna risposta farà il resto incidendo anche sulla propria autostima e alimentando una rabbia impotente.

Ma è proprio questo il punto. McDonald’s è lì a raccontarci che si può farcela. Partendo proprio dal friggere un hamburger. Non capirlo significa illudersi che ci siano altri modi per farcela.

Non è così. In uno studio legale, in un supermercato, in una fabbrica, in una start up, in un ufficio pubblico o privato in Italia o all’estero si comincia sempre così: “mettere la cera, togliere la cera” come ci ha raccontato il vecchio ma sempre attuale film Karate Kid.

È vero che ci sono i raccomandati, i predestinati, i talentuosi che saltano qualche passaggio ma fare la corsa su di loro serve a poco. Certo si può andare nelle scuole a spiegare il lavoro ma non è la stessa cosa. Non se ne percepisce il senso, i linguaggi, il contesto e i valori in gioco.

Per questo quegli striscioni, quelle parole d’ordine, quegli insulti ritornano come un boomerang solo contro chi li agita.

E, per questo, qualcuno lo deve rappresentare ricordando a ciascuno di quei ragazzi che l’unico posto dove il successo viene prima del sudore è il vocabolario.

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Contratto metalmeccanici. Vecchie egemonie e nuove sfide.

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In un recente articolo su “Formiche” a firma di Berardo Viola e Fernando Pineda, ci sarebbe, secondo gli autori, una precisa strategia della Cgil tesa a ritardare la firma del contratto nazionale dei metalmeccanici in chiave anti Renzi.

Personalmente non lo credo realistico. La distanza tra la firma o meno del contratto dei metalmeccanici e il contesto politico nazionale è comunque tale da rendere inutile una mossa in questa direzione.

Il contratto dei metalmeccanici, pur importante nel sistema delle relazioni industriali del nostro Paese, non è più in grado, da diversi rinnovi, di determinare, da solo, il cambio di una stagione politica.Né di arrestarne l’evoluzione.

Landini può tranquillamente mangiare i tortellini se vince il “NO” ma non potrà né avrà alcuna convenienza ad ascriversene il merito.

Soprattutto per le conseguenze politiche ed economiche che il Paese, e quindi anche i lavoratori metalmeccanici, si troveranno a subire nel biennio successivo.

A mio parere la CGIL a livello confederale ha convenienza a concludere rapidamente con le organizzazioni datoriali. Che piaccia o meno il sindacato di Susanna Camusso sta guidando la trattativa con tutte le controparti in campo e con tutta l’intenzione di non subirne l’esito.

D’altra parte, nella stessa trattativa sulle pensioni avrebbe potuto manifestare ben altre reazioni ai giudizi di CISL e UIL viste le dichiarazioni di evidente insoddisfazione sul risultato.

Invece la CGIL non ne ha approfittato, come avrebbe potuto, in vista del referendum proprio perché, pur schierata per il “NO” non è su quello che sta giocando la vera partita.

Chiudere i contratti e sottoscrivere gli accordi con Confindustria, Confcommercio e le organizzazioni minori consentirebbe alla CGIL di serrare i ranghi, rilanciare sui contenuti e ricomporre un disegno unitario di lungo periodo con un profilo diverso dal passato nel quale cercare di rappresentarne l’asse portante.

L’impasse nel contratto dei metalmeccanici è dato più da una volontà egemonica della FIOM, mai sopita e di nervosismo evidente per l’attivismo della FIM CISL e del suo segretario generale. Tutti i contendenti sanno benissimo che il contratto si deve chiudere e che non c’è spazio per firme separate come nei rinnovi precedenti.

Non lo vuole Confindustria, non lo vuole Federmeccanica e, altrettanto importante, non lo vogliono né la FIM né la UILM. Ovviamente non lo vuole anche la FIOM.

La calendarizzazione di incontri negoziali e tecnici preannunciati, al di là dei tatticismi prelude ad una conclusione imminente pur nel rispetto delle liturgie.

C’è poi la tradizionale ritrosia presente in tutte le categorie della CGIL a mettere la firma sotto qualsiasi accordo. Mi ricordo che, Pierre Carniti, parlando negli anni ottanta del contratto dei metalmeccanici del ’66, di cui era uno dei leader indiscussi, disse che se fosse stato per Trentin, allora segretario generale della FIOM, la firma, dopo tutti quegli anni, sarebbe stata ancora in forse.

Però, al di là delle battute non credo che nessuno abbia interesse a correre il rischio di non chiudere.

