Rappresentanza e rappresentatività nell’evoluzione dei sistemi contrattuali

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La firma del CCNL dei metalmeccanici della piccola industria ha riaperto una vecchia ferita. FIM e UILM hanno raggiunto una intesa con Confimi, FIOM l’ha contestata immediatamente e ha dichiarato di volerla raggiungere con Confapi in autunno. Non si capisce se da sola o con FIM e UILM. Contraddizioni che rischiano di rimbalzare ancora più pesantemente sul tavolo principale con conseguenze immaginabili. Dall’altra parte due organizzazioni datoriali che cercano di legittimarsi pur non potendo contare su di un seguito significativo tra le aziende del settore. Ovviamente nessuno nega il diritto alle imprese o ad altri soggetti ad organizzarsi sotto le insegne ritenute più idonee a tutelare i rispettivi interessi. Succede in politica, succede nell’associazionismo di varia natura. Succede nel sindacato. È la micronesia della rappresentanza che resta una specificità ma anche un limite tutto italiano. D’altra parte il caso dei metalmeccanici non è isolato. Nella grande distribuzione sono almeno quattro i soggetti datoriali che si contendono il diritto a rappresentare il settore. In altre situazioni il desiderio di far da sé è ancora più marcato. Nel 900 ci si divideva per appartenenze ideologiche, oggi per supposte convenienze e specificità ritenute irrinunciabili. Il mondo si globalizza e la risposta sembra essere quella di rifugiarsi nel particolare. Ma è proprio così utile per lavoratori e imprese? Confesercenti ha appena firmato un CCNL cercando di mettersi in concorrenza con Confcommercio pur condividendone l’esperienza in Rete imprese Italia. Un tempo firmava, sostanzialmente per adesione, quello di Confcommercio, oggi pretende di differenziarsi. Nei sindacati datoriali e non, al centro, spesso, si collabora ma in periferia ci si scontra. Possiamo permettercelo? Credo proprio di no. Soprattutto se questi accordi privilegiano controparti sostanzialmente inconsistenti che però possono innescare forme di dumping tra imprese. Ad oggi, nessuno certifica la reale rappresentanza delle organizzazioni datoriali. Anzi. Se dovessimo prendere per buoni i numeri dei dipendenti diffusi da alcune federazioni di categoria, avremmo probabilmente ridotto la disoccupazione in Italia. Purtroppo non è così. Spesso sono solo numeri gonfiati per farsi riconoscere una rappresentanza tutta da dimostrare. Questo dovrebbe spingere le rispettive controparti sociali a pretendere una pesatura oggettiva e realistica. Soprattutto in materia di rappresentatività nel mondo del lavoro. Nel negoziato aperto a livello confederale questo non potrà non essere un punto importante. Per entrambe le parti. Occorre più trasparenza e più coraggio. Non basta certificare la rappresentatività dei sindacati. Un’analoga operazione dovrebbe coinvolgere le organizzazioni datoriali. Sia quelle cosiddette storiche del secolo scorso sia quelle nate da costole di quelle esistenti. Inoltre, i contratti nazionali dovrebbero distinguere il ruolo delle federazioni di categoria da quello delle Confederazioni in grado di comprendere gli interessi più importanti delle federazioni stesse. Anche per questo la logica della contrattazione e dei suoi livelli dovrebbe evolvere verso un sistema che assegna al contratto nazionale un importante ruolo di garanzia, prevedendo spazi a cascata o a livello o di comparto produttivo, o territoriale o aziendale. Materie diverse ai diversi livelli. Se in un futuro più o meno lontano potessimo avere, nel settore privato, tre negoziati confederali (industria, terziario e agricoltura) nei quali comprendere i minimi di garanzia, le regole generali, i diritti, i doveri e il welfare lasciando agli altri livelli le specificità relative avremmo, a mio parere, compiuto un passo avanti in termini di semplificazione e coerenza del sistema complessivo pur continuando a permanere condizioni diverse nei differenti settori. Nel terziario il CCNL sta dimostrando una vitalità interessante rispetto ad altri comparti, per questo, nel confronto aperto a livello confederale questa vitalità andrebbe consolidata e confermata. La contrattazione decentrata in questo comparto ha un ruolo assolutamente marginale per scelta delle imprese ma anche per condizione oggettiva. Il ruolo del CCNL è, di fatto, condiviso dalle aziende perché impostato su di una logica di scambio e sul principio della possibile derogabilità dei differenti istituti. Altrove il processo di semplificazione deve ancora trovare il consenso necessario e la sua esigibilità. Chimici e alimentaristi hanno una storia di “corresponsabilità” di lunga data. E questo consente loro una contrattazione di secondo livello basata anch’essa sul principio dello scambio estremamente efficace. Per questo il “rinnovamento” di cui si parla sul tavolo dei metalmeccanici è importante. E, sotto questo punto di vista, il problema della rappresentatività ritorna ad essere centrale. Per entrambe le parti. E questa rappresentatività si gioca sia nella fase dello scontro sia in quella della ricomposizione e dell’intesa che, prima o poi, sarà destinata ad esserci. L’obiettivo non può essere solo la firma del contratto. Il suo contenuto e, soprattutto, la direzione di marcia saranno l’elemento di giudizio vero. Non ha alcun senso che il sindacato dei metalmeccanici sia costretto a ripiegare su se stesso. La partita che si sta giocando su diversi tavoli riguarda anche il futuro della rappresentanza, la credibilità degli interlocutori, l’idoneità e l’esigibilità degli strumenti individuati. Non dimentichiamo che usciamo da una lunga fase caratterizzata da accordi separati, derive identitarie e forzature che hanno messo a dura prova il sistema provocando ritardi da colmare e rendendolo più fragile e esposto a pericolose fughe in avanti di cui, alla fine, non se ne è giovato nessuno.

