È il momento di rompere gli schemi…

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Con la concertazione giunta al capolinea sembrava non ci fosse più niente da fare per i corpi intermedi. La disintermediazione (teorizzata e praticata) proponeva al Paese la possibilità di farne a meno e, nei comportamenti concreti il Governo sembrava deciso ad andare in quella direzione.

Le organizzazioni datoriali (soprattutto Confindustria) confinate ad un ruolo ancillare, CGIL,CISL e UIL “condannate” ad una inefficace quanto tardiva unità d’azione incapace di contrastare le iniziative della politica ma anche di contribuire, con proposte, alla loro formulazione pratica.

Gli ottanta euro hanno, per certi versi, rappresentato la sublimazione di quel tentativo di delegittimazione. Il suo punto massimo. Quando Renzi annuncia:”ho dato più io dei sindacati” lancia una sfida.

Così come quando si interroga sulla rappresentatività di Confindustria nelle aziende controllate anche dal Tesoro. È il momento dove l’appuntamento a Cernobbio dei forum Ambrosetti è un luogo da evitare perché frequentato dai “professionisti delle tartine” e la “sala verde” posta proprio sopra la sala del Consiglio dei Ministri, quasi ne fosse metaforicamente superiore in ordine di importanza, viene additata al pubblico ludibrio.

Quella fase, però, si schianta sugli zero virgola. Un Paese che non cresce non può ridursi al pallottoliere. Sul PIL, sulla qualità delle assunzioni, sui risultati (migliori del passato) ma ben lontani da ciò che servirebbe ad un Paese disorientato e preoccupato.

Un disorientamento non colmato da un’Europa sempre più matrigna e distante, incapace di leggere la stanchezza di interi popoli verso le loro elites nostrane ma anche verso gli altrui egoismi nazionali. Tutto questo ha segnato una svolta. Non anti renzista ma antirenziana come direbbe Oscar Farinetti.

C’è sempre un Paese che vuole cambiare, integrarsi in una Europa diversa, che vede nella globalizzazione una opportunità e non solo un pericolo, che crede in un futuro possibile.

Un Paese a cui magari piace meno, non piace più o non è mai piaciuto Renzi, la sua arroganza personale, il suo disegno politico o la sua narrazione della realtà che non corrisponde a quella vissuta concretamente ma ne comprende la necessità, l’urgenza delle sfide da condividere e, soprattutto, l’obiettivo di fare del nostro Paese un luogo diverso, attraente, normale e ricco di opportunità.

La mancanza di risultati sul terreno della crescita, le risse interne al PD, i magri risultati elettorali, l’avvicinarsi del referendum hanno spinto Renzi e il suo Governo a cercare interlocutori e sostenitori non tanto sul leader in sé quanto su scelte economiche e politiche che ricreassero condizioni di confronto, di condivisione e di collaborazione nell’interesse del Paese.

Da qui l’interlocuzione costruttiva con i corpi intermedi che hanno colto l’importanza e la necessità di rimettersi in gioco con proposte equilibrate, realizzabili e in grado di evitare forzature che lacererebbero ulteriormente il tessuto sociale del Paese.

La trattativa sulle pensioni e gli interventi condivisi a favore delle imprese e della crescita sono lì a dimostrarlo. Sono segnali importanti della volontà di intraprendere una diversa direzione di marcia. Adesso la palla è nel campo dei corpi intermedi. I segnali sono incoraggianti.

Confcommercio è da tempo su questa linea. Il neo presidente di Confindustria Boccia a Capri, all’assemblea dei giovani è stato altrettanto chiaro, la CISL e la UIL in modo esplicito, la CGIL a corrente alternata hanno tutti condiviso la necessità di cambiare a partire dall’accordo sulla contrattazione e dalla chiusura dei contratti aperti per arrivare ad un vero e proprio patto per il Paese. Il tempo non è molto.

Il Presidente dei giovani di Confindustria Marco Gay a Capri è stato lapidario: “ripresa nel 2017 o lacrime e sangue”. Non è una previsione pessimistica. È quello che ci aspetta. Per questo occorre una rinnovata assunzione di responsabilità collettiva.

Aprire la stagione della “corresponsabilità” significa impegnarsi per cambiare davvero il Paese. E farlo insieme è la condizione indispensabile. I segnali di una possibile disgregazione politica e sociale ci sono tutti e non solo in Italia. Occorre non sprecare questa volontà di convergenza..

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Scapoli contro ammogliati…

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La partita che si gioca oggi nelle piazze non influenza minimamente l’esito del campionato. L’estremismo inconcludente e parolaio trascina nei suoi cortei e mostra a tutti anche una parte degli ultimi. Quelli che, ogni giorno, ci sforziamo di non vedere.

Però chi li dirige non è uno di loro. Ultra garantiti del settore pubblico e parapubblico e vecchie glorie dell’estremismo sindacale d’antan guidano la protesta.

Obiettivi politici, totalizzanti, impossibili e onnicomprensivi, come sempre. Una grande confusione che nasconde l’assoluta mancanza di soluzioni possibili.

Per molti giovani bikers di Foodora il termine USB è più che altro associato ad una chiavetta da inserire nel PC mentre, per chi aderisce allo sciopero nazionale indetto proprio da questa sigla e dal variegato mondo del sindacalismo estremista ha ben altro significato.

Sono generazioni e mondi diversi. È però singolare la concomitanza dei due avvenimenti. Da una parte chi sta ottenendo “ben” 4 euro lordi a consegna. Dall’altra chi è riuscito a mettere insieme intoccabili del settore pubblico, marginali del lavoro dipendente, immigrati disperati inquadrati in cooperative di vario colore intrisi da una retorica buona per tutti. I primi, se va bene, avranno ottenuto di dare maggiore dignità alla cosiddetta gig economy con ben 7.20 netti all’ora, la possibilità di rivolgersi a riparatori di biciclette convenzionati e un’assicurazione se dovessero provocare danni a terzi per la fretta con cui saettano per la città. Nell’altro caso a detta degli stessi organizzatori lo sciopero è indetto con lo scopo di paralizzare il Paese.