Troppi contratti nazionali sono al palo e rischiano ben altre conclusioni. E non sono più tempi, questi, di strategie suicide di generalizzazione del disagio sociale con l’obiettivo di ottenere risultati sul piano organizzativo.

Il rischio di lavorare per il re di Prussia è molto più alto.

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Contratto metalmeccanici. È meglio l’uovo oggi o la gallina domani?

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Pur non dando nulla per scontato credo che si possa dire che siamo alle battute finali del rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Come sempre accade nell’ultimo miglio di tutti i negoziati, l’elemento sul quale si registrano ancora delle differenze è l’aumento salariale sia in termini quantitativi che qualitativi.

Mi sembra che una scelta sia stata compiuta da entrambe le parti in causa e cioè di iniziare uno spostamento significativo di materie e di spazi di negoziazione dal livello nazionale a quello aziendale.

Gli obiettivi, però, restano ancora diversi. Federmeccanica con questa operazione cerca di ottenere innanzitutto un depotenziamento significativo e definitivo del CCNL. In questo modo il ruolo di governo del salario della categoria, a quel livello, potrà, nel tempo, ridursi notevolmente.

Nelle intenzioni iniziali avrebbe voluto svuotarlo addirittura in tempi più rapidi ma l’operazione si è rivelata troppo indigesta ai sindacati. Il rinnovamento pensato dall’associazione datoriale, che lo si voglia o meno, passa anche da qui.

Una volta tolto l’ultimo tassello che, a loro parere, irrigidisce la contrattazione, la partita potrà cambiare regole e giocatori. La stessa proposta di decalage sul recupero dell’inflazione sposta temporalmente la data di scadenza ma va anch’essa in questa direzione. Il sindacato lo ha capito benissimo e, ad oggi, chiede risposte diverse.

È un passaggio molto delicato. Federmeccanica non sembra voler concedere (ed è corretto) alcuna esigibilità della contrattazione aziendale né territoriale ma, con la proposta di decalage, se confermata, crea una asimmetria evidente tra imprese che vorranno fare o meno la contrattazione aziendale.

Di fatto un incentivo a non farla visto da parte sindacale. Visto da fuori credo che il nodo principale sia questo. Lo sviluppo della contrattazione aziendale è una scelta ragionevole. Occorre però che sia condivisa nei suoi obiettivi e fino in fondo da entrambe le parti in causa.

La FIM CISL, che più si è spesa in questa direzione, è assolutamente d’accordo a spostare il baricentro però l’obiettivo è quello di condividere oneri e onori della vita delle imprese. Quindi dare senso e contenuti al termine “corresponsabilità” proposto con convinzione dal Presidente di Confindustria.

Federmeccanica sembra essere molto più cauta. Da un lato non ha mai usato quel termine esplicitamente. Ha sempre parlato di coinvolgimento, condivisione, ingaggio dei lavoratori. Mai del sindacato. Né interno né esterno alle aziende.

E non è una differenza da poco. La UILM sembra aver una posizione intermedia mentre la FIOM, poco attratta da queste “fughe in avanti” resta coperta. Non può non sottoscrivere il prossimo contratto ma può rallentarlo cercando di renderlo sufficientemente indigeribile anche alle altre due organizzazioni.

La questione di fondo è rappresentato dalla qualità e dalla direzione di marcia del rinnovamento auspicato. E quindi il grado di convinzione e il livello di mediazione accettabile per entrambi. L’alternativa è chiara: meglio un uovo oggi o la gallina domani?

È meglio un contratto nel solco della tradizione che accontenti tutti, quindi nessuno, o un patto vero tra innovatori che guardano al futuro del settore e del ruolo dei corpi intermedi?

La capacità di interpretare il nuovo e di guidare il cambiamento passa anche da questa scelta.

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Pensioni, pensionati, pensionandi….

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Ci siamo. Non riuscendo a mettere mani sulle pensioni retributive l’INPS ha lanciato una maledizione.

Chi va in pensione con il retributivo, lo dicono le statistiche, muore prima.

Questa mancava.

All’idea che i pensionati retributivi rubassero il futuro si giovani ci si stava abituando. Così come alla proprietà transitiva utilizzata dai media che omologa vitalizi e pensioni d’oro a tutte le pensioni calcolate con il metodo retributivo.

Prendo a prestito una metafora dell’amico Bentivogli per affermare che non è più buona cosa stare “pancia all’aria a Formentera”. Meglio “pancia a terra” in fabbrica.