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Una china sempre più difficile da rimontare…

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Il negoziato dei metalmeccanici rischia di avviarsi su di una china sempre più difficile da rimontare. Federmeccanica ad oggi non si è mossa (almeno pubblicamente) dalla sua proposta salariale iniziale. Le organizzazioni sindacali hanno reagito mettendo in campo iniziative a sostegno delle proprie convinzioni che, sempre ad oggi, non sembra abbiano sortito particolari effetti. Adesso la pausa estiva spero possa consentire ad entrambe le parti di riflettere su come riprendere il confronto in autunno. A mio parere la posizione di Federmeccanica sul salario è oggettivamente debole. Non tanto nella sua logica quanto nella sua gestibilità. Un cambiamento radicale è già difficile concordarlo per il futuro, figuriamoci sul passato. Soprattutto in presenza di altri contratti firmati che hanno affrontato con maggiore equilibrio e flessibilità questo punto. Il “rinnovamento contrattuale” proposto è un passaggio troppo importante per lasciarlo in pasto ai demolitori di professione. O agli ignavi (Dante nell’Inferno li definisce quelli “che mai non fur vivi”). Continuo a pensare che lavorando sulle derogabilità degli istituti anche economici, su una eventuale riproposizione attualizzata dell’IPCA, e sulle garanzie di esigibilità una diversa base di partenza per una discussione costruttiva possa essere individuata. Sull’altro versante non penso che la recente firma del CCNL con Confimi industria da parte di FIM e UILM o quella paventata dalla FIOM con Confapi a settembre possa condizionare Federmeccanica che credo conosca molto bene la consistenza reale di queste associazioni. È certamente un fatto politico su cui riflettere che però segnala anche un malessere che permane tra le stesse organizzazioni sindacali e che non promette nulla di buono in presenza di una eventuale proposta di mediazione su altri tavoli. Marco Bentivogli nel suo recente libro sottolinea come le persone di una certa generazione sopravvalutino il valore dell’unità sindacale in sé. Forse è vero. Però, salvo poche, anche se indubbiamente importanti vertenze, e quasi tutte nel comparto metalmeccanico la stagione della deriva identitaria ha, secondo me, congelato i processi veri di cambiamento del sindacato. Però, siccome appartengo a quella generazione, non insisto. Però resto della mia idea… Chimici, alimentaristi, terziario, solo per citare i contratti più significativi sono lì a dimostrare che la scelta della “corresponsabilità” paga. E paga unitariamente. Nessuno, a mio parere, può auspicare come positivo un isolamento dei metalmeccanici. Così come i metalmeccanici devono prendere atto che altrove certe scelte sono già state fatte da tempo. E sempre unitariamente. L’impegno che Cgil, Cisl e UIL confederali e le organizzazioni datoriali stanno mettendo in campo per realizzare accordi che consentano un nuovo contesto negoziale è troppo importante per lasciare il passo alla ormai consunta retorica del 900. Occorre fare un passo avanti. Tenendo conto che è molto importante farlo insieme altrimenti non decollerà alcun rinnovamento. E questo non costituirà una vittoria per nessuno.

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Rappresentanze sociali e nuovi modelli organizzativi e relazionali delle imprese

