Tutti in corsa per gestire il capitale umano delle imprese?

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Negli anni 90 in Francia uscì un libro dal titolo estremamente significativo: “Tous DRH”. Tutti direttori risorse umane. Spiegava cosa e come fare a gestire le risorse umane in azienda senza dover ricorrere per forza agli specialisti della funzione RH. Si rivolgeva ai manager delle vendite, della logistica, dell’amministrazione invitandoli a gestirle in prima persona. Indicava una necessità ma anche una tendenza che presto si sarebbe affermata, non solo in Francia. Una necessità perché le risorse umane dovevano ovviamente essere gestite innanzitutto dai propri responsabili e non da altri. Gestire, per un’azienda, significa ascoltare, spiegare, ingaggiare, condividere, motivare, riconoscere. E, queste capacità tutti le devono e le possono apprendere. Segnalavano però anche l’inizio di una tendenza dovuta anche (non solo) alle quotazioni di borsa che fino alla crisi avrebbero eccitato a dismisura fondi di investimento e top manager di molte imprese con le inevitabili riorganizzazioni aziendali provocate da continue acquisizioni, fusioni e incorporazioni che hanno, tra le altre conseguenze, stravolto gli organigrammi preesistenti. Le funzioni di staff e molte altre funzioni aziendali sono state ridotte al minimo. Così come alcune attività esclusive delle Direzioni Risorse Umane. In Italia l’effetto di queste politiche ha determinato, nel tempo, una forte riduzione di peso delle Direzioni Risorse Umane le cui responsabilità sono state inglobate, verso l’alto dai CEO stessi o dai Comitati di Direzione e, verso il basso, dai manager di linea trasformando la funzione più da consulente interno “senza portafoglio”. Da qui il presidio sui costi, sui tagli, sulla formazione finanziata e, di conseguenza un sostanziale ridisegno del ruolo sempre più tattico e sempre meno contributore della strategia ovviamente in modalità e gradi diversi a seconda del settore e dell’azienda. D’altra parte davanti a un CEO che ragiona con la trimestrale in mano c’è poco da fare strategia sulle risorse umane e sulla gestione dei talenti! La profondità della crisi e la necessità di alzare lo sguardo hanno aiutato a superare in parte quella fase. Da un lato la necessità di coinvolgere, ingaggiare e investire sul capitale umano dell’impresa sono tornati centrali soprattutto con il parallelo venire meno del fordismo anche nelle sue ricadute gestionali e quindi contrattuali. In questo nuovo contesto le risorse devono essere trattenute, motivate e gestite individualmente o in squadra ed è impossibile riservare queste politiche solo agli alti livelli. La gestione delle risorse deve essere oggettiva, meritocratica e trasparente. Soprattutto, per il collaboratore, perché dovrà sempre più accompagnarlo nel suo percorso professionale, anche oltre l’azienda stessa. Dall’altro lato i veri professionisti della funzione hanno saputo dimostrare che il clima interno, fondamentale per affrontare qualsiasi sfida, non si rafforza declamando valori non agiti, affogando dubbi e incertezze in sfarzose quanto inconcludenti convention motivazionali o lanciando inutili survey dai risultati stupefacenti adatti più alla Pravda di antica memoria che ad un’impresa che ha bisogno di coerenza, esempio e realismo. Nel frattempo il sindacato, in tutto o in parte, si è praticamente eclissato dalla vita delle aziende (non in crisi) ritagliandosi un ruolo marginale e notarile nei confronti delle imprese ma soprattutto allontanandosi dalle nuove generazioni che via via si affacciavano al lavoro in modalità diverse dal passato lasciando purtroppo la convinzione in molti manager di medio e alto livello, di poter fare di tutto e di più, di “interpretare” regole e contratti in modo sempre più spregiudicato e di poter osservare il sistema delle relazioni sociali e delle associazioni di rappresentanza come una sorta di mondo in via di estinzione. E di conseguenza, di “sopportare” i colleghi manager delle direzioni risorse umane impegnati a sottolineare rischi e opportunità non colte. Anche questa fase, fortunatamente, sembra però volgere al termine. L’irrigidimento sui contratti nazionali di alcune federazioni datoriali ne segnala i titoli di coda, la chiusura di altri contratti nazionali (terziario, chimici e alimentaristi) e lo stesso confronto (pur complesso) aperto sul tavolo dei metalmeccanici segnala la volontà di provare a percorrere nuove strade. I soggetti più attenti del sindacato, delle imprese e delle associazioni datoriali più sensibili stanno segnalando la necessità di questo cambio di fase. La scelta della “corresponsabilità” proposta da Confindustria o della “collaborazione intraprendente” proposta tempo fa da Confcommercio vanno entrambe in questa direzione. Così come le riflessioni che attraversano alcune Federazioni di categoria del sindacato. C’è un vecchio proverbio arabo che recita: “La differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo.” Quello che ci attende è una scommessa nuova. Per le imprese e per il sindacato. Una scommessa che va oltre la vecchia cultura collettiva di derivazione sindacale e fordista ma anche dalla cultura aziendale che pensa di gestire autonomamente un soggetto, il collaboratore, che sempre più sa quello che vuole e che non necessariamente coincide con i voleri dell’impresa nella quale è momentaneamente impiegato. Per questo bisogna stare attenti a non commettere l’errore di semplificare troppo il contesto sperando che il sistema trovi un suo equilibrio da solo. Se così fosse sprecheremmo solo una buona opportunità. Le imprese che oggi credono di poter fare da sole devono poter cogliere i vantaggi di un rapporto nuovo e costruttivo con un sindacato diverso dal passato e il sindacato deve abbandonare l’idea che ciò che non è più possibile realizzare con i rapporti di forza possa essere riprodotto, più o meno con gli stessi risultati, con altre modalità. Quel mondo è finito. Manghi nella prefazione dell’ultimo libro di Marco Bentivogli accenna al rischio che il sindacato si sia “fermato nostalgicamente su di un breve e irripetibile periodo facendone un paradigma obbligatorio”. Se così fosse, non si andrà da nessuna parte. In un mondo globalizzato l’impresa e il lavoro possono tornare essere centrali ma solo se si percorrono strade nuove. Non possiamo pensare che con le regole del ‘900 siamo in grado reggere l’urto della concorrenza mondiale, costruire una nuova cultura del management, formare milioni di persone orfane del fordismo e di organizzazioni top down e definire un modello autoctono maggiormente collaborativo e costruttivo. Dobbiamo, insieme, individuare le priorità e creare le condizioni per rilanciare la nostra economia. Certo le risorse economiche a disposizione sono poche ma è difficile pensare di bypassare il confronto con questo Governo che ha lanciato segnali inequivocabili di volontà riformatrice, magari rinviando la soluzione sperando nel prossimo, seduti sulla riva del fiume. Il ruolo di questo Governo è importante e non va sottovalutato anche se occorrerebbe osare di più. Non bisogna accontentarsi di un “accordicchio” finalizzato solo a influenzare i giudizi dei nostri partner europei. I recenti accadimenti luttuosi dimostrano che il Paese cerca concretezza, consapevolezza, unità e lungimiranza. Cogliere queste esigenze significa pensare veramente alle nuove generazioni e alle loro esigenze e non a legittimi quanto ormai irrealizzabili interessi di ciascuna delle “botteghe” coinvolte.