Siamo alla frutta. Adesso attendiamo le dichiarazioni del Presidente dell’Inps che non essendo l’autore di questa sortita si sentirà in dovere di dire la sua.

Siamo di fronte alla scoperta dell’acqua calda.

Chi cura la propria salute, chi tiene allenato il proprio corpo e il proprio cervello, chi fa un lavoro meno pesante, campa di più.

Vien da pensare che, forse è proprio per arginare questa verità, che lo Stato cautela le proprie entrate con il fumo, l’alcol, il gioco d’azzardo e la benzina.

Se non puoi ridurli o tassarli (i pensionati retributivi) spaventali e dai a tutti gli altri (i pensionandi) una ragione per rinunciare al traguardo.

I prossimi anni, abituiamoci, saranno così. Dotti interventi di esperti delle pensioni altrui sulle curve e sui tassi di sostituzione alternati da minacce di contributi aggiuntivi o passaggi repentini a nuovi sistemi di calcolo.

Le trincee però sono scavate. Prima i vitalizi, poi le pensioni dei parlamentari e di altri potenziali privilegiati, poi le pensioni d’oro, poi le pensioni alte, poi la mia.

La vedetta eletta all’unanimità (via web) è Mario Capanna. Lui è là davanti sulla prima barricata. Ha smesso di lavorare presto, esce dal letargo solo per ricorrenze particolari tipo inaugurazione della Scala o rievocazioni del 68. Gode di ottima salute.

Cosa dirà oggi dopo aver letto la minaccia non tanto subliminale dell’INPS? Compagni, c’è uno spettro (il sistema pensionistico) che si aggira per l’Europa.

Non riuscendo a metterci le mani in tasca è passato alle maniere forti. Non vuole prenderci un contributo, vuole prenderci tutta la pensione. È il capitalismo, bellezza.

Ribelliamoci fino a che siamo in tempo.

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Merito individuale e sindacato, un ossimoro insuperabile?

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In un recente convegno del Forum della Meritocrazia ha preso la parola Roberta Roncone, una dirigente della FIM CISL, il sindacato dei metalmeccanici.

Un intervento richiesto che dimostra la visione degli organizzatori che vedono nel Merito con la emme maiuscola una sfida necessariamente da allargare a tutti i soggetti che concorrono a determinare i risultati in azienda.

Dall’altro, una partecipazione senz’altro voluta da un sindacato, la FIM CISL che cerca di comprendere a fondo l’evoluzione dei modelli organizzativi, la professionalità quindi la formazione necessaria e il suo riconoscimento. E questo implica inevitabilmente un atteggiamento sindacale ben diverso dal passato nei confronti dell’impegno individuale e del merito.

Se torniamo un po’ indietro nell’impresa post bellica e prima della grande ondata migratoria dal sud, nelle aziende del nord si respirava un’aria fortemente paternalistica ma, tutto sommato, collaborativa. Il rapporto tra imprenditori, dirigenti e lavoratori era duro ma costruttivo. Dalla culla alla tomba l’azienda si occupava dei suoi dipendenti migliori in cambio della loro totale fedeltà. Il sindacato era ai margini.

Bisogna arrivare a dopo la metà degli anni 60 per vedere questo rapporto, comunque asimmetrico, entrare definitivamente in crisi. Soprattutto nella grande impresa.

Non è un caso che le prime grandi rivendicazioni operaie avvengono in aree periferiche e non come sarebbe stato prevedibile nel triangolo industriale. Dove l’etica del lavoro, l’impegno e la disponibilità erano maggiori.

Ma qualcosa si stava rompendo e le aziende stentavano a comprenderlo. Simbolico, ad esempio, è l’abbattimento della statua del conte Marzotto a Valdagno.

Il paternalismo e la vecchia disciplina quasi militare, che non permettevano una gestione collettiva fuori dai rari accordi nazionali, non erano più in grado di affrontare la nuova fase dove il fordismo cominciava a pretendere ritmi di lavoro sempre più elevati, spersonalizzanti che spingevano inevitabilmente i lavoratori verso le rivendicazioni egualitarie, di massa, proposte dalle organizzazioni sindacali.

Nelle aziende gli uffici del personale prima, le direzioni relazioni industriali poi, diventarono centrali. Affrontavano quotidianamente forti sollecitazioni dal basso e, di fatto, dettavano le regole del gioco a tutto il sistema rendendolo poco sensibile al merito, e al riconoscimento dell’impegno individuale.