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Molte imprese sono già cambiate. Molte altre stanno cambiando profondamente. Non solo nei modelli di business ma anche e soprattutto nelle loro strutture organizzative, nei sistemi relazionali tra manager e collaboratori quindi nel patto che lega l’azienda alla persona. E non è solo il tramonto del fordismo o l’avvento della globalizzazione che rendono indispensabili questi cambiamenti. Le diverse forme di paternalismo e di coinvolgimento funzionavano quando il patto poteva essere concepito sul lungo termine. La semplice fedeltà all’impresa e ai suoi valori consentiva comunque vantaggi o in termini economici o di sicurezza del posto di lavoro. La stessa adesione ad un sindacato, prima combattuta dalle aziende come estranea e antagonista a quella impostazione, poi, tutto sommato, sopportata ha via via perso quella carica “eversiva” che costringeva le imprese a dotarsi di strutture in grado di gestire conflitti e contraddizioni. Non è un caso che le direzioni risorse umane siano state decisamente ridimensionate sul versante delle relazioni sindacali e potenziate su quelle della gestione e dello sviluppo delle risorse interne. L’azienda, indubbiamente, continua a identificarsi con il proprietario o con il CEO chiamato a dirigerla per un dato periodo ma si propone in modo differente rispetto al passato. Se raggiunge i suoi obiettivi, è il contesto esterno a valorizzarne i risultati e a sottolinearne la correttezza dei comportamenti richiesti e attesi. Ma il contesto esterno mostra anche le possibili conseguenze dove le cose non funzionano. È di per sé un deterrente. Se, l’azienda si trova in difficoltà o in affanno, l’adesione ai valori e alle scelte è comunque garantita dalla mancanza di alternative o dalla preoccupazione per il proprio futuro. Spesso l’intesa tra management e dipendenti, nell’impresa in crisi, è totale. E mostra in modo plastico un possibile prototipo del modello che si sta affermando. L’impresa produce, coinvolgimento, cultura, occasioni di crescita professionale, risposte a bisogni extralavorativi, momenti di socializzazione e di condivisione. Il patto che propone non è più “fedeltà” in cambio di garanzie a lungo termine del posto di lavoro quindi questo fa cadere l’elemento paternalistico o strumentale. Al contrario il patto è visibile, concreto, esigibile e dura fino a quando le condizioni interne o esterne consentono di onorarlo. Ed è un patto che comprende lavoro stabile (finché dura), retribuzione individualizzata, coinvolgimento, occasioni di sviluppo. Quindi è un patto tra adulti che sanno quello che stanno sottoscrivendo. In questa situazione, tutto ciò che discende dal CCNL, dalla dottrina giuslavoristica e dalle problematiche sindacali ne è parte, ovviamente, ma non ha nessun valore particolare. Non viene “venduto” come importante dall’azienda o dal sindacato (interno o esterno che sia) e non viene recepito come importante dal collaboratore. Qualche accenno nella lettera di assunzione, qualche indicazione dai colleghi, ma niente di più. Il prodotto principale del confronto tra le rispettive organizzazioni di rappresentanza, tutto ciò che lo ha determinato, il valore economico che rappresenta, le normative contenute, i diritti e le opportunità vengono compressi in usi e consuetudini aziendali, ovviamente rispettati, ma all’interno di un rapporto che è ben altro rispetto all’enfasi che spesso si percepisce quando se ne parla tra addetti ai lavori. Se non si parte da qui non si capisce perché il rinnovo di un contratto collettivo è oggi visto come una scadenza che non aggiunge nulla all’impresa e quindi essa stessa cerca di spingere i propri rappresentanti a posticiparla, renderla indigesta alle controparti o depotenziarla soprattutto perché entra in conflitto con le proprie strategie di gestione delle proprie risorse. Soprattutto in fasi di inflazione vicina allo zero. Di fatto determina costi non decisi al proprio interno e non legati a nessuna strategia. Ed essendo generalmente bassa o assolutamente minoritaria la partecipazione dei propri collaboratori alle iniziative sindacali, per le ragioni di cui sopra, la convinzione che ci si possa definitivamente sottrarre a questo “rito” collettivo è molto forte. E questo impatta sulle diverse associazioni datoriali che si trovano spesso spiazzate nel loro ruolo di sintesi o addirittura in balia delle posizioni più intransigenti. Ovviamente la realtà è a macchia di leopardo così come i comparti o le differenti categorie merceologiche ma questo è un quadro da non sottovalutare. Lo stesso vale per i sindacati di categoria che in base alla loro capacità di risposta o di relazione riescono o meno a ridisegnarsi un ruolo propositivo o, al contrario, marginale nelle aziende. Con la sua proposta, Federmeccanica, a mio parere, ha individuato la cosiddetta “mossa del cavallo”. Certo c’è ancora un equilibrio economico da individuare ma l’idea di proporre un “rinnovamento contrattuale” coglie la necessità di lasciare spazio alle imprese e alla loro cultura specifica pur salvaguardando un ruolo per il CCNL. Non è una proposta contro il sindacato e mi meravigliano certe prese di posizione un po’ pavloviane di alcuni sindacalisti. Marco Bentivogli nel suo ultimo libro dimostra di aver ben capito che il sindacato (riformista) è destinato ad un ruolo propositivo e attivo solo se entra nel merito di questi modelli organizzativi nuovi. Se riesce ad interagire con essi senza perdere l’anima. Se riesce a stabilire un rapporto tra natura e scopi di un sindacalismo confederale e situazioni in crescita esponenziale nelle aziende. Ha potuto capire, a suo tempo, che non c’era niente di “paternalismo old style” nella vicenda FCA diventandone interlocutore attento ma, nello stesso tempo, assicurando una guida al disorientamento dei lavoratori o nelle decine di imprese dove i modelli di relazione e di coinvolgimento anticipano industry 4.0. Quando il Presidente di Confindustria Boccia parla di “corresponsabilità” e rivolge il suo invito alle parti sociali a costruire un nuovo modello di relazioni industriali credo pensi di mettere in relazione un nuovo ruolo dei corpi intermedi, nel suo caso di Confindustria, con quello delle imprese e del lavoro. E sulla stessa linea di pensiero penso solleciti e si attenda uno scatto analogo dei sindacati confederali. Ma questo, con il modello proposto a suo tempo dalle stesse Confederazioni, non sarebbe possibile perché le aziende non sono minimamente interessate a condividerlo. Qui sta il punto. Anche perché la differenza tra la posizione di Federmeccanica e quella di Confindustria è tattica, non certo strategica ed è sostanzialmente convergente anche con la cultura presente, ad esempio, nel comparto chimico o alimentarista che sono già avanti su questo terreno. Non capirlo non mette in difficoltà solo i sindacati. Mette in difficoltà l’intero sistema che rischia una schizofrenia tra una impostazione apparentemente di tipo concertativa che si confronta senza arrivare a nulla di concreto sui massimi sistemi accompagnato da una sostanziale marginalizzazione nelle aziende per entrambi i ruoli associativi. “Simul stabunt simul cadent”. Il legame tra la contrattazione nazionale e aziendale in chiave di corresponsabilità come la definisce Confindustria (o di collaborazione intraprendente come l’ha a suo tempo definita Confcommercio) è un passaggio obbligato per ridare slancio e credibilità ai rispettivi ruoli solo se se prende atto del cambiamento necessario. Nella globalizzazione la possibilità di contare poco c’è perché rappresenta, a mio parere, una delle derive possibili della disintermediazione. Non tanto quella attribuita al nostro Presidente del Consiglio. Ma quella che spinge aziende e lavoratori a non riconoscersi in organizzazioni di rappresentanza che rischiano di essere troppo distanti e poco convincenti nel proporsi come indispensabili punti di riferimento su questi temi.

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Firmato il contratto dei dirigenti del terziario, della distribuzione e dei servizi

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Scaduto alla fine del 2014 e seguito da una moratoria di oltre un anno, il contratto nazionale dei dirigenti di aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi è arrivato, finalmente, in dirittura d’arrivo. È un segnale importante e positivo della volontà delle parti stipulanti (Confcommercio e Manageritalia) di continuare a collaborare nell’interesse delle aziende del settore e dei dirigenti che vi operano. Non è stato un percorso facile. La crisi, i processi di integrazione e di riorganizzazione hanno messo a dura prova i dirigenti nelle imprese costantemente impegnati in un riorientamento strategico delle attività, degli obiettivi ma anche delle gestione delle risorse umane a loro affidate. Questi processi hanno ancora una volta dimostrato e consolidato la necessaria quanto indispensabile convergenza tra imprese e management finalizzata a raffrozare una nuova cultura, una comune visione del futuro e una volontà di condivisione dei rischi e delle opportunità soprattutto in questo contesto economico, sociale e politico. Confcommercio e Manageritalia hanno saputo sintetizzare queste esigenze mettendo a disposizione di dirigenti e imprese un contratto nuovo, in linea con i tempi e in grado di continuare ad essere un punto di riferimento innovativo per la normativa, il welfare previdenziale, sanitario con una rinnovata attenzione alla formazione della categoria. Ci sarà tempo per approfondire il testo sottoscritto. Oggi è importante sottolineare questo importante risultato che segnala una volontà comune e un impegno di convergenza per il futuro.

qui sotto il testo firmato…..

http://bit.ly/2a7bSOf

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Nuove relazioni industriali tra tatticismi e opportunità