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Governo, riforma del modello contrattuale e sindrome di Münchausen

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Leggendo gli articoli che via via appaiono sulla stampa, in relazione alla prossima probabile riforma della contrattazione, si ha la netta impressione che un rischio possa essere anche quello di farci solo del male con l’unico scopo di attirare attenzione e simpatie dall’Europa. Magari per ottenere qualche dilazione sui conti pubblici. E così di continuare a manifestare i sintomi di una specie di sindrome di Münchausen, di cui, ultimamente sembriamo affetti. La riforma della contrattazione è un passaggio delicato e importante che non va sottovalutato. Non esistono scorciatoie.
Purtroppo l’insistenza sulla necessità di decentrare la contrattazione come unica soluzione fattibile e a portata di mano lo dimostra in modo evidente. Ne parlano molti, a proposito ma anche a sproposito. Giuslavoristi, opinionisti, consulenti aziendali, esperti e inesperti della materia. Alla domanda sul perché non c’è abbastanza contrattazione aziendale, in Italia, si è trovata una risposta semplice e cioè che ci sarebbe una contrattazione nazionale pesante che, di fatto, la rende marginale. E ancora che la produttività è bassa anche perché non c’è la possibilità per le aziende di legare parte dei salari a questo scopo. A mio parere si tratta di pericolose semplificazioni. Premetto che non sono affatto contrario ad un rilancio serio della contrattazione aziendale. La trovo assolutamente idonea a risolvere alcuni problemi (produttività, vincoli organizzativi, coinvolgimento, salario legato a particolari performance, ecc.). Mi piace di meno quando lascia l’azienda, sola, in balia delle sue priorità del momento e delle contropartite richieste da sindacalisti di vecchio conio per condividerle. Oggi, la contrattazione aziendale, è praticata da una modesta minoranza di aziende, seppur significative. Nel terziario non sfiora il 3%. Nell’industria, presa complessivamente, forse non arriva al 10%. La punta è nei metalmeccanici con circa il 30%. E queste percentuali, sono in calo, non in crescita. Ed è, infine, per buona parte una contrattazione di natura “concessiva” o “restitutiva” perché affronta temi legati a ristrutturazioni, tagli, riduzioni di costi, flessibilità. Certo ci sono anche aziende che scommettono sul welfare e sul benessere dei propri collaboratori ma lo fanno senza coinvolgere il sindacato o limitandosi a coinvolgerlo solo sul piano formale. Come sulla formazione. Così come molte imprese hanno una propria politica retributiva e di sviluppo delle risorse che si integra con il CCNL ma che non è condivisa con nessuno. Continuo a pensare che i problemi veri, per le aziende, di cui nessuno sembra preoccuparsene siano rappresentati dalla struttura della retribuzione (salario minimo, salario professionale e salario a obiettivi) , da un inquadramento ormai obsoleto (mansionari e livelli), da un codice civile che è stato predisposto in epoca completamente diversa da oggi (dove la mansione era per la vita e comunque sempre in crescita) e dal costo del lavoro comprensivo di carico fiscale e contributivo eccessivo. Tutti argomenti che, a livello aziendale, non possono essere nemmeno sfiorati o quasi. Nelle condizioni attuali la stragrande maggioranza delle imprese non sarebbe interessata ad alcun tipo di contrattazione aziendale. Qualcuno, prima o poi, lo dovrà pur dire. Le aziende più attente, semmai, vogliono gestire autonomamente i propri collaboratori sia sul piano economico che professionale. Il neo Presidente di Confindustria Boccia, nel suo discorso di insediamento lo ha lasciato intendere molto bene: “occorre trovare una soluzione che consenta, a chi non vuole o non può contrattare in azienda, di avere un contratto nazionale di riferimento”. Quindi di cosa stiamo parlando? Ho sentito raccontare, in un recente servizio televisivo sull’argomento, che questa “riforma” consentirebbe al Governo di ottenere, in cambio dall’Europa, una maggiore flessibilità nei conti pubblici. Se fosse così, facciamola pure. Ma, almeno, tra di noi, non prendiamoci in giro. Senza un contratto nazionale di riferimento e una sorta di nuova IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) stabilire la prevalenza della contrattazione aziendale tout court significa, nel lungo periodo, abbassare i salari reali per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Questo deve essere chiaro. La mancanza di regole certe sulla esigibilità spingerà molte aziende in affanno o in difficoltà a muoversi con estrema decisione su questo versante. E, molte altre ad approfittarne creando pericolose situazioni di dumping.
Ma sopratutto questa scelta, se sganciata da altri interventi conseguenti, cristallizzerebbe definitivamente la cosiddetta “legge del pendolo” come unico elemento di (dis)equilibrio tra le parti. Il più forte comanda e detta tempi e contenuti. Ieri era il sindacato, oggi sono le aziende, domani, chissà. Non mi sembra né un sistema da condividere, né collaborativo, né moderno. Quindi cosa occorrerebbe fare? Innanzitutto mantenere il contratto nazionale di riferimento stabilendo tra le parti le materie che possono essere derogate ad altri livelli (aziendali, di comparto, ecc.) quindi il luogo dove può avvenire lo “scambio” e su cosa. Inoltre occorrerebbe definire le materie specifiche del livello aziendale e come si articola il confronto dove c’è una rappresentanza sindacale ma anche come si procede dove non dovesse esserci. E quali garanzie concrete per i lavoratori. Infine occorrerebbe aprire un confronto con il Governo sul costo del lavoro e sulle leggi che dovrebbero essere modificate per rendere effettivamente flessibile (non precario) il rapporto di lavoro, in entrata, in costanza e dopo. E le contropartite per il sindacato confederale e per i lavoratori in termini di concreta ed effettiva “corresponsabilità”. Vantaggi e svantaggi. E, tra le parti, un negoziato di merito sul nuovo modello contrattuale. Altrimenti la montagna è destinata inevitabilmente a partorire un topolino. Continuo a pensare che da questa situazione non se ne esce con mosse ad effetto né con scorciatoie. È necessario ricostruire un modello di regole per il lavoro che deve saper trovare un nuovo equilibrio tra diritti, doveri, strumenti e rappresentanza. Soprattutto occorre uscire definitivamente dalla logica dei rapporti di forza che, di volta in volta, rendono asimmetrico e quindi sbilanciato il rapporto di lavoro. Aldo Moro ci ha insegnato che “questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. E questo vale sia per gli imprenditori che per i lavoratori. E, ovviamente, per le loro rappresentanze. Occorre decidere, una volta per tutte, di fare un passo avanti per mettere a disposizione soprattutto delle nuove generazioni un sistema moderno e più attento alle esigenze concrete di flessibilità delle imprese e che concretizzi questa “corresponsabilità” rafforzando il ruolo del capitale umano in azienda e della collaborazione, qualificando il welfare di natura contrattuale, il diritto soggettivo alla formazione e la tutela del salario reale. L’autunno è ormai dietro l’angolo. Il tempo a disposizione non è molto per decidere quale dovrà essere la direzione di marcia. E Il rischio che la situazione si aggrovigli tra contratti aperti e risorse scarse a disposizione del confronto con le parti sociali è, purtroppo, molto alto.

