Oggi riprende il negoziato sul contratto dei metalmeccanici. La cautela sull’esito è d’obbligo perché su quel tavolo si giocano molte partite. Non solo per i lavoratori e i sindacati di categoria coinvolti direttamente ma anche per il Governo, per Confindustria e per gli stessi sindacati confederali. Già questo è abbastanza singolare perché erano diversi rinnovi contrattuali che non si respirava questa sensazione. È un negoziato che, lo si voglia o no, potrebbe chiudere una fase storica e ne potrebbe riaprire una nuova. Al tavolo Federmeccanica che sa benissimo che è arrivato il momento di stringere e, possibilmente di chiudere, ma che non intende sacrificare l’essenza della sua proposta di “rinnovamento contrattuale”. Dall’altro i vertici dei sindacati di categoria che tornano prepotentemente sotto i riflettori e che sanno di giocare una partita che ha, tra gli effetti collaterali, anche lo scopo di contribuire a ridisegnare il profilo futuro del sindacalismo italiano. E quindi il loro peso e il loro ruolo, anche personale, in quella prospettiva. Intorno al tavolo ci sono spettatori altrettanti interessati. Il Governo che non vuole trovarsi anche questo problema in una stagione già difficile, Confindustria che deve, sia ricucire al suo interno che rilanciare un nuovo protagonismo a tutto campo, ma che, in assenza di accordo, non può procedere su altri tavoli e quindi rischia di vedere indebolita la sua leadership anche nei confronti del Governo stesso. I sindacati confederali che, solo da un accordo complessivo e unitario segnerebbero un importante punto a loro favore propedeutico ad un percorso di cambiamento ineludibile. La qualità delle leadership si misurano in questi frangenti. La chiave di volta è rappresentata dall’equilibrio, tutto da individuare, tra contratto nazionale e contrattazione aziendale. La “corresponsabilità” invocata anche dal Presidente di Confindustria Boccia passa inevitabilmente da lì. Dalla capacità dell’impresa di coinvolgere, ingaggiare e condividere rischi e opportunità con chi rappresenta il lavoro. Un sistema maggiormente collaborativo si affermerà solo se si consoliderà una cultura che mette al centro l’azienda come luogo dove insieme si crea la ricchezza che poi dovrà essere distribuita. Se la strategia è condivisa il percorso è negoziabile sia nei tempi che nelle modalità. Per questo motivo sono moderatamente ottimista. Al di là della giornata di oggi che essendo troppo carica aspettative può anche concludersi con un nulla di fatto. Importa la direzione di marcia e questa, credo, sia in parte segnata.
Il tempo prezioso delle persone mature di Màrio de Andrade
“Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere da qui in avanti di quanto non ne abbia già vissuto.
Mi sento come quel bambino che ha vinto una confezione di caramelle e le prime le ha mangiate velocemente, ma quando si è accorto che ne rimanevano poche ha iniziato ad assaporarle con calma.
Ormai non ho tempo per riunioni interminabili, dove si discute di statuti, norme, procedure e regole interne, sapendo che non si combinerà niente…
Ormai non ho tempo per sopportare persone assurde che nonostante la loro età anagrafica, non sono cresciute.
Ormai non ho tempo per trattare con la mediocrità. Non voglio esserci in riunioni dove sfilano persone gonfie di ego.
Non tollero i manipolatori e gli opportunisti. Mi danno fastidio gli invidiosi, che cercano di screditare quelli più capaci, per appropriarsi dei loro posti, talenti e risultati.
Odio, se mi capita di assistere, i difetti che genera la lotta per un incarico maestoso. Le persone non discutono di contenuti, a malapena dei titoli.
Il mio tempo è troppo scarso per discutere di titoli.
Voglio l’essenza, la mia anima ha fretta…
Senza troppe caramelle nella confezione…
Voglio vivere accanto a della gente umana, molto umana.
Che sappia sorridere dei propri errori.
Che non si gonfi di vittorie.
Che non si consideri eletta, prima ancora di esserlo.
Che non sfugga alle proprie responsabilità.
Che difenda la dignità umana e che desideri soltanto essere dalla parte della verità e l’onestà.
L’essenziale è ciò che fa sì che la vita valga la pena di essere vissuta.
Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle persone…
Gente alla quale i duri colpi della vita, hanno insegnato a crescere con sottili tocchi nell’anima.
Sì… ho fretta… di vivere con intensità, che solo la maturità mi può dare.
Pretendo di non sprecare nemmeno una caramella di quelle che mi rimangono…
Sono sicuro che saranno più squisite di quelle che ho mangiato finora.
Il mio obiettivo è arrivare alla fine soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza. Spero che anche il tuo lo sia, perché in un modo o nell’altro ci arriverai…”
Mário de Andrade (1893-1945) – Poeta, musicologo e narratore brasiliano, grande amico di Giuseppe Ungaretti,. È considerato uno dei fondatori del modernismo.