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Ci sono stati momenti importanti nella vita sociale del nostro Paese dove si è impressa una svolta che ha lasciato il segno nel sistema delle relazioni industriali. Nel 1953 a Ladispoli quando la CISL scelse una nuova strategia rimettendo al centro la contrattazione aziendale, nel 1978 quando la CGIL di Luciano Lama propose una linea di moderazione salariale in cambio di una politica di sviluppo che sostenesse l’occupazione, nel 1984 quando Cisl e UIL decisero di schierarsi con il governo Craxi che decretava il taglio della scala mobile, nel 1993 quando i tre sindacati confederali, insieme, firmano con Confindustria un nuovo sistema di relazioni industriali basato sulla concertazione fra le parti e la politica dei redditi che ha retto fino a poco tempo fa dimostrando una longevità impressionante. Momenti storici che segnalano la consapevolezza messa in campo dai corpi intermedi per governare cicli economici, politici e sociali dove è necessario mettere in campo una grande responsabilità. Oggi occorre prendere atto che ci troviamo di fronte ad un nuovo passaggio cruciale per il futuro del nostro Paese e che impone un vero e proprio cambio di atteggiamento. Da un lato, il contesto politico internazionale, la globalizzazione dell’economia e la necessità di competere in modo nuovo sia sul piano degli strumenti che dei modelli organizzativi. Dall’altro perché sta crescendo sempre di più la consapevolezza che i rischi che comporta questa sfida sono fuori dalla portata della singola impresa e che, quindi, necessitano di uno sforzo complessivo che coinvolga tutto il Paese dalla politica, al sistema economico e finanziario, e a tutta la filiera dalla produzione al consumo. Non a caso il Presidente di Confindustria Boccia parla di corresponsabilità cioè della necessità che cresca una nuova consapevolezza nel Paese e quindi nelle relazioni industriali che consenta di fare squadra e di condividere rischi e opportunità in modo profondamente diverso dal passato. Nel terziario, nei chimici e negli alimentaristi questa consapevolezza è presente da tempo e, non a caso, i contratti nazionali sono stati firmati e consentono, pur in differenti forme, deroghe, rinvii al secondo livello, elementi di governo che hanno dimostrato la loro versatilità applicativa in questi anni. Per riuscire a chiudere il cerchio sarebbe necessario arrivare ad un contratto nazionale dei metalmeccanici che imbocchi anch’esso questa direzione. Solo così il sistema sarà pronto a ad un accordo di alto livello tra le confederazioni datoriali e sindacali privo di ambiguità e in grado di reggere nei prossimi anni. La proposta di Federmeccanica che piaccia o meno ha, in sé, alcuni elementi importanti. Ad esempio una nuova centralità della persona, quindi dell’importanza della contrattazione decentrata, del welfare contrattuale e di una consapevolezza nuova sulla formazione. Non è cosa da poco. Resta un’area di dissenso tra le parti sulla quantità salariale e sulle possibili modalità di erogazione da assegnare al CCNL in rapporto al quadriennio futuro. In altri termini c’è un problema di forma e uno di sostanza. E, come sempre avviene nei negoziati, forma e sostanza si sovrappongono. Il principio posto da Federmeccanica mi sembra chiaro: non si può distribuire ricchezza non ancora prodotta (soprattutto se aggiuntiva al recupero sull’inflazione). E comunque, se assegnata al CCNL, ridurrebbe gli spazi di manovra nella contrattazione decentrata futura. Per il sindacato questa posizione non è accettabile. Inoltre non è chiaro cosa succederà nelle aziende che, per diverse ragioni, non apriranno alcun confronto a livello decentrato.  A mio parere su questi due punti solo Federmeccanica può fare un passo avanti all’interno di un percorso complementare all’accordo confederale. D’altro canto la stessa proposta di parte sindacale, che il CCNL debba rappresentare una sorta di minimo di garanzia e che la contrattazione aziendale ritorni centrale nel nuovo modello potrebbe essere colta come un interessante passo in avanti sia in termini qualitativi che quantitativi. In mancanza di chiarezza su questo punto le imprese non daranno alcun mandato a chiudere a Federmeccanica. Per questo, credo, che il passaggio sia estremamente delicato e i tatticismi rischiano di prevalere sulle opportunità. Per terziario, chimici e alimentaristi, al contrario, ha prevalso la coerenza nei comportamenti che ha sempre contraddistinto il loro sistema di relazioni. Il passato (e, per certi versi, il presente) pesa come un macigno sul negoziato aperto nei metalmeccanici. Le imprese non si fidano del fatto che il sindacato sappia proporsi come un interlocutore attivo e lungimirante in questo passaggio di fase. Quindi la posizione sul salario è usata, fino ad oggi, come cartina di tornasole dei comportamenti altrui. Inoltre la parte più responsabile del sindacato non può condividere in tutto o in parte queste proposte e quindi rischia di essere fagocitata da chi non vede utile nessun cambiamento del ruolo del contratto nazionale e quindi della strategie contrattuali. È il cane che si morde la coda. Il rischio che i negoziatori hanno di fronte è che il risultato non rappresenti e non supporti alcuna svolta per questa importante categoria e questo, purtroppo, inciderebbe inevitabilmente sul livello di mediazione possibile ai tavoli confederali. La stagione della corresponsabilità, della collaborazione e della necessità di fare squadra nelle aziende, per affrontare la sfida della globalizzazione, è già iniziata. Non aspetta alcuna formalizzazione. Il punto è se i soggetti vecchi e nuovi che dovrebbero contribuire a costruire il nuovo sistema si predispongono ad accettare la sfida e con quale livello di convinzione. In altre parole come pensano di rientrare in gioco trasformando un’occasione di confronto in una grande opportunità nell’interesse dei propri associati e del Paese. Altrimenti la montagna è destinata a partorire un topolino. Ma questo non rimetterebbe in gioco i corpi intermedi. Né da una parte né dall’altra.

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Abbiamo rovinato l’Italia? Il libro di Marco Bentivogli

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Ammetto di aver letto con grande curiosità il libro di Marco Bentivogli soprattutto perché i sindacalisti che scrivono sul loro “mestiere” non sono molti. Generalmente si leggono autobiografie, storie di vita o racconti di lotte vissute con grande passione e intensità. Lo stesso titolo era accattivante. Anche perché, in genere i sindacalisti spiegano cosa devono fare…. gli altri.