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Contratti pubblici, farli, si, ma pensando al futuro..

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Ha ragione Annamaria Furlan segretaria generale della Cisl ad essere preoccupata. Se gli interventi importanti a sostegno delle imprese voluti dal duo Calenda-Padoan verranno messi in contrapposizione a quelli necessari per pensionati e contratti condivisi dal duo Nannicini-Poletti si commetterà un errore grave perché è indubbiamente vero che gli interventi sul versante sociale costituiscono anch’essi un volano importante per i consumi e per l’economia. Occorre trovare, insieme, le risorse necessarie. Sette miliardi per i contratti, 2,5 per la previdenza. Questa sembrerebbe essere la richiesta sul tavolo tra Governo e Sindacati. All’inizio la proposta di Madia era di trecento milioni. Pochi prima, troppi adesso. Restando sul contratto della PA vorrei essere subito chiaro. A mio parere non esiste lo spazio per un contratto nazionale che recuperi lo stop di tutti questi anni. Occorre saper andare oltre. E, soprattutto, lo scambio inevitabile tra dare e avere deve essere chiaro, esigibile, trasparente e, finalmente, condiviso. Ci sono due elementi che potrebbero aiutare il negoziato aggiungendosi al quantum economico che il Governo può mettere sul tavolo per concludere la trattativa spalmandone i costi su più anni. Innanzitutto il tema dell’organico nei differenti comparti, della sua quantità, della distribuzione sul territorio, della necessaria mobilità e del livello di rimpiazzi possibili legati al turn over. E questo cercando di salvaguardare al massimo le problematiche dei lavoratori, pur all’interno di un contesto riorganizzativo complesso. In secondo luogo come e quanto redistribuire degli eventuali risparmi ricavati da questa operazione. Per la PA si tratterebbe del primo confronto nel quale il sindacato confederale si può presentare unitariamente come soggetto in grado di negoziare una riorganizzazione complessiva e concordata dopo la fase della concertazione di vecchio conio. Per farlo occorre il tempo necessario per coinvolgere i lavoratori del settore e quindi far crescere una nuova consapevolezza che sappia mettere ai margini tutte quelle forme di sindacalismo opportunista e radicale che si sono potute sviluppare negli anni per complicità con la politica e per errori dai quali lo stesso sindacalismo confederale non è rimasto immune. Le posizioni di partenza (300 mio vs. 7 mdi) sono ovvie e scontate. In ogni negoziato la fase della rappresentazione delle rispettive posizioni di partenza è inevitabile. E non serve banalizzarle. Occorre, al contrario, che i negoziatori siano credibili, che abbiano il mandato e conoscano a fondo la materia. Soprattutto un progetto serio su cui misurarsi. Oggi, nella PA le preoccupazioni sono diverse e diffuse. Non c’è una massa compatta, fordista, desiderosa di risposte egualitarie. C’è una grande consapevolezza della posta in gioco, così come del fatto che la riorganizzazione, comunque necessaria, può essere una grande occasione di coinvolgimento e partecipazione. Ma anche di un recupero di immagine necessaria presso l’opinione pubblica. Le proposte del Governo non sono certo neutrali. Così come la natura e la maggioranza che sostiene questo Governo che non dovrebbe essere sottovalutata dai sindacati. Ma anche la necessità di puntare decisamente sul merito, sulla formazione, sulla qualità del servizio al cittadino utente e sulla salvaguardia dei redditi più bassi. Questa però è un’occasione importante nella quale il sindacato confederale e di categoria potrebbero ritornare ad essere protagonisti e collegarsi al processo riformatore che è comunque in atto nel Paese e che può trovare in questa vertenza una conferma importante. Ma è un’opportunità anche per il Governo e per le forze politiche che lo sostengono. Gli ultimi segnali confermano la volontà di confrontarsi con il sindacato. Il ministro Madia è stato chiaro. Così come i sottosegretari coinvolti. Il negoziato ci sarà. Nessuno può sottrarvisi senza una motivazione profonda. In questa fase non serve farsi condizionare da chi preferirebbe far saltare il banco per altri fini. E, questa vicenda, non dovrebbe, in alcun modo, essere collegata al referendum o al suo presunto esito. Un rinnovo di contratto nazionale, seppure difficile e complicato come quello della PA, paga decenni di errori e di compromessi politici e sindacali e vive di dinamiche proprie. Però qualsiasi errore del passato non giustificherebbe un errore ben più grave che consiste nel non credere utile e possibile questo negoziato. È, credo evidente a tutti, che non si cambia la PA contro i lavoratori pubblici né consegnandoli all’estremismo inconcludente delle organizzazioni autonome. Occorre credere fino in fondo in questa opportunità e lavorare sotto traccia per una soluzione possibile evitando di ascoltare gli interventi interessati sollecitati dalle lobbies che non vogliono che il Governo storni risorse importanti in questa direzione. È un esercizio di riformismo nel quale le forze che vogliono cambiare il Paese si dovrebbero impegnare. Ciascuno dovrà fare la sua parte, Non solo il sindacato confederale.

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Dirigenti privati e contrattazione collettiva.