Dirigenti e outplacement, una nuova opportunità offerta dal contratto nazionale dei manager del terziario
Il nuovo contratto nazionale dei dirigenti del terziario (recentemente firmato da Manageritalia e Confcommercio) ha affrontato in modo innovativo il tema del ricollocamento dei manager in transizione di carriera. L’articolo 40 infatti recita: “le parti concordano che in caso di licenziamento (diverso da giusta causa) o di risoluzione consensuale nelle sedi conciliative, su formale richiesta del dirigente, l’azienda definirà l’attivazione di una procedura di outplacement, sempreché lo stesso non abbia attivato un contenzioso giudiziale o arbitrale avverso il recesso intimato. L’azienda liquiderà alla società di outplacement individuata d’intesa con il dirigente interessato, un voucher per compartecipare alle spese, di importo pari a euro 5.000,00 netti, non monetizzabile, da utilizzare entro 12 mesi dall’interruzione del rapporto di lavoro. Sono fatte salve condizioni di miglior favore concordate individualmente”. Inoltre l’articolo 21 in tema di aggiornamento e formazione professionale per i dirigenti afferma, al punto 8, “il CFMT (Centro di formazione management del terziario) definirà convenzioni con le principali società di outplacement presenti sul mercato per favorire la conoscenza ad imprese e manager, anche al fine dell’utilizzo del voucher di cui all’articolo 40”. In considerazione di questo mandato CFMT ha già sottoscritto un accordo con AISO (Associazione italiana società di outplacement) con lo scopo di concordare un sistema di standard rigorosi che impegnano le società aderenti ad operare in termini di qualità e trasparenza i più elevati possibili onde garantire risultati certi e misurabili. E questo pur consentendo, a dirigenti e aziende, di scegliere in piena autonomia tra tutti gli operatori presenti sul mercato.
Il programma concordato tra AISO, Manageritalia e CFMT prevede:
bilancio delle competenze e delle caratteristiche personali
Progetto professionale: bisogni, desideri e loro realizzabilità concreta
ricerca di opportunità manageriali o imprenditoriali
Preparazione all’inserimento e monitoraggio successivo
Strumenti: banche dati, reportistica, supporto logistico sul territorio e customer satisfaction
Tempi: 12 mesi di calendario o fino alla conferma del rapporto di lavoro. (Il dettaglio dell’accordo sarà presto scaricabile sia sul sito di CFMT che su quello di AISO). Questo accordo prevede inoltre che il dirigente, a cui si applica questo contratto, possa usufruire gratuitamente di cinque attività formative specifiche presso il CFMT da svolgere durante tutto l’anno successivo alla data di cessazione (a libera scelta o concordate direttamente con la società di outplacement). Le novità di questo accordo sono diverse. Innanzitutto il voucher verrà corrisposto solo se il dirigente e l’azienda decidono di avvalersi dell’OTP. Quindi, per la prima volta, un vero incentivo a scegliere questa strada. In secondo luogo le parti, con questa intesa, puntano a selezionare e valorizzare le società che rispondono a determinate caratteristiche finalizzate a garantire, al dirigente in transizione, risultati concreti e misurabili. Infine il rapporto stretto con CFMT dovrà consentire sia la certificazione che il monitoraggio dei percorsi con la possibilità di concordare attività formative mirate che consentano al dirigente una maggiore rapidità di ricollocamento. Questo accordo non nasce per caso. È stato preceduto da un altro importante progetto svolto dal 2008 al 2015 che ha visto impegnato il CFMT in rapporto stretto con Manageritalia e che ha consentito il ricollocamento di oltre 1200 manager. Quella esperienza, pur valutata positivamente, ha consentito una sua strutturazione definitiva in questa nuova proposta concordata nel recente contratto nazionale. Personalmente ho sempre creduto nella necessità di costruire risposte efficaci che aiutino le transizioni professionali. Mi sono occupato di ricollocamento fin dal 1995 implementando in Italia il modello francese nel gruppo Danone e ho potuto incontrare diversi e validi professionisti della materia ma anche soggetti inadeguati che hanno contribuito a rallentare il decollo dell’OTP nel nostro Paese. Per questo credo nella validità di questo accordo proprio per la serietà degli interlocutori individuati e per gli impegni sottoscritti. In Italia il ricorso all’OTP sta purtroppo crescendo lentamente lasciando, di conseguenza, le persone sole a gestire con grandi difficoltà una interruzione forzata del proprio percorso professionale. Aziende e singoli hanno purtroppo scelto la strada più breve puntando ad accordi di natura esclusivamente economica. Ma, nel corso degli anni, cercare un lavoro è, a sua volta, diventato sempre di più un lavoro e quindi l’apporto di tecniche consolidate e percorsi formativi adeguati possono veramente fare la differenza per chi non è in grado di muoversi da solo sul mercato. Le parti sociali nel terziario (Confcommercio e Manageritalia) hanno individuato questa soluzione e affidato al CFMT il compito di gestirla nell’interesse esclusivo dei manager in difficoltà. Sono convinto che, insieme alle aziende aderenti ad AISO e con il sostegno di Manageritalia, lavoreremo per valorizzarne il contenuto e dare così ai colleghi in transizione una risposta utile e adeguata e, in questo modo, rafforzare uno degli aspetti innovativi del contratto nazionale di lavoro che mette già a disposizione della categoria, oltre ad una importante previdenza integrativa (Fondo Mario Negri e Fondo Pastore) e ad un assistenza sanitaria integrativa (FASDAC) di prim’ordine, un centro di formazione (CFMT formazione) che garantisce ai singoli manager un aggiornamento continuo e a tutte le imprese del terziario il supporto nei loro progetti di cambiamento e riorientamento del proprio capitale umano. Questo nuovo compito si integra molto bene con altri progetti che il CFMT sta portando avanti per consentire ai manager di prevenire, nei limiti del possibile, momenti di difficoltà e di obsolescenza professionale.
Brexit, olimpiadi, referendum. Ma c’è una prospettiva?