Pochi si interrogano sull’efficacia della loro azione, sulle difficoltà e sulle prospettive. Soprattutto sui correttivi da mettere in campo. E, soprattutto, pochi lo fanno mettendosi in discussione anche fuori dal tradizionale perimetro di azione.

Mi ricordo due libri su tutti. “Declinare crescendo” di Bruno Manghi e “il Sindacalista” di Sandro Antoniazzi due importanti dirigenti della CISL della seconda metà del novecento. Testi importanti per capire le riflessioni e le aspirazioni negli anni di cerniera tra la crisi del sindacato dei consigli e la ricerca di un nuovo posizionamento sociale.

Due libri che descrivevano il mestiere o meglio la missione del sindacalista. Credo non sia un caso che sia proprio Bruno Manghi a curare la prefazione di questo libro quasi come se il “vecchio” maestro avesse individuato un allievo brillante forse in grado di stupirlo. O almeno di provarci.

Marco Bentivogli è un dirigente dei metalmeccanici della CISL figlio di un grande dirigente anch’esso dei metalmeccanici della CISL: Franco Bentivogli. Per capirne il percorso questo è un punto di partenza importante. La famiglia, l’educazione, la provenienza, i valori respirati e vissuti fin da giovanissimo sono fondamentali.

Soprattutto quando sei costretto a dimostrare, ogni giorno che non sei un raccomandato ma, al contrario, uno che porta dentro di sé, sapendoli rinnovare, entusiasmo, determinazione e orgoglio di appartenenza propri di quella importante esperienza sindacale che è stata ed è la FIM CISL nel nostro Paese.

Un altro elemento altrettanto importante è che, finalmente, con Bentivogli, il profilo del dirigente nostalgico di un “breve quanto irripetibile periodo” lascia il passo ad un profilo più moderno, pragmatico e aperto alla comprensione della complessità del contesto.

Centrale e importante è la parte dedicata alle caratteristiche del “mestiere” del sindacalista che resta un mestiere unico, disinteressato e coinvolgente. Per chi lo fa con trasparenza e onestà. Sono assolutamente convinto che per farlo, di questi tempi più che mai, occorrono passione, pazienza e propositività. Non è un mestiere per tutti.

E così il libro descrive una figura di sindacalista che non vive chiusa nelle proprie certezze non rendendosi conto della progressiva emarginazione di cui è vittima nelle imprese ma cerca di uscire dall’angolo proponendosi come soggetto responsabile e positivo in grado di costruire con gli altri e, perché no, attraverso gli altri spazi e risultati negoziali altrimenti impensabili.

Due carotaggi importanti su tutti. I giovani e il futuro del lavoro. Credo i temi più convincenti del libro insieme a quelli relativi alla importanza di un rilancio della contrattazione aziendale, della formazione e dell’importanza del welfare contrattuale che diventeranno centrali nel rinnovo contrattuale.

Il tema dove l’analisi sconta, a mio parere, qualche incertezza, è quella sulla evoluzione del rapporto tra capitale e lavoro nell’impresa sempre più globalizzata. L’inserimento in filiere globali spinge a nuove forme di collaborazione che non vanno sottovalutate.

E non a caso non uso il termine “partecipazione”. Dalla produzione al consumo si vanno a determinare, sempre più, spazi di condivisione dei rischi ma anche delle opportunità che travalicano i modelli di relazione conosciuti fino a ieri. E che coinvolgeranno inevitabilmente anche manager, lavoratori e gli stessi imprenditori soprattutto perché i rischi che si dovrebbero assumere in termini di investimento sono ormai fuori dalla portata dei singoli.

Che lo si voglia o meno il modello proposto da Federmeccanica in sede di rinnovo contrattuale va in questa direzione. E quindi pone il problema del rapporto tra lavoratori e impresa e tra sindacati aziendali e sindacato confederale nel suo complesso.

Ma il punto non è, come sembra pensare Landini, che respingendo la proposta al mittente si respinge il percorso. Non è così. Si respinge solo il tentativo di Federmeccanica di governarlo insieme al sindacato confederale e, quindi, lasciandolo più debole ad affrontarlo nelle singole imprese che dovessero porlo. Ma, a parte questo, il libro è godibile, interessante e privo di retorica. “Abbiamo rovinato l’Italia?”. È un titolo e una domanda.

Dal mio punto di vista condivido che la risposta sia “NO”. I corpi intermedi hanno garantito che i passaggi più complessi e pericolosi della nostra giovane democrazia si compissero insieme, con il contributo dei sindacati dei lavoratori e delle associazioni datoriali. Il contributo di idee, proposte e iniziative hanno scandito l’ esperienza professionale e di vita di molti di noi e ne siamo orgogliosi.

Quindi nessun rimpianto, magari qualche modesto rimorso. Ma come dice un vecchio proverbio spagnolo:”Nei giardini cresce più di ciò che il giardiniere pensa di aver piantato.” È questo credo sia il miglior augurio che si possa fare all’autore.

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Muscoli o cervello?