C’è un po’ di tutto e di più nella protesta. “Per l’occupazione, il lavoro e lo stato sociale, contro le politiche economiche del governo Renzi dettate dalla UE; per la difesa e l’attuazione della Costituzione ed il NO al Referendum; per la scuola e la sanità pubbliche ed il diritto all’abitare; contro l’attuale sistema previdenziale e la controriforma Fornero, la riforma Madia, il jobs act, l’abolizione dell’art.18, la precarietà, l’attacco al Contratto nazionale; per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, per l’aumento di salari e pensioni, per il reddito, per la sicurezza sul lavoro e nei territori; contro le privatizzazioni, la deindustrializzazione, e per la nazionalizzazione di aziende in crisi e strategiche; contro la Bossi-Fini e il nesso permesso di soggiorno–contratto di lavoro; contro la guerra e le spese militari; per un fisco giusto senza condoni agli evasori; per la democrazia sui posti di lavoro ed una legge sulla rappresentanza che annulli l’accordo del 10 gennaio 2014.

Dietro questa sproporzione siderale tra le richieste e i risultati di cui dovranno accontentarsi i bikers torinesi e le rivendicazioni politiche dei cosiddetti sindacati di base c’è il nostro Paese.

Un Paese fragile, che rischia un declino vero mentre sembra sentirsi a proprio agio in una perenne assemblea di condominio sui media e nelle piazze dove a tutti è consentito di urlare la propria rabbia e il proprio dissenso ma a condizione che nulla venga risolto se non a danno del vicino. Su altri tavoli, ad esempio, i sindacati confederali dei metalmeccanici stanno cercando di rinnovare il loro contratto con passione e serietà, altri lo hanno già fatto e altri ancora seguiranno.

E le richieste sono innovative, compatibili e costruttive. Io credo che, ciascuno di noi, dovrebbe fare di più per scrollarci di dosso, questa parte del Paese inconcludente, parolaia, benaltrista e rancorosa. Proprio per voltare pagina, insieme. Anche perché, l’Italia insoddisfatta, non è tutta lì. Un’altra parte, ben più consistente vagola a destra o altrove nel nostro panorama politico.

A mio parere chi vuole un Italia diversa, positiva, accogliente, costruttiva e integrata in Europa è comunque la stragrande maggioranza del Paese. Possono stare a destra come a sinistra o in centro. Hanno scelto i sindacati confederali, le associazioni datoriali o mille altre realtà dove fare volontariato e impegnarsi per sé ma anche per gli altri.

Sono convinti che la solitudine e la mancanza di risposte credibili porti inevitabilmente chi non ha nulla da perdere in quelle piazze o ingrossi sentimenti di isolamento e quindi di rancore sociale. E li rende facili prede di strumentalizzazioni di ogni genere.

Chiedono solo di poter credere in una buona politica rinnovata e concreta che sappia indicare un percorso difficile ma credibile. Come i bikers di Torino che, in fondo, volevano solo risposte concrete, non dotte disquisizioni o convegni sulla natura del loro rapporto di lavoro. E l’azienda sembra averlo capito immediatamente. Adesso spetta ad altri consolidare e costruire un quadro di riferimento credibile per questi come altri nuovi mestieri.

Certo non tutti i bikers saranno soddisfatti. L’idea che si possa tentare un rilancio o ottenere di più sfruttando il momento propizio dell’unità e della protesta potrebbe anche prevalere. Ma il vero negoziatore sa che una forzatura nel momento di maggiore forza verrà pagata con gli interessi quando questa forza cambia segno.

E questo vale per tutti i negoziati. L’altra strada, quella praticata da molti dei marciatori odierni, è quella di fuggire dalla responsabilità di decidere e di scegliere dietro slogan del tipo: “diciamo basta, vogliamo tutto”. Ma un Paese non cambia dando poco a tutti o tanto a pochi ma dando il giusto a ciascuno.

E il giusto deve essere la Politica a determinarlo. Quindi, non ciascuno di noi chiuso nel suo particolare, ma tutti noi come parte della stessa comunità in cammino.

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Il vaso di Foodora si è rotto. È ricostruibile?

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La metafora usata da Di Vico sul Corriere, a proposito del segnale emerso dalla vicenda dei bikers torinesi, è stimolante e, a mio parere, merita un ulteriore approfondimento. Il vaso di Foodora (l’azienda coinvolta nella vicenda) sostiene DI Vico, si è rotto e, con lui, molto probabilmente, è stato evidenziato, ancora una volta, la crisi del rapporto tra lavoro e consumo.

Nel recente libro “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” di Giuseppe Berta l’autore affronta il tema in modo netto. “…Il messaggio che ci viene dalle imprese high-tech, quelle che adesso hanno più facilità nel raccogliere capitali e convogliare liquidità, è che tutto domani costerà un po’ di meno di oggi.

Costerà meno prendere un’auto che ci porti a destinazione rispetto al taxi che eravamo abituati ad usare. Ma anche affittare un alloggio privato per due giorni ci costerà meno di un albergo è così via. Peccato che questo mondo low cost che esibisce il volto accattivante della sharing economy, dove la condivisione è vantaggiosa e, apparentemente ispirata al principio di un’essenzialità nemica dello spreco, remuneri inevitabilmente di meno anche il lavoro, sicché le due figure, quelle del lavoratore e del consumatore, che Henry Ford aveva congiunto cento anni fa, vengono di nuovo separate, riducendo per molti la capacità di reddito e quindi di consumo…”

E ancora.. “..High tech e low cost stanno attaccando frontalmente il mondo economico e produttivo di ieri, fondato sull’ipotesi di una espansione praticamente illimitata dei beni di consumo…” È l’altro volto della globalizzazione, bellezza! direbbe qualcuno.