Se dovessimo ritenere significativo il dibattito scatenato sulle radio e in rete sulla risposta di Virginia Raggi per la candidatura alle Olimpiadi di Roma 2024 dovremmo considerare assolutamente prevalente il sostegno al NO. Una posizione affatto sorprendente visto che, il recente e travolgente successo del neo sindaco, conteneva anche un netto e preventivo rifiuto a proseguire sulla strada proposta dal Comitato Organizzatore insediato con l’amministrazione precedente. Non sono però, in questa sede, interessato ad entrare nel merito pur essendo personalmente favorevole alla candidatura. Sono più interessato alle reazioni. Ma soprattutto al distacco sempre più netto, che queste reazioni testimoniano, tra gente comune e classe dirigente. La cultura del “not in my backyard” mi sembra possa rappresentarne il vero punto di partenza di questo “pensiero profondo”. Un “movimento di opinione”, prima locale poi sempre più diffuso che individua nelle scelte di una qualsiasi classe dirigente, locale, nazionale o internazionale l’avversario da battere. In parte per ragioni opportuniste in parte causate da paure di tutto ciò che è cambiamento del proprio status vero o presunto. In parte come risposta a tutto ciò che i cambiamenti hanno prodotto o rischiano di produrre al proprio vissuto quotidiano. Dalle migliaia di comitati locali che protestano su qualsiasi cosa in piazza, in televisione o in rete, passando attraverso movimenti politici di vario genere che nascono e si sviluppano in tutto l’Occidente per arrivare fino alla Brexit. La candidatura alle olimpiadi della città di Roma ne rappresenta sicuramente un’altra tappa. Temo anche il referendum di novembre. È un’onda inarrestabile? Ma soprattutto dove rischia di portarci? A mio parere non promette nulla di buono. È come se stessimo assistendo ad un’assemblea permanente di condominio dove nessuno alza più lo sguardo sui problemi veri ma dove nessun amministratore, che vuole conservare l’incarico, si permette di far ragionare seriamente i condomini. Non c’è nessuna volontà di cambiamento vero. C’è solo una radicale voglia di mettersi di traverso su tutto. La priorità ormai è quella di impedire i disegni altrui, non di affermare i propri che, spesso, non esistono nemmeno. È la fine della politica come strumento di mediazione e di proposta. Ovviamente c’è chi cavalca questo clima. Ho la netta sensazione che questo fenomeno si sia collocato definitivamente oltre lo schema novecentesco di contrapposizione tra destra e sinistra e che, le due grandi correnti di pensiero non riescano più a entrare in relazione, se non saltuariamente, con questo magma in continua mutazione. Si sta ormai diffondendo in tutti i Paesi occidentali con sembianze diverse. Da Trump che spinge un vecchio repubblicano come Bush senior a votare per la Clinton, a Frauke Petry in Germania che si oppone alla Merkel, a Farage in Gran Bretagna che vince e saluta, a Grillo in Italia. È un “NO” deciso ad un futuro ritenuto scritto da altri che, amplificato dai media, si rafforza scuotendo le fondamenta costruite dai sistemi democratici nel novecento. Personalmente credo che questo tsunami non porti a nulla di buono. Io sono per la democrazia rappresentativa e non amo né le assemblee di condominio, né alla rete che insulta, né le trasmissioni televisive dove si spettacolarizza la paura e il disagio. Spero che la buona politica, la cultura, la buona informazione, l’impegno personale e la coerenza possano fare da argine e far “cambiare verso” il nostro come gli altri Paesi. Le grandi prove di solidarietà conseguenti al recente terremoto sono lì a dimostrare che possiamo farcela e che siamo molto meglio di come vogliamo apparire. Il novecento ci ha costretto a prove ben più complesse ma, pur a fatica, chi ci ha preceduto ha saputo indicare come superarle. Le nostre radici sono lì. Dobbiamo solo convincerci che è possibile separare il grano dal loglio.
Panda sarà lei….
Essere Dirigente oggi non è facile. Circondati da luoghi comuni che assimilano l’intera categoria a Sergio Marchionne o con i bonus milionari percepiti da alcuni e indicati al pubblico ludibrio su pensioni e ruolo negativo nel pubblico impiego, si rischia di svilire e banalizzare un ruolo estremamente importante anche per il futuro del nostro Paese. I dirigenti privati oggi sono oggi più di centoventimila. Nel terziario di mercato superano abbondantemente i ventimila. Molti di meno rispetto agli altri Paesi. Insidiati dal basso dai Quadri, di lato da figure consulenziali e da ruoli temporanei. Da sopra, soprattutto nelle PMI, da una scarsa propensione di molti imprenditori a riconoscerne l’importanza per il futuro delle loro imprese. Ad una analisi superficiale potrebbe sembrare una categoria numericamente in declino ma non è così. È indubbio che c’è in corso un forte assestamento, soprattutto nel settore industriale. Assestamento dovuto alle riorganizzazioni aziendali che non hanno risparmiato la categoria e ai conseguenti ridisegni dei modelli organizzativi che hanno concentrato ruoli e responsabilità decisionali. Nel terziario che sta prendendo sempre più peso, assistiamo invece ad un fenomeno contrario con un leggero e costante aumento di nomine. Un altro luogo comune che compare ogni tanto sui media è che, ormai, il ruolo del dirigente e quello del quadro sarebbero, tutto sommato, sovrapponibili e quindi che le aziende sarebbero incentivate a mantenere il collaboratore in questa categoria impiegatizia, seppure collocata al massimo livello. Forse è stata la lingua inglese che ci ha portato fuori strada. La qualifica di “Manager” più qualcosa non si nega ormai a nessuno e quindi ruoli, compiti e