Ci sono voluti almeno una decina di anni circa per assorbire e riportare in condizioni di normalità quelle contraddizioni che in parte, purtroppo, permangono ancora oggi. L’affacciarsi delle prime crisi di mercato ha poi fatto il resto.

Le imprese però hanno comunque cercato di mantenere un sufficiente grado di autonomia totalmente slegato dalle richieste sindacali soprattutto nelle piccole e medie aziende perché un rapporto di maggiore coinvolgimento e collaborazione tra imprenditore e lavoratori era connaturato sia alla dimensione che al modello organizzativo. Nelle grandi, al contrario, occorrerà attendere l’arrivo, più in là, dei modelli di gestione delle multinazionali.

Con politiche prima rivolte a dirigenti e quadri, poi a risorse chiave e giovani. Nell’impresa fordista (non solo industriale), però, hanno continuato ad essere esclusi gli operai che restarono e restano, di fatto, tuttora gestiti quasi esclusivamente dalla contrattazione nazionale o aziendale con tutti i vincoli conseguenti.

Da qui, ad esempio, la necessità del sindacato di spingere verso l’alto intere categorie di lavoratori a prescindere dal merito o dall’impegno individuale. E quindi L’inevitabile  costruzione di una cultura corrispondente.

Oggi il paternalismo di vecchio conio è relegato nelle imprese perdenti ma anche le richieste sindacali tradizionali non trovano ascolto.

Le politiche retributive, i sistemi di valutazione, lo sviluppo professionale e il welfare sono sempre più gestiti con un approccio moderno, condiviso e oggettivo.

Parole come, merito, trasparenza, impegno, contributo individuale e collettivo al successo dell’impresa, flessibilità, professionalità sono condivise anche dalla stragrande maggioranza dei lavoratori.

Il sindacato, o almeno parte di esso, si rende conto di essere fuori gioco. Le aziende, tra l’altro, sono sempre meno interessate a proporre atteggiamenti strumentali o non oggettivi.

Un rapporto di lavoro che non è più “dalla culla alla tomba” presuppone reciproci interessi da riconoscere. Si trasforma inevitabilmente in un rapporto adulto, dove le convenienze devono essere evidenti per entrambi i contraenti.

Se non ci sono più garanzie sulla durata del rapporto di lavoro lo scambio deve prevedere altri valori o interessi.

Quindi la qualità e l’immagine dell’impresa, la possibilità di crescere non solo economicamente, di apprendere, del welfare proposto, di mantenere un proprio valore sul mercato costituiranno sempre di più un elemento importante di valutazione.

E un’azienda sempre più orientata al riconoscimento del merito individuale, dell’impegno, della collaborazione di tutte le sue componenti nella realizzazione dei propri obiettivi Inevitabilmente attrae e mantiene i propri talenti, costruisce un clima positivo, ingaggia e coinvolge di più i propri collaboratori.

Se il sindacato si ferma davanti ai cancelli e si limita a pretendere un ruolo a prescindere dalla propria volontà di contribuire ad una autentica corresponsabilità finirà inevitabilmente marginalizzato. La strada è ovviamente lunga perché la cultura di provenienza e le diffidenze delle imprese pesano come un macigno.

Ma le sfide da industry 4.0 ai nuovi mestieri prodotti dalla globalizzazione incombono e spingono verso scelte nette. Per questo hanno fatto bene il Forum della Meritocrazia e l’AIDP a favorire questo incontro. E ha fatto bene la FIM CISL a mettersi in gioco accettando la sfida.

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La coda del cane..

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Quando mi trovo incastrato in discussioni su come chiamare una nuova situazione, un nuovo concetto, un’attività mai fatta prima ricordo sempre quel vecchio proverbio che dice: ” puoi anche decidere di chiamare zampa la coda del cane ma comunque non puoi sostenere che il cane ha cinque zampe. In tema di nuovi lavori siamo un po’ qui.

Da una parte chi pensa che sia assolutamente necessario lasciar crescere un fenomeno indotto dalla tecnologia e dalla globalizzazione non preoccupandosi più di tanto di trovargli un nome appropriato e una classificazione conseguente.

Dall’altro chi si preoccupa di dover inserire immediatamente l’anomalia in una casella tradizionale o crearla ad hoc. Al netto della tecnologia, quindi già da molto tempo, i sistemi retributivi, di inquadramento contrattuale e di classificazione sono utilizzati dalle imprese esclusivamente per evitare contenziosi.