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Le polemiche ferragostane sugli stipendi di alcuni manager pubblici e privati rischiano di coinvolgere una intera categoria che lo stipendio se lo guadagna, ogni giorno, impegnandosi nel gestire ed essere punto di riferimento dei propri collaboratori e di realizzare, insieme a loro, gli obiettivi aziendali. La quasi totalità dei dirigenti privati in Italia merita il posto che occupa. Se lo sono guadagnato investendo sulle proprie capacità e competenze, mettendoci determinazione e passione, imponendo sacrifici a se stessi e, spesso, anche ai propri cari. E, ultimo, ma non meno importante, contribuendo al benessere del Paese sia come contribuenti che come consumatori. Certo fa più rumore un albero che cade rispetto ad una foresta che cresce e quindi lo status o i comportamenti di alcuni tendono a coinvolgere tutti in una sorta di giudizio negativo su di un’intera categoria che, invece, resta fondamentale per il nostro Paese e per le imprese impegnate in un difficilissimo rilancio in rapporto al contesto competitivo nazionale e internazionale. Ai manager, le imprese oggi chiedono di diventare un punto di riferimento per tutti i collaboratori, di saperli ingaggiare nelle sfide di tutti i giorni, di essere propositivi, collaborativi e disponibili a rimettersi costantemente in discussione. Una figura, quindi, lontana anni luce dal burocrate ripiegato su se stesso che tiranneggia i propri collaboratori, dal manager da copertina un po’ infantile e frivolo, o dall’individualista accentratore che pensa di essere in grado, da solo, di salvare il mondo. Il dirigente, quello vero, sa che solo impegnandosi per gli altri, con gli altri e attraverso gli altri, realizzerà i propri obiettivi che sono gli stessi dell’impresa nella quale è impegnato in un dato periodo del suo percorso professionale. Nel nostro Paese ci sono decine di migliaia di persone così. Ed è un capitale importante. Non fanno notizia proprio perché il loro compito principale non è quello di farsi notare. Ce ne vorrebbero molti di più, soprattutto nelle PMI per contribuire ai passaggi generazionali, ai progetti di internazionalizzazione, alla costruzione di intese di rete e di filiera, quindi al consolidamento di una nuova cultura manageriale di cui il nostro Paese ha tanto bisogno. E la qualità di queste persone la si può misurare anche nella lungimiranza dimostrata in tutti questi anni. Ritenuti dagli osservatori meno attenti soggetti individualisti, impegnati esclusivamente nella propria carriera, poco attenti agli altri, i dirigenti, hanno saputo creare strumenti collettivi importanti di tutela e di sviluppo attraverso i contratti nazionali che si sono via via succeduti negli anni. Nel terziario, ad esempio, la previdenza, attraverso la seconda e la terza gamba (Fondo Mario Negri e Pastore, la sanità integrativa per sé e per le proprie famiglie (Fondo FASDAC) e i diritti alla formazione individuale (CFMT formazione) dimostrano una volontà che va ben oltre l’aspetto retributivo tipico della contrattazione individuale. Così come, nell’ultimo rinnovo del CCNL del terziario, dove Manageritalia ha scelto di privilegiare un sostegno ai manager in fase di transizione professionale piuttosto che insistere su altri aspetti ritenuti sacrificabili all’interno di un quadro di rafforzamento complessivo del ruolo del contratto nazionale. Un’operazione intelligente che mira ad affidare al contratto una funzione di tutela collettiva integrabile, nelle singole imprese, con la negoziazione individuale. Soprattutto un’operazione che non scarica oneri sulle aziende ma trova un maggiore bilanciamento rispetto al passato. Questa lungimiranza appartiene a tutta la categoria che dimostra così il legame con la propria organizzazione di rappresentanza ma anche la capacità di saper guardare oltre i propri interessi immediati. Un contratto nazionale per i dirigenti ha senso solo se continua a dimostrare questa sua capacità di essere in grado di tutelare il singolo ma sempre in una visione collettiva in un contesto in continuo cambiamento. Con gli strumenti a disposizione il manager può crescere, svilupparsi, gestire al meglio le fasi di transizione tra un’azienda e l’altra, mantenere tutte le coperture contrattuali anche quando, per scelta o per necessità, da manager si trasforma in consulente, temporary o professional. E questo non è una risultato da poco. È scontato che ad alcuni top manager questo impianto può non essere indispensabile. Ma un contratto nazionale deve saper guardare ad una intera categoria e tenere conto del contesto economico, politico e sociale nel quale viene sottoscritto. Oggi i dirigenti privati del terziario hanno indubbiamente un nuovo contratto nazionale di riferimento. Ma lo hanno anche le imprese che dispongono di un quadro normativo più chiaro ed equilibrato. Quindi un risultato importante per tutti.

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Festività nel commercio e rischiose nostalgie fordiste

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Ogni volta che si avvicina Ferragosto, Natale o il Primo Maggio riesplode puntualmente la polemica sulla liberalizzazione delle aperture dei centri commerciali. Sindacati e associazioni di categoria si confrontano sciorinando dati e argomentazioni a favore delle proprie tesi assolutamente inconciliabili. Quindi un dialogo tra sordi. La domenica e nelle festività lavorano, da sempre, centinaia di migliaia di persone. Nella sanità, nel turismo, nella pubblica amministrazione, nella logistica, nell’alimentare. Ovviamente tutti preferirebbero non lavorare in quei giorni ma nessuno si è mai scandalizzato. Nella Grande Distribuzione non è così. Nei settori sopra citati il motivo principale del lavoro festivo/domenicale è dato dall’indispensabilità di quei servizi per il cittadino, o per l’utente. Nella società in cui siamo cresciuti, organizzata per attività e sostanzialmente fordista, si andava tutti o quasi in ferie in agosto, si faceva la spesa al sabato, si lavorava dalle 8 alle 18.00 o a turni, ci si riposava la domenica. Ovviamente per molti è ancora così, oggi. Quindi i servizi che sostenevano quell’organizzazione sociale avevano una ragione per essere proposti in un certo modo, mantenuti e accettati nel tempo. Bisogna dare atto che, festività civili e religiose a parte, in questi anni si sono fatti molti passi avanti, tra le parti, per rendere meno fordista possibile il lavoro nella GDO trattandosi di negozi aperti al pubblico e non di reparti di una fabbrica. Dal part time ad una diversa distribuzione degli orari di lavoro individuali, da una seria regolamentazione del diritto di sciopero per evitare intralci alle vendite fino alla decisione di non svolgere assemblee durante l’orario di apertura al pubblico dei punti vendita. Tutte cose importanti che dal fordismo contrattuale facevano discendere una cultura precisa: mettere al centro, non il consumatore, ma la tutela del lavoratore come in una qualsiasi azienda manifatturiera. I contratti aziendali hanno trattato questi argomenti per oltre quarant’anni. Tutto questo non ha fatto i conti con l’evoluzione dei modelli di consumo e dei comportamenti di acquisto che nel corso degli anni sono profondamente cambiati spingendo le imprese a modificare le metodologie di vendita, il rapporto con il cliente, il livello di servizio. E senza mettere in conto le vendite on line, i servizi di consegna a domicilio, le casse automatiche e l’arrivo ormai imminente dei grandi player con le loro piattaforme che accentueranno ancora di più i cambiamenti del settore. Alcune aziende si stanno attrezzando con forti investimenti in formazione, nuovi modelli organizzativi che prevedono aperture h24, nuovi format di vendita e politiche commerciali molto aggressive. Domeniche e festività fanno parte di queste politiche. Un punto però resta ineludibile. Occorre procedere con una certa rapidità al superamento di un’architettura contrattuale costruita nelle singole aziende negli anni del “fordismo commerciale” mutuato dalla contrattazione aziendale tipica della cultura del settore industriale. Condizione indispensabile per le realtà del settore ma difficile da affrontare per il sindacato di categoria perché, negli anni, ha impostato una politica nelle singole realtà  tesa a salvaguardare, quasi esclusivamente, una o due generazioni di lavoratori (quelle che, di fatto, hanno costruito il sindacato nella GDO) “abbandonando” di conseguenza, al loro destino, i nuovi assunti e quindi i più giovani anche a seguito delle nuove forme di flessibilità in entrata che le aziende hanno utilizzato nel tempo. E questo ha determinato in molte realtà una spaccatura generazionale difficile da recuperare. Non servono grandi indagini di mercato per prendere atto che i consumatori preferiscono orari più ampi possibili di apertura sia giornaliera che settimanale in attesa, forse, di abituarsi a comprare direttamente dal divano di casa. E questo credo sia un punto ineludibile da cui partire. Le aziende, soprattutto in una fase di crisi dei consumi e quindi con possibili conseguenze sulle grandi superfici di vendita dove sono impiegati molti addetti devono poter disporre di tutti gli strumenti utili a sostenere i fatturati, i margini e di conseguenza l’occupazione. La tipologia dell’offerta, i modelli organizzativi, gli orari di apertura al pubblico, le campagne promozionali non possono essere materie di negoziazione sindacale. Le festività rientrano inevitabilmente in queste prerogative dipendenti dalle singole imprese. Chiarito questo punto su cui non ci devono essere equivoci di sorta ci possono essere specificità locali o problemi legati alla concorrenza commerciale che possono determinare nella singola realtà, anche su sollecitazione delle istituzioni, modalità applicative che tengano conto di sensibilità, opportunità, interessi tali da far propendere chiusure singole specifiche gestite a livello locale. Ma esclusivamente per ragioni di opportunità commerciale. Non altro. Questo perché non bisognerebbe mai dimenticare l’affermazione di Sam Walton, fondatore di Wal Mart, “esiste solo un capo supremo: il cliente, che può licenziare tutti nell’azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i suoi soldi da un’altra parte.”