funzioni si pensa possano sovrapporsi facilmente. Dirigente e Quadro sono due figure professionali ben diverse. Sia in termini di responsabilità che di ruolo aziendale. E questo nonostante che retribuzione e benefit tendano ad avvicinarsi. Omologare le due figure è sbagliato e controproducente. Per il singolo che si vede privato di una concreta possibilità di riconoscimento delle sue ambizioni, dell’impegno e delle competenze acquisite e per l’azienda che, se crede nel merito, nella crescita professionale e nell’investimento nelle sue risorse chiave non può nascondersi dietro un problema di costo per i suoi ruoli apicali. Tra l’altro l’idea che un collaboratore sia solo un costo ha fatto il suo tempo. Nel caso del dirigente è addirittura controproducente. Dire, come fanno alcuni colleghi DHR che un Quadro costa meno di un Dirigente è una affermazione tutto sommato banale. Certo che è così! Ma il punto è un altro. Essere Dirigente, oggi, non è un più un punto di arrivo come in passato. È uno snodo fondamentale per chi desidera crescere, gestire risorse e contribuire al successo della propria azienda. Per arrivarci occorrono diversi elementi non tutti raggiungibili solo attraverso competenze tecniche. Occorre investire costantemente su se stesso, sui propri punti forti, sulle proprie capacità che devono misurarsi con contesti sempre più complessi. Occorre saper “indossare una maglia” e ingaggiare costantemente i propri collaboratori verso obiettivi sfidanti e risultati concreti. Occorre saper difendere le proprie idee mettendole a disposizione dell’impresa sapendole integrare con quelle dei colleghi, andare oltre alle inevitabili delusioni e costruire sempre un clima positivo e collaborativo. C’è una sostanziale differenza tra essere Dirigente ed essere Quadro. E questa differenza non è colmabile con titoli artefatti, seppure internazionalmente comprensibili. L’investimento nelle risorse chiave in tutti i Paesi avanzati comprende, status, benefit, welfare come è più che in Italia. Ed il fatto che da noi i Dirigenti, ad esempio del terziario, siano tutelati da un contratto nazionale contenente un welfare d’avanguardia su sanità, previdenza e formazione, integrabile a livello aziendale dalla contrattazione individuale, è un elemento ulteriore di civiltà e di lungimiranza. Ma questa differenza non serve solo ai dirigenti. Serve anche ai Quadri che devono trovare nel loro dirigente di riferimento un esempio, un coach importante per la carriera, uno stimolo alla crescita. Ed investire su se stessi con continuità. Per questo occorre riflettere sul tema in modo meno superficiale. Lo si deve ai giovani che, ancora numerosi, si iscrivono nelle università, affrontano percorsi internazionali impegnativi e alle loro famiglie che fanno importanti sacrifici con l’obiettivo di vederli crescere e l’ambizione dei ragazzi di volercela fare. Lo si deve ai colleghi che, dirigenti oggi, si impegnano pur in mezzo a mille difficoltà proprie e dei propri collaboratori. Banalizzare ruoli e funzioni non porta da nessuna parte. Occorre al contrario incentivare la presenza di manager delle imprese, riconoscerne il merito, spingerli ad investire nelle proprie capacità e competenze, aiutarli nei passaggi delicati, sostenerli nel disorientamento che oggi attraversa tutto il mondo del lavoro. L’azienda di domani sarà un’azienda profondamente diversa rispetto a quella che abbiamo conosciuto. Sarà probabilmente abitata da robot, tecnologicamente avanzata, ricca di stimoli e meno legata ad un luogo fisico tradizionale. Ma in quell’azienda si farà strategia, si ingaggeranno i collaboratori, si prenderanno decisioni seppure in modo profondamente diverso da oggi. Così come da qui ad allora continueranno ad esserci Quadri e Dirigenti che, nel rispetto dei differenti ruoli, daranno senso e contenuto al termine “Manager”. I primi consapevoli del loro ruolo e delle loro prospettive professionali, i secondi maggiormente strutturati, più imprenditivi e più impegnati a condividere con l’impresa rischi e opportunità. Questo ha sempre fatto la differenza e continuerà a farla. L’estinzione del Panda quindi non è all’ordine del giorno. Anzi.
Una responsabilità da condividere.
Al polo logistico di Piacenza è morto un operaio egiziano investito da un camionista. Una notizia ormai già lontana che non ha prodotto alcuna riflessione vera. Eppure ci sarebbe molto da dire e da fare. Personalmente ho vissuto la nascita di alcuni dei cosiddetti “poli logistici” in funzione della terziarizzazione delle attività di un’azienda della GDO nella quale ho lavorato con le conseguenze del caso. La problematica dei costi e della qualità del servizio, la sottovalutazione del problema della gestione delle risorse umane soprattutto conseguente all’esplosione dell’immigrazione e la degenerazione delle relazioni sindacali del comparto. Se oggi, in quel settore, siamo ripiombati sostanzialmente negli anni ’70 è perché siamo di fronte ad una responsabilità collettiva delle imprese committenti, delle imprese fornitrici di quel servizio e dei sindacati confederali delle categorie interessate.
Innanzitutto perché si sarebbe dovuto capire subito che un magazzino logistico di nuova generazione non era semplicemente un’evoluzione del magazzino di un’azienda di trasporti o dell’impresa stessa che si stava apprestando alla terziarizzazione. Eppure il nord Europa (soprattutto gli esperti belgi e olandesi) già mostrava chiaramente e prima dell’esplosione dei giganti della rete, che software impiegato, organizzazione della movimentazione delle merci, qualità del servizio e gestione delle risorse erano ben altra cosa rispetto ai modelli precedenti.