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L’efferatezza degli accadimenti ci lascia senza parole. Charlie Hebdo, Bataclan, Bruxelles. Adesso Nizza. Tutto questo dimostra la nostra fragilità di fronte alla ideologia della morte. Come difendersi da un individuo disposto a morire? Come battere questa violenza bestiale? Oggi, e per qualche giorno, gli esperti ci spiegheranno cosa fare. Poi tutto scemerà fino al prossimo attacco. Così è stato fino ad oggi. E purtroppo, così sarà. Oggi è il momento della rabbia, del dolore, della solidarietà. Poi verrà il tempo degli sciacalli. Nessuno trarrà l’unico insegnamento utile: cosa possiamo fare concretamente noi tutti. Certo c’è un problema di sicurezza, di intelligence e di prevenzione, c’è una guerra in Siria e altrove da vincere, c’è un problema di scontro interreligioso da affrontare, c’è infine un problema che coinvolge l’integrazione sia di chi arriva ma, soprattutto, di chi in molti Paesi in Europa c’è da più generazioni. Pier Luigi Castagnetti su Twitter ha aggiunto un pensiero importante. Proviamo a riflettere sulla distanza delle nostre discussioni quotidiane, delle nostre liti sul nulla, di una politica che nel nostro Paese e in tutta Europa si perde in confronti sterili. Cerchiamo di trovare nelle nostre radici, nelle nostre parole, nelle nostre determinazioni quell’unità di intenti e di senso fondamentali per fronteggiare questa situazione. Abbiamo tutti compreso, pur non condividendole e avversandole, le ragioni folli di chi decide di stare di là. Contro di noi. Dobbiamo trovare, prima che sia troppo tardi, quelle che ci dovrebbero consentire di sentirci orgogliosi di stare di qua. Insieme. Non solo oggi e nei prossimi giorni. Mettendo fuori gioco gli sciacalli. Non si vince questa “guerra” divisi su tutto e in perenne conflitto blablatico. La nostra libertà, le nostre comunità, i nostri valori tendono a perdere importanza per ciascuno di noi se non reagiamo insieme. Non serve a nulla unirci “solo” contro di loro. Perché non funziona più nelle nostre società benestanti e in crisi di identità. Occorre unirci su un idea di unità nella libertà dei valori che, dalla rivoluzione francese in poi hanno costituito la base sulla quale si è affermata la nostra civiltà moderna. In questo senso occorre credere e adoperarsi per costruire una nuova Europa, integrata e non matrigna e un Italia unita, forte delle sue radici e impegnata a condividere un grande disegno riformatore. Non si costruisce nulla sulla paura e sulla violenza. Solo partendo da questa convinzione, a mio parere, potrà ricostruirsi una coscienza pubblica forte, un rinnovato senso delle istituzioni e delle priorità riformatrici di una comunità in cammino disorientata e impaurita. Questa è l’unica strategia che può e deve vederci protagonisti. Partiti, corpi intermedi, istituzioni. Il resto, purtroppo, ci riporta ai nostri egoismi mediocri, alle nostre parole e alla nostra solidarietà purtroppo inconcludente.

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Toni, liturgie e nuove relazioni industriali

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Da quello che si legge quotidianamente Il negoziato per il rinnovo del Contratto nazionale dei metalmeccanici sta lentamente scivolando verso una liturgia tradizionale che, a mio parere, inserisce il freno a mano nell’inevitabile processo di cambiamento del sistema delle relazioni industriali. Almeno per questa importante categoria. Mobilitazioni nazionali e territoriali, dichiarazioni, messaggi trasversali, prese di posizioni segnalano una deriva che rischia di non portare ad alcun “rinnovamento contrattuale”. È vero che entrambe le parti si dichiarano convinte della giustezza delle loro posizioni e del loro agire però i toni e i fatti non sembrano andare nella direzione auspicata da chi, al tavolo, crede nella necessità di alzare lo sguardo e guardare lontano. Da osservatore esterno la situazione appare veramente paradossale. Da un lato (quasi tutti) i negoziatori al tavolo convengono sull’inevitabile approdo del settore e su ciò che occorrerebbe fare ma, dall’altro i messaggi inviati alle rispettive basi tendono a dimostrare che poco o nulla è cambiato rispetto all’impostazione culturale passata dei soggetti in campo. Quindi l’elemento centrale di ogni processo di vero cambiamento, cioè la condivisione della strategia, o almeno di individuare un percorso comune, rischia di essere messo in ombra per ragioni tattiche. Un vero processo di “rinnovamento contrattuale”, d’altra parte, non si può “estorcere”. Va necessariamente condiviso. Chi lo ha proposto lo sa benissimo. A questo punto, però, non è chiaro con chi potrà essere condiviso. O con il sindacato confederale come interlocutore privilegiato creando le premesse in questo rinnovo contrattuale o, rendendolo residuale nel negoziato nazionale riservandosi poi di costruire questa relazione direttamente con i lavoratori nelle singole imprese. Io credo che questo sia il nodo centrale di questo negoziato. E, sempre per questo ritengo che i toni, le disponibilità e le liturgie praticate dovrebbero essere conseguenti e misurate da entrambe le parti. Oggi le aziende (non solo metalmeccaniche) hanno interesse a minimizzare i conflitti con i potenziali stakeholders, far crescere la loro reputazione e, al loro interno, aumentare le motivazioni intrinseche al lavoro dei collaboratori. Il “rinnovamento contrattuale” non è un passaggio astratto ma è stato proposto e individuato da Federmeccanica proprio per consentire alle imprese un grado di coesione interna tale da renderle ancora più competitive.
Dall’altro lato il sindacato, tutto il sindacato, non può chiamarsi fuori limitandosi a minacciare “tuoni, fulmini e saette” evitando così di pronunciarsi nel merito. Deve essere coerente ed esprimersi sulla condivisione o meno del percorso proposto. A mio avviso Marco Bentivogli è stato chiarissimo: spazio nuovo alla contrattazione aziendale e contratto nazionale di garanzia. Solo così, secondo me, le distanze sul piano economico potrebbero essere superate trovando il giusto compromesso tra i diversi livelli contrattuali e le garanzie sulle eventuali scoperture. Se osservo con preoccupazione la sottovalutazione di un eventuale rinvio ad autunno inoltrato della conclusione del contratto da parte di molti imprenditori è proprio perché penso che una svolta importante come quella proposta da Federmeccanica non ha bisogno di furbizie tattiche o dilatorie. Soprattutto non ha bisogno di vincitori o vinti. Non funzionerebbe. È pur sempre il rinnovo del contratto nazionale più complesso per la storia e la cultura che si porta dietro. E questo andrebbe sempre tenuto in grande conto. Soprattutto sul versante delle imprese. Più che la volontà di trovare un’intesa qualsiasi è la direzione di marcia la vera scommessa e i soggetti sociali con i quali la si vuole condividere. Non credo che, l’autunno inoltrato, sia la stagione migliore. C’è un negoziato confederale da affrontare, ci sono segnali positivi provenienti da tutte le confederazioni datoriali ma anche dagli stessi sindacati. Mi sembra ci sia una nuova consapevolezza in tutte le organizzazioni di rappresentanza. Al di là dell’importanza di tutte le categorie e comparti che hanno rinnovato il loro contratto, la proposta di Federmeccanica introduce, è innegabile, un vero cambio di passo nel sistema vecchio e logoro delle relazioni industriali. Rimette al centro l’esigenza di un nuovo rapporto tra capitale e lavoro. Rende esplicito ciò che in altre situazioni (chimici, alimentaristi, ecc.) è praticato da tempo così come lo è in molte aziende metalmeccaniche. L’importanza di questa proposta è data dal fatto che nasce nelle imprese, non da studi teorici o ideologie superate. È una opportunità che per la prima volta si esplicita in modo netto e in tutta la sua portata in un negoziato contrattuale. In futuro troverà probabilmente nuove evoluzioni in altri contesti. È questo è un bene. La scelta che ha di fronte l’intero sindacato confederale è di decidere se accettare o meno la sfida. Può chiamarsi fuori, può bollarla come “vecchia” o impraticabile. Può subirla. Può nascondersi dietro un dito. Io credo rappresenti una occasione di rinnovamento vero, non del contratto nazionale ma dell’intero sistema delle relazioni industriali. Anche perché da un segnale a tutto il sistema sulla direzione di marcia. E, aggiungo sommessamente, molto più che la discussione sui contenuti e sui livelli della contrattazione che decollerà su altri tavoli.