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Metalmeccanico sarà lei!

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Siamo in vacanza e quindi non voglio anch’io mettermi a sparare sulla croce rossa. L’onorevole Arcangelo Sannicandro ha già fatto marcia indietro da solo dopo la figuraccia fatta in aula per contrastare l’intervento di un pentastellato che proponeva un taglio (teorico) degli stipendi dei parlamentari: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici!”. Chiaro. Comunista, ex PCI, ex Rifondazione Comunista. Oggi SEL. Un pedigree di tutto rispetto. Probabilmente in passato qualcuno ne avrebbe chiesto conto al Partito. Oggi, no. Dopo Federica Guidi che si era sentita trattata come una “sguattera del Guatemala” dal suo compagno adesso tocca al “metalmeccanico” occupare l’ultimo gradino sociale. Ovviamente fa più scalpore soprattutto per molti della mia generazione per i quali i metalmeccanici hanno rappresentato, nel bene e nel male, la punta di lancia del movimento sindacale. Poi con il tempo, il “metalmeccanico” è ritornato, fortunatamente, ad essere un lavoratore normale come tutti i suoi colleghi degli altri comparti industriali. Così come il sindacato che li rappresenta al quale la crisi del fordismo, le riorganizzazioni aziendali e le ristrutturazioni ne hanno definitivamente ridimensionato le ambizioni politiche e quindi la volontà di egemonia sul resto del movimento. Nella CGIL, la FIOM ha continuato e continua tuttora a marcare una sua specificità convinta che, prima o poi, le contraddizioni economiche e sociali la riproporranno come protagonista in grado di essere un punto di riferimento per una rinnovata sinistra politica. Nella CISL, la FIM, da sempre costretta a misurarsi con le pretese egemoniche della FIOM, ha dovuto costruire una organizzazione in grado di stare sempre un passo avanti sia nelle proposte che nella capacità di negoziare e quindi di sottoscrivere accordi. La UILM, infine, ha sviluppato negli anni una sua caratterizzazione nella UIL che gli ha consentito una credibilità importante data da un profilo sindacale specifico e sempre rivendicato con determinazione. La crisi, la globalizzazione e le difficoltà di rilancio di un comparto che ha dentro di sé grandi eccellenze ma anche realtà che non riescono ad affrontare il cambiamento (su questo è interessante l’articolo di Di Vico sul Corriere di oggi) hanno fatto a pezzi le velleità egemoniche ponendo problemi complessi che non sono affrontabili osservando il contesto con lo specchietto retrovisore. Infine le rispettive derive identitarie che hanno contribuito, anch’esse, al ridimensionamento del  profilo politico della categoria. La sinistra che frequenta i salotti televisivi ne è rimasta ovviamente delusa. Ma, essendo parte della stessa crisi di visione e di proposta, ha mantenuto una sorta di sudditanza psicologica nei confronti dell’unica organizzazione che, a parole, ha continuato con un tranquillizzante verbalismo inconcludente di stampo novecentesco. La vicenda FCA ha costituito uno spartiacque importante per due ragioni. Innanzitutto perché il CEO del Gruppo ha capito che era arrivato il momento per chiudere un ciclo politico e sindacale e ha forzato la mano. In secondo luogo, ma non meno importante, Il fatto che una parte del sindacato (FIM e UILM) è riuscita a rientrare in gioco accettando una scommessa difficile e rischiosa. Una scommessa certamente vinta che ha rilanciato la credibilità di questa parte del sindacato nel comparto e nel Paese e accentuato la crisi organizzativa e di strategia della FIOM. Purtroppo due piattaforme presentate ad un difficile rinnovo del CCNL non facevano presagire nulla di buono soprattutto di fronte alla necessità di Federmeccanica di non restare invischiata su di un terreno tradizionale che ne avrebbe accentuato le difficoltà dopo l’uscita di FCA. Da qui la proposta di “rinnovamento contrattuale”, una mossa decisiva che dimostra la forte sintonia tra quell’organizzazione e le imprese che vi aderiscono. Ovviamente a spese degli interlocutori che si sono ritrovati uniti “contro” perché spiazzati da una iniziativa interessante per certi versi ma insufficiente sul piano economico. In autunno vedremo come finirà. Soprattutto vedremo se il sindacato metalmeccanico saprà ritornare protagonista sul terreno dell’innovazione. E, soprattutto, se potrà farlo unitariamente o meno. Personalmente non credo che ci sia spazio per un ritorno indietro. Quindi anche per la FIOM sarà un passaggio delicato e decisivo. Le polemiche seguite all’accordo con CONFIMI non sono certo di buon auspicio. Sul tavolo con Federmeccanica si gioca una partita importante per il futuro anche del sindacalismo confederale. Non è secondario ciò che si sta affrontando con le organizzazioni datoriali ma anche con lo stesso Governo sul tema delle pensioni e del lavoro. I metalmeccanici devono decidere se giocare fino in fondo la partita e rientrare in gioco insieme alle altre categorie o essere ai margini dei cambiamenti che comunque ci saranno. Soprattutto se farlo insieme. Ed è solo in questo modo che l’onorevole Sannicandro e chi la pensa come lui potranno avere la risposta che si meritano.