Le aziende committenti hanno invece preferito fermarsi alle clausole contrattuali, alle penali relative e ai KPI con i quali misurare le performance del fornitore del servizio disinteressandosi sostanzialmente di tutto ciò che avveniva all’interno di strutture sempre più sofisticate e di grandi dimensioni. Le aziende fornitrici, multinazionali o meno, intenzionate a gestire il business si sono trovate improvvisamente circondate dalla pressione delle aziende committenti e da regole sempre più stringenti, dalla fragilità del loro sistema di gestione delle risorse umane e, infine, dall’esplosione del fenomeno delle cosiddette “cooperative” che si affacciavano in questo mercato, in modo sempre più spregiudicato. Alcune serie, controllate dal mondo tradizionale della cooperazione, altre provenienti dallo stesso sindacato di categoria, altre ancora nate solo con lo scopo di accaparrarsi spregiudicatamente commesse e attività. E tutto questo mentre esplodeva il fenomeno dell’immigrazione regolare e clandestina che ha, a sua volta, cambiato profondamente l’offerta di lavoro sempre più rigidamente inquadrata in etnie spesso guidate da caporioni spregiudicati. Nelle contraddizioni prodotte da questo sistema si sono infilati COBAS e centri sociali che hanno cavalcato spregiudicatamente i bisogni e le tensioni che inevitabilmente hanno coinvolto quei lavoratori. Basti citare la mancanza di comunicazione e gestione diretta dei lavoratori da parte delle aziende, l’organizzazione stessa del lavoro e del contesto, i furti e i sistemi di prevenzione e repressione, la mancanza di servizi minimi sul piano sociale, ecc. Oggi siamo qui. Ogni tanto la rabbia esplode davanti a questo o quel magazzino, i camionisti si infuriano perché vengono bloccati spesso con merce deperibile a bordo, le forze dell’ordine faticano ad intervenire perché non sono preparate a gestire il nuovo confine tra una legittima lotta sindacale di alcuni e un conflitto di interessi tra etnie, lavoratori, e imprese differenti nello stesso luogo di lavoro. Imprese committenti e fornitrici si gestiscono le conseguenze spesso molto pesanti cercando compromessi pasticciati e i sindacati confederali mostrano tutta la loro impotenza davanti a questa situazione. Per i lavoratori non cambia nulla perché ciò che è stato concesso forzatamente con una mano verrà presto tolto con l’altra. Solo i COBAS esultano e si apprestano a proporre in altri magazzini le stesse rivendicazioni con le stesse modalità. Ogni tanto, però, ci scappa il morto o gravi episodi di violenza. Ma cosa si può fare per cambiare verso? Innanzitutto le aziende fornitrici dovrebbero investire nella gestione del personale molto di più di quello che fanno oggi. Anche dotandosi di mediatori culturali. Occorre recuperare un rapporto con le persone che, però, vanno considerate tali indipendentemente dalla loro nazionalità o etnia. In secondo luogo occorre che sindacati e aziende negozino un contratto nazionale di riferimento che tenga conto dell’evoluzione del comparto. Aggiungo che occorrerebbe anche arginare decisamente il fenomeno delle cooperative fasulle. Sento già la critica: e i costi chi li paga? È evidente a tutti che il costo di queste scelte finirà inevitabilmente sulle tariffe. Personalmente sono convinto che se si sviluppasse una vera partnership tra impresa committente, impresa fornitrice e sindacati di categoria il costo potrebbe essere ammortizzato da una migliore gestione delle risorse, dei comportamenti pretesi e una maggiore qualità del servizio. Tutti argomenti che potrebbero essere compresi in un nuova visione di un contratto di lavoro più coraggioso che guarda al futuro e non al passato. Altrimenti si può continuare così. Dispiacendosi per le conseguenze e continuando a girare la testa dall’altra parte. Occorre però sapere che la brace che cova sotto quel comparto è una delle risposte che un sistema lasciato degenerare porta con sé. E che prima o poi rischia di coinvolgere tutti.
“Venti” di cambiamento nella formazione manageriale…
Il Centro di formazione management del terziario (CFMT- formazione) supera la boa dei venti anni di attività. Il giorno 19 settembre festeggerà questo avvenimento insieme ad un partner con cui ha condiviso tutti questi anni: la SDA Bocconi. Nell’aula magna dell’Università davanti ai manager che in tutti questi anni hanno partecipato al percorso “STARTING” dedicato ai neo dirigenti verrà presentata una survey che ha coinvolto oltre 300 dirigenti del terziario italiano con la quale si è cercato di capire il rapporto tra la formazione manageriale, lo sviluppo di carriera e l’ employability dei manager. Il titolo è significativo:” 20 di cambiamento…”
Come ha sostenuto Dario di Vico, in un recente articolo sul Corriere, occorre ripensare al ruolo decisivo che l’economia dei servizi ha nel capitalismo contemporaneo, specialmente in un sistema come quello italiano impegnato a fare un difficile “salto di qualità” in termini di investimenti immateriali, trasformazione delle filiere e dei modelli di business, personalizzazione delle prestazioni.
Se la produttività e il PIL, in Italia, non crescono come accade in altri paesi europei, è anche perché la trasformazione in atto eccede l’orizzonte della fabbrica industriale, investendo in modo diretto l’economia terziaria. Che, certo, richiede l’uso diffuso di nuove tecnologie, ma richiede soprattutto il cambiamento della cultura delle persone che dovrebbero guidare e utilizzare la rivoluzione tecnologica e produttiva in corso.