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Riso docet. Il nuovo libro di Marco Donati

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Estate alle porte, vacanze in vista, è tempo di ricaricare le batterie dopo la frenetica vita lavorativa, scandita da impegni, riunioni, appuntamenti, trasferte e scadenze.
Sotto l’ombrellone torna spesso anche il buon umore, l’umorismo schizza su come le temperature, ridere è di nuovo (finalmente!) al centro delle nostre giornate. Consapevoli di quanto il benessere psico-fisico derivante da una buona risata potrebbe aiutarci anche nel nostro lavoro, in vacanza ci ripromettiamo di non abbandonare più la risata sul ciglio dell’autostrada e portarlo con noi a settembre in ufficio.
Purtroppo però questi buoni propositi fanno la stessa fine dell’abbronzatura: a settembre svaniscono nel giro di una settimana.
È importante allora approfittare del relax estivo per riscoprire l’Homo Ridens che è in noi ed ad avviare un piccolo ma fondamentale cambiamento, volto a valorizzare il ridere e la nostra competenza umoristica, per utilizzarli come elementi strategici anche nei contesti lavorativi.
Ecco allora che tra i tanti viaggi possibili in estate, particolarmente utile in questo senso è il viaggio che il libro Riso Docet ci propone nell’affascinante e divertente mondo dell’umorismo, alla (ri)scoperta dei suoi segreti, dei suoi significati, dei suoi meccanismi e delle sue applicazioni concrete nella vita di tutti i giorni ma anche nei contesti educativi, formativi e aziendali attraverso le esperienze della Comicoterapia.
Il contributo di questo testo può risultare utile a chiunque, già sotto l’ombrellone, sia interessato a una riflessione sul Comico e sia disposto ad abbandonare gradualmente il proprio rassicurante aplomb professionale, innescando un cambiamento significativo all’interno della propria azienda. Perché, parliamoci chiaro… Nelle Organizzazioni si ride ancora molto poco e male.
Troppo spesso il ridere a lavoro è ancora visto come un elemento disturbante e fuorviante per i processi aziendali e per i rapporti, soprattutto tra manager e collaboratori. L’immagine dell’umorismo è ancora legata ad un qualcosa di ludico, frivolo, ben lontano quindi dal concetto ormai radicato di lavoro come momento di impegno, di “fatica” (la stessa parola labor dal latino vuol dire pena, sforzo).

C’è ancora la concezione che ridere a lavoro non sia produttivo né conciliabile, dimenticando però che lavorare seriamente è ben diverso che lavorare seriosamente. Molto spesso il ridere è relegato e degradato nei cassetti delle scrivanie a semplice accessorio poco professionale, invece che a risorsa strategica.
Gli stessi Manager spesso non tengono conto delle potenzialità della competenza umoristica nella gestione dei rapporti con i propri collaboratori, temendo probabilmente che un avvicinamento relazionale si riveli poi un boomerang impazzito contro il loro prestigio e l’immagine autoritaria che vogliono mantenere. In realtà, il capo che non sta allo scherzo con i propri dipendenti, finirà inevitabilmente per diventare oggetto inconsapevole delle loro risa.
“Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso, contro il quale nessuno, nella sua coscienza, trova sé munito in ogni sua parte” diceva Leopardi, che seppure di risate nella vita se ne è fatte poche, aveva capito benissimo l’enorme potere di questa manifestazione tipicamente umana; “Nessuno è così grande che non si possa ridere di lui”, gli faceva eco Kluckhohn, sociologo e antropologo del secolo scorso; A queste profonde verità, aggiungiamo anche che più qualcuno è grande e più è potenzialmente a rischio di risa altrui.
Prendiamo ad esempio questa barzelletta:
Due impiegati stanno litigando:
“Non ho mai incontrato uno più cretino di te!”
“Dopo te logicamente!”
Il capoufficio interviene irritato: “Smettetela, e ricordatevi che qui ci sono anch’io!”
Ammettiamolo! Non c’è niente di più divertente per un lavoratore vedere il proprio capo, impettito, autoritario e sempre attento a non dare mai un segno di cedimento, fare una gaffe clamorosa come quella appena raccontata.
C’è infatti un forte legame tra l’umorismo e le gerarchie. Il ridere è un fenomeno psico-sociale altamente sovversivo, che scatta quando qualcosa o qualcuno si dimostra inadeguato a ricoprire il ruolo che siamo soliti attribuirgli.
Proprio quando esplode la risata, questa innesca dei messaggi ben precisi tra i partecipanti: se da una parte sono amichevoli e creano complicità e rapporti paritari tra coloro che ridono insieme, dall’altra sono fortemente sanzionatori e stabiliscono una forte gerarchia nei confronti dell’oggetto di riso… chiunque esso sia! Ridere pertanto, si presenta come un livellatore gerarchico: laddove c’è una gerarchia l’annulla e dove non c’è non la crea.
Regole, formalismi, censure o gerarchie non possono reggere contro il potere dirompente del ridere, semplicemente perché è proprio di queste cose che il riso si alimenta (scusate il gioco di parole).
Ecco perché in azienda diventa fondamentale sviluppare, valorizzare e diffondere la competenza umoristica.
Tutti i tentativi di reprimerla falliscono già in partenza, perché la comicità ristagna in ogni cosa, è la risorsa più disponibile nella nostra natura sociale, ed è pressoché inesauribile, per il fatto che in qualsiasi cosa si può trovare il suo lato buffo e comico … basta solo scovarlo!
Non sarebbe efficace neanche usarla nel modo sbagliato, come chi tenta di coinvolgere le persone con una battuta forzata per aprire una riunione, ottenendo invece che una risata un effetto più simile a quello di una balla di fieno che rotola nel deserto; o peggio ancora chi invece lo usa sarcasticamente contro i propri collaboratori, mettendo in gioco l’anima sanzionatoria del ridere, quella che Bergson definiva l’anima di correttivo sociale, che non fa altro che svalutare, demotivare e creare un clima di tensione.
Tanto vale quindi dare legittimità all’umorismo, per poterne saggiare e sfruttare al massimo le grandi potenzialità che esso offre sia a livello individuale, con evidenti benefici nelle situazioni stressanti e nello sviluppo di creatività e problem solving, sia a livello relazionale tra colleghi, come potentissimo collante relazionale, in grado di abbassare le nostre difese, disporci favorevolmente verso gli altri e risolvere situazioni conflittuali, favorendo in tal modo un clima positivo e sereno.
Un passo fondamentale per ufficializzare la presenza del ridere nei contesti lavorativi potrebbe avvenire attraverso una formazione mirata a partire proprio dai Manager, volta a sviluppare e correggere la loro competenza umoristica.
In Italia qualcosa si sta muovendo. Il primo colpo alla botte è stato dato nei contesti ospedalieri, con la Clown Terapia e le relative attività di formazione e aggiornamento a tutti gli operatori socio sanitari e negli ultimi anni, anche le più grandi organizzazioni si stanno adeguando con corsi e seminari sul tema.
Probabilmente la strada è ancora lunga, il viaggio intrapreso con la lettura di questo articolo o di un libro come Riso Docet sono solo l’inizio, ma rappresentano certamente un primo importante passo verso la consapevolezza che, anche nel lavoro… ridere è una cosa terribilmente seria!