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Europa, ripartire dal lavoro anziché dalla paura

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È di oggi la notizia che in Francia si vorrebbe ripristinare una sorta di servizio civile obbligatorio. Dai tre ai sei mesi per favorire l’integrazione sociale e l’adesione ai valori costitutivi di quel Paese. Se lo strumento individuato restasse solo questo il rischio è di cercare la classica risposta semplice ad un problema ben più complesso. In Francia, che lo si voglia ammettere o meno, chiamarsi Mohamed o Jerome non è la stessa cosa. Così come abitare a la Courneuve o nel deuxième arrondissement. E non è la stessa cosa anche nella ricerca del lavoro dove le discriminazioni sono all’ordine del giorno. Le banlieue (il cui significato letterale è: luogo bandito, ovvero luogo abitato da banditi) come elemento ghettizzante non sono una prerogativa delle grandi città, esistono anche nei piccoli paesi. Essere francesi bianchi o discendenti dei “pieds noirs” di seconda o terza generazione fa la differenza. E lo fa da sempre. È uno spaccato di normalità della Francia che non si è voluto mai affrontare se non sul versante della repressione e dell’emarginazione. Per questo rimontare questa realtà non sarà semplice. E necessiterà di interventi su diversi piani che vanno comunque portati avanti indipendentemente dai rischi di contagio religioso fondamentalista a cui la società francese resta comunque più esposta. L’idea però che un elemento di integrazione può essere dato da una forma di servizio civile obbligatorio è un punto su cui riflettere. Può essere una delle tante risposte necessarie. Ed è una delle risposte che deve cercare anche l’Europa. C’è bisogno di integrazione, di respirare valori condivisi, di credere in un destino comune. E allora perché non partire dal lavoro anziché dalla paura. Ho sempre condiviso l’idea che l’unico modo per ridare slancio ad una diversa concezione dell’Europa sia quella di ripartire dai giovani. Occorre impegno, passione, entusiasmo e convinzione. Negli ultimi dieci anni ho sentito diversi esponenti riformisti rilanciare la proposta di una sorta di servizio civile obbligatorio per il lavoro rivolto ai giovani a cui verrebbe proposto di passare, in un Paese europeo diverso dal proprio, un periodo di almeno sei mesi impegnati in uno stage lavorativo. Certo tutto questo comporterebbe costi importanti, problematiche organizzative impegnative, generosità e partecipazione delle imprese e una grande disponibilità e visione del futuro da parte dei Paesi ospitanti. Tutte cose difficili da realizzare, soprattutto di questi tempi. Però l’Europa è morta se non riesce a evadere dalla prigione che le generazioni che hanno via via sostituito i padri fondatori hanno costruito in tutti questi anni. E, per fare questo, occorre ripartire dai giovani, dalle loro speranze e dai loro sogni. Noi possiamo assecondarne le aspirazioni creando le condizioni migliori. Magari smettendola di litigare sullo zero virgola, sulle immigrazioni o sulle banche. Occorre renderci conto che senza un progetto che guarda al futuro sarà inevitabile rassegnarci alla frantumazione degli interessi, alla paura del vicino e del diverso e trasformarci tutti un po’ come la Francia dove l’altro, diverso o lontano da me, è il nemico a cui contendere il lavoro, il benessere, il diritto ad una vita dignitosa. Romano Prodi in una intervista recente accennava alla necessità che l’Europa osi di più. Tra USA e Cina che si contendono il futuro del mondo solo un’Europa che lancia idee innovative, che esce dal suo torpore e dalla sua inconsistenza progettuale, avrà qualche chance di successo. Personalmente condivido questo atteggiamento. E proprio per questo penso che occorrerebbe ripartire dai giovani cercando di costruire insieme a loro qualche cosa che li convinca che ne valga la pena, che li spinga a osare e a prendere in mano il loro destino. Oggi più che mai.

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L’azienda, le persone e il sindacato. Quali prospettive?

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Nella stragrande maggioranza delle aziende italiane non ci sono, ormai da tempo, tensioni particolarmente significative su materie di lavoro. Semmai si dovessero verificare, in genere, vengono affrontate e risolte. È ormai molto raro trovarsi di fronte a problematiche collettive interne se non derivate da situazioni del passato o da vincoli organizzativi difficilmente superabili. Dove ci sono, le direzioni risorse umane presidiano il clima interno evitando che i problemi possano incancrenirsi. Dove non ci sono le direzioni risorse umane, esiste comunque una consapevolezza diffusa tra le persone e il management che porta a ricomporre quasi tutti i problemi di natura collettiva. Ogni azienda ha la sua cultura, le sue regole del gioco e le sue liturgie e le persone vi si adattano molto presto. Ovviamente ci sono aziende che coinvolgono di più i propri collaboratori e altre che non riescono ad uscire da vecchie impostazioni. Poi ci sono le imprese di settori in crisi o in ristrutturazione dove le relazioni interne sono più articolate. Se non sono guastate da gestioni inconsistenti, a fronte di soluzioni ipotizzabili (vere o presunte), scattano meccanismi di “solidarietà” tra le diverse componenti aziendali. Manager, dipendenti e loro rappresentanti tendono a fare squadra contro il “nemico esterno”. Quindi contro chiunque mette a rischio l’ipotetica via di uscita. Concorrenti dell’impresa stessa, fornitori, banche ma anche i sindacalisti che si mettono di traverso. Questi comportamenti segnalano una mutazione in corso nei rapporti tra capitale e lavoro che si sta diffondendo anche nelle imprese sane e che mette in crisi teorie sindacali date per immutabili e scontate. È uno dei tanti effetti collaterali della competizione globale. Questo contesto interno, pur differenziato tra aziende e settori, si inserisce in un quadro esterno fatto di preoccupazione per la situazione economica quindi sugli investimenti che, spesso, vengono rinviati o sono diventati talmente pesanti da diventare estremamente rischiosi a livello di singolo imprenditore, l’inflazione al palo che impedisce manovre sui prezzi, i rapporti con le banche e con i fornitori, in altri termini le relazioni nella filiera nella quale l’azienda è inserita. Infine le stesse regole del gioco derivate da leggi e contratti di lavoro pensati nel passato che impediscono operazioni di riallineamento tra merito e anzianità acquisita sia in termini di costo del lavoro che di inquadramento. Questi sono i problemi delle aziende di oggi e il contesto nel quale le problematiche collettive “esterne” tentano di entrare in gioco a volte in modo troppo tradizionale. È chiaro che l’interesse da parte delle imprese a dare mandato a chiudere i CCNL comunque non è così scontato considerando inoltre che l’intensità delle mobilitazioni sindacali, oggi, non è più in grado, in sé, di determinare un cambiamento di atteggiamento. Le difficoltà in cui si trovano le rispettive rappresentanze (datoriali e sindacali) nei confronti dei propri rappresentati nasce, in parte, da qui. Perché concludere un negoziato a livello nazionale se nella propria realtà di riferimento non se ne ravvede alcuna necessità? In alcuni comparti (ad esempio GDO, Turismo, ecc.) questo ha determinato un sostanziale blocco della contrattazione nazionale, ovviamente non di quella aziendale che però si conferma sostanzialmente di natura “concessiva” da parte del sindacato. Ad un sistema comunque in parziale destrutturazione si sono contrapposte realtà molto importanti che hanno scelto direzioni diverse. Confcommercio, il cui contratto nazionale ha scelto, insieme alle organizzazioni sindacali, la strada dello “scambio” su materie importanti di interesse delle imprese a livello nazionale (assenteismo, orari, ecc.) con in più la possibilità di derogare norme ad altri livelli. Per il terziario questo significa grande flessibilità applicativa, adattabilità alle singole realtà e soluzioni di utilità per le aziende che non vogliono impegnarsi nella contrattazione aziendale o territoriale. Un unico livello salariale salvo la possibilità di definire accordi aziendali sulla produttività o di ulteriore scambio su materie di interesse dell’impresa. Dal CCNL discende poi la bilateralità con i suoi fondi sanitario e previdenziale e con la possibilità di accedere a ulteriori servizi e strumenti messi in circolo dagli enti bilaterali. Federmeccanica ha scelto un’altra strada puntando sul “rinnovamento contrattuale”. Depotenziare (non eliminare) il ruolo distributivo centrale del CCNL limitandolo a chi non ha beneficiato nel passato di alcun adeguamento automatico spostando sul welfare e sulla formazione quote di salario differito lasciando alla contrattazione aziendale un ruolo più importante ancora tutto da definire. Un sistema funzionale per l’azienda medio grande quindi un cambiamento non di poco conto che, in questo modo, potrebbe consentire all’impresa di ritornare ad essere il luogo dello scambio vero. Chimici e alimentaristi, in considerazione della qualità delle relazioni sindacali che permettono già da tempo scambi significativi a livello aziendale, hanno deciso una soluzione più tradizionale nell’ultimo rinnovo del CCNL rinviando a prossime riflessioni una vera e propria riforma del sistema all’interno di ciò che sarà prodotto dal negoziato confederale. Quindi opzioni differenti che, partendo dalla storia e dalle specificità, disegneranno scenari differenti. Quello che manca per consentire un decollo (e un atterraggio positivo) dei negoziati confederali è quale direzione di marcia vogliono imboccare i sindacati metalmeccanici. Oggi non è chiaro. Alla proposta di Federmeccanica (condivisibile o meno) non è seguita una proposta unitaria altrettanto netta dei sindacati. Solo un rifiuto motivato dalla insufficienza della proposta economica di Federmeccanica condito da dichiarazioni che segnalano diverse sensibilità sulla possibile direzione di marcia futura. Ovviamente la complessità dei rapporti unitari in quel contesto spiega da sola queste difficoltà. Alla ripresa, però, le posizioni in campo dovranno essere più chiare. La sfida della “corresponsabilità” comprende sia la salvaguardia del ruolo del CCNL che quella del confronto a livello di singola azienda. Così come il modello proposto nel terziario che assegna al CCNL un ruolo più importante ma senza escludere forme di decentramento ad altri livelli. L’obiettivo di tutti è quello di individuare nuovi equilibri che costruiscano un rapporto tra parti sociali utile alle imprese e ai lavoratori. Il rischio è che qualcuno si chiami fuori o resti tagliato fuori. Per questo il collegamento tra il livello confederale e quello di categoria può giocare un ruolo fondamentale.