Questa cultura – e in particolare la cultura manageriale e imprenditoriale – in Italia deve evolvere più rapidamente che in altri paesi, per adattarsi al mutamento di un contesto che sta diventando sempre più globale e digitale. Su questo terreno le imprese italiane hanno un compito più difficile di quello che tocca a quelle di altri Paesi, dotati di una presenza di grandi imprese multinazionali impegnate da tempo sul fronte della ricerca e dell’internazionalizzazione. In Italia, infatti, l’eredità culturale e organizzativa lasciata dal successo dei sistemi locali (distrettuali) e dall’uso diffuso della conoscenza pratica (personale, non codificata), nel periodo 1970-1990, è diventata – col tempo – un freno inibitore, che pesa sulla capacità di evoluzione delle imprese, negli anni post-2000. Rispetto alla golden age distrettuale, infatti, il vento è cambiato, ma per le imprese e per i manager non è facile abbandonare le vecchie rotte e cercarne attivamente delle nuove, in direzioni differenti. I nuovi modelli di business delle imprese nel mondo post-2000 devono infatti associare le relazioni dirette interpersonali, cresciute nei sistemi locali (di cui hanno esperienza), con quelle a distanza, che danno accesso alle reti globali. E devono, inoltre, declinare il sapere pratico e informale, usato in precedenza, con i linguaggi formali e i codici che è necessario usare nell’economia digitale. La survey che ha coinvolto oltre 300 dirigenti ha evidenziato tre elementi importanti. Innanzitutto che chi ha iniziato con il piede giusto accettando l’invito della propria azienda o decidendo autonomamente di partecipare a questo percorso ha continuato a credere nella propria formazione e ha poi proseguito scegliendo di continuare a rafforzare le proprie capacità e le proprie competenze in ambito multidisciplinare e interaziendale. In secondo luogo chi ha fatto questo corso ha saputo impegnarsi per colmare costantemente il gap tra le proprie competenze e quelle richieste dal mercato. Infine la community. Fare formazione interaziendale favorisce le relazioni, consente di farsi conoscere, rafforza la propria brand identity. La SDA è stato il partner ideale. Non si collabora oltre venti anni se non si costruisce e non si cresce insieme. Oltre 1500 dirigenti sono passati da lì. Aziende del calibro di CISCO, PUBLITALIA, CARREFOUR, AUTOGRILL, SAMSUNG, GOOGLE, KPMG, MEDIAMARKET, METRO ITALIA CASH & CARRY, OVS – GRUPPO COIN, RICOH ITALIA, TOSHIBA, così come molte PMI del commercio, del turismo, della logistica e dei trasporti, hanno mandato i loro futuri manager ai nostri corsi spesso integrando le opportunità formative di CFMT con quello delle loro Academy interne nazionali e internazionali. E questo ci rende particolarmente orgogliosi.
Insieme alla SDA Bocconi continueremo rafforzando la community, progettando nuove iniziative da mettere a disposizione dei nostri manager.
Cfmt, il centro di formazione dei dirigenti del terziario, nasce da un’intuizione di Guido Gay allora presidente di Manageritalia che vantava un percorso manageriale di primo piano in aziende come l’Olivetti di Adriano, la Penney americana e la Rinascente di Borletti ove ricordava sempre “c’era spazio, possibilità di espressione e opportunità di autorealizzazione”. Un’intuizione condivisa, sul piano contrattuale, con Confcommercio. Era il 1993. Pensare allora ad un centro di formazione sostenuto dai dirigenti e dalle imprese del settore non era facile. Non ci erano riusciti i dirigenti industriali nei loro contratti né esistevano esempi da imitare. Oggi si parla sempre più spesso di diritto soggettivo alla formazione. Arrivarci nel 1993 dimostra una lungimiranza che, allora, si confrontava con un presunto individualismo di una categoria che, al contrario, dopo la previdenza e l’assistenza sanitaria cominciava a porsi il problema della impiegabilità e della crescita professionale. Costruire un centro di formazione di alto livello a disposizione dei ventimila dirigenti e delle novemila aziende del terziario, del turismo, della distribuzione e dei servizi attraverso un contributo di sole 250 euro all’anno (di cui metà a carico dell’impresa nel quale il dirigente è occupato) consente di mettere a disposizione il meglio dei professionisti che operano nel campo della formazione manageriale ai singoli dirigenti attraverso un ricco catalogo interaziendale e di proporre, alle imprese che ne fanno richiesta, corsi tagliati su misura sulle loro specifiche esigenze. In venti anni oltre 18.600 dirigenti coinvolti e oltre 8.400 aziende dimostrano il successo di quell’intuizione. Oggi CFMT può anche contare sul supporto di un comitato scientifico di alto profilo che coinvolge docenti universitari dei principali atenei, professionisti e imprenditori, le federazioni di appartenenza delle imprese dei diversi settori e le associazioni manageriali distribuite su tutto il territorio nazionale. Insieme decidiamo progetti comuni, ricerche, iniziative pubbliche e osservatori dedicati. Per questo l’anniversario del giorno 19 settembre per noi non è un semplice anniversario ma è solo un pretesto per riflettere, ascoltare e accettare nuove sfide.
I futuri livelli della contrattazione.