Benvenuti su Riso Docet!

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Contratto metalmeccanici: un salto culturale per cambiare il Paese

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Nell’incontro di Serravalle Pistoiese le carte sono state messe sul tavolo. Bene ha fatto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ad accettare di confrontarsi direttamente con il segretario generale della CGIL Susanna Camusso perché le polemiche a distanza e i fraintendimenti non servono a nessuno, soprattutto in un passaggio delicato della storia delle relazioni industriali del nostro Paese.
Il nodo resta il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. E non tanto per le “pretese” di Federmeccanica o per quelle dei sindacati di categoria. Boccia è stato estremamente chiaro: si può trovare un punto di incontro ma all’interno di una strategia da condividere. E per fare questo è necessario e indispensabile un salto culturale. Non c’è più spazio per ritorni al passato. Camusso, dal suo punto di vista, ha fatto bene a sottolineare che esiste un problema serio legato alle retribuzioni nette dei lavoratori. Ed è un problema che non può essere lasciato in carico solo al sindacato. Però la soluzione, da ricercare insieme, non può essere rappresentata da aumenti generalizzati di vecchio conio a carico delle imprese e slegati da qualsiasi parametro oggettivo. Occorre definire regole nuove, attribuzioni specifiche per ogni livello contrattuale e farsi carico del cambio di rotta imposto dal contesto, non dalla rigidità delle imprese. Federmeccanica non è alla ricerca di uno scontro tradizionale. Così come l’intero sindacato non sembra avere alcuna intenzione di affidarsi alla prova di forza per uscire dall’impasse. I toni, nonostante tutto, sono estremamente cauti da entrambe le parti proprio perché tutti hanno compreso la posta in gioco. Quando Marco Bentivogli ha indicato come questo rinnovo era da ritenersi uno dei più difficili della loro storia sapeva cosa stava affermando. Su questo tavolo ci sono partite che attengono al futuro del sindacalismo confederale e alla qualità delle relazioni industriali del nostro Paese. Ci sono temi di grande interesse per le imprese e per i lavoratori che richiedono uno sforzo comune. Politiche industriali, fisco, spesa pubblica, investimenti. Argomenti che necessitano un salto culturale notevole per trovare risposte nuove. Un’epoca si è chiusa. Riaprirne un’altra è fondamentale. Sul tavolo del contratto dei metalmeccanici ci sono tutti gli ingredienti di una svolta importante. Ci sono i temi relativi ai livelli della contrattazione, alla produttività, al diritto soggettivo alla formazione e al welfare contrattuale. La differenza con gli altri contratti firmati è la portata politica e sociale richiesta e sottesa a questo necessario salto culturale. Farlo unitariamente avrebbe un valore simbolico molto elevato. Sicuramente maggiore che altrove. Checché ne pensino i suoi detrattori, io resto convinto che la Cgil si sta muovendo con grande lucidità insieme alle altre organizzazioni. La posta in gioco è alta ma non credo sia interesse di nessuno ritornare alla stagione degli accordi separati. Certamente non lo è, e lo si vede dai comportamenti, né da parte Federmeccanica né da parte Sindacato nel suo complesso. Quello che serve oggi è una dose aggiuntiva di lungimiranza da parte dei negoziatori. In autunno la partita si rivelerebbe più complessa proprio sul versante del salto culturale necessario. Soprattutto perché affiderebbe a mediatori esterni ciò che, per sua natura, dovrebbe essere condiviso tra le parti. Personalmente non credo che questo sia un rinnovo dove serve mettere in campo una continua dimostrazione dei reciproci rapporti di forza. Al contrario serve uno sforzo di coinvolgimento convinto nell’interesse di tutti. Il vero rinnovamento che oggi è alla portata delle parti passa solo da questa consapevolezza e dalla condivisione di una strategia. Altrimenti questo contratto non produrrà quel valore aggiunto necessario e atteso dalle imprese e dai lavoratori.

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