Di fatto, una polarizzazione sempre più marcata di redditi, consumi e lavoro. Quindi un forte ridimensionamento della quantità e qualità del welfare, della contrattazione collettiva e delle politiche sociali in genere. Una società darwiniana dove chi si adatta o chi è più forte sopravvive mentre tutti gli altri, indipendentemente dalla loro nazionalità o dal luogo dove vivono, sarebbero condannati all’emarginazione.

Il sociologo Renato Curcio, più noto per altre vicende ma non per questo meno attento a questi fenomeni, sono anni che insiste sulle contraddizioni tra lavoratore e consumatore. Le sue analisi, pur datate, sui centri commerciali e sulla Grande Distribuzione, presentano l’altra faccia del consumatore di fine secolo: bulimico, isterico, alla caccia continua di tutti gli sconti possibili, desideroso di acquistare tutti i giorni della settimana, domenica compresa e sprezzante verso il lavoratore.

E, inevitabilmente, del lavoratore di fine secolo: circondato nelle sue conquiste sindacali (pause, lavoro domenicale, turnazioni), impossibilitato a migliorarle e indisponibile a condividerle con i nuovi assunti, rancoroso con il sindacato, irritato dal cliente e succube dalle continue riorganizzazioni e ristrutturazioni. Infine i centri logistici.

Luoghi dove i confini tra lavoro autonomo e lavoro dipendente sfumano in lavoratori tutelati dal sindacato e cooperative di dubbia costituzione dove l’etnia e la dipendenza da veri e propri caporali domina la scena. E questi, si badi bene, sono luoghi dove convivono, con queste contraddizioni, multinazionali, grandi imprese, sindacati, imprenditori, centri di ricerca, università, ecc.

Quindi dove esiste oggettivamente la possibilità di studiare i fenomeni, guidarli, correggerli ed eventualmente censurarli. Concludo, sempre con Berta che però ci suggerisce di tenere in considerazione che la risposta non è a portata di mano e soprattutto non è semplicemente riscontrabile in un modello fortemente normato e inclusivo come il modello tedesco infatti: “(esso).. appare in effetti assai meno proiettato all’innovazione di quanto ami raffigurarsi.

È la concezione di una forma di capitalismo che, lungi dall’essere vitale, ha bisogno del soccorso dello Stato per reggersi, e del cemento costituito da un blocco di interessi che agisce come un freno, non solo potenziale, all’innovazione e alla mobilità sociale… e oggi è questa forma di capitalismo a rischiare l’obsolescenza..”

Qui sta il punto e, da qui, bisogna ripartire, insieme. Imprese, sindacati, politica e studiosi. Non basta parlare di digital divide, industry 4.0, sharing economy. Né di prendere atto che i millenials o chi verrà dopo, di questo poco che c’è, dovranno accontentarsi.

Né di mettere le generazioni contro, una all’altra, sperando che la soluzione sia sostanzialmente in una più equa divisione di ciò che abbiamo ereditato dal passato in termini di welfare, spesa pubblica e debito conseguente.

Un cambio di paradigma determina inevitabilmente reazioni a catena. L’impresa e il lavoro devono cambiare in profondità. Così come diritti, doveri e welfare. Manzoni diceva: ” Non tutto ciò che viene dopo è progresso”. Personalmente lo condivido. Credo però che sia ragionevole pensare che, tra lasciare che il “nuovo” avanzi come un fiume in piena portando con sé i costruttori degli argini precedenti e lavorare insieme per costruire i nuovi argini la scelta sia obbligata.

L’importante è sapere che il fordismo anche culturale, che ci trasciniamo dal secolo scorso, delle imprese, dello Stato, del sindacato e delle associazioni di rappresentanza non ci darà più buoni consigli. Né ci indicherà una strada, anzi.

Ma qui passa o meno la possibilità di partecipare alla ricostruzione del nuovo vaso.

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Foodora: lo sciopero “non” sciopero nell’era del lavoro “non” lavoro…

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La notizia ha fatto un certo scalpore. I bikers di Foodora a Torino si sono fermati, non hanno consegnato più i pasti e hanno invitato i clienti a non comprare in segno di solidarietà nei loro confronti.

Le reazioni sono state interessanti. Da un lato i “modernisti” corsi immediatamente a spaccare il capello in quattro per separare l’evoluzione di un’offerta commerciale dagli inevitabili effetti collaterali. Dall’altro i “tradizionalisti” impegnati a inserire la vicenda Foodora in un normale caso di sfruttamento e quindi da stigmatizzare per quello che è. In mezzo l’azienda e i ragazzi coinvolti che si sono trovati improvvisamente in un “gioco” più grande di loro.

Un gioco di cui è facile prevederne la fine. L’azienda, oggi è rigida e indisponibile al confronto. Ha provveduto a comunicare ai singoli alcuni interventi correttivi ma, non avendo alcuna conoscenza del contesto italiano, si avviterà in decisioni opinabili che ne caratterizzeranno l’immagine per lungo tempo.

E questo anche se, più avanti, le verrà suggerito di abbozzare, almeno per un po’ e trovare una soluzione. I bikers coinvolti, troveranno un accordo transattivo. Il rischio vero è che tutto tenderà a riassorbirsi in un nulla di fatto fino alla prossima puntata. In questa o in un’altra realtà della gig economy.

Per il momento, l’opinione pubblica giovanile e il ministro del lavoro Poletti hanno espresso la loro solidarietà ai bikers e si sono messi in moto gli ispettori del lavoro. Come nel caso di airbnb e di altri casi non dovrebbe essere sufficiente un simpatico nome inglese che significa “l’economia dei lavoretti” per eludere regole chiare e semplici. Dietro a tutto questo, non ci sono novelli Steve Jobs nostrani o spezzoni di classe media in cerca di facili guadagni più o meno regolari..