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Contratto metalmeccanici, il rischio del pantano

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Il rinvio in autunno del negoziato per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici è la dimostrazione che le distanze tra le parti sono ancora profonde. E non solo sul salario. E, come sempre accade quando non si individua un via di uscita praticabile, altre intransigenze potrebbero emergere. E questo indipendentemente della volontà costruttiva di FIM e UILM impegnate a sollecitare alla controparte una maggiore disponibilità sul terreno salariale e determinate a voler proseguire il negoziato fino alla sua conclusione. Al di là della richiesta di sciopero generale avanzata dalla FIOM due recenti segnali confermano questo rischio. Il primo è rappresentato dal CCNL firmato in luglio con CONFIMI da FIM e UILM seguito dalle dichiarazioni della FIOM che non lasciano spazio ad equivoci. FIOM infatti ha dichiarato: “La rappresentanza (di CONFIMI) è limitata solo ad alcune e poche aziende presenti in pochissime province; in quelle stesse imprese, la FIOM è largamente maggioritaria e la presenza di FIM e UILM o è residuale o non c’è”. E ancora: “L’intesa sottoscritta tra CONFIMI, FIM e UILM non è rappresentativa né per le imprese né per i lavoratori e non costituisce un avanzamento nelle relazioni industriali”. Da queste affermazioni se ne deduce che solo la FIOM e solo CONFAPI sarebbero in grado di garantire queste condizioni. Due dichiarazioni queste, oltre che scarsamente realistiche, molto chiare che ribadiscono una vecchia cultura egemonica radicata che riemergerà non appena Federmeccanica deciderà di lanciare qualche disponibilità concreta al confronto. Il secondo segnale è la piattaforma che la FIOM ha presentato a Brescia e che, credo, discuterà in solitaria con CONFAPI. Leggendola si ha la netta impressione che questa organizzazione non riesca ancora a prendere atto che i toni e i contenuti delle proprie proposte e delle proprie liturgie sono fuori dal tempo. Sono ovviamente legittime ma completamente starate per la realtà alla quale si dovrebbero rivolgere. In quarant’anni di mestiere non ho mai letto un testo così ardito di fantascienza contrattuale applicato alla situazione delle piccole imprese metalmeccaniche di oggi. La realtà, ovviamente è tutt’altra e lo sanno tutti, FIOM compresa. Ed è rappresentata dal numero significativo di piccoli imprenditori (in gran parte contoterzisti) che non hanno tempo né voglia di leggere astrusi testi contrattuali di vecchio conio, che non si riconoscono in alcuna associazione e vivono il sindacato esclusivamente come un generatore infinito di problemi di cui, di questi tempi, ne farebbero volentieri a meno. La loro aspettativa è quella di avere un contratto nazionale di riferimento che fissi diritti e doveri e che consenta loro di retribuire correttamente i propri collaboratori. Il resto è veramente privo di senso, oggi. FIM e UILM con il contratto appena firmato con CONFIMI (il cui seguito non è molto diverso dall’altra associazione datoriale) hanno tentato, al contrario, di costruire un testo più realistico, concreto e praticabile. E, in questo modo, provare a mettere a disposizione delle imprese e dei lavoratori qualcosa di utile. La FIOM, no. Presenta a se stessa un documento improponibile, se lo approva all’unanimità pur sapendo che nessuna piccola azienda lo potrà mai applicare in quei termini. E forse ci avvia pure una consultazione alla quale parteciperà realisticamente una sparuta minoranza di lavoratori. Ovviamente tutto questo non porterà a nulla salvo complicare ulteriormente il percorso unitario e segnalare a Federmeccanica la necessità di tenere il punto fermo con forza. Mi verrebbe da dire un grande capolavoro di strategia. Sinceramente credevo che l’iniziativa unitaria, pur preceduta da piattaforme distinte, celasse la volontà, da parte della FIOM, di rientrare in gioco con un tasso di realismo maggiore soprattutto in grado di riprendere un ruolo di riferimento utile e concreto tra le diverse organizzazioni sindacali che consentisse a tutti di lasciare alle spalle i residui di fordismo e di ideologia che ancora pervadono il vecchio contratto. FCA e altre realtà imprenditoriali hanno dato un segnale chiaro a tutte le imprese. I riti e le liturgie sindacali del passato possono essere superati senza grandi ripercussioni concentrandosi su ciò che interessa veramente alle aziende e ai lavoratori puntando sul coinvolgimento e sulla collaborazione. Federmeccanica ha costruito intorno alla proposta di “rinnovamento contrattuale” un legame positivo tra ciò che le aziende già fanno e un ruolo possibile per le rispettive rappresentanze in un modello decisamente post fordista che non sia da freno nella competizione globale. Dall’altra parte il rinnovo del contratto può diventare, anche per il sindacato, l’occasione per costruire e adeguare parte della propria strumentazione inserendola in una strategia di cambiamento. Se così non fosse lo scontro non sarà solo sulle modalità di erogazione del salario ma sull’architrave stessa su cui regge l’idea di rinnovamento contrattuale proposto da Federmeccanica. Quindi un percorso il cui esito potrebbe essere veramente dannoso per tutti. Così come rischia di abortire la stessa strategia della “corresponsabilità” caldeggiata dal nuovo Presidente di Confindustria su cui vorrebbe costruire le nuove relazioni industriali. Per questo credo che, a questo punto, solo un allineamento tra i due tavoli (confederale e di categoria) possa consentire una tenuta unitaria convincente sul merito. Ma solo se questo continuerà a rappresentare un punto irrinunciabile per tutto il sindacalismo confederale.