Le quattro definizioni del codice civile, pur essendo indispensabili ai fini giuslavoristici fanno sorridere nella vita reale delle organizzazioni. Come nel film “Quo Vado” era il posto fisso a identificare una categoria di lavoratori, in azienda, se si volesse fare altrettanta ironia, si utilizzerebbero termini come Dirigente, Quadro, impiegato e operaio.

Oppure le declaratorie contrattuali. Tutti questi termini nascono e muoiono nella lettera di assunzione che definisce i confini del rapporto di lavoro ai fini giuslavoristici. Poi c’è la vita vera.

Questa spaccatura netta tra definizione giuridica e contrattuale e realtà è stata importata dalla cultura delle multinazionali e si è imposta già a partire dagli anni 90. Non ha però influenzato il pubblico impiego né parte del lavoro autonomo tradizionale né quello che resta del fordismo ormai al tramonto.

In alcuni contratti si è tentato in qualche modo di rincorrere il problema ma i buoi erano ormai già usciti dalla stalla. I sistemi retributivi, premiali, di valutazione, la denominazione delle posizioni di lavoro e i conseguenti livelli di inquadramento, pur facendo riferimento ai contratti nazionali per i motivi di cui sopra, vivono ormai di luce propria e sono gestiti direttamente dall’impresa.

E quello che sta avvenendo all’interno delle aziende avviene anche nel lavoro autonomo, ordinistico e non ordinistico, stravolgendo contenuti, confini, compensi e opportunità. In questo contesto nascono nuovi mestieri o spunta periodicamente l’idea di rinominarli.

Così i fattorini o pony express diventano bikers, vendere le enciclopedie la domenica o distribuire i volantini dei supermercati, gig economy, affittare la propria stanza ad uno studente o a un turista, sharing economy.

Tutte cose che in misura modesta si sono sempre fatte. La nostra vecchia arte di arrangiarsi, rivisitata nella silicon valley, si è trasformata in jugaad innovation e viene insegnata da guru che riempiono aule di manager alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Solo che dietro a tutto questo non c’è la signora Maria di turno o il cassaintegrato che, in nero, arrotonda il suo magro reddito ma multinazionali in grado di influenzare il dibattito internazionale sul fisco, sul lavoro e sulla tecnologia.

E quindi, certi temi, vengono affrontati con cautela o con subordinazione. Sul fisco non si parla di grandi evasori che sfruttano le falle dei sistemi nazionali così come sul lavoro o sulle attività economiche non si parla di regole che devono valorizzare la sharing economy senza farla scadere in shadow economy sulla quale peraltro vantiamo, credo, il primato mondiale.

Mi ricordo quando sul finire del secolo scorso in alcuni supermercati della Coop comparvero pensionati di quell’azienda intenti a riempire sacchetti, alle casse, per sveltire il servizio ai clienti. Operazione meritoria. Purtroppo interdetta alle aziende concorrenti subito bersagliate dagli ispettori del lavoro. Quindi stesso mercato, stesse regole.

Che dire? È chiaro che non ha alcun senso attendere l’esito delle cause in Inghilterra su Uber o le decisioni della città di New York. Forse avrebbe più senso affrontare il tema senza farsi prendere la mano dalle mode o dalla paura del giudizio interessato di molti.

È un po’, mi si passi il paragone forzato, come la questione dell’olio di palma. Le imprese, o almeno una buona parte di esse, ha aderito ad un onda cercando di sfruttarla dal punto di vista del marketing fino a quando un’azienda importante che ritiene fondamentale l’uso  di quel prodotto non ha detto basta trasformando uno tsunami in una tempesta dentro un bicchiere d’acqua.

Qui siamo. Da un lato c’è il lavoro che cambia in una fase comunque di transizione epocale. Nei prossimi anni dovremo far coesistere modelli, culture, regole che comprendono sia il vecchio che il nuovo. È il destino delle nostre generazioni.

Noi siamo chiamati a fare quello che abbiamo sempre fatto in modo nuovo. Chi verrà dopo di noi, al contrario, dovrà fare cose nuove in modo nuovo. A noi spetta il compito di renderlo possibile senza lasciare scoperto nessuno. E soprattutto senza prendere in giro nessuno.

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La flessibilità del CCNL del terziario trova una nuova conferma.

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È più importante la firma, comunque ottenuta, di un contratto nazionale o gli affidamenti che si costruiscono all’interno di consolidate relazioni sindacali tra le parti stipulanti?