Ci sono multinazionali vere e proprie che muovono miliardi. Questa non è affatto sharing economy ma shadow economy. È il sommerso legalizzato di cui in Italia siamo maestri da sempre. È lavoro nero o, per dirla in inglese, black market…

Mi ricordo che a Ragusa qualche anno fa stavo procedendo con le selezioni per l’apertura di un centro commerciale. I ragazzi, diciottenni o poco più, che si presentavano al colloquio di assunzione mi domandavano se la retribuzione proposta fosse con o senza assicurazione.

All’inizio non capivo cosa fosse questa benedetta assicurazione poi mi hanno spiegato che era assolutamente normale chiedere, in fase di assunzione, se questa fosse con o senza i contributi INPS. Quello che mi colpì fu la normalità della richiesta e la rassegnazione convinta dei richiedenti. Non tanto l’enormità della domanda. Soprattutto quando mi accorsi che ero l’unico, sul posto, a stupirmi.

Accorgermi oggi che non è cambiato nulla o quasi che anziché utilizzare il dialetto, si usa l’inglese perché fa più figo, è inaccettabile. Ma non serve indignarsi. Servono regole. “Stesso mercato, stesse regole” mi sembra uno slogan condivisibile.

Vale per le attività delle finte “Bettine” di arbnb che gestiscono migliaia di appartamenti, deve valere anche per il riconoscimento del lavoro e delle attività economiche di qualsiasi genere. Certo non è pensabile l’applicazione tour court di contratti costruiti per ben altre situazioni ma occorre costruire qualcosa di serio.

Forse nel caso dei bikers saltuari occorrerebbe promuovere formule nuove, anche mutuandole da modelli cooperativi. Non credo corretto attendersi solo dalle organizzazioni sindacali soluzioni perseguibili. I sindacati possono intervenire se i lavoratori coinvolti danno loro un mandato a negoziare.

Nel caso di Foodora non c’è nulla di tutto questo. Anzi, non si può neppure parlare di sciopero. Al massimo di non lavoro di alcuni mentre altri continuano a rispondere senza alcun problema alle chiamate.

C’è un rapporto individuale, saltuario gestito a volte tramite sms che può coinvolgere questi o altri bikers per una o più consegne. L’INPS, il Ministero del lavoro tramite i suoi ispettorati devono accertare la natura dell’attività e la qualità del rapporto.

Esperienze analoghe sono presenti in Francia e in Germania e quindi non dovrebbe essere difficile mutuare elementi e indicazioni per costruire punti di riferimento utili. L’unica cosa che non si può fare è lasciare che le cose si aggiustino da sole.

Né nel caso di airbnb né nel caso di Foodora. Né in nessun altro caso. Lasciar fare non è indice di modernità. Semmai di incapacità ad affrontare ciò che è nuovo o si presenta in modo diverso dal passato.

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Sharing economy, non è tutto oro quello che luccica…

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Lo sciopero dei ragazzi di Torino della piattaforma Foodora è un segnale significativo. Non è il primo, non sarà nemmeno l’ultimo. Così come ciò che avviene, spesso sotto silenzio, davanti ai cancelli dei centri logistici. Ma, lo stesso, nei B&B improvvisati che lavorano in nero come nell’avanzata strisciante e, senza regole, di formule tipo Uber. La sharing economy quando mostra il suo volto low cost insiste sulla convenienza, sulla essenzialità che riduce gli sprechi sul lato innovativo dell’offerta ma nasconde una altrettanto conseguente riduzione della remunerazione del lavoro. In un recente incontro, il sociologo Aldo Bonomi, raccontava che, in un convegno, era stato chiamato a esprimere una sua opinione sulla portata del fenomeno delle startup individuandone alcune per un riconoscimento sul lato dell’innovazione. Una di queste, molto conveniente, era ideata per lavare le auto del cliente con ritiro a domicilio. Un servizio veramente ben organizzato che comporta una riduzione di sprechi anche di tempo per l’utilizzatore e a condizioni economiche interessanti. Nessuno pareva interessato alle conseguenze retributive di chi ritirava e lavava l’auto. È chiaro che la sharing economy produce un benessere per alcuni ma ha un costo economico e sociale. Lo ha quando entra in rotta di collisione con il business altrui, con chi paga tasse e contributi e con la remunerazione del lavoro. Pensiamo alle piattaforme logistiche e il conseguente lavoro delle pseudo cooperative che vi operano. È un fenomeno inevitabile? Certo se lasciato libero di crescere senza regole tenderà a mettere in difficoltà tutti coloro che, al contrario, quelle regole sono chiamati a rispettare. È interessante notare che quando si parla di B&B o di Uber, tanto per fare un esempio, i resistenti sono identificati come lobbies retrograde abbarbicate ai privilegi del secolo scorso e, i commentatori, sono quasi tutti schierati dalla parte delle nuove proposte. Quando invece, in forza degli stessi principi, succedono fatti gravissimi davanti ad un centro logistico oppure un gruppo di ragazzi di stanca di essere sfruttato le stesse certezze vengono meno. È il lato oscuro della modernità. Quello che non vogliamo vedere né affrontare. Ridisegna silenziosamente il welfare, il sistema fiscale e contributivo, i diritti e la libera concorrenza tra imprese e individui. Accentua il dualismo nel mercato del lavoro tra garantiti e esclusi, rende obsoleti contratti e modalità di lavoro, annulla i confini tra vita privata e professionale. È la vera rivoluzione silenziosa che è in atto e della quale gli osservatori vedono (strumentalmente) solo l’aspetto legato al sistema previdenziale futuro dei giovani di oggi. Si legge spesso che il rischio vero è la rottura del patto intergenerazionale. Così come si è evocato per lungo tempo la rottura dell’unità del Paese e, prima ancora tra malessere sociale e benessere di pochi. Non sarà così. Digital divide, sharing economy, industry 4.0, stanno ridisegnando i confini tra chi è dentro e chi è fuori. E questa rivoluzione non è di la da venire. È già iniziata. Prendere atto è il primo passo, definirne potenzialità, ambiti e regole è compito di tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro Paese.