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Contratto metalmeccanici: e adesso come la mettiamo?

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Fernando Liuzzi ha descritto con grande trasparenza lo stallo nel negoziato dei metalmeccanici sul Diario del Lavoro. Le contraddizioni che hanno prodotto due piattaforme sindacali e la firma separata con Confimi sarebbero riemerse nei tre sindacati sulle differenti strategie da adottare per sbloccare il negoziato con Federmeccanica. Venti ore di sciopero, già fatti, non sono certo bruscolini e il negoziato sembra essere ancora al palo. Secondo alcuni sindacalisti è il momento di allargare la vertenza coinvolgendo le confederazioni e quindi i sette milioni di lavoratori ancora senza contratto. Lo strumento individuato sarebbe lo sciopero generale: in autunno, con una situazione internazionale estremamente complessa, il referendum alle porte e la legge di stabilità tutta da costruire. Uno sciopero che non può essere contro Confindustria che sta iniziando la nuova consiliatura all’insegna del confronto con le OOSS né contro il Governo che sta aprendo un confronto, pur difficile, sul pubblico impiego e sulle pensioni. Inoltre potrebbe rischiare di spaccare il sindacato confederale mettendo a rischio l’importante percorso unitario nel quale la CGIL ha ripreso un ruolo di regia costruttiva e propositiva importante. Tra l’altro lo scontro politico oggi non vede più come protagonisti i tradizionali alleati della sinistra sindacale ridotta ormai ad un ruolo di pura testimonianza tra lepenisti veri, grillini dilaganti e centro destra in ricostruzione. Comunque tutte forze che oltre ad essere contro il Governo considerano il sindacato, tutto il sindacato, un vecchio arnese del novecento. Per assurdo gli unici interlocutori intenzionati a costruire un rapporto costruttivo con il sindacato sarebbero individuati come i veri nemici da battere dallo stesso sciopero generale. Più che una strategia di attacco mi sembra un autogol inutile. Il risultato sarebbe solo il rafforzamento del fronte antisindacale e la crisi nel rapporto tra le confederazioni. E tra queste e Confindustria. Se non è addirittura questo l’obiettivo sotteso da chi vuole far precipitare la situazione mi sembra più convincente la posizione di chi vuole rilanciare il negoziato e ricercare una mediazione accettabile. Oggi, pur rispettando l’opinione di chi pensa di modificare il contesto economico e sociale che sovrasta il negoziato ricorrendo allo sciopero generale, non è quella la strada. E non credo che Federmeccanica o le aziende coinvolte siano impressionabili da questi annunci che, per certi versi, lasciano il tempo che trovano. Se la distanza è di natura economica il confronto è l’unica strada da percorrere. Semmai occorrerebbe trovare il punto di collegamento tra negoziato confederale e di categoria. Ed è questa l’unica via percorribile. Mediaticamente la vicenda contrattuale dei metalmeccanci non coinvolge l’opinione pubblica come in passato. Altri avvenimenti richiedono maggiore attenzione. Anche questo dovrebbe far riflettere tutti. I risultati stessi della mobilitazione promossa fino ad ora non segnalano alcuna inversione di tendenza. Anzi. Se non ci fossero FIM e UILM a tenere aperta una comunicazione efficace a 360 gradi la posizione di Federmeccanica sarebbe molto più convincente e presente  in rete e sulla stampa. La vera posta in gioco è sulla prospettiva. O tutto il sindacato dei metalmeccanici è pronto o meno ad una svolta “corresponsabile” o una parte di esso crede di poter riproporre a breve una vecchia egemonia che costringerebbe tutto il sindacato metalmeccanico in uno stallo inaccettabile. Almeno per una parte di esso. Forse c’è chi punta proprio a questo. Eppure la vicenda FCA è ancora fresca. Dovrebbe aver insegnato qualcosa sulla difficile permeabilità dei “sistemi azienda” o sulla necessità di ridisegnare insieme un sistema contrattuale ormai obsoleto che assegni un ruolo da protagonista al sindacato in grado di guardare avanti. E, ultimo ma non ultimo, che consenta alle imprese medio grandi di continuare a riconoscersi in uno strumento altrimenti ritenuto obsoleto. E infine che questo rinnovo potrebbe  consentire un passo avanti importante alla ricerca di  un nuovo equilibrio tra le diverse anime del sindacato che aiuti a superare definitivamente la stagione delle divisioni e crei le premesse per una nuova convergenza. Tutto questo riemergerà prepotentemente in autunno. Certo la “lotta unitaria” nasconde bene difficoltà e divisioni ma non le cancella. Le sposta solo in avanti. Marco Bentivogli e altri dirigenti sindacali hanno capito fin dall’inizio le difficoltà di questo rinnovo. Forse c’è chi lo ha sottovalutato come aveva sottovalutato altre situazioni altrettanto importanti. Non è cosa di poco conto in una fase dove il sindacato è oggettivamente debole. Ma è proprio perché questa debolezza è sostanzialmente simmetrica  e coinvolge l’insieme dei corpi intermedi che il negoziato va condotto fino in fondo su diversi tavoli con intelligenza e determinazione fino alla sua naturale conclusione. E, per la stessa ragione, Federmeccanica saprà  fare la sua parte.

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