Credo ormai sia chiaro a tutti che la riforma dei livelli contrattuali dovrà affrontare un paradosso. Senza il contratto nazionale non si va da nessuna parte ma, il contratto nazionale, così com’è stato concepito negli ultimi cinquant’anni, non consente di arrivare da nessuna parte. Il CCNL, checché se ne dica, presenta, però, ancora dei vantaggi indiscutibili. Per i lavoratori costituisce una garanzia importante di equità. Dall’altro lato le aziende del settore coinvolto, lo accettano, lo rispettano e lo applicano. Quindi è ancora uno strumento che non lascia spazio a discriminazioni e dumping salariale tra imprese. Inoltre è l’unico possibile contenitore per un valido welfare integrativo. Se prendiamo il comparto del terziario, chi non lo ha ancora firmato (ad es. FIPE, Federdistribuzione, Cooperazione) lo vorrebbe comunque avere, seppure con contenuti diversi. Fuori dal terziario, salvo FCA e pochi altri, nessuna impresa chiede a gran voce di superarlo. Semmai lo chiedono gli opinionisti, spesso troppo sbrigativi, sulla materia. È indubbio che sia una situazione molto difficile anche per le organizzazioni sindacali di quei settori che si trovano in difficoltà proprio dove hanno la maggiore concentrazione di iscritti. Questa premessa per concludere che, senza regole certe, il semplice superamento del CCNL porterebbe, inevitabilmente, ad una marginalizzazione tout court della contrattazione. Si contratterebbe di meno, non certo di più. Marco Bentivogli, leader della FIM CISL, lo ha capito benissimo e quindi insiste nel proporre una contrattazione di secondo livello, integrativa di quella nazionale, come questione di democrazia sostanziale e chiede a Confindustria di condividerne la sfida soprattutto per quanto riguarda le PMI spingendo verso un modello territoriale. Il messaggio è chiaro. La corresponsabilità non può essere a senso unico. Occorre costruire insieme le nuove regole, fidarsi reciprocamente, rendere effettiva la contrattazione aziendale e, dove non dovesse essere possibile, bisognerebbe saper costruire una contrattazione territoriale sostanzialmente esigibile. Quindi estesa anche dove oggi l’applicazione del CCNL tiene il sindacato fuori dai cancelli. Anche perché il sistema attuale è erga omnes mentre quello proposto non lo è. Al momento, però, la FIM sembra parlare solo per sé. Federmeccanica (e Confindustria), sembra optino per un modello profondamente diverso dove, oltre ad un ruolo di garanzia sui minimi, al welfare e alla formazione affidati al CCNL sarebbe, di fatto, l’impresa che decide se coinvolgere o meno il sindacato, su cosa e, sostanzialmente, a quale livello aderire. Soprattutto laddove il sindacato non è presente. Non chiarisce (almeno per ora) l’entità, il modello e i luoghi dove rendere effettiva la corresponsabilità. Modelli e proposte non semplici da far coesistere. Inoltre nel metalmeccanico tradizionale la dimensione territoriale, in molte realtà, ha ancora un senso. Non è così in molti altri comparti. È vero che il territorio resta un riferimento economico e sociale comprensibile per tutti i lavoratori (costo della vita, consumi, ecc.) ma non lo è per le imprese. Soprattutto in ottica 4.0. “Costringerle” a vincolarsi ai risultati di una contrattazione avulsa dal loro contesto competitivo potrebbe rilevarsi un errore. Per questo continuo a pensare che l’unica strada praticabile sia rappresentata da un modello di CCNL che preveda deroghe applicative chiare. Deroghe che possono essere di comparto o di azienda. Oppure di territorio ma solo in presenza di territori sufficientemente omogenei. In altri termini una volta concordato il ruolo e il peso distributivo affidato al CCNL (individuando una sorta di nuova IPCA di riferimento) si potrebbe prevedere ciò che potrà essere derogato e dove, in che modo e per quanto tempo. Quindi la contrattazione aziendale, di comparto o di territorio disporrebbe, come minimo, di una quota che, se non distribuita, verrebbe (automaticamente?) riconosciuta ai lavoratori, oppure integrata ed aumentata se, lo scambio verrà ritenuto congruo da entrambe le parti stipulanti il contratto stesso. Tra l’altro, questo approccio, consentirebbe di superare lo scoglio rappresentato dall’alternatività o meno dei due livelli contrattuali che si integrerebbero positivamente, pur all’interno di regole precise. E questo, credo, aiuterebbe anche la chiusura del contratto dei metalmeccanici. È sostanzialmente il modello adottato nel terziario. Un forte welfare (previdenza e sanità) a cui si aggiungerebbe la formazione come diritto soggettivo, minimi contrattuali con meccanismi di assorbimento definiti, materie derogabili, diritti e doveri. In attesa di una vera riforma del salario e del contesto legislativo e fiscale collegato. Il punto centrale credo sia la qualità e la certezza dello scambio. E i reciproci vantaggi. Per le imprese e le loro rappresentanze ma anche per i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali.
Lo spreco dei NEET. Il nuovo libro di Alessandro Rosina
Un libro sicuramente da leggere. Per gli addetti ai lavori, soprattutto per imprenditori e sindacalisti. Ma anche per chi ha dei figli. I NEET (i giovani che non studiano e non lavorano) li abbiamo creati noi. In famiglia, cercando di perpetuare il più a lungo possibile il loro stato di immaturità e quindi di dipendenza e nella scuola continuando a proporre percorsi deboli sul lato tecnico professionale e dallo scarso rendimento individuale per quelli più elevati nei quali i giovani dovrebbero riporre impegno e aspettative. A questi elementi, purtroppo strutturali, occorre aggiungere la mancanza di politiche attive, il modesto impegno delle imprese ma anche la disattenzione dei sindacati. Il rischio, però, è che la colpa sia sempre di qualcun altro. E quindi ciascuno può, a modo suo, assolvere la propria coscienza. L’analisi è impietosa. Mostra la distanza con gli altri Paesi e il rischio che una generazione sostanzialmente perduta contribuisca ad un declino, aggravandolo. Rosina però, grazie alla sua formazione e al contesto nel quale riflette e propone le sue analisi non cede al pessimismo cosmico tipico di questi tempi ma individua alcune opzioni a portata di mano. Esagera in ottimismo quando “sogna” risolti tutti i problemi nel 2025 ma le sue proposte concrete sono interessanti. Innanzitutto occorre non fermarsi agli alibi. Altrimenti questi si trasformeranno in