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Un azienda il giorno dopo….

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Gli articoli che si sono susseguiti in queste settimane sulla vicenda Esselunga si sono giustamente concentrati sulla figura di Bernardo Caprotti, sulla sua famiglia e sul futuro di una delle aziende più importanti della GDO italiana. Qualche articolo si è spinto a osservare l’azienda anche dal punto di vista dei clienti particolarmente soddisfatti di un’insegna che, soprattutto a Milano, rappresenta qualcosa di più di un supermercato. Mi ha sorpreso che nessuno ha preso in considerazione il ruolo del management e dei dipendenti nel successo dell’azienda. Solo il dottor Caprotti, nel documento diffuso dalla stampa, ha invece manifestato la riconoscenza e quindi la preoccupazione per il futuro dei suoi oltre ventimila collaboratori. Esselunga è un’azienda solida. Lo è innanzitutto per merito del suo fondatore ma anche perché le scelte operate dai suoi collaboratori principali sulla qualità delle risorse umane hanno consentito di individuare, formare e gestire professionisti di grande spessore umano e professionale. Basta entrare in un loro punto vendita per comprenderne il livello. Se poi anziché entrare in un solo punto vendita se ne frequentano diversi con un occhio mediamente esperto e si confrontano con i punti vendita di alcuni concorrenti si ha modo di rendersi conto della differenza qualitativa. Non sto parlando, ovviamente, di qualità dei prodotti, incisività delle promozioni, fatturato per metro quadro, format commerciali e quant’altro dove ogni azienda può optare per strategie differenti. Mi voglio concentrare su un argomento sempre sottovalutato: il valore del capitale umano nel successo di un’impresa. Chiunque ha lavorato nelle risorse umane sa come è difficile costruire una squadra. Ingaggiare persone, condividere con loro valori e quotidianità, renderle orgogliose di appartenere ad un grande progetto indipendentemente dalla dimensione dell’azienda. Certo la figura del leader è fondamentale e la storia di successo che lo ha accompagnato è sicuramente un plus indiscutibile. Ma la squadra che intorno a lui ha avuto il compito di trasmettere questi valori, di viverli quotidianamente fornendo esempio e coerenza, non è da meno. La vera modernità di Esselunga è di averlo capito prima di tutti. È così mentre altri hanno scelto la strada dell’avvitamento continuo causato dal taglio dei costi come antidoto alla riduzione delle vendite optando per modelli di gestione del personale tardo fordista, loro hanno puntato sulla cura del servizio e del dettaglio in ogni operazione di vendita. È difficile nella GDO innovare i format di vendita, migliorare la qualità e la tipologia del servizio al cliente e mantenere elevato l’investimento sulle risorse umane. Chi lo ha fatto o lo sta facendo oggi ha un importante vantaggio competitivo. E questo è tutto merito del management che, in queste grandi imprese distribuite sul territorio non è concentrato in poche mani ma deve, necessariamente, comprendere tutte le figure che gestiscono risorse siano esse dirigenti, quadri, responsabili di punto vendita o capi reparto. Esselunga non è la sola, altre si sono da tempo avviate su questo terreno. Oggi mi sembrava giusto dare merito a chi non è sotto i riflettori perché di fronte alla scomparsa del suo fondatore è giusto che non lo sia. Ma va tenuto presente nei prossimi passaggi che coinvolgeranno il futuro di questa impresa. È un capitale che non va disperso né sottovalutato perché è parte fondamentale del successo di Esselunga. Ed è una sfida per tutte le imprese.

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È il lavoro che fa l’economia?