Un negoziato, per quanto facile o complicato si possa presentare, non fotografa solo la rappresentatività o i rapporti di forza che le parti sono in grado di mettere in campo ma anche e soprattutto l’affidabilità reciproca.

Ai tavoli negoziali si fanno intendere molte cose pur di ottenere un risultato. Da entrambe le parti, però, di quelle parole non resta molto. Questo contribuisce inevitabilmente a incrinare la credibilità concreta dei negoziatori e delle organizzazioni che rappresentano.

Chi oggi non riesce a chiudere i contratti paga anche questo scotto. Le parole, le dichiarazioni, gli impegni non sottoscritti nero su bianco senza quella credibilità che si conquista sul campo, non sono sufficienti a garantirne l’affidabilità.

E, quella credibilità non può che essere di tutto il gruppo dirigente, unitariamente inteso, se il negoziato è di una intera categoria, quindi di natura nazionale. Ma questo vale anche per le associazioni datoriali che sono chiamate a garantire il rispetto di ciò che si concorda nelle imprese che applicano il contratto stesso.

Se restiamo nel terziario, uno degli errori di Federdistribuzione è stato proprio pensare che per sottoscrivere un contratto nazionale bastasse indicare un proprio perimetro esclusivo di riferimento e, all’interno dello stesso, promettere alle imprese associate un risultato teoricamente allettante per i loro amministratori delegati in costante ricerca di riduzione dei costi.

Riproponendo, più o meno inconsapevolmente, uno schema novecentesco a parti rovesciate quando i sindacati di categoria promettevano nelle assemblee dei lavoratori piattaforme ricche di obiettivi di improbabile realizzazione.

E non considerando minimamente che l’atteggiamento apparentemente disponibile di questa o quella organizzazione sindacale manifestato a questa o a quella azienda, si sarebbe trovato a fare i conti con un equilibrio da individuare tra parole e affidamenti in testi da concordare ma anche e soprattutto con le dinamiche dell’intero comparto del terziario gestito dalle stesse organizzazioni sindacali con ben altri interlocutori.

E, per dirla con una brutta locuzione sostantivale maschile in grande uso di questi tempi, il “combinato disposto” di richieste irrealizzabili in un contesto ben più ampio del perimetro ipotizzato ha determinato lo stallo nel quale il negoziato si è arenato.

E adesso trovare una “exit strategy” per loro non sarà impossibile ma resta molto più complesso di prima e rischia di non essere affatto indolore in termini di costo per le imprese e di ripercussioni economiche per i lavoratori coinvolti.

L’affidabilità, la coerenza, il senso di responsabilità non si manifestano solo all’atto della firma di un contratto di nuovo conio ma accompagnano i contraenti per tutta la durata dello stesso.

Non ci può essere nulla di automatico né di scontato. Se così fosse si minerebbe alla base la logica stessa dell’esistenza di un contratto nazionale.

Nel caso del contratto nazionale del terziario questa coerenza ha determinato la sospensione della tranche sottoscritta e prevista per il mese di novembre. Il sindacato di categoria (Filcams, Fisascat e Uiltucs) e la Confcommercio hanno concordato di rinviarne l’erogazione.

Ovviamente un atto di questa portata dettato da lungimiranza e senso di responsabilità verrà analizzato da diversi punti di vista meno che da quello fondamentale. Il contratto nazionale ha un futuro solo se si conferma come un prodotto di una responsabilità condivisa.

Nell’interesse delle imprese ma anche dei lavoratori. In questo caso di ben oltre tre milioni di addetti. Non farà notizia come tutto ciò che riguarda il terziario ma, come dice spesso il Presidente Sangalli: “terziario, si ma secondi a nessuno”.

E così è stato sul terreno dell’innovazione contrattuale e delle relazioni sindacali. Un contratto nazionale, soprattutto in un comparto come il terziario, per reggere in un contesto in continua evoluzione deve essere flessibile, derogabile, adattabile e modificabile.

Non certo solo ogni quattro anni. Lo ha dimostrato producendo recentemente un contratto aziendale innovativo a Venezia per oltre 500 giovani, lo dimostra sospendendo una tranche di aumento con l’accordo unitario di tutto il sindacato di categoria.

È una strada, offerta a tutti i settori, che permette il consolidamento di una necessaria tutela collettiva che solo un CCNL può garantire ma anche una opportunità nuova per le imprese che in questo modo possono programmare tarando i propri costi e il proprio agire ad un contesto in continuo cambiamento.

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