vere e proprie condizioni di svantaggio così come sperare che la fine della crisi economica possa risolvere da sé questo problema potrebbe rivelarsi una illusione pericolosa. Quattro proposte che dovrebbero essere messe al centro della riflessione comune. Innanzitutto fare in modo che tutti concludano il loro percorso educativo perché chi abbandona il proprio ciclo di studi (a qualsiasi livello) è più esposto alla precarietà ma anche a fragilità professionali e personali. Per fare questo occorre conoscere il fenomeno, monitorarne l’evoluzione, mirare gli interventi e misurarne gli effetti. In secondo luogo consentire l’acquisizione di competenze utili nella vita lavorativa. Stage e apprendistato sono gli strumenti più idonei. Però occorre maggiore lungimiranza sociale delle imprese e nelle imprese che consentano di superare il disorientamento prodotto in questi anni dall’uso strumentale di queste opportunità allineandole alle esperienze più avanzate in Europa. La terza proposta riguarda l’opportunità di una presenza attiva nel mercato del lavoro. Purtroppo i progetti messi in piedi fino ad ora, improntati al “partiamo e poi vediamo”, rischiano di produrre solo disorientamento, disimpegno e spreco di risorse economiche. E questo non possiamo permettercelo. L’auspicio dell’autore è quello di dotare il nostro Paese di un solido sistema di politiche attive incardinate su efficienti centri per l’impiego. La sua speranza è che la riorganizzazione dei servizi pubblici per l’impiego e l’istituzione dell’Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) vadano in questa direzione. Ultimo, ma non meno importante, occorre stimolare e sostenere l’intraprendenza delle nuove generazioni. Su questo non partiamo da zero. Soprattutto è già possibile constatare che dove l’intraprendenza personale trova un contesto adatto si sviluppano interessanti sinergie e prospettive di attività e quindi di lavoro. In estrema sintesi occorrerebbe un lavoro comune che favorisca autonomia, intraprendenza, senso di responsabilità e apprendimento continuo. Alessandro Rosina lo scrive e ci crede. Alla presentazione del Rapporto Giovani 2016, indagine realizzata dall’Istituto Toniolo con il sostegno di Intesa San Paolo e Fondazione Cariplo, presentata recentemente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel suo intervento ha affermato:”«Essere felici nella fase giovanile risulta sempre meno una condizione dell’essere spensierati e sempre più legata al fare, alla possibilità di mettersi alla prova con successo in un contesto che incoraggia ad essere attivi nel migliorare il proprio futuro». La conclusione, in quel convegno ma anche del libro è quindi “semplice”: Fare, Felicità e Futuro. Le tre F su cui dovrebbero puntare i giovani italiani nei prossimi anni. Ovviamente non da soli.
Contratto metalmeccanici, le carte cominciano ad essere sul tavolo..
Il recente articolo di Marco Bentivogli su FIRST on line, dal mio punto di vista, è un chiarimento necessario e certamente utile alla ripresa del confronto sul rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Innanzitutto non ci sono pregiudiziali esplicite né minacce che non aiuterebbero di certo il confronto e la successiva conclusione del negoziato. Ci sono però tre suggerimenti importanti su cui riflettere. Il primo. Il sistema delle relazioni sindacali va ripensato. E non è solo interesse delle organizzazioni dei lavoratori. Su questo non si può non essere d’accordo. Non è più, come in passato, un problema di “falchi e colombe” annidati in entrambi gli schieramenti ma è un problema di Sistema. Aziende e lavoratori devono collaborare facendosi carico di rischi e opportunità. Non subendoli. Conservazione e innovazione si ridefiniscono continuamente passando per questo crinale. Impresa e lavoro nella globalizzazione, che lo si voglia ammettere o meno, giocano la stessa partita. Ed è una partita difficile perché altrove, di fatto, hanno già scelto chi scende in campo. O Darwin o insieme. E, questo nuovo senso di responsabilità e di coinvolgimento non si deve fermare al lavoro. Non sarebbe sufficiente. È l’insieme del Sistema che deve trovare un diverso modo di collaborare e quindi di competere. E, questa collaborazione, non può lasciare in panchina le organizzazioni di rappresentanza. Simul stabunt simul cadent. Il secondo. Questo contratto deve saper mettere al centro la persona. Fondamentale. Non un anonimo lavoratore indifferenziato in un contesto fordista. “Salute, benessere, valorizzazione e realizzazione nel lavoro”. Questo significa previdenza complementare, assistenza sanitaria, formazione. Ma anche politiche attive, opportunità di crescita, merito. Questo elemento, che potrebbe costituire il “cuore” di questo rinnovo, trova già convergenze apprezzabili tra le parti in causa. Il terzo riguarda la questione salariale. Su questo permane un equivoco. Anche in Bentivogli. Le aziende, soprattutto in un logica post fordista, non hanno interesse a discriminare. Non è più così da tempo. Le aziende hanno politiche retributive precise che non negoziano e che si stanno sviluppando ulteriormente. Il compito del sindacato è un altro. C’è un problema legato all’inquadramento, alla possibilità di rimettersi in gioco come persona o di essere messi in discussione professionalmente dall’azienda che, prima o poi, dovrà essere affrontato. Dalle confederazioni, dalle categorie e nelle imprese. Un’altra cosa è affidare al CCNL il compito di tutelare il potere di acquisto e, alla contrattazione aziendale, quello di occuparsi di produttività, coinvolgimento, salario ad obiettivi, ecc. Su questo la posizione di Federmeccanica è oggettivamente debole. Visto da fuori è l’area dove i tatticismi stanno ancora prevalendo sulla strategia. Su questo Bentivogli è chiaro molto di più di altri sindacalisti. Il CCNL ha una funzione che deve essere rispettata. Semmai occorre definire, insieme, contenuti e deroghe possibili. Quindi andrà individuato un nuovo equilibrio. Il rischio è che si sacrifichi il potenziale di innovazione contenuto nelle reciproche proposte (pur su tematiche differenti) per accontentarsi di una firma comunque. Bentivogli sembra voler esorcizzare questo rischio. Però dipenderà anche dagli altri negoziatori anche perché credo che su questi tre elementi, e sull’equilibrio tra di essi, si giocherà la possibilità o meno di sottoscrivere il contratto in tempi ragionevoli.