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Un libro interessante, puntuale, ben argomentato e utile non solo per gli addetti ai lavori. Nell’intenzione di Romano Benini e Maurizio Sorcioni il punto di domanda non c’è. È il lavoro che fa l’economia e non il contrario. Nel recentissimo libro “Il Fattore Umano”, edito da Donzelli Editore, i due autori affrontano il tema del lavoro sotto tutti i diversi punti di vista. Già questa è una novità, forse l’uovo di Colombo. Per capire cosa fare occorre affrontare ciò che è stato fatto e ciò che non è stato fatto e metterlo in relazione con i Paesi con i quali vorremmo confrontarci. Ma, nonostante si sia fatto poco e male per risolvere il problema non c’è in nessuna parte del libro la solita vena pessimista che generalmente si trova in chi parla di lavoro limitandosi a concentrarsi sull’avversario o sul vincolo di turno, che cambia a seconda dei punti di vista, proponendo, spesso, solo una caricatura troppo semplicistica. La tesi è che non ci si trova in questa situazione senza che le colpe siano evidenti e presenti nei comportamenti e nelle convinzioni di tutti gli attori in campo. Così come le possibili soluzioni. Il testo presenta numeri, fatti, comparazioni, evidenze. Tagli lineari che hanno compromesso parte delle radici sorvolando sui rami secchi, scelte concrete, spesso costose e sbagliate che hanno determinato la situazione in cui siamo oggi. Occasioni mancate, opportunità non colte. Ma anche una possibile via di uscita. È un libro attuale anche perché nel mondo delle imprese e del lavoro, ma anche delle loro rappresentanze, sta riprendendo importanza il tema del lavoro, della sua crescita, della sua valorizzazione e del suo riconoscimento. Non a caso il termine “corresponsabilità” diventa centrale. La scarsa qualità del nostro sistema scolastico, la preparazione dei giovani al mondo del lavoro, il loro inserimento e i percorsi di acquisizione di comportamenti e competenze che consentano di restare in relazione con un mercato del lavoro sempre più selettivo, le politiche attive stanno riprendendo la centralità che meritano. Ma, i tasselli del puzzle faticano ad incastrarsi uno nell’altro. Comprendere le ragioni dei nostri ritardi rispetto agli altri Paesi è il primo passo per decidere priorità e azioni da mettere in campo per invertire la rotta. La differenza rispetto ad altri interventi di Romano Benini è che in questo libro c’è una riflessione diversa, precisa, per certi versi ultimativa che va oltre la semplice denuncia. C’è la convinzione che non si possa più procedere in ordine sparso e sprecare risorse. E che al centro vada messo il lavoro, senza indugi. E, questa consapevolezza, prende il via da quella che gli autori definiscono “la regola dei cerchi concentrici” cioè come mettere in relazione diversi livelli di intervento già sperimentati nei Paesi più avanzati che hanno consentito loro di affrontare la crisi e i cambiamenti necessari. Competitività del sistema, welfare moderno (salute, formazione e lavoro delle persone), efficienza del mercato del lavoro, politiche e interventi di attivazione al lavoro e sistema di servizi per il lavoro. Non c’è nulla da inventare. C’è solo da prendere atto di ciò che gli altri hanno fatto e agire di conseguenza evitando il vizio della politica di fermarsi agli annunci. Ma, per fare questo, gli autori propongono di andare a fondo delle “radici dei nostri mali”. A cominciare dalle ideologie che hanno permeato e permeano ancora troppo spesso tutto ciò che riguarda il lavoro e ne impediscono una evoluzione in chiave moderna perché impongono comunque di schierarsi tra chi pensa che per creare lavoro occorra ridurre i diritti per i lavoratori e aumentare gli sgravi fiscali per le imprese o chi, al contrario, pensa che il lavoro dipenda solo dall’aumento della spesa pubblica. Non da meno gli autori indicano lo stesso ruolo di alcuni autorevoli studiosi della materia che, a volte, non disponendo di un approccio multidisciplinare, mancano di competenze relative alla cultura, all’organizzazione delle imprese di oggi e alla gestione concreta del capitale umano. Così come il ruolo, spesso troppo conservatore, delle stesse organizzazioni sindacali e datoriali determinate più a difendere legittimi quanto parziali interessi che affrontare a viso aperto il cambiamento. Tutto questo per sottolineare che solo uno sforzo comune può farci uscire dalla situazione nella quale siamo finiti e consentirci di rimettere al centro il lavoro per quello che deve essere nell’interesse del futuro del nostro Paese e delle nuove generazioni. E nelle conclusioni, gli autori danno una definizione del lavoro che mi è piaciuta molto e che condivido: “È la scoperta di noi stessi attraverso la nostra capacità di agire e, in questo modo la possibilità di rinnovarci ogni giorno”. Il lavoro quindi come realizzazione personale, dignità ma anche affermazione sociale. Per questo occorre liberarci da tutti i pregiudizi e contribuire, ciascuno per le proprie competenze, possibilità e responsabilità a costruire le condizioni perché il lavoro, la sua qualità e la sua disponibilità torni ad essere centrale come dovrebbe essere nelle priorità del Paese ma anche nelle nostre specifiche determinazioni quotidiane. E così prendere atto consapevolmente che è il lavoro che fa l’economia e non viceversa.

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Perché le aziende continuano ad applicare i CCNL?

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In tutte le survey in cui si interrogano, ad esempio gli associati di Confcommercio, l’esistenza e la gestione del CCNL viene vista come un plus. Poter disporre di un contratto nazionale di riferimento è vissuto, dai più, positivamente. La stessa Federdistribuzione da quando ha lasciato Confcommercio non si è mai posta il problema di passare ad una contrattazione aziendale ma, al contrario, si è da subito mobilitata per proporre un proprio contratto nazionale di riferimento. Oscar Giannino, a suo tempo, ha proposto di superare i contratti nazionali dotando le aziende di ogni dimensione di un kit specifico che consenta di affrontare in azienda il tema (sic!). Altri propongono di affidare un nuovo mestiere ai consulenti del lavoro. Altri ancora di lasciare al “buon cuore” dell’imprenditore la remunerazione dei propri collaboratori. Neofiti della materia, osservatori distanti dalle imprese, propugnatori di scorciatoie si sono sbizzarriti in soluzioni di ogni tipo. Non le imprese. Meno ancora gli imprenditori che non vogliono problemi là dove non ci sono. Cosa succederebbe se non ci fossero i CCNL? Innanzitutto si creerebbe molto più lavoro per gli avvocati e per i consulenti. Ovviamente anche per i tribunali. Nella maggioranza dei casi assisteremmo  all’effetto “badante”. Persona di fiducia fino a quando serve e quindi disponibile a rispondere a tutte le esigenze del datore di lavoro ma proponente causa certa quando per un motivo o per un altro il rapporto di lavoro si dovesse mai interrompere. Visto dalle piccole imprese l’ombrello del CCNL copre tutto. Se lo si applica si evitano forme di dumping tra aziende, si tengono lontano ispettori del lavoro e sindacalisti, si impediscono richieste pretestuose. Nelle medio grandi consente flessibilità collettive, determina un confine netto e accettato tra diritti e doveri. Soprattutto evita contenziosi perché dura un numero di anni sufficiente a raffreddare eventuali tensioni. Ultimo ma non ultimo evita che, in presenza di rapporti di forza sfavorevoli, l’azienda debba trovarsi in situazioni nelle quali eventuali concessioni possano pregiudicarne opportunità future. Nelle contrattazioni aziendali questo è successo spesso. Mai in quelle nazionali. Per impreparazione o per inadeguatezza di chi affianca l’imprenditore. O per mancanza di lungimiranza. Può essere sostituito? Su molti aspetti si, su altri meno. I neofiti della contrattazione sono convinti, spero in buona fede, che possa essere sostituito tout court. Non è così. Inviterei chi pensa questo a lasciare le discussioni da salotto e recarsi alle quattro del mattino davanti ad un qualsiasi magazzino logistico dove i Cobas o qualche centro sociale si apprestano a mettere in pratica il loro modello di contrattazione aziendale. Capiranno da soli cosa significa. O per par condicio dove la debolezza del sindacato lascia i lavoratori in balia per anni di imprenditori senza scrupoli che non vogliono sentir parlare di concedere alcunché a nessuno. L’unica strada praticabile è un modello misto dove siano chiare le materie di pertinenza del livello nazionale e, altrettanto chiare, le materie di pertinenza aziendale o territoriale. E dove nessuno possa fare il furbo da una parte e dall’altra. Concludo ricordando a chi non ha mai sottoscritto personalmente un contratto (aziendale o nazionale che sia) di astenersi da semplificazioni fuorvianti. I meccanismi di coinvolgimento, negoziazione, sottoscrizione e gestione di un contratto non sono cose che si improvvisano. In Italia solo le organizzazioni che rappresentano lavoratori e imprese possono metterci mano. Oppure la legge. E le proposte di modifica, tutte quante, devono essere soppesate e valutate nelle loro conseguenze concrete. Fortunatamente tra chi ne parla a proposito, ma anche a sproposito, e chi dovrà deciderne l’architettura futura c’è una notevole distanza. E questo è un bene per tutti.

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Una contrattazione che sappia andare oltre i vecchi confini.

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Un tempo i confini erano chiari. Salario, condizioni di lavoro, diritti. In altri termini più soldi e meno lavoro. Anche il promotore della contrattazione nel settore privato era sostanzialmente uno solo: il sindacato esterno o interno alle imprese. Poi il contesto economico e sociale ha imposto le sue regole e la contrattazione, ha, di fatto, cambiato spesso promotore affidando anche all’azienda e ai suoi manager il compito di ridisegnarne contenuti e confini. Quella è stata la fase nella quale sono stati rivisti innanzitutto poteri e ruoli dell’iniziativa delle rappresentanze sindacali interne e esterne che, nel tempo, hanno continuato a perdere peso. Nei contenuti, l’azienda ha ripreso (soprattutto nella grande impresa dove lo aveva in parte ceduto) il controllo del lavoro, della sua organizzazione, dei tempi e dei modi di esercitarlo. Tutto questo, però, ha retto fino a quando si trattava “semplicemente” di ridurre gli eccessi della fase precedente, ristabilire ruoli gerarchici e rapidità decisionali, tenere sotto controllo (e ridurre) i costi. Nel frattempo, nelle imprese, era cresciuta, via via, la consapevolezza che i nuovi modelli organizzativi, la marginalizzazione degli interlocutori collettivi, l’affacciarsi di nuove esigenze e di nuove generazioni poneva la necessità di gestire con maggiore attenzione il proprio capitale umano. Innanzitutto le proprie risorse chiave ma poi, sempre più collaboratori, attraverso sistemi di valutazione, di riconoscimento e di sviluppo professionale, con l’obiettivo di avere un clima interno positivo, una condivisione sostanziale dei propri valori e un impegno costante nella realizzazione di obiettivi di business sempre più complessi. In questa fase, c’è stato un forte ridimensionamento dell’area delle relazioni sindacali e un forte impulso alla altre aree delle direzioni risorse umane maggiormente dedicate allo sviluppo delle risorse. Le nuove forme di flessibilità in entrata (stage, TD, apprendistato, ecc.), l’obsolescenza degli inquadramenti contrattuali ormai datati, i nuovi modelli organizzativi e relazionali, il mutare delle esigenze, soprattutto delle nuove generazioni, le nuove tecnologie, la necessità di riconoscere l’impegno sia a livello individuale che di gruppi hanno via via modificato in profondità l’approccio di chi si occupa di risorse umane in azienda. L’approccio di Federmeccanica al rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ad esempio, è figlio di questo filone di pensiero. Non è un ballon d’essai ispirato da un banale tentativo messo in atto per contenere le richieste economiche. E farebbe male il sindacato, tutto il sindacato, a sottovalutarlo. Semmai occorrerebbe capire se e come sarà possibile, per loro, rientrare in gioco. E su quali materie. Tutto e subito non è proponibile. I rapporti di forza oggi sono talmente asimmetrici e sfavorevoli al sindacato da rendere estremamente difficile anche la sola esigibilità tout court della contrattazione aziendale. E la diffidenza delle imprese sulle reali capacità di cambiamento e di innovazione del sindacato è molto alta. Quindi la strada è in salita. Esistono però alcuni spazi che possono essere coperti. Innanzitutto il welfare contrattuale (previdenza, sanità e formazione). In secondo luogo un altro terreno di condivisione e di cambiamento potrebbe essere rappresentato da un approccio diverso al tema dell’inquadramento professionale. Marco Bentivogli fa il suo mestiere quando accusa Federmeccanica di non voler mettere mano ad un dettato contrattuale partorito nel 1973. Personalmente sono convinto anch’io che occorra affrontarlo. Però tutta la materia. Codice civile, legge 300 e contratti nazionali. Altrimenti non si innova nulla. Si creano solo le premesse per un inutile quanto infinito contenzioso legale. E qui capisco la cautela di Federmeccanica. Un altro tema potrebbe essere la struttura del salario che  privilegia, in massima parte, il fisso sul variabile. In un contesto fordista poteva andare bene. Oggi no. Ad esempio il cuore dell’accordo aziendale del Fondaco dei Tedeschi a Venezia (concordato con i sindacati) prevede una deroga al CCNL del terziario tale da consentire un livello di inquadramento inferiore ma con un sistema incentivante robusto legato a obiettivi individuali e di gruppo. E, per i lavoratori, non è un passo indietro. Anzi.  Però si potrebbe andare ben oltre. E poi il tema del welfare aziendale a 360 gradi. E qui il modello Luxottica docet. Ma non solo. In FCA i buoni benzina un tempo avrebbero fatto sorridere. Oggi sorride solo qualche sindacalista “old style”. Non certo i lavoratori che sanno bene la differenza tra netto e lordo. Ovviamente alcuni aspetti hanno senso solo nella media o nella grande azienda e in quei contesti possono essere sviluppati. Altri temi potrebbero trovare risposte in un sistema bilaterale rinnovato, a livello territoriale o in negoziati di comparto. Insomma questa discussione sui contratti e sui livelli del confronto può essere un momento importante per ridisegnare uno spazio vero di corresponsabilità e di nuovo protagonismo per il sindacato e per le associazioni datoriali. L’accordo sulle pensioni è lì a dimostrare che si può fare molto in termini di cambiamento di mentalità e di approccio. Almeno occorrerebbe provarci.

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Se piace ai sindacati…..

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È successo dopo il recente accordo sulle pensioni ma la stessa reazione l’ho registrata, in una situazione certamente più modesta, sull’intesa precedente all’apertura di una nuova e importante iniziativa commerciale a Venezia. Per una parte degli opinionisti un accordo con i sindacati, se ha ricadute economiche, sarebbe meglio non farlo. In altri termini ciò che piace ai sindacati non va bene. Indipendentemente dal merito. Per chi sostiene questa tesi sei miliardi sulle pensioni sono uno spreco. Meglio tirare la corda all’infinito. Poi, purtroppo, davanti al magazzino logistico di Piacenza ci scappa il morto e molti di questi opinionisti improvvisamente scoprono che la delegittimazione continua dei sindacati confederali (quindi di fatto di tutti i corpi intermedi) porta con sé la degenerazione del sistema. E devono fare i conti con cobas e centri sociali che strumentalizzano lavoratori immigrati, comunque sottopagati, che vengono alle mani con camionisti incavolati bloccati davanti ai cancelli. Il sistema delle relazioni industriali è di fronte ad una svolta. O imbocca con decisione (da entrambe le parti) la strada della “corresponsabilità” o, involvendosi, rischia di diventare sempre più ininfluente come sta succedendo per i partiti. E quindi sempre più instabile. Un altro esempio, abbastanza singolare, coinvolge le dinamiche che hanno preceduto l’apertura di un’iniziativa commerciale importante a Venezia. Non solo cinquecento posti di lavoro a tempo indeterminato, progetti importanti di formazione che consentiranno a centinaia di giovani di trovare la loro strada professionale e un welfare significativo ma anche un’organizzazione del lavoro impegnativa, distribuita sull’intero anno che quindi coinvolge l’intera settimana lavorativa e inoltre un’inquadramento professionale di ingresso che dura ben più di ciò che avverrebbe in un contesto normale ma che viene affiancato un sistema di incentivazione importante sia di carattere individuale che collettivo. Il sindacato, tutto il sindacato, lo ha sottoscritto ben consapevole della posta in gioco e quindi la valutazione positiva, anche della CGIL locale, è un elemento importante. Non è stato un negoziato facile perché il rischio che nel sindacato prevalesse l’idea che ci si trovasse di fronte ad una apertura classica tipo grande distribuzione (con il clima che oggi c’è nelle relazioni sindacali nella GDO) e non ad un’iniziativa completamente nuova e diversa, era molto forte. Ma così non è stato. Il sindacato, tutto il sindacato, ha compreso la posta in gioco, sostenuto le sue tesi, ottenuto le sue contropartite e concordato di derogare tutto ciò che poteva consentire un investimento importante nel nostro Paese. Per l’azienda è stato un ottimo accordo così come per la Confcommercio che ha seguito l’intera vicenda anche per dimostrare che quanto concordato in sede di rinnovo del CCNL del terziario trovava una conferma importante in un’impresa ad alta visibilità internazionale, di grandi dimensioni ma interessata, a precise condizioni, ad optare per un accordo aziendale costruito in deroga al contratto nazionale piuttosto che ad altre formule oggi invocate da molti neofiti della materia ma destinate ad un insuccesso certo. Solo leggendo il testo si comprende la qualità e la natura dello scambio, lo sforzo chiesto e ottenuto di adattamento alle specifiche esigenze di un gruppo che ha un modello organizzativo e di gestione del personale di successo mai sperimentato in Italia che però funziona in tutto il resto del mondo. Un modello che ha bisogno di fidelizzare i migliori, che mette al centro la produttività, le performance individuali e di gruppo, la formazione continua, che premia la qualità della prestazione e che, per questa ragione, non può restare bloccata in un sistema di inquadramento tradizionale o con una possibilità scarsa di valutazione della persona alla luce anche di un percorso formativo che dura mesi ed è interamente finanziato dall’azienda. Il sindacato ha compreso la convinzione dell’azienda che ha accompagnato questo importante investimento economico, la determinazione messa in campo, la scelta di optare per contratti a tempo indeterminato e un modello che potrebbe essere replicato in altri città italiane o in altri Paesi europei. Ne parla bene? Occorre esserne soddisfatti perché finalmente superiamo questa idea che ciò che è bene per una parte deve essere subìto dall’altra. L’accordo sulle pensioni è una buona cosa. Così come spero sia il prossimo accordo sulle relazioni sindacali tra organizzazioni datoriali e sindacali. Ed è una buona cosa se i metalmeccanici così come i chimici, gli alimentaristi e il terziario otterranno un buon contratto che piace alle imprese e soddisfa i lavoratori. Se poi questi contratti sono condivisi da tutto il sindacato significa che il clima nel Paese può cambiare. Ed in questo momento sarebbe molto importante. Dipende solo da noi.

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